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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO
Facoltà di Medicina e Chirurgia
Centro Universitario di Ricerca Virgilio Floriani
X Master Universitario I livello
Cure Palliative al Termine della Vita
La Psiconcologia, la Psicosomatica e le Cure
Palliative: il prendersi cura nella totalità
A cura di MARIAN DE SOUZA
Psicologa, psiconcologa
Milano, 2010
1
RINGRAZIAMENTI
A tutti i colleghi, docenti e “tutors” del Master (compresi i “tutors” presso i luoghi di
tirocinio) per la fiducia, per gli insegnamenti, per la pazienza con la “ragazza brasiliana”, e
specialmente per i bei rapporti di amicizia che sono stati costruiti. Per i momenti di studio,
ma anche per i momenti di “svago”, come pranzi, cene, compleanni.
A tutta l’equipe della Casa VIDAS, per avermi dato l’opportunità di vedere nella
pratica quella che è la premessa delle Cure Palliative, ossia, il prendersi cura del paziente in
un modo globale, integrale. Un ringraziamento speciale a tutti quelli ai quali sono stata
affiancata, per la professionalità, per le spiegazioni, ma specialmente per la loro
disponibilità.
Alla mia cara famiglia, sempre vicina, anche se lontana, semplicemente per il fatto di
esistere e, specialmente, di esserci.
Alla mia “nuova famiglia italiana”, per il modo in cui ha partecipato a questa mia
esperienza.
Al mio amore Stefano, ragione per cui sono qui in Italia, per il suo amore, la sua
fiducia, per essere sempre presente, per il suo supporto in tutti i momenti, specialmente nei
momenti in cui mi lasciavo dominare dell’ansietà e dell’insicurezza, e temevo di non riuscire
a fare un buon lavoro. Per la pazienza, la comprensione e la presenza.
2
Dedico questo lavoro alle mie care maestre Marisa Campio
Müller e Maria Helena Souza (in memoria), esempi di vita
e di visione di mondo e di soggetto.
3
Dizem as escrituras sagradas: "Para tudo há o seu tempo.
Há tempo para nascer e tempo para morrer". A morte e a vida não
são contrárias. São irmãs. A "reverência pela vida" exige que
sejamos sábios para permitir que a morte chegue quando a vida
deseja ir. Cheguei a sugerir uma nova especialidade médica,
simétrica à obstetrícia: a "morienterapia", o cuidado com os que
estão morrendo. A missão da morienterapia seria cuidar da vida
que se prepara para partir. Cuidar para que ela seja mansa, sem
dores e cercada de amigos, longe de UTIs. Já encontrei a padroeira
para essa nova especialidade: a "Pietà" de Michelangelo, com o
Cristo morto nos seus braços. Nos braços daquela mãe o morrer
deixa de causar medo. Morrer Feliz (Rubem Alves)
Dicono le sacre scritture: "Per ogni cosa c’è il suo tempo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire”. La morte e la
vita non sono incompatibili. Sono sorelle. La "riverenza per la vita"
esige che noi siamo saggi per permettere che la morte arrivi quando
la vita desidera andarsene. Ho persino suggerito una nuova
specialità medica, simmetrica all’ostetricia: la “morienterapia”, la
specialità di chi sta morendo. La missione della morienterapia
sarebbe prendersi cura della vita che si prepara per partire.
Prendersi cura perché essa sia docile, senza dolore e circondata di
amici, lontano dalle UTI. Ho già trovato la patrona per questa
nuova specialità: la “Pietà” di Michelangelo, con il Cristo morto tra
le sue braccia. Tra le braccia di quella madre, il morire cessa di
causare paura. Morire Felice (Rubem Alves)
4
RIASSUNTO
Il presente lavoro, in una prima parte espone brevi definizioni di alcuni concetti
appartenenti alla Psiconcologia, alla Psicosomatica e alle Cure Palliative, cercando di
dimostrare che cosa hanno in comune queste tre aree della salute, specialmente rispetto alla
visione di essere umano e del “prendersi cura nella totalità”. In seguito, partendo dalla
premessa della “cura totale” discorre a proposito dei vari aspetti che dovrebbero essere
coinvolti nella cura, o nel prendersi cura (di).
RESUMO
O presente trabalho, em um primeiro momento, faz uma definição breve de alguns
conceitos pertencentes à Psiconcologia, à Psicossomática e aos Cuidados Paliativos,
procurando demonstrar o que estas três áreas da saúde têm em comum, especialmente no
que diz respeito à visão de ser humano e ao “cuidar na totalidade”. Depois, partindo desta
premissa de “cuidado total”, discorre acerca dos vários aspectos que deveriam estar
envolvidos no cuidar, ou no ocupar-se (de)...
ABSTRACT
This paper, at first, made a brief definition of some concepts belonging to the
Psychoncology, the Psychosomatic and the Palliative Care, seeking to demonstrate what
these three areas of health have in common, especially with regard to the vision of human
being and the "take care at all." Then, from this premise of "total care", talks about the
various aspects that should be involved in to care, or in to take care (of)…
5
SOMMARIO
1. INTRODUZIONE...............................................................................................................................6
2. OBIETTIVO:....................................................................................................................................11
3. METODOLOGIA:.............................................................................................................................11
4. LA PSICONCOLOGIA, LA PSICOSOMATICA E LE CURE PALLIATIVE: MOLTO IN COMUNE!..................12
4.1. ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA PSICONCOLOGIA:....................................................................................12
4.2. LA PSICOSOMATICA, LE SUE ORIGINI, CONCETTI E VISIONI:..........................................................................13
4.3. LE CURE PALLIATIVE, CONCETTO E IDEE...................................................................................................16
5. LA CURA NELLA TOTALITÀ..............................................................................................................19
5.1. IL PRENDERSI CURA E IL CURANTE...........................................................................................................20
http://www.fabiolisboa.com.br/2010/06/cuidar-de-si-para-poder-cuidar-do-outro.html.............20
5.2. UNA VISIONE OLISTICA DELLA SALUTE.....................................................................................................22
5.3. PRENDERSI CURA DI SE STESSO..............................................................................................................27
5.3.1. Perché prendersi cura di se stesso?.........................................................................................27
http://www.fabiolisboa.com.br/2010/06/cuidar-de-si-para-poder-cuidar-do-outro.html.............28
5.3.2. Come prendersi cura di se stesso?...........................................................................................33
5.4. PRENDENDOSI CURA DELL’ALTRO ..........................................................................................................37
6. LA CURA DEL CORPO......................................................................................................................39
6.1. LA FISIOTERAPIA.................................................................................................................................39
6.2. LA NUTRIZIONE..................................................................................................................................41
7. LA CURA DELLA MENTE..................................................................................................................44
7.1. LA VISUALIZZAZIONE............................................................................................................................45
7.2. LA MUSICOTERAPIA.............................................................................................................................46
7.3. IL REIKI.............................................................................................................................................49
8. LA CURA DELL’ANIMA / DELLO SPIRITO..........................................................................................51
9. GLI ASPETTI SOCIALI E CULTURALI DEL PRENDERSI CURA................................................................58
10. GLI ASPETTI ETICI DEL PRENDERSI CURA.......................................................................................61
11. CONSIDERAZIONI FINALI..............................................................................................................64
12. BIBLIOGRAFIA (IN ORDINE ALFABETICO).......................................................................................66
1. INTRODUZIONE
La Medicina Psicosomatica, la Psicooncologia e le Cure Palliative sono tre aree di
studio diverse le quali hanno, tuttavia, molto in comune. L’obiettivo principale di tutte e tre
6
è quello di prendersi cura della persona nel suo insieme: il corpo, la mente, lo spirito,
l'ambiente, la cultura, la società, vale a dire la persona come un essere indivisibile,
complesso, che influenza ed è influenzato dall’ambiente. Queste scienze hanno sviluppato
non solo un metodo, ma una linea di pensiero che ha come ruolo principale il “prendersi
cura nella totalità”.
Per “prendersi cura nella totalità”, si intende coinvolgere e prendere in
considerazione tutti gli aspetti fisici, psicologici, sociali, culturali, ambientali e spirituali che
riguardano non solo il soggetto curato, ma anche il curante.
Questa visione del soggetto “totale” ci rimette a tempi molto remoti. Fin dai tempi
dell’antica Grecia è nota l'influenza che gli aspetti emozionali esercitano sulla salute e sulla
malattia ed anche il contrario, essendo impossibile guarire il corpo senza pensare all'anima.
Socrate (Carmide, 156 e 157 b, apud Ramos, 1994), già diceva: “…ma tutti i mali e
tutti i beni ... provengono al corpo e all'uomo intero dall'anima, dalla quale affluiscono come dalla testa agli
occhi: bisogna dunque curare in primo luogo e soprattutto quella, se la testa e il resto del corpo devono stare
bene. E l'anima, caro amico, è curata con certi incantamenti e questi incantamenti sono i bei discorsi, dai
quali si genera nelle anime la saggezza; e, quando essa si è generata ed è presente, è facile ormai procurare
la salute alla testa e al resto del corpo (...)”.
Tuttavia, con il passare degli anni e con le nuove scoperte, soprattutto in campo
scientifico, è nata, con Cartesio, una tendenza alla frammentazione: dividere per ridurre e
così conoscere. Egli sviluppò, secondo Trombini & Baldoni (2001), una visione molto
elaborata dell’essere umano, ritenendo che potesse essere studiato come una macchina, nel
senso che il suo funzionamento corporeo segue le stesse leggi fisiche delle macchine e
come tale può essere descritto e studiato. Quella che era una pratica di altre aree della
conoscenza, si è trasferita anche nella medicina e l’uomo ha finito per essere visto come
una macchina (una macchina perfetta, ma pur sempre una macchina). Nasce la dicotomia
corpo-mente e inoltre il corpo a sua volta è suddiviso in varie parti più piccole. Quando si
affronta il tema della salute e della malattia, in questa visione si tratta la malattia e non il
malato.
Questa tendenza meccanicista è diventata la base della scienza occidentale e
abbiamo conservato l'eredità di questa visione fino ad oggi nella nostra formazione: le
specialità mediche lo dimostrano.
Tuttavia, poiché tutto accade seguendo dei cicli, c’è da qualche tempo un
movimento che tende a “riscoprire” quella visione precedente dell’uomo, come un essere
7
unico, completo e complesso. E questo per merito delle scienze, delle ricerche e delle
nuove scoperte tecnologiche. Tale “riscoperta” non è venuta dal nulla e non è il risultato
dell'immaginazione di qualche “ribelle” che è voluto andare contro il sistema. In verità, è
accaduto che i ricercatori di vari campi della scienza e anche della medicina sono riusciti,
con i loro studi, a dimostrare scientificamente quello che i saggi filosofi dell'antichità già
affermavano.
Le teorie di Einstein, che mettevano in discussione i concetti della fisica classica,
come pure gli studi nell’area della Psiconeuroimmunologia dimostrano, fra l’altro,
l'influenza non solo dell’ambiente sull'uomo, ma anche l'influenza dell’uomo stesso
sull’ambiente. Inoltre, mostrano la possibilità di ogni persona di agire e influenzare
direttamente il proprio sistema immunitario.
E insieme a questi cambiamenti e sviluppi, è nata la Medicina Psicosomatica, che si
è sviluppata nel tempo, cercando sempre di ricordare di essere un movimento in continua
evoluzione e di essere composta da diversi rami che non si escludono l’uno con l’altro. La
Psicosomatica vuole studiare e comprendere l'essere umano nel suo insieme, tenendo conto
dei sistemi psichico, somatico, sociale e culturale. E, tra le aree della Psicosomatica c’è una
“sub area” chiamata “Psiconcologia”.
La Psiconcologia è, come suggerisce il nome, l’unione della Psiche (anima) con
l’oncologia (cancro). Essa cerca la comprensione globale del paziente malato di cancro e
dell’evoluzione della malattia, e vuole offrire supporto e comprensione ai famigliari e ai
professionisti della salute che si occupano della malattia. La Psiconcologia considera una
visione olistica dell’uomo, ossia considera tutti gli aspetti che lo circondano, di carattere
fisico, emozionale, sociale o culturale.
Una questione che richiama l'attenzione quando ci riferiamo alla cura dei pazienti
oncologici, riguarda le loro reazioni di fronte alla diagnosi e alla tipologia di trattamento. Si
può tranquillamente fare un'associazione tra i modi di reagire e gli stadi per i quali passano i
pazienti terminali, descritti da Klüber Ross nel suo libro “La morte e il Morire” (2000):
negazione, rabbia, patteggiamento, depressione e accettazione, ricordandosi che non
necessariamente si manifestano in quest’ordine. Questo ci fa pensare, tra l’altro, a quanto il
cancro ancora è culturalmente e inconsciamente associato alle domande sulla morte.
Conviene tener conto che la dimensione della cura del paziente oncologico si
caratterizza per la preponderanza del prendersi cura sul guarire: per questo si può affermare
8
che tale area si avvicini ad un’altra area della salute, sulla quale discorreremo nel presente
lavoro, le Cure Palliative.
Le Cure Palliative si occupano in maniera attiva e totale dei pazienti colpiti da una
malattia che non risponde più a trattamenti specifici e la cui diretta conseguenza è la morte.
Non si può parlare di morte senza considerare che essa è ancora oggi considerata
un tabù e un tema di cui molti non vogliono nemmeno parlare. D’accordo con Moritz
(2005), la cultura occidentale moderna considera la morte un tema socialmente evitato e
politicamente scorretto.
Sarebbe interessante considerare che, fino a poco tempo fa, la morte era vista come
parte della vita, come la fine di un ciclo. Nelle società moderne però, come scrive Elias
(2001), la morte é vista come uno dei più grandi pericoli bio-psico-sociali nella vita degli
individui.
In altri momenti della civilizzazione, come nell’età Medioevale, la morte era molto
meno nascosta, era più presente e famigliare, anche se non più pacifica. Oggi, poco si parla
di morte perché è un’evidenza dei nostri limiti, della nostra fragilità poiché condizione
umana. E così, cerchiamo di allontanarla il più possibile, isolando i malati negli ospedali,
oppure cercando di “spostarla”, utilizzando di tutti i mezzi possibili per prolungare la vita
di chi ci è caro, senza nemmeno chiedergli se è veramente questo il suo desiderio.
Quello che ci avvicina di più all’esperienza della terminalità, che non ci permette di
“negare” l’esistenza di un fine della vita, sono i moribondi, le persone considerate terminali.
Perché è così difficile?
Forse perché affrontare la morte dell’altro è rendersi conto della nostra terminalità.
“ (...) Si potrebbe argomentare che se l’esperienza della propria morte è impossibile,
possiamo almeno avere l’esperienza della morte dell’altro. Intanto anche tal
esperienza è impossibile; al massimo possiamo avere l’esperienza degli ultimi
momenti di vita dell’altro, ma non possiamo avere l’esperienza del suo morire.”
(Garcia Roza, apud Ceccim e Carvalho, 1997).
Tutto questo causa un’enorme sofferenza, sia per il malato sia per quelli che lo
circondano. Secondo Festugato (2007), “Evitare la verità della morte non fa altro che
aumentare la paura e l’insicurezza”. Per fortuna, però, è nata, tempo addietro, un’area della
9
salute che si occupa delle cure dei malati terminali, senza dimenticare di considerarli come
esseri umani, con pensieri, sentimenti, sogni e desideri: le Cure Palliative.
Le Cure Palliative hanno come obiettivo principale dare dignità e qualità di vita al
malato e, come la Psicosomatica, la Psiconcologia e anche la Psiconeuroimmunologia,
considerano tutti gli aspetti del soggetto: fisici, psicologici, spirituali e sociali.
Le Cure Palliative, la Psicosomatica e la Psiconcologia si occupano del prendersi
cura del soggetto nella sua totalità, ossia prendendo in considerazione gli aspetti fisici,
psichici, sociali, spirituali ed etici. E cosa significa veramente prendersi cura nella totalità?
Questo sarà il tema sul quale discorreremo nel presente lavoro.
10
2. OBIETTIVO:
L’obiettivo di questo lavoro è, tramite un ripasso della letteratura, mostrare le
somiglianze tra alcuni concetti della Psicosomatica, della Psicooncologia, delle Cure
Palliative e, in breve, anche della Psiconeuroimmunologia, specialmente rispetto alla visione
di essere umano e al “prendersi cura nella totalità”, per dopo fare una breve descrizione di
quello che dovrebbe essere considerato questo “prendersi cura nella totalità”, ossia la cura
prendendo in considerazione gli aspetti fisici, emozionali, sociali, culturali, spirituali ed etici.
3. METODOLOGIA:
Questo lavoro è il risultato di una breve ricerca bibliografica di autori riconosciuti
nell’area della Psicooncologia, della Psicosomatica, della Psiconeuroimmunologia e delle
Cure Palliative, attraverso la consultazione di libri delle aree sopra citate e anche di banche
dati elettroniche, come Medline, Scielo, Lilacs e Bireme.
11
4. LA PSICONCOLOGIA, LA PSICOSOMATICA E LE
CURE PALLIATIVE: MOLTO IN COMUNE!
La domanda su cosa hanno in comune la Psiconcologia, la Psicosomatica e le Cure
Palliative in un certo modo ha già avuto una risposta nell’introduzione del presente lavoro:
tutte e tre considerano la persona come un insieme e di conseguenza ritengono sia
necessario prendersene cura in un modo complesso e completo, senza dimenticare gli
aspetti fisici, sociali, culturali, ambientali e spirituali. Vorrei in questo capitolo, però,
approfondire maggiormente i concetti che si riferiscono a queste aree della conoscenza,
discorrendo circa la visione di soggetto, di salute e di malattia.
4.1. Alcune considerazioni sulla Psiconcologia:
La Psiconcologia è un’area che cerca di studiare le due dimensioni psicologiche del
cancro che sono, secondo Holland (1989, apud Angerami-Camon 2000): l’impatto del
cancro sulla funzione psichica del paziente e della sua famiglia e sui professionisti della
salute che si prendono cura di lui e il ruolo che le variabili psicologiche e comportamentali
possono avere nel rischio del cancro e nella sopravvivenza a questo.
Prendendo in considerazione l’associazione tra la Psiconcologia e le Cure Palliative,
conviene ricordarsi che la dimensione della cura del paziente oncologico si caratterizza per
la preponderanza del prendersi cura sul guarire; esigendo attitudini umane, e non solo
analitiche, comprensive ed essenzialmente scientifiche. Vedere non solo la malattia, ma
quello che c’è di sano nel paziente.
La Psiconcologia ha una visione olistica dell’uomo e considera tutti gli aspetti, di
carattere fisico, emozionale, sociale o culturale, che lo circondano. Questi aspetti
interagiscono tra loro e appaiono nelle risposte dei pazienti, dei familiari e dell’equipe.
Uno dei principali obiettivi della Psiconcologia e delle Cure Palliative, è migliorare
la qualità della vita di tutte le persone coinvolte nel processo della malattia.
Bisogna, secondo Figueiredo (2008), capire che prendersi cura delle emozioni
causate dall’ammalarsi è importante per il trattamento e il mantenimento della qualità della
vita, sia per il paziente sia per la famiglia sia per il curante. L’uomo impara con le crisi che
12
affronta e comprendere questo può trasformare la sofferenza in esperienza di vita, ed è in
questa esperienza che abita lo sviluppo intimo, individuale e singolare di ogni persona. La
sfida che sempre rimane è quella di alleare competenza tecnico-scientifica con umanismo,
espressi nell’attitudine di prendersi cura con professionalità, tenerezza, sensibilità ed etica. Il
rispetto all’individualità del soggetto deve essere sempre preso in considerazione.
E’ interessante fare qualche considerazione sulla Psiconcologia e sulle cure
domiciliari nelle Cure Palliative. Per discorrere circa quest’argomento, prendo come base di
riferimento un testo che si trova nel libro “Temas em Psico-Oncologia” (2008), intitolato
“A Psico-Oncologia e o Atendimento Domiciliar em Cuidados Paliativos”.
Già nell’inizio del testo, è possibile percepire la somiglianza tra il significato di
“cura” nelle Cure Palliative e nella Psiconcologia:
“La dimensione dell’attenzione verso il paziente oncologico si caratterizza per la
preponderanza del prendersi cura sul guarire; esige attitudini umane, non solo
analitiche, comprensibili ed essenzialmente scientifiche; vedere non solo la malattia,
ma quello che c’è di sano nel paziente” (Figueiredo, 2008.)
D’accordo con gli autori, la nostra cultura è abituata a vedere la malattia come un
castigo e la morte come una fine tragica, crudele, che ruba la vita. Demistificare questi
concetti è un compito imprescindibile, perché sia la malattia sia la morte fanno parte del
ciclo della vita. La malattia rompe l’equilibrio omeostatico tra le istanze biologiche,
psicologiche, sociali, culturali e spirituali. È come il nostro organismo si mostra quando
qualcosa è in disequilibrio. La morte è la fine del ciclo della vita, è quella che chiude la vita.
E’ necessaria, e molte volte può essere vista come l’ultimo riposo dopo una grande
sofferenza. Il fermarsi per pochi minuti, tutti i giorni, a pensare alla nostra mortalità è
consigliato, come un modo di ripensare alla vita e al modo in cui la viviamo, giorno dopo
giorno.
4.2. La Psicosomatica, le sue origini, concetti e visioni:
La Psicosomatica può essere considerata, d’accordo con Trombini & Baldoni
(2001), la scienza che si propone di studiare e di aiutare l’essere umano nei suoi aspetti
13
psicologici e in quelli corporei, intendendo per “aspetti” tutto ciò che ci appare, quello che
rappresentiamo a noi stessi, non una realtà concreta.
Il termine “psicosomatico”, nonostante si riferisca a concetti molto antichi, che si
ritrovano in tutte le culture umane, è di origine piuttosto recente. Secondo Trombini &
Baldoni (2001), fu coniato nel 1818 dal medico psicologo Heindroth, che sentì il bisogno di
riunire i concetti di mente e di corpo per reagire alla eccessiva tendenza alla separazione che
stava riscontrando nella cultura scientifica dell’epoca. Pochi anni dopo, nel 1822, il medico
organicista Jacobi (APUD Tombini e Bardoni, 2001), propose il termine “somato-psichico”
per indicare l’influenza delle esperienze corporee sull’attività psichica. In entrambi i casi si
avvertiva l’esigenza di riunire quello che era stato separato, ma nel fare questo si favoriva
inevitabilmente uno dei due poli del problema: quello psichico o quello somatico.
Con gli anni la parola “psicosomatico” è stata utilizzata nei contesti più disparati
divenendo uno di quei concetti che hanno diversi significati:
• può riferirsi alla convinzione o al sospetto che un disturbo corporeo abbia
un’origine psicologica. Con l’appellativo di malattia Psicosomatica si è indicato per
lungo tempo una categoria di patologie mediche che si riteneva avessero una causa
psicologica per distinguerle dalle altre in cui l’origine era considerata
completamente organica. In questo modo, psicosomatico diventa sinonimo di
psicogeno, e un conflitto emotivo può essere considerato la causa della malattia allo
stesso modo in cui un batterio può provocare un’infezione. Questo concetto,
basato su una concezione del rapporto causa- effetto di tipo lineare, anche se molto
semplicistico è ancora oggi utilizzato da molti medici e psicologi (Trombini &
Baldoni, 2001);
• può indicare in un senso più ampio, l’influenza delle emozioni e dello stress sui
processi corporei. In questo caso si parla anche dei sintomi psicofisiologici. Gli aspetti
psicologici sono studiati in relazione a quelli corporei e valutati, assieme ad altri di
natura sociale o ambientale, all’interno di una prospettiva multifattoriale, anche se
sostanzialmente ancora legata a una concezione causale di tipo lineare;
• può, al contrario, richiamarsi alle influenze che i processi corporei, sani o patologici,
possono avere sulla psiche. Una malattia cronica, ad esempio, può interferire
notevolmente con la qualità della vita e favorire l’insorgenza di disturbi emotivi. In
questo caso, il termine più appropriato non sarebbe psicosomatico ma
somatopsichico;
14
• può indicare quelle condizioni chimiche in cui la funzione di un organo o di un
apparato corporeo è alterata, ma non si riesce a individuare una lesione organica
che giustifichi la sintomatologia. Si parla allora di sindrome funzionale o disturbo di
somatizzazione, presumendo, in modo generico, che la condizione sia conseguenza di
una sofferenza emotiva o dello stress;
• può essere utilizzato per definire un particolare tipo di personalità che predispone
allo sviluppo di malattie: la personalità Psicosomatica, come per esempio i pazienti con
caratteristiche di alessitimia, i quali manifestano un’evidente difficoltà a riconoscere
ed esprimere le proprie emozioni in termine psicologici e, di conseguenza, tendono
a viverle sul piano somatico;
• può alludere al significato comunicativo che può assumere un sintomo corporeo,
oppure indicare una modalità di relazione caratteristica di una famiglia all’interno
della quale uno o più membri sono predisposti ad ammalarsi simaticamente (le
famiglie psicosomatiche);
• può infine descrivere una modalità di approccio in base alla quale i problemi umani
sono studiati considerando livelli e sistemi differenti di tipo biologico, psicologico,
sociale e ambientale.
L’esempio più importante è il modello biopsicosociale proposto da Engel, che è
considerato uno degli orientamenti più influenti della Psicosomatica moderna.
D’accordo con Mello Filho (1992), l’evoluzione della Psicosomatica si è sviluppata
in fasi. La prima, chiamata iniziale o psicanalitica, influenzata delle teorie psicoanalitiche, ha
concentrato il suo interesse sugli studi dell’origine incosciente delle malattie, delle teorie
dalla regressione e dei guadagni secondari della malattia. La seconda, conosciuta anche
come intermedia, influenzata dal modello behaviorista, ha valorizzato le ricerche sia negli
esseri umani sia negli animali, lasciandoci così un grande contributo per gli studi dello
stress. La terza fase, chiamata attuale oppure multidisciplinare, ha valorizzato il sociale,
l’interazione, la connessione e l’interconnessione tra i professionisti delle diverse aree della
salute.
Non tratterò tutte le fasi e le correnti (per questo rimando al lavoro
“Psicossomática e Câncer”, da me sviluppato), ma mi fermerò sul modello della
“Psicosomatica Moderna”, il quale risulta dall’incontro delle idee delle Cure Palliative.
Engel, il quale ha sviluppato un concetto unificato di salute e malattia, che ha
chiamato modello biopsicosociale, è uno dei precursori della disciplina chiamata
15
“Psicosomatica Moderna”. Come sostengono Trombini e Baldoni (2001), la Psicosomatica
moderna tende infatti a seguire il modello da lui proposto, nel senso che si occupa dello
studio dei problemi umani considerando le relazioni non solo tra sistemi diversi (genetico,
anatomico, neurologico, endocrinologico, immunologico, psicologico, sociale), ma anche
tra livelli diversi, dal subcellulare all’ambientale. In questo modo, una malattia può essere
concepita come il risultato dell’interazione di più fattori che possono essere valutati su vari
piani in relazione tra loro.
Oggi, come evidenzia Vasconcellos (1998, apud Silva e Müller, 2007), i segmenti più
avanzati di questo movimento dell’approccio psicosomatico esigono che il benessere non
sia solo biopsicosociale ma che coinvolga anche le dimensioni spirituali ed ecologiche.
Per finire, rilevo la questione portata da Hulak (2003), il quale scrive che dai greci ai
giorni d’oggi, la Psicosomatica ha avuto quattro correnti: la psicodinamica, la biologica, la
culturale e l’olistica, e che quest’ultima si divide tra le influenze mistiche e alternative, e la
visione più seguita di una medicina globale, integrata e interdisciplinare.
4.3. Le Cure Palliative, concetto e idee.
“Le Cure Palliative sono le cure attive e globali, che hanno per obiettivo il
miglioramento della qualità della vita, quando aumentare o salvaguardare la
quantità della vita non è più possibile o attuabile, e si propongono di intervenire
sulle dimensioni fisiche, psicologiche, sociali e spirituali della sofferenza. Le Cure
Palliative intervengono nelle patologie inguaribili a vari livelli, quello dell’ospedale,
quello ambulatoriale, dell’assistenza domiciliare e dell’hospice” (Saunders, 2008.)
Nella definizione dell’OMS, le Cure Palliative sono il prendersi cura attivo e globale
del paziente la cui malattia non risponde più alle cure specifiche. E' fondamentale il
controllo del dolore e degli altri sintomi unitamente all'attenzione ai problemi psicologici,
sociali e spirituali. In altre parole, l'obiettivo delle Cure Palliative è di ottenere la miglior
qualità di vita per il paziente e i suoi familiari. Conviene ricordare che molti aspetti delle
Cure Palliative sono applicabili precocemente, insieme alle terapie specifiche.
Partendo del presupposto che l’obiettivo principale delle Cure Palliative è la qualità
della vita, Esslinger (2004) scrive che in questo tipo di paradigma, la morte è vista come
16
parte naturale della vita e che, per questo, può verificarsi nel tempo giusto (ortotanasia). In
questo paradigma, si riprende l’importanza della relazione équipe- paziente.
Ancora secondo l’OMS (APUD Zaninetta, 2008) le Cure Palliative affermano la
vita e vedono il morire come un processo naturale, né da anticipare né da posporre e
offrono un sistema di supporto che aiuti il paziente a vivere il più attivamente possibile fino
alla morte e un aiuto alla famiglia per adeguarsi alla malattia del paziente e per elaborare
correttamente il lutto.
Nelle parole di Barbosa (2003), le Cure Palliative:
• affermano la vita (e la qualità della vita) e considerano la morte come un
processo naturale, senza anticipare o ritardare intenzionalmente la morte;
• offrono ai malati il sollievo dal dolore e da altri sintomi fastidiosi, integrano
gli aspetti psicologici, sociali e spirituali della cura, in modo che i malati
possano accettare la loro morte nel modo più completo e costruttivo
possibile;
• offrono un sistema di sostegno che aiuta i malati a vivere in modo più attivo
e creativo possibile;
• offrono anche un supporto per aiutare le famiglie ad adattarsi durante la
malattia e il lutto.
Tenendo conto di tutti questi parametri, si può affermare, come dice Oliveira
(2010), che le Cure Palliative dipendono di un approccio multidisciplinare per produrre
un’assistenza armonica e convergente verso l’individuo senza possibilità di guarigione e
verso la sua famiglia. Date tali premesse è chiaro che il centro dell’attenzione cessa di essere
la guarigione dalla malattia e diventa l’individuo che è visto come un essere biografico,
complesso nelle sue dimensioni fisiche, psichiche e spirituali, attivo e con diritto
all’informazione e all’autonomia piena per le proprie decisioni rispetto al trattamento. A
questo si aggiunge l’attenzione dedicata alla sua famiglia e alla ricerca dell’eccellenza nel
controllo dei sintomi.
Mccoughlan (2006) parla dell’importanza di aver chiare le caratteristiche descritte
nella definizione di Cure Palliative dell’OMS. Secondo l’autrice, nella letteratura delle Cure
Palliative è comune la descrizione di tali caratteristiche, incluse la necessità di provvedere al
sollievo del dolore e degli altri sintomi, di cercare di aiutare qualcuno che si trova in un
profondo sconforto psicosociale e offrirgli supporto spirituale. E cosa questo può
veramente significare? Come minimo, ci dice Mccoughlan, significa l’abilità di essere
17
presente in tempi di disperazione, rabbia, allegria e tristezza. Sentire le nostre disperazioni,
rabbia, allegria e tristezza, anche davanti alla paura di come questo ci può ferire, sapere che
non si può risolvere un problema e rimanere ancora con quella persona, essere capace di
dare e ricevere amore, essere capace di gridare quando le cose sono tristi e difficili da
sopportare e sapere che coloro con i quali lavoriamo accettano la nostra tristezza. E’ essere
capace di tornare indietro e fare tutto un’altra volta.
“Tu sei importante perché sei tu e tu sei importante fino alla fine della tua vita.
Faremo tutto il possibile non solo per aiutarti a morire in pace, ma anche a vivere
fino a quando morirai” (Cicely Saunders, 2008)
18
5. LA CURA NELLA TOTALITÀ
“Tutto quello che esiste e vive ha necessità di essere curato per continuare ad esistere.
Una pianta, un bambino, un anziano, il pianeta Terra. Tutto quello che vive, ha
necessità di essere alimentato. Essendo così, l’accuratezza, l’essenza della vita
umana, ha necessità di essere alimentata con continuità. L’accuratezza vive
dell’amore, della tenerezza, della carezza e della convivenza” (Boff, 1999)
Secondo Colmegna (2010), parlare di cura significa assumersi la responsabilità e la
passione del curarsi, dello star bene nel migliore dei modi possibili, dell’interesse di
reciprocità. A giudizio dell’autore, cura è soprattutto linguaggio interiore, sensibilità
motivata in cui l’altro non è estraneo, ma domanda di esserci, di contare, e chiede aiuto.
Rohden (apud Fragoso, 2006), scrive che la salute deve essere capita e affrontata da
parte di chi cura attraverso una prospettiva bio – psico – socio – spirituale. L’essere umano
deve essere capito come un essere UNO e indivisibile, concezione questa che viene
incontro alla nozione d’individuo (processo d’individuazione - ESSERE integrale). Come
indica la radice della parola individuo (– in – dividuo, divisibile), l’essere umano non è divisibile,
è un individuo (in-divisibile), in cui il tutto è diverso della somma delle parti.
Conviene quindi rilevare che la visione di essere umano cui mi riferisco nel presente
lavoro è giustamente questa, di un essere uno, totale, indivisibile. Sono d’accordo con la
teoria sistemica, secondo la quale il tutto è più che la somma delle parti, e una piccola
particella di noi contiene tutto il nostro “essere”. Parafrasando Schrodinger1
, “per quanto
inconcepibile possa sembrare al nostro senso comune, noi siamo in tutti gli altri esseri, e
anche loro sono in noi, in modo che la vita che ognuno di noi vive non è solo una porzione
dell’esistenza totale, ma in un certo senso, è il tutto, è la totalità”. In base a tale premessa il
presente capitolo, è stato diviso in sottotitoli specialmente per un carattere didattico. Credo,
innanzitutto, che quando riusciamo a “prenderci cura” di una di queste “parti”, questo si
rifletterà e influenzerà anche nelle altre, poiché è questo “tutto” che crea un’armonia e ci fa
essere uno, con noi stessi, con l’altro e con l’universo.
1
http://www.sistenet.com/futuro/documentos/80htm.
19
5.1. Il prendersi cura e il curante
Aver cura di qualcuno o di qualcosa è un sentimento inerente all’essere umano
ossia, è connaturato alla specie umana, fa parte della lotta per la sopravvivenza e
percorre tutta l’umanità” (Costenaro et al, 2002)
Il Ministero della Sanità del Brasile (2008) definisce prendersi cura (cuidado) come
attenzione, precauzione, cautela, dedicarsi, affetto, incarico e responsabilità. Prendersi cura
è servire, è offrire all’altro in forma di servizio, il risultato dei propri talenti, preparazione e
scelte; è praticare la cura. Prendersi cura è anche percepire l’altra persona come ella è, e
come si mostra, i suoi gesti, le sue parole, il suo dolore e la sua limitazione. Percependo
questo, il curante ha le condizioni per prestare la cura in maniera personalizzata, a partire
delle sue idee, conoscenze e creatività, prendendo in considerazione le particolarità e i
bisogni della persona che deve essere curata. Questo prendersi cura deve andare oltre alle
cure del corpo fisico, perché oltre alla sofferenza fisica derivante da una malattia o da una
limitazione, si deve tener conto anche delle questioni emotive, della storia di vita, dei
sentimenti e delle emozioni del paziente.
Per Laffite2
prendersi cura è un atto di preservazione, imparato attraverso le
esperienze vissute ed i saperi sviluppati dalla cultura della quale facciamo parte. Quest’atto
si traduce in determinate attitudini e comportamenti: attenzione, zelo, rispetto dei limiti,
cautela, nei confronti propri e dell’altro.
Nascimento & Erdmann (2009), attraverso uno studio realizzato in un’unità di
terapia intensiva di un ospedale universitario dello stato di Santa Catarina, in Brasile, hanno
cercato di comprendere le diverse dimensioni del prendersi cura, prendendo come punto di
riferimento la “teoria transpersonale della cura”.
La “Teoria Transpersonale della Cura” è stata sviluppata da Watson (APUD
Schossler e Crossetti, 2008) e il suo scopo è, attraverso la coscienza intenzionale, cercare di
realizzare la ricostituzione dell’essere curato, che significa ottenere un nuovo modello in cui
ci sia l’unità della mente e dello spirito. In questo modello l’intenzione è comprendere
l’essere umano, con l’obiettivo di proteggerlo, valorizzarlo e preservare la sua dignità.
2
http://www.fabiolisboa.com.br/2010/06/cuidar-de-si-para-poder-cuidar-do-outro.html.
20
Da questo studio sviluppato da Nascimento ed Erdmann (2009), sono emerse
diciassette categorie del curare, che sono: la cura di se stesso, la cura come valore
individuale, la cura professionista versus la cura comune, la cura come relazione di aiuto, la
cura affettiva, la cura umanizzata, la cura come attitudine, la cura come pratica d’assistenza,
la cura educativa, la cura come relazione dialogica, la cura alleata alla tecnologia, la cura
amorosa, la cura interattiva, la non-cura, l’ambientazione della cura, la cura come essenza
della professione e la finalità della cura.
E’ interessante rilevare che, d’accordo con Schossler e Crossetti (2008) “La cura
transpersonale si è strutturata nel processo clinical caritas, dove caritas, con riferimento alla
sua origine latina, significa trattare con cura, con affetto, nutrire, dare un’attenzione
speciale, essere sensibile, dare, se non amore, almeno attenzione ”.
“Il processo clinical caritas è nato dalla ricerca di fare in modo che la cura
infermieristica trascendesse la diagnosi medica, la malattia o l’ambiente in cui
questo (il paziente) si trova, per non limitarsi ad un corpo fisico o alla malattia,
avendo la necessità di andare oltre, di trascendere la materia, di cercare la
plenitudine della cura” (Favero et. al, 2009)
In questa teoria, il momento del prendersi cura, secondo Schossler at. al (2008) é
considerato come un campo esistenziale ed energetico, un punto decisivo, una chiamata per
la più elevata e profonda coscienza e intenzionalità, una scelta autentica di prendersi cura e
vivere. Da questo si può capire, quindi, secondo Favero et. al (2009), che il processo clinical
caritas si accosta al paziente con delicatezza, sensibilità, gli dà un’attenzione speciale e
accurata.
Prendersi cura dell’altro nella plenitudine dovrebbe essere il fattore principale
dell’equipe di Cure Palliative.
“Il prendersi cura, il prendersi cura di se stessi, la cura della vita, la cura della
mortalità, è nell’origine dell’esistenza, è inerente all’essere umano; è un modo di
essere sempre presente, essenziale; le nostre azioni di ogni giorno dimostrano le
nostre preoccupazioni e zelo per la vita e per la morte. In questo senso, si comprende
che l’arte del prendersi cura è un atteggiamento di impegno umanitario” (Carvalho,
2004)
21
Costenaro e Lacerda (2001) definiscono il curante come “ogni persona che
sperimenta l’atto di curare ed esprime questa conoscenza in diversi momenti e situazioni,
realizzandolo in diversi individui e in distinte occasioni della propria vita”.
Affermano anche che, per le infermiere, il prendersi cura è l’essenza del loro esercizio
professionale, perché lo vivono nelle loro pratiche di tutti i giorni. Tuttavia non solo le
infermiere ma anche gli altri membri dell’équipe sanitaria devono essere considerati curanti,
poiché sviluppano un sistema di cura multidisciplinare.
Una questione importante a proposito del curante è quella ricordata da Watson
(apud Vieira et. al, 2007). L’autore, nella teoria Transpersonale, parla dell’importanza che ha
per il curante sentire l’emozione come si presenta, perché è solo attraverso la coscienza dei
propri sentimenti che la persona può interagire in modo sensibile e reale, diventando così
autentica, e stimolando, in questo incontro di cura, una relazione di aiuto-fiducia. A mio
giudizio tale affermazione, nonostante si riferisca in origine solamente all’area
infermieristica, è valida per tutti i soggetti definibili come curanti.
Costenaro e Lacerda (2001, apud Pilar et al, 2002), sottolineano che il curante deve
possedere caratteristiche quali la capacità di amare quello che fa, credere che ciò che fa
funzionerà e che deve aggiungere a tali caratteristiche dosi di speranza, affetto, donazione
di sé e lavoro in equipe.
Entrando nell’ambito delle Cure Palliative, Silva e Sudigursky (2008) scrivono che il
processo di cura è “inerente alla persona umana e che, per questo, abbiamo bisogno di
curare ed essere curati durante il nostro ciclo vitale e che, alla fine di questo ciclo, si pone la
necessità di una cura peculiare, impregnata della valorizzazione dell’essere. Questa è
l’essenza delle Cure Palliative”
5.2. Una visione olistica della salute
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, “la salute è uno stato di benessere
fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza di malattia o infermità, è un diritto
umano fondamentale". Questo concetto, d’accordo con Mello Filho (2002), dimostra,
innanzitutto, che la “visione Psicosomatica” ha conquistato uno spazio importante tra le
pratiche mediche. Morin (2002, apud Silva e Müller, 2007), non solo ribadisce tale concetto
ma va oltre, affermando che l’uomo è uno in relazione al suo ecosistema, influenzandolo ed
22
essendo influenzato da esso. Bisogna quindi rispettare la singolarità dell’uomo,
considerando simultaneamente i suoi processi biologici, sociali e culturali.
Marchioro (2007), scrive che “oggi siamo di fronte ad istanze che postulano una
visione dell’essere umano come “identità a più dimensioni”. Pertanto, in quanto tale, esso
deve essere interpretato correttamente da coloro che si occupano della salute e della
guarigione”. Secondo l’autore, è necessario un rapporto interdisciplinare il quale, per
diventare armonico, dovrebbe essere finalizzato alle dimensioni corporea, psichica e
spirituale dell’uomo. La salute, perciò dovrebbe essere riferita almeno a tre aree
specialistiche interagenti.
“(…) perché il problema della persona non è tanto la salute e la malattia quanto
quello di trovare una risposta sensata alle dimensioni costitutive dell’esistenza
(Marchioro, 2007)
Questa visione olistica della salute, come già visto nelle pagine precedenti, non è
nuova, al contrario, ha le sue radici culturali (come ci ricorda Corgna, 2008) intrecciate alla
nascita della medicina a oriente e a occidente. Secondo l’autore, gli antichi medici cinesi e
greci vedevano l’organismo umano come un intero, la cui salute era data dall’equilibrio, che
Ippocrate e Galeno chiamavano eucrasia (buona mescolanza), mentre la malattia era
disequilibrio, discrasia (cattiva mescolanza).
La medicina attuale, come ci ricordano Trombini e Baldoni (2001), ha cominciato a
rendersi conto che il benessere non dipende solo dal fatto che vi siano o no segnali fisici di
una malattia. La vera salute, sia per il malato sia per chi lo cura, deriva dall’equilibrio tra una
visione psicologica e una corporea. La pratica clinica, infatti, dimostra che i pazienti,
comunque siano classificati i loro disturbi, esprimono una sofferenza che è allo stesso
tempo fisica ed emotiva. Di conseguenza oggi si cerca di “recuperare la voce del malato”.
“Il principio fondamentale della filosofia olistica è che la malattia si presenta
quando tensioni emozionali, psicologiche o spirituali diventano eccessive, causando
così una debolezza del corpo. In altre parole, il corpo riflette o manifesta le lotte, le
battaglie più profonde della vita della persona. Più un individuo diviene incapace di
sopportare le tensioni emozionali, psicologiche o spirituali, più diviene ricettivo o
suscettibile ai virus, ai batteri o ai germi presenti nell’atmosfera” (Myss, 1997.)
23
Una scienza abbastanza attuale che parla di questa visione integrata della Medicina è
conosciuta come Psiconeuroimmunologia (detta anche Psiconeuroendocrinoimmunologia
o semplicemente Psicoimmunologia, abbreviata in Pnei). Secondo Tschuschke (2008), è una
disciplina relativamente recente che studia le interazioni esistenti fra l’esperienza soggettiva
(la psiche) e il sistema immunitario dell’organismo umano.
“Sia la psicoimmunologia sia la Psiconeuroimmunologia sono dunque utilizzate
come sinonimi per definire un ambito che prende in considerazione le analogie e le
reciproche interazioni fra il sistema nervoso centrale (SNC), inclusi tutti gli aspetti
comportamentali e l’attività psichica, e la funzione immunitaria. Tali interazioni
possono avvenire direttamente o indirettamente (…) In senso lato, dunque, la
psicoimmunologia può essere intesa, alla lettera, come tutto ciò che coinvolge l’intero
organismo, dal momento che la maggior parte delle cellule immunitarie ha accesso a
tutti gli organi e a tutte le cellule del corpo, compreso lo SNC. Ciò influisce sul
sistema nervoso periferico che, a sua volta, modula la funzione di vari organi”
(Biondi e Kotzalidis, 1994, APUD Tschuschke 2008)
Corgna (2008), scrive che la Pnei parla di medicina integrata, che significa guardare
l’essere umano nella sua interezza, mente e corpo, e proporre un “regime” che unifichi le
tecniche per la mente (psicoterapia, tecniche antistress e meditative) a quelle fisiche,
all’alimentazione, al rispetto dei ritmi biologici. In questo contesto, terapie antiche come
l’agopuntura, l’omeopatia e la fitoterapia, possono essere utilmente integrate in un modello
che non esclude l’uso dei farmaci di sintesi, ma che lo riconduce a un’appropriatezza molte
volte dimenticata.
“Il senso della sofferenza umana, infatti, non si scopre ricercando unicamente
l’alterazione di una cellula o di un tessuto, ma piuttosto attraverso una visione
multidimensionale in cui i problemi sono considerati in livelli e sistemi differenti di
tipo biologico, psicologico e sociale” (Trombini e Bardoni, 2001)
Uno dei principali aspetti ad essere considerato quando parliamo di Cure Palliative,
è la cura o il sollievo del dolore.
L'Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP) definisce il dolore
come "una sgradevole esperienza sensoriale ed emotiva, associata a un effettivo o
potenziale danno tissutale o comunque descritta come tale. Il dolore è sempre
24
un'esperienza soggettiva. Ogni individuo apprende il significato di tale parola attraverso le
esperienze correlate ad una lesione durante i primi anni di vita. Sicuramente si accompagna
ad una componente somatica, ma ha anche carattere spiacevole, e perciò, si accompagna
altresì ad una carica emozionale".
D’accordo con l’Associazione, in particolare il dolore cronico presente nelle
malattie degenerative, neurologiche, oncologiche, specie nelle fasi avanzate e terminali della
malattia, assume caratteristiche di dolore GLOBALE, legato a motivazioni fisiche,
psicologiche e sociali. E deve, per questo, essere visto e considerato nella sua globalità. Alla
singola terapia medica per sollievo del dolore dovrebbe, inoltre, come ha descritto Saunders
(2008), essere aggiunto un concreto sostegno psicologico, sociale e spirituale: questi,
assieme alla terapia medica, costituiscono i quattro pilastri fondamentali delle Cure
Palliative.
Saunders (2008), tenendo conto che il dolore può accrescere il generale stato di
sofferenza, come se fosse una vera e propria malattia, ha sviluppato il concetto di “dolore
totale”, il quale è stato presentato come un complesso di elementi fisici, emozionali,
spirituali e sociali. D’accordo con la scrittrice, l’esperienza globale per il paziente include:
ansietà, depressione e paura; preoccupazione per la famiglia che si avvia verso il lutto e,
infine, frequentemente un bisogno di trovare qualche significato in questa situazione,
qualche realtà più profonda in cui credere.
E quale potrebbe essere questo significato? Cosa si potrebbe vedere “dentro” il
dolore?
“In ultima analisi dentro il dolore si vede l’orizzonte ineludibile della morte. Ciò
crea ansia, paura e rimozione. Ma è proprio su questo fronte che cresce la capacità
oggi delle scienze mediche, psicologiche, teologiche e spirituali di confrontarsi e cioè di
cogliere la persona umana in tutto il suo percorso esistenziale” (Marchioro, 2007)
Questa tendenza olistica della visione sia dell’uomo sia della salute sia del dolore
come globale e integrale, appartiene all’area che si occupa delle Cure Palliative, ma anche
alla Psiconcologia, alla Psicosomatica e alla Psiconeuroimmunologia.
Pessini (2006), ci ricorda che il contributo della Medicina Psicosomatica e l’ingresso
della Psicologia nel contesto della salute, specialmente nell’ambito ospedaliero, sono stati di
estrema importanza negli ultimi anni per riscattare l’essere umano oltre alla dimensione
25
fisico-biologica e situarlo in un contesto maggiore di senso e significato, nelle sue
dimensioni psichiche, sociali e spirituali.
Tutte le dimensioni del dolore e della sofferenza hanno un senso, un significato,
una funzione, che dovrebbe essere letta, ascoltata, compresa. In questo modo, abbiamo
(Pessini, 2006):
• La dimensione fisica: a livello fisico, il dolore funziona come un allarme che
qualcosa non va, che c’è qualcosa di sbagliato nel funzionamento del corpo.
Siccome il dolore fisico affligge la persona nella sua globalità, può andare
oltre alla funzione di allarme, diventando un dolore insopportabile, a punto
di fare che la persona chieda di morire;
• La dimensione psichica: è la dimensione della sofferenza, che può avere
multipli fattori causali. Tra tante situazioni che possono sviluppare la
sofferenza psichica, c’è l’affrontare la propria morte, la propria finitudine.
Nascono sentimenti che si caratterizzano per cambiamenti di umore,
sentimento di perdita del controllo circa il processo del morire, perdita delle
speranze e dei sogni oppure necessità di ridefinirsi davanti al mondo;
• La dimensione sociale: è la dimensione della sofferenza marcata
dall’isolamento, creato giustamente per la difficoltà di comunicazione
sentita nel processo del morire. La presenza solidale è fondamentale. Anche
la perdita del ruolo socio-famigliare è molto crudele: ad esempio, diventare
dipendente dai figli e accettare di essere curato da loro;
• La dimensione spirituale: sorge della perdita di significato, senso e speranza. Si
manifesta quando il malato confida al suo consigliere spirituale: ho un dolore
nell’anima. Abbiamo bisogno di un senso e di una ragione per vivere e per
morire.
“Queste dimensioni della sofferenza coesistono tra loro, e non è sempre facile
distinguerle una dall’altra. Se gli sforzi per lottare contro il dolore mettono a fuoco
solo un aspetto e non considerano gli altri, il paziente non proverà sollievo dal
dolore, e soffrirà ancora di più. Il dolore non sollevato può causare non solo
depressione, ma anche portare la persona a chiedere di morire” (Pessini, 2006)
26
In occasione di una conferenza realizzata presso l’Ospedale Santa Rita, della Santa
Casa de Misericordia di Porto Alegre, nell’Aprile 2005, l’infermiera Marilyn Smith Stoner,
dell’Università della California, ci ricorda che il dolore è considerato come il quinto segno
vitale, e che la sofferenza è già considerata come il sesto segno vitale. Stando così le cose,
sia il dolore sia la sofferenza sono aspetti da tenere in considerazione quando si parla di
“prendersi cura” nella totalità, ossia, in modo “olistico”. Stoner (2005) considera
d’importanza fondamentale l’attenzione agli aspetti fisici, psicologici, psichiatrici, sociali,
spirituali, religiosi, esistenziali e culturali del “prendersi cura”, e ci dà alcuni suggerimenti su
come lavorare su questi aspetti, come, per esempio, la necessità di elaborare un rituale di
addio per i pazienti che “non ci sono più”.
5.3. Prendersi cura di se stesso
Secondo Camargo (2009), la dimenticanza di se stesso è nota in varie professioni, in
particolare tra i professionisti della sanità, che portano con sé il paradigma dell’obbligo, il
dovere di prendersi cura, di occuparsi dell’altro e, come conseguenza, possono confrontarsi
con il non prendersi cura di se stessi.
“Colui che amo mi ha detto che ha bisogno di me. Per questo ho cura di me, guardo
dove cammino e temo che ogni goccia di pioggia mi possa uccidere” (BERTOLT
BRECHT)
5.3.1. Perché prendersi cura di se stesso?
Inizio questo capitolo con una domanda fatta da Trombini e Baldoni (2001): “Dove
nasce la nostra capacità di curare?”, alla quale essi cominciano a rispondere dicendo che
“l’equilibrio tra gli aspetti corporei e quelli psicologici deve essere ricercato non solo nel
paziente che soffre, ma anche in chi lo cura”.
“Se il professionista della salute non riesce a entrare in contatto con i propri
desideri, farà fatica a entrare in sintonia con i bisogni degli altri” (Bonato, 2008.)
Per Boff (1999), è risaputo che il processo di cura degli altri, inevitabilmente, porta
sofferenze, sentimenti di allegria, tristezza, impotenza, perdite, dolore, rifiuti e angosce in
27
coloro i quali sono responsabili del prendersi cura, specialmente quando i pazienti si
trovano, in qualche modo, in situazioni di vulnerabilità e, in un certo modo, presentano
resistenze e rifiuto rispetto alla “persona” dei loro curanti.
Laffite3
, in articolo intitolato “Curare se stesso per poter prendersi cura dell’altro4
”, scrive
che il profilo del curante è proprio e individuale: le sue conoscenze e abilità si riflettono da
un lato nelle sue attitudini a curare l’altro e dall’altro lato nella propria disponibilità interna
a lasciarsi curare dall’altro. Il curare può essere suddiviso in tre categorie: il curare se stesso
(autocura), il curare visto in confronto all’altro (il prendersi cura di) e l’essere curato
dall’altro. Queste tre categorie precedono sempre una relazione di attaccamento e affetto.
Non si cura se non ha stima di se stesso e dell’altro.
“Chi che ha intenzione di prendersi cura degli altri e guidarli, innanzitutto ha
bisogno di dimostrare che sa guidare se stesso, che conosce i limiti del suo fare, che
rispetta l’altro come un essere diverso da sé” (Lunardi et. al, 2004)
Nascimento ed Erdmann (2009) scrivono che la cura di sé passa per il dialogo con
se stesso e con gli altri. Il risvegliarsi grazie alla conoscenza e alla cura di se stesso sono
parte del processo di imparare a curare. A loro giudizio, quando la cura di sé è
sperimentata, si manifesta l'opportunità di un’auto riflessione, il trabocco delle emozioni, la
percezione di sé come soggetto in cui la soggettività e la sensibilità sono sempre presenti.
Per poter aiutare l’altro, il professionista deve prima aiutare se stesso, prendendo in
considerazione tutti gli aspetti che lo compongono: fisici, psichici, sociali, culturali e
spirituali.
“La conoscenza delle nostre potenzialità e dei nostri limiti, davanti alla complessità
dell’azione di “curante” è fondamentale. Abbiamo limiti che hanno bisogno di
essere superati, non siamo né onnipotenti né infallibili. Bisogna, ogni giorno, ad ogni
nuova esperienza, provare a costruire la nostra identità, in base al vissuto della
nostra “missione”, che è quella di prendersi cura della vita degli esseri umani. E la
“missione” si completa nella nostra soddisfazione come professionisti, e nella ricerca
incessante del riscatto della dignità e del valore della vita” (Bettinelli et. al, 2006)
3
http://www.fabiolisboa.com.br/2010/06/cuidar-de-si-para-poder-cuidar-do-outro.html.
4
Nell’originale: “Cuidar de si para poder cuidar do outro”.
28
Il curante ha necessità di essere curato e di curare se stesso, perché se non è capace
di prendersi cura di sé e avere coscienza di se stesso, riconoscendo i propri sentimenti,
emozioni, abilità, capacità, limiti, spiritualità avrà, secondo Becker (2004), difficoltà a
prestare azioni di cura umanizzata, nelle sue dimensioni empirica, etica, estetica, personale,
culturale e spirituale. Bisogna conoscere questo “io” che cura, per riuscire a comprendere
l’altro nella sua individualità e, così, avere la possibilità di curare.
“I professionisti della sanità dovrebbero fare una riflessione circa la disponibilità
interna ad accompagnare i pazienti che stanno morendo, direttamente relazionata
alla possibilità di sopportare il contatto con il proprio dolore e rivedere, in sé, quello
che è considerato conforto e cura nel processo della morte personale” (Esslinger,
2006)
Arduini e Landra (2010) scrivono che l’attitudine alla cura origina dall’abilità con cui
ciascuno si dispone a curare se stesso. La cura che dà benessere non è quella che trattiene,
ma quella che induce l’autonomia, che insegna all’altro ad avere a sua volta cura
dell’inviolabile interiorità.
L’espressione “prendersi cura di se stessi" è stata utilizzata da Foucault (2004, apud
Bub et al., 2007) per referenziare e tradurre un’idea complessa e ricca che i greci
utilizzavano per designare una serie di attitudini legate alla cura di se stessi, al fatto di
occuparsi di sé, che è il concetto di epiméleia heautoû. Uno dei primi argomenti affrontati
dall’autore è stato quello di separare la nozione di epiméleia heautoû da quella di gnôthi seautón
– conosci te stesso. L’epiméleia heautoû é, innanzitutto, un’attitudine legata all’esercizio della
politica. In altri termini, è un certo modo di affrontare le cose, di stare nel mondo, di agire,
di gestire una relazione con l’altro; un certo modo di guardare se stesso.
“Chi si prende cura di se stesso in maniera adeguata, si trova nelle condizioni di
relazionarsi adeguatamente con gli altri” (Foucault, 1987)
Secondo Rockenbach (1985, apud Pilar et. al, 2004), affinché l’equipe
infermieristica riconosca nel paziente un essere umano, bisogna prima riconoscere se stessi
e trattare se stessi come un essere umano.
La cura dei membri dell’equipe come soggetti che hanno necessità di avere cura di
sé per riuscire a curare gli altri, è una questione che da anni è messa in evidenza. La cura di
29
sé, d’accordo con Foucault (1987, apud Pilar et. al, 2004), consiste nel fermarsi, guidare il
nostro sguardo lungo la nostra vita, permetterci di realizzare un esame di coscienza circa il
vissuto, non per giudicalo, neanche per incolparsi, ma per interrogarci sugli obiettivi posti e
non raggiunti e sul modo in cui stiamo amministrando la nostra esistenza. Nonostante il
testo si riferisca specificamente all’equipe infermieristica, credo che quest’affermazione
valga per tutti quelli che si prendono cura degli altri: infermieri, medici, psicologi,
fisioterapisti, assistenti sociali, educatori, ecc...
Il riconoscimento di sé come “io curante”, e l’importanza di prendersi cura anche di
se stesso è una concezione che, d’accordo con Becker (2004), presuppone la conoscenza de
sé, ossia, sapere chi è colui (soggetto che cura) il quale deve prendersi cura di sé, per
riuscire a prendersi cura dell’altro in maniera migliore. Questa estensione della propria
coscienza di cui ha bisogno chi cura gli altri gli permetterà, una volta raggiunta, di vivere in
modo più autentico e armonico le proprie relazioni, fortificherà la sua persona e la sua
capacità di curare, gli consentirà di non sentirsi privato della propria energia vitale, come
spesso ora gli accade alla fine di una giornata di lavoro.
Sentirsi “risucchiato della propria energia vitale” può fare che il curante, con il
passar del tempo, si senta esaurito allo stremo, entrando in burnout.
Il burnout, secondo Valera e Mauri (2009), è una possibile conseguenza dello stress.
Quindi conviene, prima di parlare di burnout, definire lo stress, termine (come noto) “di
moda” nella società attuale.
Secondo Ramos (1994), il concetto di stress, oggi così diffuso, è stato inizialmente
descritto da Hans Selye nel 1956, ed è stato chiamato sindrome generale dell’adattamento.
Questo concetto, secondo Castro et. al, diminuisce l’importanza del conflitto psichico nel
ruolo eziologico e si indirizza sempre di più ad un’eziologia multifattoriale. L’implicazione
alla base delle idee Selye per la Psicosomatica, per esempio, è la scoperta di quanto e come
il corpo si trasforma, si modifica quando è sotto stress. In questo senso, lo stile di vita è ora
considerato come un importante fattore per la salute e la prevenzione delle malattie.
In altre parole (Valera e Mauri, 2009), poiché nella reazione dell'organismo vi è una
componente oggettiva (lo stimolo) e una componente soggettiva (l'interpretazione dello stimolo), si
può dire che lo stress è una reazione individuale a un insieme di stimoli oggettivi che viene
soggettivamente riconosciuto come "richiesta di prestazioni".
Il fattore importante da considerare, quindi, non è in particolare lo stress, ma il
modo in cui ognuno lo gestisce (le risorse interne, i meccanismi particolari di ognuno, ecc).
30
Cito qui l’americano Engel (apud Trombini & Baldoni, 2001), uno dei maggiori esperti di
Psicosomatica della seconda metà del Novecento, il quale sosteneva che gli eventi i quali
assumono un valore stressante per l’individuo possono essere fondamentalmente di tre tipi:
una perdita (o una minaccia di perdita), un danno (o una minaccia di danno) oppure la frustrazione di un
bisogno. Sottolineo la parola “minaccia”, perché non c’è bisogno che succeda qualcosa
davvero, nel concreto, perché il soggetto si senta minacciato e si crei una fonte di stress.
Selye (apud Trombini & Baldoni, 2001), descrive lo stress come “la risposta non
specifica dell’organismo a ogni condizione di cambiamento”, e lo ritiene come una
condizione di adattamento normale e persino utile.
Secondo Trombini & Baldoni (2001), lo stress, sollecitando l’insorgenza di
emozioni, comporta risposte biologiche e psicologiche molto complesse che dipendono dal
significato che la situazione assume per l’individuo.
“Abbiamo osservato costantemente che la malattia tende a seguire determinati modelli di
tensione o trauma della vita quotidiana che emergono organicamente. Il modo in cui le nostre
risorse interne ci consentono di affrontare le vicende ordinarie della vita, come la delusione o
la frustrazione associate con i nostri rapporti personali o professionali, l’esperienza di
perdita, i traumi finanziari, per citarne alcuni, è strettamente legato alla qualità della
nostra vita” (Shealy e Myss, 1997)5
Valera (2010) ci spiega che con il termine burn out s’intende indicare una condizione
relativa allo stato psicoemotivo dell’operatore che lavora nelle professioni di aiuto,
traducibile nella lingua italiana con la parola “scoppiato”. Il burn out si differenzia dalla
stanchezza o dalle tensioni legate alla vita lavorativa quotidiana: queste ne possono essere
sintomi premonitori, legati ad altri che generano un malessere che con il tempo tende a
cronicizzarsi.
Secondo l’autore, il burn out si configura come una forma di stress interpersonale
che comporta un generale distacco dall’utenza nella relazione d’aiuto, caratterizzato da
alcuni aspetti: l’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione dell’utente, il senso di ridotta
realizzazione e bassa autostima, la fatica ad andare a lavorare e la rabbia nei confronti del
lavoro e dell’istituzione, il senso di colpa e il negativismo sulla propria efficacia e le proprie
5
Ho scelto apposta di mettere questa citazione di Shealy et. al (1997) nella parte del lavoro dedicata agli
operatori sanitari (qui visti come “curanti”), per farci ricordare che anche per noi stessi la qualità della vita
dovrebbe essere una priorità.
31
capacità, la difficoltà a concentrarsi, il cinismo e lo sviluppo di malattie psico-somatiche da
parte dell’operatore.6
Secondo Campos et.al (apud Casellato, 2005) davanti all’imminenza della morte,
l’equipe di salute è mossa da sentimenti di shock, negazione, fallimento, tristezza, colpa,
auto recriminazione, vergogna e fantasie di nature e intensità varie. Questi sentimenti
possono perdurare se non sono elaborati e possono ricomparire nel contatto con i futuri
pazienti, predisponendo il professionista a uno stress acuto.
Perdite consecutive possono scatenare, d’accordo con Caselatto (2005), una crisi
nell’ambito professionale, in sequenza alla crisi emotiva, la cui manifestazione si caratterizza
dall’esaurimento psichico, riduzione della realizzazione personale nel lavoro e
depersonalizzazione.
Gli autori dimostrano anche che questa dinamica fa in modo che questi
professionisti utilizzino meccanismi difensivi come risposta all’aggravamento dello stress
nell’ambiente di lavoro. L’effetto di questa sofferenza può apparire sia nell’aspetto
cosciente sia nell’incosciente. Di conseguenza, questo implica un impegno riguardante il
disagio psicologico, con anche sintomi psicosomatici, e può influenzare l’andamento della
routine di lavoro e del convivio sociale.
Prendersi cura di sé è anche un modo di cercare di prevenire il Burnout che, è
importante sottolineare, è un fenomeno fondamentalmente psicosociale, come ci ricordano
Valera e Mauri(2009), mentre lo stress è un fenomeno individuale. Tale prevenzione può
forse essere messa in atto attraverso l’ampliamento della coscienza di sé, come visto nelle
pagine precedenti.
Per Souza (1998), ampliare la coscienza di sé come cura, permette al curante di
raggiungere una migliore comprensione di se stesso e del mondo, attribuendo alla realtà
vissuta un significato sulla cui base egli possa agire nella costruzione di nuovi cammini (...)
restituendogli il potere di essere agente e signore del suo destino, trasformando in maniera
effettiva quello che egli desidera sia trasformato, ricuperando la magia e l’orgoglio di essere
curante.
Becker (2004) vede l’ampliare della coscienza di sé come uno strumento di
massimizzazione della manipolazione della conoscenza che è stata acquisita del curante,
durante il suo percorso personale e professionale, che lo aiuta nelle sue scelte, le quali
6
Il tema del Burn Out nel presente lavoro è stato citato come parte di un contenuto più ampio, e non occupa
una posizione di distacco, di modo che non sarà visto in tutta la sua totalità, ma solo a livello d’informazione.
32
risultano in attitudini che possono rappresentare un atto di libertà, creazione e
trasformazione.
May (2002) scrive che in tedesco, il vocabolo usato per autocoscienza significa
anche auto fiducia. In questo senso, ampliare la coscienza di sé o dell’ “io” espande il
controllo che la persona ha della propria vita e, con questa condizione, svela la capacità di
sentirsi più libero, soggetto delle proprie azioni, guidando, in forma cosciente, il proprio
cammino per la strada della vita.
“Chi ha intenzione di prendersi cura dell’altro e guidarlo, deve, innanzitutto, dimostrare di
saper guidare se stesso, di conoscere i limiti del suo fare, di rispettare l’altro come un essere
diverso da sé” (Lunardi et. al, 2004)
Per Angerami (2003), la cura del “curante” può propiziare al professionista della
sanità l’opportunità di riprendere il vero senso della sua pratica e anche il senso e il valore
di lavorare in un’organizzazione della sanità, poiché lo aiuta a ricuperare la sua auto-stima.
5.3.2. Come prendersi cura di se stesso?
Innanzitutto, bisogna dire che non c’è una risposta unica, che non ci sono “ricette”
su come prendersi cura di sé. Ognuno, d’accordo con le proprie risorse, interne ed esterne,
dovrà trovare un modo di farlo. Si può, comunque, formulare dei suggerimenti, cercare di
spiegare alcune strategie che per alcuni saranno interessanti e utili mentre per altri no e sarà
in quei casi necessario trovare una strada diversa.
Santos et. al (2005) dicono che la cura di sé denota l’amministrazione della vita,
esercire la condizione di cittadino, essere capace di pensare e decidere circa se stesso, a
partire da determinati valori e principi, avendo come base la nostra condizione di soggetti
socio-individuali.
Per Wendhausen e Rivera (2005), la cura di sé è la maniera con la quale l’individuo
si occupa di sé, attraverso la riflessione rispetto alle proprie attitudini, le proprie ragioni, e
attraverso la riflessione circa il proprio passato, con l’obiettivo di affrontare se stesso.
“Come ampiamente dimostrato, il supporto ai curanti è essenziale per il loro sviluppo sano
e anche per il miglioramento del trattamento e delle cure fornite ai pazienti. Questa è
un’area dove i professionisti della salute mentale hanno, ogni giorno di più, un ruolo
fondamentale”(Soares et. al, 2004)
33
L’importanza del tempo libero
Il tempo libero è visto da molti come una cosa superflua. A prescindere dalla
visione che abbiamo rispetto a questo concetto, l’importante è che esso sia ottimizzato per
la cura di sé dell’individuo, in questo caso il lavoratore, poiché è capace di propiziare
allegria, benessere, conforto, tranquillità.
“Il tempo libero è uno dei mezzi di cui si dispone per affrontare le contraddizioni del
quotidiano, un modo di prendersi cura di sé per riunire le condizioni essenziali per prendersi
cura dell’altro.” (BEUTER et. al, 2005)
Secondo Aubert (1994), le attività del tempo libero possono essere modi per ridurre
la carica psichica, facendo in modo che il lavoratore senta piacere nella propria attività,
rendendo più facile la realizzazione degli incarichi attribuiti, e permettendogli di raggiungere
i suoi obiettivi nel lavoro. Questo “raggiungere gli obiettivi” si riferisce alla soddisfazione di
svolgere le proprie mansioni più gradevolmente, confacendosi con la riduzione della carica
psichica del lavoratore.
Un’osservazione importante rispetto allo stress: d’accordo con Staedt (APUD Kraft,
2006), “Se qualcuno affronta una giornata di lavoro di dodici ore al giorno però, al
medesimo tempo, trova un modo di rilassarsi, è probabile che non abbia nessun problema.
Dall’altra parte, è possibile che un lavoro di solo metà del periodo sia percepito come
molto stressante, conducendo allo sviluppo del burnout”. L’importante è cercare un
equilibrio tra la tensione e il rilassamento! Ossia, quello che può provocare il Burnout non è
la quantità di lavoro, ma il modo in cui lo viviamo! Stress, burnout, depressione,
stanchezza, insonnia, ci sono tanti modi in cui il nostro organismo può reagire, cercando di
dirci che c’è qualcosa che non va, oppure per farci rendere conto che abbiamo bisogno di
prenderci cura di noi stessi!
A parere di Bonatto (2008) tra le principali “vie di uscita” si possono individuare:
• Volgere lo sguardo alla propria vita, riconoscere le esperienze vissute;
• Essere attento ai propri bisogni, desideri, comportamenti, emozioni e sentimenti, e
anche ai modi in cui questi si esprimono;
• Vedere se stesso come un bene preservato;
34
• Integrare i propri desideri alle esigenze del proprio ruolo professionale.
Soares et. al (2004) parlano invece di altre risorse che possono aiutare coloro i quali si
dedicano alla cura. Citiamo ad esempio:
• La formazione, nei posti di lavoro, di gruppi di supporto multidisciplinari, con
discussioni di casi e diluizione dei problemi (secondo gli autori, la semplice
discussione dei casi in una maniera eticamente corretta é benefica per
professionista, perché gli rende possibile vedere che la sua difficoltà è molte volte
vissuta anche dagli altri. Inoltre il gruppo può essere un’opportunità per esternare i
propri sentimenti ed essere aiutato nella risoluzione dei propri problemi).
• Parlando ancora delle discussioni di gruppo, gli autori credono che i gruppi di
discussioni cliniche orientino il professionista, facendo in modo che egli si senta più
sicuro nelle proprie procedure e propiziando al paziente un trattamento più
accurato.
• L’uso di psicoterapie, terapia occupazionale, gruppo-terapia o esercizi di lavoro,
non solo integra l’équipe, ma aiuta anche nell’identificazione e risoluzione delle
difficoltà.
• Insegnare al professionista a riconoscere i segni che lo possono mettere in allerta su
un suo sovraccarico e dargli le indicazioni che possono essergli utili.
A mio giudizio, innanzitutto, l’importante è decidere le priorità! Cercare di riservare
sempre un tempo per se stesso, cercare di capire che siamo esseri umani, e che non
abbiamo bisogno di “caricare il mondo sulle spalle”. Percepire i limiti del nostro
organismo, imparare quando è il momento di fermarsi. Non sovraccaricarsi, saper dire di
no. Altre cose importanti sono provare ad organizzare il nostro tempo in modo che il
lavoro non ci coinvolga completamente, cercare di non portare a casa i problemi del lavoro
o il contrario.
Avere momenti di svago come visto prima, è fondamentale. Poter viaggiare qualche
volta, camminare in un parco, passeggiare, meditare. Poter dormire fino a tardi nei
weekend, guardare un film, restare con il pigiama per tutto un pomeriggio. Fare del lavoro,
delle attività che ci portano piacere, e non farle semplicemente per obbligo.
Dobbiamo imparare a vivere ogni giorno, cercando di ottenere il massimo profitto.
Infine, non bisogna lasciare niente da parte, neanche perdere quello che si è dovuto lottare
anni per conquistare. Bisogna sapere come gestire l’equilibrio tra svago e lavoro.
35
Un fattore importante: conoscere se stesso!
36
“Conoscere se stesso dà all’individuo l’opportunità di avere una maggiore autonomia, una
maggiore governabilità di sé, un controllo dei suoi desideri e di quelli di chi è vicino. Un
individuo autonomo è l’essere che elabora le proprie regole, norme, ed esercita autonomia e
libertà.” (Chaui, 1999)
Conoscendo me stessa, sono maggiormente in grado di capire il miglior modo di
prendermi cura di me. Per alcuni, prendersi cura di sé può semplicemente significare andare
dal parrucchiere, oppure a fare le unghie. Per altri, può essere andare in palestra, viaggiare,
mentre per altri ancora può essere restare a casa, senza fare niente! Esercizi di rilassamento,
visualizzazione, lavori con la mente, con il corpo, possono essere di grande utilità, purché
sia stata una scelta, e non un obbligo.
Dobbiamo sempre ricordare che ognuno di noi è unico, vive momenti diversi e
unici, e dà un significato particolare a tutto quello che fa. Tutti dobbiamo, innanzitutto,
riconoscerci come essere umani, tenendo conto dei nostri limiti e delle nostre potenzialità.
5.4. Prendendosi cura dell’altro
“Aver cura di qualcuno o qualcosa è un sentimento inerente all’essere umano, ossia, è
naturale per la specie umana, fa parte della lotta per la sopravvivenza e percorre tutta
l’umanità“ (Costenaro e Lacerda, 2002)
Per Bettinelli et al. (2006), la grande sfida dei professionisti della sanità è prendersi
cura dell’essere umano nella sua totalità, esercitando un’azione preferenziale riguardo al suo
dolore e alla sua sofferenza nelle dimensioni fisiche, psichiche, sociali e spirituali, con
competenze tecno scientifica e umana.
“Chi cura e si lascia toccare dalla sofferenza umana diventa un radar ad alta sensibilità, si
umanizza nel processo e, oltre alla conoscenza scientifica, ha la preziosa opportunità e il
privilegio di crescere in sapienza. Questa sapienza lo mette sulla strada della valorizzazione
e scoperta che la vita non è né un bene che possa essere privatizzato, né un problema che
possa essere risolto nei circuiti digitali ed elettronici dell’informatica, ma un dono da vivere,
che è collegato solidariamente con gli altri” (Pessini, 2000)
Mccoughlan (2006) aggiunge alla definizione di Cure Palliative tre elementi che
considera fondamentali nella cura dell’altro, che sono: la compassione, l’umiltà e l’onestà.
Secondo l’autrice, bisogna avere compassione, mettersi nei panni dell’altro, cercando di fare
37
all’altro quello che ci piacerebbe l’altro facesse per noi. In secondo luogo è necessario
essere onesti, essere capaci di utilizzare le abilità di comunicazione per sedersi e parlare
serenamente con il paziente rispetto a quello che sta accadendo. Bisogna avere il coraggio
di parlare anche delle cose più profonde, come “sto morendo?” e che cosa questo significa
veramente per il paziente, oppure affrontare tali questioni complesse con le famiglie, che
hanno bisogno di molto del nostro tempo.
Prendersi cura dell’altro nelle Cure Palliative è stare davanti all’imminenza della
morte. Cercare di identificare la fase dell’elaborazione del lutto7
nella quale si trovano sia il
paziente sia i famigliari (ricordandosi che non tutti attraversano tutte le fasi, e neanche nello
stesso ordine) potrebbe aiutare nel processo di prendersi cura dei pazienti terminali e delle
loro famiglie.
Alencar (2005) crede che se i professionisti della sanità avessero la conoscenza delle
fasi del morire e la sottigliezza di percepirle nei momenti in cui si avvicinano al paziente in
fase terminale (e alla sua famiglia), questo potrebbe diventare un ricco strumento nel
processo di curare entrambi. Percepire cosa succede in questo processo porta i
professionisti a comprendere il comportamento del paziente e delle persone a lui vicine
nell’affrontare la morte imminente.
L’autrice scrive anche che l’infermiere e gli altri professionisti della sanità
dovrebbero conoscere e comprendere le fasi per le quali passano i pazienti terminali/gravi
e i loro familiari, per così sviluppare le loro azioni in maniera integrale, individuale,
umanizzata e condivisa. Affinché questo accada con qualità e decisione, bisognerebbe
trovare un compromesso con l’etica, con il rispetto per l’individualità umana, con il sapere
ascoltare e far tacere quando necessario. Sarebbe anche importante avere la percezione dei
momenti difficili, vissuti e manifestati sia attraverso la comunicazione verbale sia attraverso
quella non verbale, cercando di agire in equipe, assistendo il paziente e le famiglie con
discrezione e competenza, facendo loro riconoscere nelle azioni delle cure infermieristiche
il sostegno e l’appoggio di cui hanno bisogno in quelle ore difficili.
7
Klüber Ross in “La morte e il Morire” (2000): negazione, rabbia, patteggiamento, depressione e accettazione.
38
6. LA CURA DEL CORPO
Dal momento in cui si pensa al paziente come ad un essere “totale”, il quale deve
essere considerato in tutti i suoi aspetti, bio-psico-sociali-spirituali, la “cura del corpo”
potrebbe sembrare ovvia. Viene però la domanda: che cosa significa veramente “prendersi
cura del corpo” in un paziente terminale? Sicuramente la massima “mente sana in corpo
sano”, in questi casi, potrebbe essere anche valida, ma avrebbe bisogno di un’altra
interpretazione.
Quando si pensa alla cura del corpo, si dovrebbe pensare agli aspetti fisici e anche
agli aspetti nutrizionali. Poiché stiamo parlando di pazienti terminali, però, si dovrebbe,
innanzitutto, pensare agli aspetti riferiti alla qualità della vita e a quali potrebbero essere le
sue priorità.
Tornando alla questione dell’antica massima latina “Mens sana in corpore sano”, e
cercando di riportarla al contesto delle Cure Palliative, si potrebbe dire, per esempio, che
un corpo infastidito, pieno di dolore, fa che il paziente non riesca a dormire, aumentando la
sua paura e il suo livello di ansietà (al contrario, può accadere che la paura e l’ansietà del
paziente gli impediscano di dormire, e lo lascino così rigido, così teso, fermo nel letto, che
come risultato aumenti il suo dolore e il suo disagio). Dire che cosa viene per primo è quasi
impossibile e, in realtà, dal momento in cui si riesce a vedere il paziente come un essere
completo e complesso, questo “ordine” poco importa.
Prendersi cura del corpo, per un paziente nelle Cure Palliative, quindi, può
significare tante cose! Togliere il dolore, per esempio. Aiutarlo a fare piccoli passi dentro
della stanza! Fargli mantenere, almeno per un po’, quell’autonomia che gli resta ancora.
L’importanza del lavoro in equipe nelle Cure Palliative è, quindi ancora una volta,
un aspetto fondamentale e, tra tutti i membri dell’equipe, colui il quale può fare un miglior
lavoro di supporto al paziente nella cura del corpo è il Fisioterapista.
6.1. La Fisioterapia
Secondo Marcucci (2005), il fisioterapista detiene nella propria professione metodi e
risorse unici, che sono immensamente utili nelle Cure Palliative, in linea con l’approccio
multidisciplinare e integrato per la cura dei pazienti malati di cancro descritto in queste
pagine..
39
Il ruolo del fisioterapista nelle Cure Palliative è diverso da quello ricoperto da tale
professionista nelle cliniche riabilitative, in cui la “sfida”, per esempio, può essere
migliorare la “performance” di un giocatore di calcio dopo un piccolo intervento
chirurgico, oppure aiutare un ragazzo che ha fatto un incidente in moto imparare a
camminare con l’uso di una protesi.
La fisioterapia nelle Cure Palliative differisce da quella “tradizionale” specialmente
per il fatto che, come ci ricorda Zegna (2001), essendo i pazienti soggetti a cambiamenti di
condizione spesso rapidi e in peggioramento, anche il suo intervento deve riuscire a
cambiare velocemente per poter rispondere adeguatamente alle nuove necessità.
La fisioterapia, come ci ricorda Marcucci (2005), dispone di un “arsenale” completo
di tecniche che completano il programma di Cure Palliative, sia nel miglioramento della
sintomatologia sia nella qualità della vita.
Secondo Zegna (2001), il ruolo della fisioterapia nelle Cure Palliative è quello di
favorire al massimo le capacità fisiche e promuovere la maggior autonomia, cioè aiutare la
persona ad adattarsi alla propria condizione. D’accordo con l’autore, una definizione di
riabilitazione usata nell’ambito delle Cure Palliative indica che il suo scopo è “migliorare la
qualità della vita residua, in modo che la vita dei pazienti possa essere il più possibile
confortevole e soddisfacente, con il minor livello di dipendenza possibile
indipendentemente dalla loro aspettativa di vita”.
Marcucci (2005), scrive che i principali interventi fisioterapici analizzati per i
pazienti senza possibilità di guarigione sono i metodi analgesici, gli interventi sui sintomi
psico-fisici come la depressione e lo stress, l’azione nelle complicazioni osteomioarticolari,
le risorse per il miglioramento della fatica, le tecniche di miglioramento della funzione
polmonare, la cura dei pazienti neurologici e le peculiarità delle cure pediatriche .
Per Pessini (2003), il beneficio da ricercare è quello di preservare la vita e alleviare i
sintomi della malattia, dando l’opportunità al paziente di mantenere l’indipendenza
funzionale, sempre che ciò sia possibile. Date queste premesse, implementare tecniche
fisioterapiche senza stabilire obiettivi chiari può creare incertezze nel professionista e
diminuire la fiducia del paziente.
La Fisioterapia Palliativa, in conclusione, ha come obiettivo principale il
miglioramento della qualità della vita dei pazienti senza possibilità di guarigione,
diminuendo i sintomi e promuovendo la loro indipendenza funzionale. Affinché
quest’obiettivo possa essere raggiunto, bisogna mantenere aperto un canale di
40
comunicazione tra il fisioterapista, il paziente, i famigliari e tutti gli altri professionisti
coinvolti.
Bisogna sempre ricordarsi che la priorità è il paziente e rispettare la sua volontà: a
volte ciò può significare semplicemente non fare alcun intervento.
6.2. La Nutrizione
Quando si parla di prendersi cura del paziente terminale nella sua totalità, si devono
considerare anche gli aspetti nutrizionali. Nelle Cure Palliative, come è stato detto diverse
volte, l’obiettivo principale è la qualità della vita e, in tale orientamento, la terapia
nutrizionale può aiutare nel generare sollievo da sintomi come, per esempio, la
costipazione, la diarrea, l’inappetenza, la xerostomia, la nausea.
Nelle Cure Palliative, secondo Humann et al. (2005, APUD Correa e Shibuya, 2007)
è comune che il paziente presenti inappetenza, disinteresse per i cibi e rifiuto verso quelli
per i quali prima aveva predilezione .
Per Fernández-Roldán (APUD Correa e Shibuya, 2007) il nutrizionista è uno dei
professionisti che può aiutare nell’evoluzione favorevole del paziente. Egli si pone
interrogativi concernenti la condotta dietoterapica. La discussione concerne questioni di
comunicazione con i famigliari e il paziente, valori morali ed etica professionale, poiché
esiste il dubbio se istituire una modalità di terapia nutrizionale consista in una cura basica o
in un trattamento medico.
Per molti professionisti che lavorano con le Cure Palliative, c’è un vero dilemma a
proposito dell’impiego della dieta per via orale, della terapia nutrizionale enterale o della
nutrizione parenterale ai pazienti. Comunque, la nutrizione, come ci ricordano Correa e
Shibuya (2007), possiede diversi significati, poiché dipende dall’individuo, dalle sue
abitudini alimentari, dalla provenienza e dalla religione. L’alimentazione può, tra l’altro,
coinvolgere affetto e vita.
L’amministrazione delle terapie enterale o parenterale, il momento in cui istituirle o
sospenderle e anche il tipo e la quantità da somministrare sono fattori che possono causare
molti dubbi nell’equipe. Nutrizionisti e medici si domandano se può esserci qualche
beneficio per il paziente, poiché è risaputo che le terapie nutrizionali aggressive non sono
efficaci e possono far divenire il trattamento più costoso e stressante.
D’accordo con Bozzetti et. al (1996, APUD Correa e Shibuya, 2007), per decidere
se somministrare una terapia nutrizionale al paziente, devono essere presi in considerazione
41
otto fattori, che sono: le condizioni cliniche del paziente, i suoi sintomi, l’aspettativa di vita,
lo stato nutrizionale, le condizioni e accettazioni dell’alimentazione per via orale, lo stato
psicologico, l’integrità del tratto gastrointestinale e la necessità di servizi speciali per offrigli
la dieta. Inoltre è consigliabile iniziare il trattamento e fare una rivalutazione
periodicamente.
Secondo l’American Dietetic Association (ADA), la nutrizione nei pazienti con una
malattia avanzata deve offrire: sostegno emotivo, piacere, aiutare nella diminuzione
dell’ansietà, aumentare l’autostima e l’indipendenza e, infine, permettere una maggiore
integrazione e comunicazione tra il malato e i suoi familiari. La prima scelta sarà di una
dieta per via orale, a patto che il tratto gastrointestinale sia integro e il paziente presenti
condizioni cliniche per realizzarla e, specialmente, abbia il desiderio di farla.
La decisione di mantenere o sospendere l’alimentazione e l’idratazione dei pazienti
che sono nelle Cure Palliative deve essere discussa, secondo Bachmann et. al (2001, APUD
Benarroz, 2009), con l’equipe tecnica multidisciplinare, con il paziente e con i loro familiari.
In alcuni casi, il paziente stesso decide di non mangiare più, e questa scelta dovrebbe essere
rispettata, dal punto di vista morale ed etico, dal medico, considerando i principi
dell’autonomia.
Sarebbe importante ricordare che, negli ultimi giorni di vita, come ci ricorda Oria
(s/anno), l’alimentazione e l’idratazione divengono sempre meno “indispensabili”, talvolta
controindicate; è importante mantenere inumidito e deterso il cavo orale, soprattutto se è il
malato stesso che ne esprime il bisogno e ne trae sollievo e, specialmente, ricordarsi che
nutrire e idratare sono gesti di cura, di affetto, ma “fare a tutti i costi”, quando non ha più
efficacia, implica inutili fatiche e incomprensioni.
Bachmann et. al (2001, apud Benarroz, 2009) ci ricordano che il supporto
nutrizionale è una cura di sostegno e s’inserisce, nella situazione palliativa, nella
responsabilità globale, con l’obiettivo di mantenere o recuperare il benessere del paziente.
E, come visto sopra, non sempre il cibo potrà promuovere conforto e benessere. Gli effetti
indesiderati delle tecniche di nutrizione, specialmente della nutrizione artificiale sono, a
volte, cause di peggioramento della qualità della vita, e danneggiano il vero obiettivo delle
Cure Palliative.
Non si raccomanda, quindi, di cominciare o mantenere una terapia nutrizionale
negli ultimi momenti della vita, visto che non offre alcun sollievo al paziente. La dieta deve
42
offrire prioritariamente conforto e l’essenziale, indipendentemente da qualsiasi condotta si
ritenga di porre in atto, è rispettare la volontà dell’individuo
43
7. LA CURA DELLA MENTE
Innanzitutto, desidero sottolineare il carattere didattico del paragrafo, poiché in
realtà, dal momento in cui si pensa all’essere umano come un essere integrale, completo e
complesso, non si può parlare della cura della mente senza la cura del corpo, e neanche
pensare al corpo senza prendere in considerazione la mente.
Ci sono vari studi che comprovano la relazione tra mente e corpo, e l’influenza che
uno può esercitare sull’altro. Dire che uno si sovrappone all’altro sarebbe riduttivo,
considerato che, dal mio punto di vista (anche in base alla mia esperienza lavorativa), non si
può affermare con totale sicurezza “chi viene prima” tra corpo e mente Ad esempio,
pensando al rapporto tra depressione e cancro in un malato: egli ha avuto il cancro perché
era depresso, e questo ha causato un indebolimento del suo sistema immunitario? O è
depresso come conseguenza di aver ricevuto la diagnosi di cancro? Può darsi che le due
cose siano successe insieme! L’importante, comunque, è lavorare su tutti gli aspetti, organici
e psicologici. La sapienza del nostro organismo è propria questa, le cose funzionano
insieme!
“La mente, attraverso pensieri, immagini, ricordi ed emozioni, può alterare la struttura
biochimica e quella del sistema nervoso” (Rossi, 1995)
L'organismo umano, come ogni sistema vivente, ha un modello organizzativo di reti
interconnesse che si aggiornano costantemente in un sistema di relazioni. Per Freud e Jung
(APUD Liberato e Macieira, 2008), il funzionamento delle istanze psichiche dipende dal
conscio e dall’inconscio che lo compongono e del rapporto di scambio tra questi e
l'ambiente. Secondo D'Andrea (2003) questo “dispositivo” raccoglie i messaggi sia da fuori
sia da dentro il proprio corpo e risponde loro fisicamente e psichicamente.
Secondo Müller (2005), le tecniche MENTE/CORPO migliorano la qualità della
vita e agiscono anche nello sviluppo della propria infermità. Sono considerate come un
approccio complementare ai trattamenti. Secondo Lawlis (1999) l’ipotesi secondo la quale
la sofferenza psicologica possa deprimere il sistema immunitario, in maniera forte
abbastanza da aumentare il rischio delle malattie fisiche è sempre più dimostrata dalle
ricerche. Le tecniche di rilassamento, visualizzazione, controllo dello stress, psicoterapia,
ecc, possono aumentare la resistenza immunologica alle malattie.
44
7.1. La visualizzazione
La visualizzazione o immagine mentale è un processo psicobiologico naturale
dell’uomo, che viene utilizzato nei processi di cura/guarigione fin dai tempi più remoti.
Secondo Carvalho (1994), ci sono informazioni sull’uso di questa tecnica in Cina, nel sec.
XVII a.c., in Egitto, in Tibet, in Grecia, in Africa, tra gli eschimesi e gli “indios”. Anche
Asclepio, Aristotele e Ippocrate utilizzavano la visualizzazione per la diagnosi e il
trattamento delle malattie. Inoltre, secondo Achterberg (1996), durante il Rinascimento, la
tecnica ha continuato ad essere collegata alla medicina, specialmente con i lavori di
Paracelso.
Il metodo della visualizzazione era utilizzato nei trattamenti che avevano come base
l’idea dell’unità tra mente, emozioni e fisico e, di conseguenza, la convinzione degli effetti
di una delle parti sulle altre. Il pensiero pre-cartesiano (che ai giorni d’oggi sembra essere
oggetto di rivalutazione) era, d’accordo con Capra (2006), invariabilmente olistico, e il
principio dell’inseparabilità della mente, del corpo e dello spirito nelle cure andavano
d’accordo con la visione del mondo dell’epoca.
L’uso delle tecniche di rilassamento e della visualizzazione può essere un buon
modo di prendersi cura del paziente e anche dei suoi familiari. L’obiettivo delle tecniche
dovrà essere sempre d’accordo con il desiderio, oppure con le difficoltà del paziente.
Secondo Rossi (1995), la mente, attraverso i pensieri, le immagini, le credenze, le
memorie e le emozioni, può alterare la struttura biochimica e il sistema nervoso.
Quest’alterazione è costante e involontaria.
Selye (Apud Müller, 2005) nelle sue ricerche riguardo allo stress, ha dimostrato la
relazione mente-corpo basata sull’analisi del meccanismo dello stress e del suo effetto sui
sistemi ormonale e immunitario.
E’ interessante notare che ricerche nordamericane hanno dimostrato che la mente
non sa distinguere tra un’immagine reale e una immaginata. Durante la pratica della
visualizzazione, il sistema immunitario induce l’organismo a reagire all’immagine mentale
come se fosse reale. Questo è dovuto al modo in cui i pensieri sono “processati” (Rossi,
1995)
Una questione interessante da considerare è stata segnalata da Simonton et. al
(1987). Essi rendono evidente l’importanza che hanno i pensieri e le emozioni del terapeuta
45
rispetto al paziente: questi danno la possibilità al paziente di sperimentare un mix
d’immagini positive e negative, le quali influenzano a loro volta il corpo a livello cellulare.
Con i pazienti terminali, la tecnica può essere di aiuto per diminuire l’ansietà, e il
dolore, può aiutarlo a dormire, e infine può aiutarlo a morire in maniera più serena e
tranquilla. E’ interessante considerare, un’altra volta, la “interezza” dell’essere umano,
poiché abbiamo parlato di “rilassamento” (corpo) e “visualizzazione” (mente.)
“Il corpo umano è un insieme le cui parti sono intrecciate. Esso possiede un elemento interno
di coesione, l’anima, cresce e diminuisce, rinasce in ogni momento fino alla morte. È una
grande parte organica dell’essere” (Volich 2000)
7.2. La musicoterapia
L’idea formale dell’uso terapeutico della musica è nata nel dopoguerra, quando è
stato scoperto che i dolori e le angosce di molti soldati feriti potevano migliorare con la
musica e così molti musicisti sono stati portati a suonare negli ambienti ospedalieri. (Sacks,
2007).
D’accordo con Souza (1998), la musica occupa il posto dell’emozione, e permette il
passaggio tra l’emozionale e il razionale, mobilitando contenuti con i quali la sola
comunicazione verbale non è sufficiente.
Secondo Gonçalves (2001), ci sono varie ricerche e articoli che dimostrano il
contributo della musica in medicina (di più, non solo della musica ma anche di altre attività
artistiche). La musica ci permette di raggiungere molti livelli della coscienza, agendo come
catalizzatore delle emozioni profonde, ed è in grado di dare supporto alla comunicazione,
sia verbale sia non verbale.
La musica può essere utilizzata a tal fine in diversi modi, come scrive Foxglove,
1999 (apud Seki e Galheigo, 2010). Il semplice atto di ascoltare musica può produrre
cambiamenti positivi nello stato d’animo, restaurare la pace e l’equilibrio emozionale,
propiziare il rilassamento e facilitare l’espressione di sentimenti come la tristezza, la rabbia e
il lutto.
Secondo Marcato (2002), l’impiego della musicoterapia facilita il ripristino dei ritmi
fondamentali dell’organismo e della loro sincronia: “È agente di omeostasi”.
La ricerca fatta da Seki e Galheigo (2010) dimostra che l’uso della musica nei
processi salute-malattia-cura può dare conforto e qualità di vita alla persona malata ed
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La psiconcologia, la psicosomatica e le cure palliative: il predersi cura nella totalità- tese

  • 1. UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO Facoltà di Medicina e Chirurgia Centro Universitario di Ricerca Virgilio Floriani X Master Universitario I livello Cure Palliative al Termine della Vita La Psiconcologia, la Psicosomatica e le Cure Palliative: il prendersi cura nella totalità A cura di MARIAN DE SOUZA Psicologa, psiconcologa Milano, 2010 1
  • 2. RINGRAZIAMENTI A tutti i colleghi, docenti e “tutors” del Master (compresi i “tutors” presso i luoghi di tirocinio) per la fiducia, per gli insegnamenti, per la pazienza con la “ragazza brasiliana”, e specialmente per i bei rapporti di amicizia che sono stati costruiti. Per i momenti di studio, ma anche per i momenti di “svago”, come pranzi, cene, compleanni. A tutta l’equipe della Casa VIDAS, per avermi dato l’opportunità di vedere nella pratica quella che è la premessa delle Cure Palliative, ossia, il prendersi cura del paziente in un modo globale, integrale. Un ringraziamento speciale a tutti quelli ai quali sono stata affiancata, per la professionalità, per le spiegazioni, ma specialmente per la loro disponibilità. Alla mia cara famiglia, sempre vicina, anche se lontana, semplicemente per il fatto di esistere e, specialmente, di esserci. Alla mia “nuova famiglia italiana”, per il modo in cui ha partecipato a questa mia esperienza. Al mio amore Stefano, ragione per cui sono qui in Italia, per il suo amore, la sua fiducia, per essere sempre presente, per il suo supporto in tutti i momenti, specialmente nei momenti in cui mi lasciavo dominare dell’ansietà e dell’insicurezza, e temevo di non riuscire a fare un buon lavoro. Per la pazienza, la comprensione e la presenza. 2
  • 3. Dedico questo lavoro alle mie care maestre Marisa Campio Müller e Maria Helena Souza (in memoria), esempi di vita e di visione di mondo e di soggetto. 3
  • 4. Dizem as escrituras sagradas: "Para tudo há o seu tempo. Há tempo para nascer e tempo para morrer". A morte e a vida não são contrárias. São irmãs. A "reverência pela vida" exige que sejamos sábios para permitir que a morte chegue quando a vida deseja ir. Cheguei a sugerir uma nova especialidade médica, simétrica à obstetrícia: a "morienterapia", o cuidado com os que estão morrendo. A missão da morienterapia seria cuidar da vida que se prepara para partir. Cuidar para que ela seja mansa, sem dores e cercada de amigos, longe de UTIs. Já encontrei a padroeira para essa nova especialidade: a "Pietà" de Michelangelo, com o Cristo morto nos seus braços. Nos braços daquela mãe o morrer deixa de causar medo. Morrer Feliz (Rubem Alves) Dicono le sacre scritture: "Per ogni cosa c’è il suo tempo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire”. La morte e la vita non sono incompatibili. Sono sorelle. La "riverenza per la vita" esige che noi siamo saggi per permettere che la morte arrivi quando la vita desidera andarsene. Ho persino suggerito una nuova specialità medica, simmetrica all’ostetricia: la “morienterapia”, la specialità di chi sta morendo. La missione della morienterapia sarebbe prendersi cura della vita che si prepara per partire. Prendersi cura perché essa sia docile, senza dolore e circondata di amici, lontano dalle UTI. Ho già trovato la patrona per questa nuova specialità: la “Pietà” di Michelangelo, con il Cristo morto tra le sue braccia. Tra le braccia di quella madre, il morire cessa di causare paura. Morire Felice (Rubem Alves) 4
  • 5. RIASSUNTO Il presente lavoro, in una prima parte espone brevi definizioni di alcuni concetti appartenenti alla Psiconcologia, alla Psicosomatica e alle Cure Palliative, cercando di dimostrare che cosa hanno in comune queste tre aree della salute, specialmente rispetto alla visione di essere umano e del “prendersi cura nella totalità”. In seguito, partendo dalla premessa della “cura totale” discorre a proposito dei vari aspetti che dovrebbero essere coinvolti nella cura, o nel prendersi cura (di). RESUMO O presente trabalho, em um primeiro momento, faz uma definição breve de alguns conceitos pertencentes à Psiconcologia, à Psicossomática e aos Cuidados Paliativos, procurando demonstrar o que estas três áreas da saúde têm em comum, especialmente no que diz respeito à visão de ser humano e ao “cuidar na totalidade”. Depois, partindo desta premissa de “cuidado total”, discorre acerca dos vários aspectos que deveriam estar envolvidos no cuidar, ou no ocupar-se (de)... ABSTRACT This paper, at first, made a brief definition of some concepts belonging to the Psychoncology, the Psychosomatic and the Palliative Care, seeking to demonstrate what these three areas of health have in common, especially with regard to the vision of human being and the "take care at all." Then, from this premise of "total care", talks about the various aspects that should be involved in to care, or in to take care (of)… 5
  • 6. SOMMARIO 1. INTRODUZIONE...............................................................................................................................6 2. OBIETTIVO:....................................................................................................................................11 3. METODOLOGIA:.............................................................................................................................11 4. LA PSICONCOLOGIA, LA PSICOSOMATICA E LE CURE PALLIATIVE: MOLTO IN COMUNE!..................12 4.1. ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA PSICONCOLOGIA:....................................................................................12 4.2. LA PSICOSOMATICA, LE SUE ORIGINI, CONCETTI E VISIONI:..........................................................................13 4.3. LE CURE PALLIATIVE, CONCETTO E IDEE...................................................................................................16 5. LA CURA NELLA TOTALITÀ..............................................................................................................19 5.1. IL PRENDERSI CURA E IL CURANTE...........................................................................................................20 http://www.fabiolisboa.com.br/2010/06/cuidar-de-si-para-poder-cuidar-do-outro.html.............20 5.2. UNA VISIONE OLISTICA DELLA SALUTE.....................................................................................................22 5.3. PRENDERSI CURA DI SE STESSO..............................................................................................................27 5.3.1. Perché prendersi cura di se stesso?.........................................................................................27 http://www.fabiolisboa.com.br/2010/06/cuidar-de-si-para-poder-cuidar-do-outro.html.............28 5.3.2. Come prendersi cura di se stesso?...........................................................................................33 5.4. PRENDENDOSI CURA DELL’ALTRO ..........................................................................................................37 6. LA CURA DEL CORPO......................................................................................................................39 6.1. LA FISIOTERAPIA.................................................................................................................................39 6.2. LA NUTRIZIONE..................................................................................................................................41 7. LA CURA DELLA MENTE..................................................................................................................44 7.1. LA VISUALIZZAZIONE............................................................................................................................45 7.2. LA MUSICOTERAPIA.............................................................................................................................46 7.3. IL REIKI.............................................................................................................................................49 8. LA CURA DELL’ANIMA / DELLO SPIRITO..........................................................................................51 9. GLI ASPETTI SOCIALI E CULTURALI DEL PRENDERSI CURA................................................................58 10. GLI ASPETTI ETICI DEL PRENDERSI CURA.......................................................................................61 11. CONSIDERAZIONI FINALI..............................................................................................................64 12. BIBLIOGRAFIA (IN ORDINE ALFABETICO).......................................................................................66 1. INTRODUZIONE La Medicina Psicosomatica, la Psicooncologia e le Cure Palliative sono tre aree di studio diverse le quali hanno, tuttavia, molto in comune. L’obiettivo principale di tutte e tre 6
  • 7. è quello di prendersi cura della persona nel suo insieme: il corpo, la mente, lo spirito, l'ambiente, la cultura, la società, vale a dire la persona come un essere indivisibile, complesso, che influenza ed è influenzato dall’ambiente. Queste scienze hanno sviluppato non solo un metodo, ma una linea di pensiero che ha come ruolo principale il “prendersi cura nella totalità”. Per “prendersi cura nella totalità”, si intende coinvolgere e prendere in considerazione tutti gli aspetti fisici, psicologici, sociali, culturali, ambientali e spirituali che riguardano non solo il soggetto curato, ma anche il curante. Questa visione del soggetto “totale” ci rimette a tempi molto remoti. Fin dai tempi dell’antica Grecia è nota l'influenza che gli aspetti emozionali esercitano sulla salute e sulla malattia ed anche il contrario, essendo impossibile guarire il corpo senza pensare all'anima. Socrate (Carmide, 156 e 157 b, apud Ramos, 1994), già diceva: “…ma tutti i mali e tutti i beni ... provengono al corpo e all'uomo intero dall'anima, dalla quale affluiscono come dalla testa agli occhi: bisogna dunque curare in primo luogo e soprattutto quella, se la testa e il resto del corpo devono stare bene. E l'anima, caro amico, è curata con certi incantamenti e questi incantamenti sono i bei discorsi, dai quali si genera nelle anime la saggezza; e, quando essa si è generata ed è presente, è facile ormai procurare la salute alla testa e al resto del corpo (...)”. Tuttavia, con il passare degli anni e con le nuove scoperte, soprattutto in campo scientifico, è nata, con Cartesio, una tendenza alla frammentazione: dividere per ridurre e così conoscere. Egli sviluppò, secondo Trombini & Baldoni (2001), una visione molto elaborata dell’essere umano, ritenendo che potesse essere studiato come una macchina, nel senso che il suo funzionamento corporeo segue le stesse leggi fisiche delle macchine e come tale può essere descritto e studiato. Quella che era una pratica di altre aree della conoscenza, si è trasferita anche nella medicina e l’uomo ha finito per essere visto come una macchina (una macchina perfetta, ma pur sempre una macchina). Nasce la dicotomia corpo-mente e inoltre il corpo a sua volta è suddiviso in varie parti più piccole. Quando si affronta il tema della salute e della malattia, in questa visione si tratta la malattia e non il malato. Questa tendenza meccanicista è diventata la base della scienza occidentale e abbiamo conservato l'eredità di questa visione fino ad oggi nella nostra formazione: le specialità mediche lo dimostrano. Tuttavia, poiché tutto accade seguendo dei cicli, c’è da qualche tempo un movimento che tende a “riscoprire” quella visione precedente dell’uomo, come un essere 7
  • 8. unico, completo e complesso. E questo per merito delle scienze, delle ricerche e delle nuove scoperte tecnologiche. Tale “riscoperta” non è venuta dal nulla e non è il risultato dell'immaginazione di qualche “ribelle” che è voluto andare contro il sistema. In verità, è accaduto che i ricercatori di vari campi della scienza e anche della medicina sono riusciti, con i loro studi, a dimostrare scientificamente quello che i saggi filosofi dell'antichità già affermavano. Le teorie di Einstein, che mettevano in discussione i concetti della fisica classica, come pure gli studi nell’area della Psiconeuroimmunologia dimostrano, fra l’altro, l'influenza non solo dell’ambiente sull'uomo, ma anche l'influenza dell’uomo stesso sull’ambiente. Inoltre, mostrano la possibilità di ogni persona di agire e influenzare direttamente il proprio sistema immunitario. E insieme a questi cambiamenti e sviluppi, è nata la Medicina Psicosomatica, che si è sviluppata nel tempo, cercando sempre di ricordare di essere un movimento in continua evoluzione e di essere composta da diversi rami che non si escludono l’uno con l’altro. La Psicosomatica vuole studiare e comprendere l'essere umano nel suo insieme, tenendo conto dei sistemi psichico, somatico, sociale e culturale. E, tra le aree della Psicosomatica c’è una “sub area” chiamata “Psiconcologia”. La Psiconcologia è, come suggerisce il nome, l’unione della Psiche (anima) con l’oncologia (cancro). Essa cerca la comprensione globale del paziente malato di cancro e dell’evoluzione della malattia, e vuole offrire supporto e comprensione ai famigliari e ai professionisti della salute che si occupano della malattia. La Psiconcologia considera una visione olistica dell’uomo, ossia considera tutti gli aspetti che lo circondano, di carattere fisico, emozionale, sociale o culturale. Una questione che richiama l'attenzione quando ci riferiamo alla cura dei pazienti oncologici, riguarda le loro reazioni di fronte alla diagnosi e alla tipologia di trattamento. Si può tranquillamente fare un'associazione tra i modi di reagire e gli stadi per i quali passano i pazienti terminali, descritti da Klüber Ross nel suo libro “La morte e il Morire” (2000): negazione, rabbia, patteggiamento, depressione e accettazione, ricordandosi che non necessariamente si manifestano in quest’ordine. Questo ci fa pensare, tra l’altro, a quanto il cancro ancora è culturalmente e inconsciamente associato alle domande sulla morte. Conviene tener conto che la dimensione della cura del paziente oncologico si caratterizza per la preponderanza del prendersi cura sul guarire: per questo si può affermare 8
  • 9. che tale area si avvicini ad un’altra area della salute, sulla quale discorreremo nel presente lavoro, le Cure Palliative. Le Cure Palliative si occupano in maniera attiva e totale dei pazienti colpiti da una malattia che non risponde più a trattamenti specifici e la cui diretta conseguenza è la morte. Non si può parlare di morte senza considerare che essa è ancora oggi considerata un tabù e un tema di cui molti non vogliono nemmeno parlare. D’accordo con Moritz (2005), la cultura occidentale moderna considera la morte un tema socialmente evitato e politicamente scorretto. Sarebbe interessante considerare che, fino a poco tempo fa, la morte era vista come parte della vita, come la fine di un ciclo. Nelle società moderne però, come scrive Elias (2001), la morte é vista come uno dei più grandi pericoli bio-psico-sociali nella vita degli individui. In altri momenti della civilizzazione, come nell’età Medioevale, la morte era molto meno nascosta, era più presente e famigliare, anche se non più pacifica. Oggi, poco si parla di morte perché è un’evidenza dei nostri limiti, della nostra fragilità poiché condizione umana. E così, cerchiamo di allontanarla il più possibile, isolando i malati negli ospedali, oppure cercando di “spostarla”, utilizzando di tutti i mezzi possibili per prolungare la vita di chi ci è caro, senza nemmeno chiedergli se è veramente questo il suo desiderio. Quello che ci avvicina di più all’esperienza della terminalità, che non ci permette di “negare” l’esistenza di un fine della vita, sono i moribondi, le persone considerate terminali. Perché è così difficile? Forse perché affrontare la morte dell’altro è rendersi conto della nostra terminalità. “ (...) Si potrebbe argomentare che se l’esperienza della propria morte è impossibile, possiamo almeno avere l’esperienza della morte dell’altro. Intanto anche tal esperienza è impossibile; al massimo possiamo avere l’esperienza degli ultimi momenti di vita dell’altro, ma non possiamo avere l’esperienza del suo morire.” (Garcia Roza, apud Ceccim e Carvalho, 1997). Tutto questo causa un’enorme sofferenza, sia per il malato sia per quelli che lo circondano. Secondo Festugato (2007), “Evitare la verità della morte non fa altro che aumentare la paura e l’insicurezza”. Per fortuna, però, è nata, tempo addietro, un’area della 9
  • 10. salute che si occupa delle cure dei malati terminali, senza dimenticare di considerarli come esseri umani, con pensieri, sentimenti, sogni e desideri: le Cure Palliative. Le Cure Palliative hanno come obiettivo principale dare dignità e qualità di vita al malato e, come la Psicosomatica, la Psiconcologia e anche la Psiconeuroimmunologia, considerano tutti gli aspetti del soggetto: fisici, psicologici, spirituali e sociali. Le Cure Palliative, la Psicosomatica e la Psiconcologia si occupano del prendersi cura del soggetto nella sua totalità, ossia prendendo in considerazione gli aspetti fisici, psichici, sociali, spirituali ed etici. E cosa significa veramente prendersi cura nella totalità? Questo sarà il tema sul quale discorreremo nel presente lavoro. 10
  • 11. 2. OBIETTIVO: L’obiettivo di questo lavoro è, tramite un ripasso della letteratura, mostrare le somiglianze tra alcuni concetti della Psicosomatica, della Psicooncologia, delle Cure Palliative e, in breve, anche della Psiconeuroimmunologia, specialmente rispetto alla visione di essere umano e al “prendersi cura nella totalità”, per dopo fare una breve descrizione di quello che dovrebbe essere considerato questo “prendersi cura nella totalità”, ossia la cura prendendo in considerazione gli aspetti fisici, emozionali, sociali, culturali, spirituali ed etici. 3. METODOLOGIA: Questo lavoro è il risultato di una breve ricerca bibliografica di autori riconosciuti nell’area della Psicooncologia, della Psicosomatica, della Psiconeuroimmunologia e delle Cure Palliative, attraverso la consultazione di libri delle aree sopra citate e anche di banche dati elettroniche, come Medline, Scielo, Lilacs e Bireme. 11
  • 12. 4. LA PSICONCOLOGIA, LA PSICOSOMATICA E LE CURE PALLIATIVE: MOLTO IN COMUNE! La domanda su cosa hanno in comune la Psiconcologia, la Psicosomatica e le Cure Palliative in un certo modo ha già avuto una risposta nell’introduzione del presente lavoro: tutte e tre considerano la persona come un insieme e di conseguenza ritengono sia necessario prendersene cura in un modo complesso e completo, senza dimenticare gli aspetti fisici, sociali, culturali, ambientali e spirituali. Vorrei in questo capitolo, però, approfondire maggiormente i concetti che si riferiscono a queste aree della conoscenza, discorrendo circa la visione di soggetto, di salute e di malattia. 4.1. Alcune considerazioni sulla Psiconcologia: La Psiconcologia è un’area che cerca di studiare le due dimensioni psicologiche del cancro che sono, secondo Holland (1989, apud Angerami-Camon 2000): l’impatto del cancro sulla funzione psichica del paziente e della sua famiglia e sui professionisti della salute che si prendono cura di lui e il ruolo che le variabili psicologiche e comportamentali possono avere nel rischio del cancro e nella sopravvivenza a questo. Prendendo in considerazione l’associazione tra la Psiconcologia e le Cure Palliative, conviene ricordarsi che la dimensione della cura del paziente oncologico si caratterizza per la preponderanza del prendersi cura sul guarire; esigendo attitudini umane, e non solo analitiche, comprensive ed essenzialmente scientifiche. Vedere non solo la malattia, ma quello che c’è di sano nel paziente. La Psiconcologia ha una visione olistica dell’uomo e considera tutti gli aspetti, di carattere fisico, emozionale, sociale o culturale, che lo circondano. Questi aspetti interagiscono tra loro e appaiono nelle risposte dei pazienti, dei familiari e dell’equipe. Uno dei principali obiettivi della Psiconcologia e delle Cure Palliative, è migliorare la qualità della vita di tutte le persone coinvolte nel processo della malattia. Bisogna, secondo Figueiredo (2008), capire che prendersi cura delle emozioni causate dall’ammalarsi è importante per il trattamento e il mantenimento della qualità della vita, sia per il paziente sia per la famiglia sia per il curante. L’uomo impara con le crisi che 12
  • 13. affronta e comprendere questo può trasformare la sofferenza in esperienza di vita, ed è in questa esperienza che abita lo sviluppo intimo, individuale e singolare di ogni persona. La sfida che sempre rimane è quella di alleare competenza tecnico-scientifica con umanismo, espressi nell’attitudine di prendersi cura con professionalità, tenerezza, sensibilità ed etica. Il rispetto all’individualità del soggetto deve essere sempre preso in considerazione. E’ interessante fare qualche considerazione sulla Psiconcologia e sulle cure domiciliari nelle Cure Palliative. Per discorrere circa quest’argomento, prendo come base di riferimento un testo che si trova nel libro “Temas em Psico-Oncologia” (2008), intitolato “A Psico-Oncologia e o Atendimento Domiciliar em Cuidados Paliativos”. Già nell’inizio del testo, è possibile percepire la somiglianza tra il significato di “cura” nelle Cure Palliative e nella Psiconcologia: “La dimensione dell’attenzione verso il paziente oncologico si caratterizza per la preponderanza del prendersi cura sul guarire; esige attitudini umane, non solo analitiche, comprensibili ed essenzialmente scientifiche; vedere non solo la malattia, ma quello che c’è di sano nel paziente” (Figueiredo, 2008.) D’accordo con gli autori, la nostra cultura è abituata a vedere la malattia come un castigo e la morte come una fine tragica, crudele, che ruba la vita. Demistificare questi concetti è un compito imprescindibile, perché sia la malattia sia la morte fanno parte del ciclo della vita. La malattia rompe l’equilibrio omeostatico tra le istanze biologiche, psicologiche, sociali, culturali e spirituali. È come il nostro organismo si mostra quando qualcosa è in disequilibrio. La morte è la fine del ciclo della vita, è quella che chiude la vita. E’ necessaria, e molte volte può essere vista come l’ultimo riposo dopo una grande sofferenza. Il fermarsi per pochi minuti, tutti i giorni, a pensare alla nostra mortalità è consigliato, come un modo di ripensare alla vita e al modo in cui la viviamo, giorno dopo giorno. 4.2. La Psicosomatica, le sue origini, concetti e visioni: La Psicosomatica può essere considerata, d’accordo con Trombini & Baldoni (2001), la scienza che si propone di studiare e di aiutare l’essere umano nei suoi aspetti 13
  • 14. psicologici e in quelli corporei, intendendo per “aspetti” tutto ciò che ci appare, quello che rappresentiamo a noi stessi, non una realtà concreta. Il termine “psicosomatico”, nonostante si riferisca a concetti molto antichi, che si ritrovano in tutte le culture umane, è di origine piuttosto recente. Secondo Trombini & Baldoni (2001), fu coniato nel 1818 dal medico psicologo Heindroth, che sentì il bisogno di riunire i concetti di mente e di corpo per reagire alla eccessiva tendenza alla separazione che stava riscontrando nella cultura scientifica dell’epoca. Pochi anni dopo, nel 1822, il medico organicista Jacobi (APUD Tombini e Bardoni, 2001), propose il termine “somato-psichico” per indicare l’influenza delle esperienze corporee sull’attività psichica. In entrambi i casi si avvertiva l’esigenza di riunire quello che era stato separato, ma nel fare questo si favoriva inevitabilmente uno dei due poli del problema: quello psichico o quello somatico. Con gli anni la parola “psicosomatico” è stata utilizzata nei contesti più disparati divenendo uno di quei concetti che hanno diversi significati: • può riferirsi alla convinzione o al sospetto che un disturbo corporeo abbia un’origine psicologica. Con l’appellativo di malattia Psicosomatica si è indicato per lungo tempo una categoria di patologie mediche che si riteneva avessero una causa psicologica per distinguerle dalle altre in cui l’origine era considerata completamente organica. In questo modo, psicosomatico diventa sinonimo di psicogeno, e un conflitto emotivo può essere considerato la causa della malattia allo stesso modo in cui un batterio può provocare un’infezione. Questo concetto, basato su una concezione del rapporto causa- effetto di tipo lineare, anche se molto semplicistico è ancora oggi utilizzato da molti medici e psicologi (Trombini & Baldoni, 2001); • può indicare in un senso più ampio, l’influenza delle emozioni e dello stress sui processi corporei. In questo caso si parla anche dei sintomi psicofisiologici. Gli aspetti psicologici sono studiati in relazione a quelli corporei e valutati, assieme ad altri di natura sociale o ambientale, all’interno di una prospettiva multifattoriale, anche se sostanzialmente ancora legata a una concezione causale di tipo lineare; • può, al contrario, richiamarsi alle influenze che i processi corporei, sani o patologici, possono avere sulla psiche. Una malattia cronica, ad esempio, può interferire notevolmente con la qualità della vita e favorire l’insorgenza di disturbi emotivi. In questo caso, il termine più appropriato non sarebbe psicosomatico ma somatopsichico; 14
  • 15. • può indicare quelle condizioni chimiche in cui la funzione di un organo o di un apparato corporeo è alterata, ma non si riesce a individuare una lesione organica che giustifichi la sintomatologia. Si parla allora di sindrome funzionale o disturbo di somatizzazione, presumendo, in modo generico, che la condizione sia conseguenza di una sofferenza emotiva o dello stress; • può essere utilizzato per definire un particolare tipo di personalità che predispone allo sviluppo di malattie: la personalità Psicosomatica, come per esempio i pazienti con caratteristiche di alessitimia, i quali manifestano un’evidente difficoltà a riconoscere ed esprimere le proprie emozioni in termine psicologici e, di conseguenza, tendono a viverle sul piano somatico; • può alludere al significato comunicativo che può assumere un sintomo corporeo, oppure indicare una modalità di relazione caratteristica di una famiglia all’interno della quale uno o più membri sono predisposti ad ammalarsi simaticamente (le famiglie psicosomatiche); • può infine descrivere una modalità di approccio in base alla quale i problemi umani sono studiati considerando livelli e sistemi differenti di tipo biologico, psicologico, sociale e ambientale. L’esempio più importante è il modello biopsicosociale proposto da Engel, che è considerato uno degli orientamenti più influenti della Psicosomatica moderna. D’accordo con Mello Filho (1992), l’evoluzione della Psicosomatica si è sviluppata in fasi. La prima, chiamata iniziale o psicanalitica, influenzata delle teorie psicoanalitiche, ha concentrato il suo interesse sugli studi dell’origine incosciente delle malattie, delle teorie dalla regressione e dei guadagni secondari della malattia. La seconda, conosciuta anche come intermedia, influenzata dal modello behaviorista, ha valorizzato le ricerche sia negli esseri umani sia negli animali, lasciandoci così un grande contributo per gli studi dello stress. La terza fase, chiamata attuale oppure multidisciplinare, ha valorizzato il sociale, l’interazione, la connessione e l’interconnessione tra i professionisti delle diverse aree della salute. Non tratterò tutte le fasi e le correnti (per questo rimando al lavoro “Psicossomática e Câncer”, da me sviluppato), ma mi fermerò sul modello della “Psicosomatica Moderna”, il quale risulta dall’incontro delle idee delle Cure Palliative. Engel, il quale ha sviluppato un concetto unificato di salute e malattia, che ha chiamato modello biopsicosociale, è uno dei precursori della disciplina chiamata 15
  • 16. “Psicosomatica Moderna”. Come sostengono Trombini e Baldoni (2001), la Psicosomatica moderna tende infatti a seguire il modello da lui proposto, nel senso che si occupa dello studio dei problemi umani considerando le relazioni non solo tra sistemi diversi (genetico, anatomico, neurologico, endocrinologico, immunologico, psicologico, sociale), ma anche tra livelli diversi, dal subcellulare all’ambientale. In questo modo, una malattia può essere concepita come il risultato dell’interazione di più fattori che possono essere valutati su vari piani in relazione tra loro. Oggi, come evidenzia Vasconcellos (1998, apud Silva e Müller, 2007), i segmenti più avanzati di questo movimento dell’approccio psicosomatico esigono che il benessere non sia solo biopsicosociale ma che coinvolga anche le dimensioni spirituali ed ecologiche. Per finire, rilevo la questione portata da Hulak (2003), il quale scrive che dai greci ai giorni d’oggi, la Psicosomatica ha avuto quattro correnti: la psicodinamica, la biologica, la culturale e l’olistica, e che quest’ultima si divide tra le influenze mistiche e alternative, e la visione più seguita di una medicina globale, integrata e interdisciplinare. 4.3. Le Cure Palliative, concetto e idee. “Le Cure Palliative sono le cure attive e globali, che hanno per obiettivo il miglioramento della qualità della vita, quando aumentare o salvaguardare la quantità della vita non è più possibile o attuabile, e si propongono di intervenire sulle dimensioni fisiche, psicologiche, sociali e spirituali della sofferenza. Le Cure Palliative intervengono nelle patologie inguaribili a vari livelli, quello dell’ospedale, quello ambulatoriale, dell’assistenza domiciliare e dell’hospice” (Saunders, 2008.) Nella definizione dell’OMS, le Cure Palliative sono il prendersi cura attivo e globale del paziente la cui malattia non risponde più alle cure specifiche. E' fondamentale il controllo del dolore e degli altri sintomi unitamente all'attenzione ai problemi psicologici, sociali e spirituali. In altre parole, l'obiettivo delle Cure Palliative è di ottenere la miglior qualità di vita per il paziente e i suoi familiari. Conviene ricordare che molti aspetti delle Cure Palliative sono applicabili precocemente, insieme alle terapie specifiche. Partendo del presupposto che l’obiettivo principale delle Cure Palliative è la qualità della vita, Esslinger (2004) scrive che in questo tipo di paradigma, la morte è vista come 16
  • 17. parte naturale della vita e che, per questo, può verificarsi nel tempo giusto (ortotanasia). In questo paradigma, si riprende l’importanza della relazione équipe- paziente. Ancora secondo l’OMS (APUD Zaninetta, 2008) le Cure Palliative affermano la vita e vedono il morire come un processo naturale, né da anticipare né da posporre e offrono un sistema di supporto che aiuti il paziente a vivere il più attivamente possibile fino alla morte e un aiuto alla famiglia per adeguarsi alla malattia del paziente e per elaborare correttamente il lutto. Nelle parole di Barbosa (2003), le Cure Palliative: • affermano la vita (e la qualità della vita) e considerano la morte come un processo naturale, senza anticipare o ritardare intenzionalmente la morte; • offrono ai malati il sollievo dal dolore e da altri sintomi fastidiosi, integrano gli aspetti psicologici, sociali e spirituali della cura, in modo che i malati possano accettare la loro morte nel modo più completo e costruttivo possibile; • offrono un sistema di sostegno che aiuta i malati a vivere in modo più attivo e creativo possibile; • offrono anche un supporto per aiutare le famiglie ad adattarsi durante la malattia e il lutto. Tenendo conto di tutti questi parametri, si può affermare, come dice Oliveira (2010), che le Cure Palliative dipendono di un approccio multidisciplinare per produrre un’assistenza armonica e convergente verso l’individuo senza possibilità di guarigione e verso la sua famiglia. Date tali premesse è chiaro che il centro dell’attenzione cessa di essere la guarigione dalla malattia e diventa l’individuo che è visto come un essere biografico, complesso nelle sue dimensioni fisiche, psichiche e spirituali, attivo e con diritto all’informazione e all’autonomia piena per le proprie decisioni rispetto al trattamento. A questo si aggiunge l’attenzione dedicata alla sua famiglia e alla ricerca dell’eccellenza nel controllo dei sintomi. Mccoughlan (2006) parla dell’importanza di aver chiare le caratteristiche descritte nella definizione di Cure Palliative dell’OMS. Secondo l’autrice, nella letteratura delle Cure Palliative è comune la descrizione di tali caratteristiche, incluse la necessità di provvedere al sollievo del dolore e degli altri sintomi, di cercare di aiutare qualcuno che si trova in un profondo sconforto psicosociale e offrirgli supporto spirituale. E cosa questo può veramente significare? Come minimo, ci dice Mccoughlan, significa l’abilità di essere 17
  • 18. presente in tempi di disperazione, rabbia, allegria e tristezza. Sentire le nostre disperazioni, rabbia, allegria e tristezza, anche davanti alla paura di come questo ci può ferire, sapere che non si può risolvere un problema e rimanere ancora con quella persona, essere capace di dare e ricevere amore, essere capace di gridare quando le cose sono tristi e difficili da sopportare e sapere che coloro con i quali lavoriamo accettano la nostra tristezza. E’ essere capace di tornare indietro e fare tutto un’altra volta. “Tu sei importante perché sei tu e tu sei importante fino alla fine della tua vita. Faremo tutto il possibile non solo per aiutarti a morire in pace, ma anche a vivere fino a quando morirai” (Cicely Saunders, 2008) 18
  • 19. 5. LA CURA NELLA TOTALITÀ “Tutto quello che esiste e vive ha necessità di essere curato per continuare ad esistere. Una pianta, un bambino, un anziano, il pianeta Terra. Tutto quello che vive, ha necessità di essere alimentato. Essendo così, l’accuratezza, l’essenza della vita umana, ha necessità di essere alimentata con continuità. L’accuratezza vive dell’amore, della tenerezza, della carezza e della convivenza” (Boff, 1999) Secondo Colmegna (2010), parlare di cura significa assumersi la responsabilità e la passione del curarsi, dello star bene nel migliore dei modi possibili, dell’interesse di reciprocità. A giudizio dell’autore, cura è soprattutto linguaggio interiore, sensibilità motivata in cui l’altro non è estraneo, ma domanda di esserci, di contare, e chiede aiuto. Rohden (apud Fragoso, 2006), scrive che la salute deve essere capita e affrontata da parte di chi cura attraverso una prospettiva bio – psico – socio – spirituale. L’essere umano deve essere capito come un essere UNO e indivisibile, concezione questa che viene incontro alla nozione d’individuo (processo d’individuazione - ESSERE integrale). Come indica la radice della parola individuo (– in – dividuo, divisibile), l’essere umano non è divisibile, è un individuo (in-divisibile), in cui il tutto è diverso della somma delle parti. Conviene quindi rilevare che la visione di essere umano cui mi riferisco nel presente lavoro è giustamente questa, di un essere uno, totale, indivisibile. Sono d’accordo con la teoria sistemica, secondo la quale il tutto è più che la somma delle parti, e una piccola particella di noi contiene tutto il nostro “essere”. Parafrasando Schrodinger1 , “per quanto inconcepibile possa sembrare al nostro senso comune, noi siamo in tutti gli altri esseri, e anche loro sono in noi, in modo che la vita che ognuno di noi vive non è solo una porzione dell’esistenza totale, ma in un certo senso, è il tutto, è la totalità”. In base a tale premessa il presente capitolo, è stato diviso in sottotitoli specialmente per un carattere didattico. Credo, innanzitutto, che quando riusciamo a “prenderci cura” di una di queste “parti”, questo si rifletterà e influenzerà anche nelle altre, poiché è questo “tutto” che crea un’armonia e ci fa essere uno, con noi stessi, con l’altro e con l’universo. 1 http://www.sistenet.com/futuro/documentos/80htm. 19
  • 20. 5.1. Il prendersi cura e il curante Aver cura di qualcuno o di qualcosa è un sentimento inerente all’essere umano ossia, è connaturato alla specie umana, fa parte della lotta per la sopravvivenza e percorre tutta l’umanità” (Costenaro et al, 2002) Il Ministero della Sanità del Brasile (2008) definisce prendersi cura (cuidado) come attenzione, precauzione, cautela, dedicarsi, affetto, incarico e responsabilità. Prendersi cura è servire, è offrire all’altro in forma di servizio, il risultato dei propri talenti, preparazione e scelte; è praticare la cura. Prendersi cura è anche percepire l’altra persona come ella è, e come si mostra, i suoi gesti, le sue parole, il suo dolore e la sua limitazione. Percependo questo, il curante ha le condizioni per prestare la cura in maniera personalizzata, a partire delle sue idee, conoscenze e creatività, prendendo in considerazione le particolarità e i bisogni della persona che deve essere curata. Questo prendersi cura deve andare oltre alle cure del corpo fisico, perché oltre alla sofferenza fisica derivante da una malattia o da una limitazione, si deve tener conto anche delle questioni emotive, della storia di vita, dei sentimenti e delle emozioni del paziente. Per Laffite2 prendersi cura è un atto di preservazione, imparato attraverso le esperienze vissute ed i saperi sviluppati dalla cultura della quale facciamo parte. Quest’atto si traduce in determinate attitudini e comportamenti: attenzione, zelo, rispetto dei limiti, cautela, nei confronti propri e dell’altro. Nascimento & Erdmann (2009), attraverso uno studio realizzato in un’unità di terapia intensiva di un ospedale universitario dello stato di Santa Catarina, in Brasile, hanno cercato di comprendere le diverse dimensioni del prendersi cura, prendendo come punto di riferimento la “teoria transpersonale della cura”. La “Teoria Transpersonale della Cura” è stata sviluppata da Watson (APUD Schossler e Crossetti, 2008) e il suo scopo è, attraverso la coscienza intenzionale, cercare di realizzare la ricostituzione dell’essere curato, che significa ottenere un nuovo modello in cui ci sia l’unità della mente e dello spirito. In questo modello l’intenzione è comprendere l’essere umano, con l’obiettivo di proteggerlo, valorizzarlo e preservare la sua dignità. 2 http://www.fabiolisboa.com.br/2010/06/cuidar-de-si-para-poder-cuidar-do-outro.html. 20
  • 21. Da questo studio sviluppato da Nascimento ed Erdmann (2009), sono emerse diciassette categorie del curare, che sono: la cura di se stesso, la cura come valore individuale, la cura professionista versus la cura comune, la cura come relazione di aiuto, la cura affettiva, la cura umanizzata, la cura come attitudine, la cura come pratica d’assistenza, la cura educativa, la cura come relazione dialogica, la cura alleata alla tecnologia, la cura amorosa, la cura interattiva, la non-cura, l’ambientazione della cura, la cura come essenza della professione e la finalità della cura. E’ interessante rilevare che, d’accordo con Schossler e Crossetti (2008) “La cura transpersonale si è strutturata nel processo clinical caritas, dove caritas, con riferimento alla sua origine latina, significa trattare con cura, con affetto, nutrire, dare un’attenzione speciale, essere sensibile, dare, se non amore, almeno attenzione ”. “Il processo clinical caritas è nato dalla ricerca di fare in modo che la cura infermieristica trascendesse la diagnosi medica, la malattia o l’ambiente in cui questo (il paziente) si trova, per non limitarsi ad un corpo fisico o alla malattia, avendo la necessità di andare oltre, di trascendere la materia, di cercare la plenitudine della cura” (Favero et. al, 2009) In questa teoria, il momento del prendersi cura, secondo Schossler at. al (2008) é considerato come un campo esistenziale ed energetico, un punto decisivo, una chiamata per la più elevata e profonda coscienza e intenzionalità, una scelta autentica di prendersi cura e vivere. Da questo si può capire, quindi, secondo Favero et. al (2009), che il processo clinical caritas si accosta al paziente con delicatezza, sensibilità, gli dà un’attenzione speciale e accurata. Prendersi cura dell’altro nella plenitudine dovrebbe essere il fattore principale dell’equipe di Cure Palliative. “Il prendersi cura, il prendersi cura di se stessi, la cura della vita, la cura della mortalità, è nell’origine dell’esistenza, è inerente all’essere umano; è un modo di essere sempre presente, essenziale; le nostre azioni di ogni giorno dimostrano le nostre preoccupazioni e zelo per la vita e per la morte. In questo senso, si comprende che l’arte del prendersi cura è un atteggiamento di impegno umanitario” (Carvalho, 2004) 21
  • 22. Costenaro e Lacerda (2001) definiscono il curante come “ogni persona che sperimenta l’atto di curare ed esprime questa conoscenza in diversi momenti e situazioni, realizzandolo in diversi individui e in distinte occasioni della propria vita”. Affermano anche che, per le infermiere, il prendersi cura è l’essenza del loro esercizio professionale, perché lo vivono nelle loro pratiche di tutti i giorni. Tuttavia non solo le infermiere ma anche gli altri membri dell’équipe sanitaria devono essere considerati curanti, poiché sviluppano un sistema di cura multidisciplinare. Una questione importante a proposito del curante è quella ricordata da Watson (apud Vieira et. al, 2007). L’autore, nella teoria Transpersonale, parla dell’importanza che ha per il curante sentire l’emozione come si presenta, perché è solo attraverso la coscienza dei propri sentimenti che la persona può interagire in modo sensibile e reale, diventando così autentica, e stimolando, in questo incontro di cura, una relazione di aiuto-fiducia. A mio giudizio tale affermazione, nonostante si riferisca in origine solamente all’area infermieristica, è valida per tutti i soggetti definibili come curanti. Costenaro e Lacerda (2001, apud Pilar et al, 2002), sottolineano che il curante deve possedere caratteristiche quali la capacità di amare quello che fa, credere che ciò che fa funzionerà e che deve aggiungere a tali caratteristiche dosi di speranza, affetto, donazione di sé e lavoro in equipe. Entrando nell’ambito delle Cure Palliative, Silva e Sudigursky (2008) scrivono che il processo di cura è “inerente alla persona umana e che, per questo, abbiamo bisogno di curare ed essere curati durante il nostro ciclo vitale e che, alla fine di questo ciclo, si pone la necessità di una cura peculiare, impregnata della valorizzazione dell’essere. Questa è l’essenza delle Cure Palliative” 5.2. Una visione olistica della salute Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, “la salute è uno stato di benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza di malattia o infermità, è un diritto umano fondamentale". Questo concetto, d’accordo con Mello Filho (2002), dimostra, innanzitutto, che la “visione Psicosomatica” ha conquistato uno spazio importante tra le pratiche mediche. Morin (2002, apud Silva e Müller, 2007), non solo ribadisce tale concetto ma va oltre, affermando che l’uomo è uno in relazione al suo ecosistema, influenzandolo ed 22
  • 23. essendo influenzato da esso. Bisogna quindi rispettare la singolarità dell’uomo, considerando simultaneamente i suoi processi biologici, sociali e culturali. Marchioro (2007), scrive che “oggi siamo di fronte ad istanze che postulano una visione dell’essere umano come “identità a più dimensioni”. Pertanto, in quanto tale, esso deve essere interpretato correttamente da coloro che si occupano della salute e della guarigione”. Secondo l’autore, è necessario un rapporto interdisciplinare il quale, per diventare armonico, dovrebbe essere finalizzato alle dimensioni corporea, psichica e spirituale dell’uomo. La salute, perciò dovrebbe essere riferita almeno a tre aree specialistiche interagenti. “(…) perché il problema della persona non è tanto la salute e la malattia quanto quello di trovare una risposta sensata alle dimensioni costitutive dell’esistenza (Marchioro, 2007) Questa visione olistica della salute, come già visto nelle pagine precedenti, non è nuova, al contrario, ha le sue radici culturali (come ci ricorda Corgna, 2008) intrecciate alla nascita della medicina a oriente e a occidente. Secondo l’autore, gli antichi medici cinesi e greci vedevano l’organismo umano come un intero, la cui salute era data dall’equilibrio, che Ippocrate e Galeno chiamavano eucrasia (buona mescolanza), mentre la malattia era disequilibrio, discrasia (cattiva mescolanza). La medicina attuale, come ci ricordano Trombini e Baldoni (2001), ha cominciato a rendersi conto che il benessere non dipende solo dal fatto che vi siano o no segnali fisici di una malattia. La vera salute, sia per il malato sia per chi lo cura, deriva dall’equilibrio tra una visione psicologica e una corporea. La pratica clinica, infatti, dimostra che i pazienti, comunque siano classificati i loro disturbi, esprimono una sofferenza che è allo stesso tempo fisica ed emotiva. Di conseguenza oggi si cerca di “recuperare la voce del malato”. “Il principio fondamentale della filosofia olistica è che la malattia si presenta quando tensioni emozionali, psicologiche o spirituali diventano eccessive, causando così una debolezza del corpo. In altre parole, il corpo riflette o manifesta le lotte, le battaglie più profonde della vita della persona. Più un individuo diviene incapace di sopportare le tensioni emozionali, psicologiche o spirituali, più diviene ricettivo o suscettibile ai virus, ai batteri o ai germi presenti nell’atmosfera” (Myss, 1997.) 23
  • 24. Una scienza abbastanza attuale che parla di questa visione integrata della Medicina è conosciuta come Psiconeuroimmunologia (detta anche Psiconeuroendocrinoimmunologia o semplicemente Psicoimmunologia, abbreviata in Pnei). Secondo Tschuschke (2008), è una disciplina relativamente recente che studia le interazioni esistenti fra l’esperienza soggettiva (la psiche) e il sistema immunitario dell’organismo umano. “Sia la psicoimmunologia sia la Psiconeuroimmunologia sono dunque utilizzate come sinonimi per definire un ambito che prende in considerazione le analogie e le reciproche interazioni fra il sistema nervoso centrale (SNC), inclusi tutti gli aspetti comportamentali e l’attività psichica, e la funzione immunitaria. Tali interazioni possono avvenire direttamente o indirettamente (…) In senso lato, dunque, la psicoimmunologia può essere intesa, alla lettera, come tutto ciò che coinvolge l’intero organismo, dal momento che la maggior parte delle cellule immunitarie ha accesso a tutti gli organi e a tutte le cellule del corpo, compreso lo SNC. Ciò influisce sul sistema nervoso periferico che, a sua volta, modula la funzione di vari organi” (Biondi e Kotzalidis, 1994, APUD Tschuschke 2008) Corgna (2008), scrive che la Pnei parla di medicina integrata, che significa guardare l’essere umano nella sua interezza, mente e corpo, e proporre un “regime” che unifichi le tecniche per la mente (psicoterapia, tecniche antistress e meditative) a quelle fisiche, all’alimentazione, al rispetto dei ritmi biologici. In questo contesto, terapie antiche come l’agopuntura, l’omeopatia e la fitoterapia, possono essere utilmente integrate in un modello che non esclude l’uso dei farmaci di sintesi, ma che lo riconduce a un’appropriatezza molte volte dimenticata. “Il senso della sofferenza umana, infatti, non si scopre ricercando unicamente l’alterazione di una cellula o di un tessuto, ma piuttosto attraverso una visione multidimensionale in cui i problemi sono considerati in livelli e sistemi differenti di tipo biologico, psicologico e sociale” (Trombini e Bardoni, 2001) Uno dei principali aspetti ad essere considerato quando parliamo di Cure Palliative, è la cura o il sollievo del dolore. L'Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP) definisce il dolore come "una sgradevole esperienza sensoriale ed emotiva, associata a un effettivo o potenziale danno tissutale o comunque descritta come tale. Il dolore è sempre 24
  • 25. un'esperienza soggettiva. Ogni individuo apprende il significato di tale parola attraverso le esperienze correlate ad una lesione durante i primi anni di vita. Sicuramente si accompagna ad una componente somatica, ma ha anche carattere spiacevole, e perciò, si accompagna altresì ad una carica emozionale". D’accordo con l’Associazione, in particolare il dolore cronico presente nelle malattie degenerative, neurologiche, oncologiche, specie nelle fasi avanzate e terminali della malattia, assume caratteristiche di dolore GLOBALE, legato a motivazioni fisiche, psicologiche e sociali. E deve, per questo, essere visto e considerato nella sua globalità. Alla singola terapia medica per sollievo del dolore dovrebbe, inoltre, come ha descritto Saunders (2008), essere aggiunto un concreto sostegno psicologico, sociale e spirituale: questi, assieme alla terapia medica, costituiscono i quattro pilastri fondamentali delle Cure Palliative. Saunders (2008), tenendo conto che il dolore può accrescere il generale stato di sofferenza, come se fosse una vera e propria malattia, ha sviluppato il concetto di “dolore totale”, il quale è stato presentato come un complesso di elementi fisici, emozionali, spirituali e sociali. D’accordo con la scrittrice, l’esperienza globale per il paziente include: ansietà, depressione e paura; preoccupazione per la famiglia che si avvia verso il lutto e, infine, frequentemente un bisogno di trovare qualche significato in questa situazione, qualche realtà più profonda in cui credere. E quale potrebbe essere questo significato? Cosa si potrebbe vedere “dentro” il dolore? “In ultima analisi dentro il dolore si vede l’orizzonte ineludibile della morte. Ciò crea ansia, paura e rimozione. Ma è proprio su questo fronte che cresce la capacità oggi delle scienze mediche, psicologiche, teologiche e spirituali di confrontarsi e cioè di cogliere la persona umana in tutto il suo percorso esistenziale” (Marchioro, 2007) Questa tendenza olistica della visione sia dell’uomo sia della salute sia del dolore come globale e integrale, appartiene all’area che si occupa delle Cure Palliative, ma anche alla Psiconcologia, alla Psicosomatica e alla Psiconeuroimmunologia. Pessini (2006), ci ricorda che il contributo della Medicina Psicosomatica e l’ingresso della Psicologia nel contesto della salute, specialmente nell’ambito ospedaliero, sono stati di estrema importanza negli ultimi anni per riscattare l’essere umano oltre alla dimensione 25
  • 26. fisico-biologica e situarlo in un contesto maggiore di senso e significato, nelle sue dimensioni psichiche, sociali e spirituali. Tutte le dimensioni del dolore e della sofferenza hanno un senso, un significato, una funzione, che dovrebbe essere letta, ascoltata, compresa. In questo modo, abbiamo (Pessini, 2006): • La dimensione fisica: a livello fisico, il dolore funziona come un allarme che qualcosa non va, che c’è qualcosa di sbagliato nel funzionamento del corpo. Siccome il dolore fisico affligge la persona nella sua globalità, può andare oltre alla funzione di allarme, diventando un dolore insopportabile, a punto di fare che la persona chieda di morire; • La dimensione psichica: è la dimensione della sofferenza, che può avere multipli fattori causali. Tra tante situazioni che possono sviluppare la sofferenza psichica, c’è l’affrontare la propria morte, la propria finitudine. Nascono sentimenti che si caratterizzano per cambiamenti di umore, sentimento di perdita del controllo circa il processo del morire, perdita delle speranze e dei sogni oppure necessità di ridefinirsi davanti al mondo; • La dimensione sociale: è la dimensione della sofferenza marcata dall’isolamento, creato giustamente per la difficoltà di comunicazione sentita nel processo del morire. La presenza solidale è fondamentale. Anche la perdita del ruolo socio-famigliare è molto crudele: ad esempio, diventare dipendente dai figli e accettare di essere curato da loro; • La dimensione spirituale: sorge della perdita di significato, senso e speranza. Si manifesta quando il malato confida al suo consigliere spirituale: ho un dolore nell’anima. Abbiamo bisogno di un senso e di una ragione per vivere e per morire. “Queste dimensioni della sofferenza coesistono tra loro, e non è sempre facile distinguerle una dall’altra. Se gli sforzi per lottare contro il dolore mettono a fuoco solo un aspetto e non considerano gli altri, il paziente non proverà sollievo dal dolore, e soffrirà ancora di più. Il dolore non sollevato può causare non solo depressione, ma anche portare la persona a chiedere di morire” (Pessini, 2006) 26
  • 27. In occasione di una conferenza realizzata presso l’Ospedale Santa Rita, della Santa Casa de Misericordia di Porto Alegre, nell’Aprile 2005, l’infermiera Marilyn Smith Stoner, dell’Università della California, ci ricorda che il dolore è considerato come il quinto segno vitale, e che la sofferenza è già considerata come il sesto segno vitale. Stando così le cose, sia il dolore sia la sofferenza sono aspetti da tenere in considerazione quando si parla di “prendersi cura” nella totalità, ossia, in modo “olistico”. Stoner (2005) considera d’importanza fondamentale l’attenzione agli aspetti fisici, psicologici, psichiatrici, sociali, spirituali, religiosi, esistenziali e culturali del “prendersi cura”, e ci dà alcuni suggerimenti su come lavorare su questi aspetti, come, per esempio, la necessità di elaborare un rituale di addio per i pazienti che “non ci sono più”. 5.3. Prendersi cura di se stesso Secondo Camargo (2009), la dimenticanza di se stesso è nota in varie professioni, in particolare tra i professionisti della sanità, che portano con sé il paradigma dell’obbligo, il dovere di prendersi cura, di occuparsi dell’altro e, come conseguenza, possono confrontarsi con il non prendersi cura di se stessi. “Colui che amo mi ha detto che ha bisogno di me. Per questo ho cura di me, guardo dove cammino e temo che ogni goccia di pioggia mi possa uccidere” (BERTOLT BRECHT) 5.3.1. Perché prendersi cura di se stesso? Inizio questo capitolo con una domanda fatta da Trombini e Baldoni (2001): “Dove nasce la nostra capacità di curare?”, alla quale essi cominciano a rispondere dicendo che “l’equilibrio tra gli aspetti corporei e quelli psicologici deve essere ricercato non solo nel paziente che soffre, ma anche in chi lo cura”. “Se il professionista della salute non riesce a entrare in contatto con i propri desideri, farà fatica a entrare in sintonia con i bisogni degli altri” (Bonato, 2008.) Per Boff (1999), è risaputo che il processo di cura degli altri, inevitabilmente, porta sofferenze, sentimenti di allegria, tristezza, impotenza, perdite, dolore, rifiuti e angosce in 27
  • 28. coloro i quali sono responsabili del prendersi cura, specialmente quando i pazienti si trovano, in qualche modo, in situazioni di vulnerabilità e, in un certo modo, presentano resistenze e rifiuto rispetto alla “persona” dei loro curanti. Laffite3 , in articolo intitolato “Curare se stesso per poter prendersi cura dell’altro4 ”, scrive che il profilo del curante è proprio e individuale: le sue conoscenze e abilità si riflettono da un lato nelle sue attitudini a curare l’altro e dall’altro lato nella propria disponibilità interna a lasciarsi curare dall’altro. Il curare può essere suddiviso in tre categorie: il curare se stesso (autocura), il curare visto in confronto all’altro (il prendersi cura di) e l’essere curato dall’altro. Queste tre categorie precedono sempre una relazione di attaccamento e affetto. Non si cura se non ha stima di se stesso e dell’altro. “Chi che ha intenzione di prendersi cura degli altri e guidarli, innanzitutto ha bisogno di dimostrare che sa guidare se stesso, che conosce i limiti del suo fare, che rispetta l’altro come un essere diverso da sé” (Lunardi et. al, 2004) Nascimento ed Erdmann (2009) scrivono che la cura di sé passa per il dialogo con se stesso e con gli altri. Il risvegliarsi grazie alla conoscenza e alla cura di se stesso sono parte del processo di imparare a curare. A loro giudizio, quando la cura di sé è sperimentata, si manifesta l'opportunità di un’auto riflessione, il trabocco delle emozioni, la percezione di sé come soggetto in cui la soggettività e la sensibilità sono sempre presenti. Per poter aiutare l’altro, il professionista deve prima aiutare se stesso, prendendo in considerazione tutti gli aspetti che lo compongono: fisici, psichici, sociali, culturali e spirituali. “La conoscenza delle nostre potenzialità e dei nostri limiti, davanti alla complessità dell’azione di “curante” è fondamentale. Abbiamo limiti che hanno bisogno di essere superati, non siamo né onnipotenti né infallibili. Bisogna, ogni giorno, ad ogni nuova esperienza, provare a costruire la nostra identità, in base al vissuto della nostra “missione”, che è quella di prendersi cura della vita degli esseri umani. E la “missione” si completa nella nostra soddisfazione come professionisti, e nella ricerca incessante del riscatto della dignità e del valore della vita” (Bettinelli et. al, 2006) 3 http://www.fabiolisboa.com.br/2010/06/cuidar-de-si-para-poder-cuidar-do-outro.html. 4 Nell’originale: “Cuidar de si para poder cuidar do outro”. 28
  • 29. Il curante ha necessità di essere curato e di curare se stesso, perché se non è capace di prendersi cura di sé e avere coscienza di se stesso, riconoscendo i propri sentimenti, emozioni, abilità, capacità, limiti, spiritualità avrà, secondo Becker (2004), difficoltà a prestare azioni di cura umanizzata, nelle sue dimensioni empirica, etica, estetica, personale, culturale e spirituale. Bisogna conoscere questo “io” che cura, per riuscire a comprendere l’altro nella sua individualità e, così, avere la possibilità di curare. “I professionisti della sanità dovrebbero fare una riflessione circa la disponibilità interna ad accompagnare i pazienti che stanno morendo, direttamente relazionata alla possibilità di sopportare il contatto con il proprio dolore e rivedere, in sé, quello che è considerato conforto e cura nel processo della morte personale” (Esslinger, 2006) Arduini e Landra (2010) scrivono che l’attitudine alla cura origina dall’abilità con cui ciascuno si dispone a curare se stesso. La cura che dà benessere non è quella che trattiene, ma quella che induce l’autonomia, che insegna all’altro ad avere a sua volta cura dell’inviolabile interiorità. L’espressione “prendersi cura di se stessi" è stata utilizzata da Foucault (2004, apud Bub et al., 2007) per referenziare e tradurre un’idea complessa e ricca che i greci utilizzavano per designare una serie di attitudini legate alla cura di se stessi, al fatto di occuparsi di sé, che è il concetto di epiméleia heautoû. Uno dei primi argomenti affrontati dall’autore è stato quello di separare la nozione di epiméleia heautoû da quella di gnôthi seautón – conosci te stesso. L’epiméleia heautoû é, innanzitutto, un’attitudine legata all’esercizio della politica. In altri termini, è un certo modo di affrontare le cose, di stare nel mondo, di agire, di gestire una relazione con l’altro; un certo modo di guardare se stesso. “Chi si prende cura di se stesso in maniera adeguata, si trova nelle condizioni di relazionarsi adeguatamente con gli altri” (Foucault, 1987) Secondo Rockenbach (1985, apud Pilar et. al, 2004), affinché l’equipe infermieristica riconosca nel paziente un essere umano, bisogna prima riconoscere se stessi e trattare se stessi come un essere umano. La cura dei membri dell’equipe come soggetti che hanno necessità di avere cura di sé per riuscire a curare gli altri, è una questione che da anni è messa in evidenza. La cura di 29
  • 30. sé, d’accordo con Foucault (1987, apud Pilar et. al, 2004), consiste nel fermarsi, guidare il nostro sguardo lungo la nostra vita, permetterci di realizzare un esame di coscienza circa il vissuto, non per giudicalo, neanche per incolparsi, ma per interrogarci sugli obiettivi posti e non raggiunti e sul modo in cui stiamo amministrando la nostra esistenza. Nonostante il testo si riferisca specificamente all’equipe infermieristica, credo che quest’affermazione valga per tutti quelli che si prendono cura degli altri: infermieri, medici, psicologi, fisioterapisti, assistenti sociali, educatori, ecc... Il riconoscimento di sé come “io curante”, e l’importanza di prendersi cura anche di se stesso è una concezione che, d’accordo con Becker (2004), presuppone la conoscenza de sé, ossia, sapere chi è colui (soggetto che cura) il quale deve prendersi cura di sé, per riuscire a prendersi cura dell’altro in maniera migliore. Questa estensione della propria coscienza di cui ha bisogno chi cura gli altri gli permetterà, una volta raggiunta, di vivere in modo più autentico e armonico le proprie relazioni, fortificherà la sua persona e la sua capacità di curare, gli consentirà di non sentirsi privato della propria energia vitale, come spesso ora gli accade alla fine di una giornata di lavoro. Sentirsi “risucchiato della propria energia vitale” può fare che il curante, con il passar del tempo, si senta esaurito allo stremo, entrando in burnout. Il burnout, secondo Valera e Mauri (2009), è una possibile conseguenza dello stress. Quindi conviene, prima di parlare di burnout, definire lo stress, termine (come noto) “di moda” nella società attuale. Secondo Ramos (1994), il concetto di stress, oggi così diffuso, è stato inizialmente descritto da Hans Selye nel 1956, ed è stato chiamato sindrome generale dell’adattamento. Questo concetto, secondo Castro et. al, diminuisce l’importanza del conflitto psichico nel ruolo eziologico e si indirizza sempre di più ad un’eziologia multifattoriale. L’implicazione alla base delle idee Selye per la Psicosomatica, per esempio, è la scoperta di quanto e come il corpo si trasforma, si modifica quando è sotto stress. In questo senso, lo stile di vita è ora considerato come un importante fattore per la salute e la prevenzione delle malattie. In altre parole (Valera e Mauri, 2009), poiché nella reazione dell'organismo vi è una componente oggettiva (lo stimolo) e una componente soggettiva (l'interpretazione dello stimolo), si può dire che lo stress è una reazione individuale a un insieme di stimoli oggettivi che viene soggettivamente riconosciuto come "richiesta di prestazioni". Il fattore importante da considerare, quindi, non è in particolare lo stress, ma il modo in cui ognuno lo gestisce (le risorse interne, i meccanismi particolari di ognuno, ecc). 30
  • 31. Cito qui l’americano Engel (apud Trombini & Baldoni, 2001), uno dei maggiori esperti di Psicosomatica della seconda metà del Novecento, il quale sosteneva che gli eventi i quali assumono un valore stressante per l’individuo possono essere fondamentalmente di tre tipi: una perdita (o una minaccia di perdita), un danno (o una minaccia di danno) oppure la frustrazione di un bisogno. Sottolineo la parola “minaccia”, perché non c’è bisogno che succeda qualcosa davvero, nel concreto, perché il soggetto si senta minacciato e si crei una fonte di stress. Selye (apud Trombini & Baldoni, 2001), descrive lo stress come “la risposta non specifica dell’organismo a ogni condizione di cambiamento”, e lo ritiene come una condizione di adattamento normale e persino utile. Secondo Trombini & Baldoni (2001), lo stress, sollecitando l’insorgenza di emozioni, comporta risposte biologiche e psicologiche molto complesse che dipendono dal significato che la situazione assume per l’individuo. “Abbiamo osservato costantemente che la malattia tende a seguire determinati modelli di tensione o trauma della vita quotidiana che emergono organicamente. Il modo in cui le nostre risorse interne ci consentono di affrontare le vicende ordinarie della vita, come la delusione o la frustrazione associate con i nostri rapporti personali o professionali, l’esperienza di perdita, i traumi finanziari, per citarne alcuni, è strettamente legato alla qualità della nostra vita” (Shealy e Myss, 1997)5 Valera (2010) ci spiega che con il termine burn out s’intende indicare una condizione relativa allo stato psicoemotivo dell’operatore che lavora nelle professioni di aiuto, traducibile nella lingua italiana con la parola “scoppiato”. Il burn out si differenzia dalla stanchezza o dalle tensioni legate alla vita lavorativa quotidiana: queste ne possono essere sintomi premonitori, legati ad altri che generano un malessere che con il tempo tende a cronicizzarsi. Secondo l’autore, il burn out si configura come una forma di stress interpersonale che comporta un generale distacco dall’utenza nella relazione d’aiuto, caratterizzato da alcuni aspetti: l’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione dell’utente, il senso di ridotta realizzazione e bassa autostima, la fatica ad andare a lavorare e la rabbia nei confronti del lavoro e dell’istituzione, il senso di colpa e il negativismo sulla propria efficacia e le proprie 5 Ho scelto apposta di mettere questa citazione di Shealy et. al (1997) nella parte del lavoro dedicata agli operatori sanitari (qui visti come “curanti”), per farci ricordare che anche per noi stessi la qualità della vita dovrebbe essere una priorità. 31
  • 32. capacità, la difficoltà a concentrarsi, il cinismo e lo sviluppo di malattie psico-somatiche da parte dell’operatore.6 Secondo Campos et.al (apud Casellato, 2005) davanti all’imminenza della morte, l’equipe di salute è mossa da sentimenti di shock, negazione, fallimento, tristezza, colpa, auto recriminazione, vergogna e fantasie di nature e intensità varie. Questi sentimenti possono perdurare se non sono elaborati e possono ricomparire nel contatto con i futuri pazienti, predisponendo il professionista a uno stress acuto. Perdite consecutive possono scatenare, d’accordo con Caselatto (2005), una crisi nell’ambito professionale, in sequenza alla crisi emotiva, la cui manifestazione si caratterizza dall’esaurimento psichico, riduzione della realizzazione personale nel lavoro e depersonalizzazione. Gli autori dimostrano anche che questa dinamica fa in modo che questi professionisti utilizzino meccanismi difensivi come risposta all’aggravamento dello stress nell’ambiente di lavoro. L’effetto di questa sofferenza può apparire sia nell’aspetto cosciente sia nell’incosciente. Di conseguenza, questo implica un impegno riguardante il disagio psicologico, con anche sintomi psicosomatici, e può influenzare l’andamento della routine di lavoro e del convivio sociale. Prendersi cura di sé è anche un modo di cercare di prevenire il Burnout che, è importante sottolineare, è un fenomeno fondamentalmente psicosociale, come ci ricordano Valera e Mauri(2009), mentre lo stress è un fenomeno individuale. Tale prevenzione può forse essere messa in atto attraverso l’ampliamento della coscienza di sé, come visto nelle pagine precedenti. Per Souza (1998), ampliare la coscienza di sé come cura, permette al curante di raggiungere una migliore comprensione di se stesso e del mondo, attribuendo alla realtà vissuta un significato sulla cui base egli possa agire nella costruzione di nuovi cammini (...) restituendogli il potere di essere agente e signore del suo destino, trasformando in maniera effettiva quello che egli desidera sia trasformato, ricuperando la magia e l’orgoglio di essere curante. Becker (2004) vede l’ampliare della coscienza di sé come uno strumento di massimizzazione della manipolazione della conoscenza che è stata acquisita del curante, durante il suo percorso personale e professionale, che lo aiuta nelle sue scelte, le quali 6 Il tema del Burn Out nel presente lavoro è stato citato come parte di un contenuto più ampio, e non occupa una posizione di distacco, di modo che non sarà visto in tutta la sua totalità, ma solo a livello d’informazione. 32
  • 33. risultano in attitudini che possono rappresentare un atto di libertà, creazione e trasformazione. May (2002) scrive che in tedesco, il vocabolo usato per autocoscienza significa anche auto fiducia. In questo senso, ampliare la coscienza di sé o dell’ “io” espande il controllo che la persona ha della propria vita e, con questa condizione, svela la capacità di sentirsi più libero, soggetto delle proprie azioni, guidando, in forma cosciente, il proprio cammino per la strada della vita. “Chi ha intenzione di prendersi cura dell’altro e guidarlo, deve, innanzitutto, dimostrare di saper guidare se stesso, di conoscere i limiti del suo fare, di rispettare l’altro come un essere diverso da sé” (Lunardi et. al, 2004) Per Angerami (2003), la cura del “curante” può propiziare al professionista della sanità l’opportunità di riprendere il vero senso della sua pratica e anche il senso e il valore di lavorare in un’organizzazione della sanità, poiché lo aiuta a ricuperare la sua auto-stima. 5.3.2. Come prendersi cura di se stesso? Innanzitutto, bisogna dire che non c’è una risposta unica, che non ci sono “ricette” su come prendersi cura di sé. Ognuno, d’accordo con le proprie risorse, interne ed esterne, dovrà trovare un modo di farlo. Si può, comunque, formulare dei suggerimenti, cercare di spiegare alcune strategie che per alcuni saranno interessanti e utili mentre per altri no e sarà in quei casi necessario trovare una strada diversa. Santos et. al (2005) dicono che la cura di sé denota l’amministrazione della vita, esercire la condizione di cittadino, essere capace di pensare e decidere circa se stesso, a partire da determinati valori e principi, avendo come base la nostra condizione di soggetti socio-individuali. Per Wendhausen e Rivera (2005), la cura di sé è la maniera con la quale l’individuo si occupa di sé, attraverso la riflessione rispetto alle proprie attitudini, le proprie ragioni, e attraverso la riflessione circa il proprio passato, con l’obiettivo di affrontare se stesso. “Come ampiamente dimostrato, il supporto ai curanti è essenziale per il loro sviluppo sano e anche per il miglioramento del trattamento e delle cure fornite ai pazienti. Questa è un’area dove i professionisti della salute mentale hanno, ogni giorno di più, un ruolo fondamentale”(Soares et. al, 2004) 33
  • 34. L’importanza del tempo libero Il tempo libero è visto da molti come una cosa superflua. A prescindere dalla visione che abbiamo rispetto a questo concetto, l’importante è che esso sia ottimizzato per la cura di sé dell’individuo, in questo caso il lavoratore, poiché è capace di propiziare allegria, benessere, conforto, tranquillità. “Il tempo libero è uno dei mezzi di cui si dispone per affrontare le contraddizioni del quotidiano, un modo di prendersi cura di sé per riunire le condizioni essenziali per prendersi cura dell’altro.” (BEUTER et. al, 2005) Secondo Aubert (1994), le attività del tempo libero possono essere modi per ridurre la carica psichica, facendo in modo che il lavoratore senta piacere nella propria attività, rendendo più facile la realizzazione degli incarichi attribuiti, e permettendogli di raggiungere i suoi obiettivi nel lavoro. Questo “raggiungere gli obiettivi” si riferisce alla soddisfazione di svolgere le proprie mansioni più gradevolmente, confacendosi con la riduzione della carica psichica del lavoratore. Un’osservazione importante rispetto allo stress: d’accordo con Staedt (APUD Kraft, 2006), “Se qualcuno affronta una giornata di lavoro di dodici ore al giorno però, al medesimo tempo, trova un modo di rilassarsi, è probabile che non abbia nessun problema. Dall’altra parte, è possibile che un lavoro di solo metà del periodo sia percepito come molto stressante, conducendo allo sviluppo del burnout”. L’importante è cercare un equilibrio tra la tensione e il rilassamento! Ossia, quello che può provocare il Burnout non è la quantità di lavoro, ma il modo in cui lo viviamo! Stress, burnout, depressione, stanchezza, insonnia, ci sono tanti modi in cui il nostro organismo può reagire, cercando di dirci che c’è qualcosa che non va, oppure per farci rendere conto che abbiamo bisogno di prenderci cura di noi stessi! A parere di Bonatto (2008) tra le principali “vie di uscita” si possono individuare: • Volgere lo sguardo alla propria vita, riconoscere le esperienze vissute; • Essere attento ai propri bisogni, desideri, comportamenti, emozioni e sentimenti, e anche ai modi in cui questi si esprimono; • Vedere se stesso come un bene preservato; 34
  • 35. • Integrare i propri desideri alle esigenze del proprio ruolo professionale. Soares et. al (2004) parlano invece di altre risorse che possono aiutare coloro i quali si dedicano alla cura. Citiamo ad esempio: • La formazione, nei posti di lavoro, di gruppi di supporto multidisciplinari, con discussioni di casi e diluizione dei problemi (secondo gli autori, la semplice discussione dei casi in una maniera eticamente corretta é benefica per professionista, perché gli rende possibile vedere che la sua difficoltà è molte volte vissuta anche dagli altri. Inoltre il gruppo può essere un’opportunità per esternare i propri sentimenti ed essere aiutato nella risoluzione dei propri problemi). • Parlando ancora delle discussioni di gruppo, gli autori credono che i gruppi di discussioni cliniche orientino il professionista, facendo in modo che egli si senta più sicuro nelle proprie procedure e propiziando al paziente un trattamento più accurato. • L’uso di psicoterapie, terapia occupazionale, gruppo-terapia o esercizi di lavoro, non solo integra l’équipe, ma aiuta anche nell’identificazione e risoluzione delle difficoltà. • Insegnare al professionista a riconoscere i segni che lo possono mettere in allerta su un suo sovraccarico e dargli le indicazioni che possono essergli utili. A mio giudizio, innanzitutto, l’importante è decidere le priorità! Cercare di riservare sempre un tempo per se stesso, cercare di capire che siamo esseri umani, e che non abbiamo bisogno di “caricare il mondo sulle spalle”. Percepire i limiti del nostro organismo, imparare quando è il momento di fermarsi. Non sovraccaricarsi, saper dire di no. Altre cose importanti sono provare ad organizzare il nostro tempo in modo che il lavoro non ci coinvolga completamente, cercare di non portare a casa i problemi del lavoro o il contrario. Avere momenti di svago come visto prima, è fondamentale. Poter viaggiare qualche volta, camminare in un parco, passeggiare, meditare. Poter dormire fino a tardi nei weekend, guardare un film, restare con il pigiama per tutto un pomeriggio. Fare del lavoro, delle attività che ci portano piacere, e non farle semplicemente per obbligo. Dobbiamo imparare a vivere ogni giorno, cercando di ottenere il massimo profitto. Infine, non bisogna lasciare niente da parte, neanche perdere quello che si è dovuto lottare anni per conquistare. Bisogna sapere come gestire l’equilibrio tra svago e lavoro. 35
  • 36. Un fattore importante: conoscere se stesso! 36
  • 37. “Conoscere se stesso dà all’individuo l’opportunità di avere una maggiore autonomia, una maggiore governabilità di sé, un controllo dei suoi desideri e di quelli di chi è vicino. Un individuo autonomo è l’essere che elabora le proprie regole, norme, ed esercita autonomia e libertà.” (Chaui, 1999) Conoscendo me stessa, sono maggiormente in grado di capire il miglior modo di prendermi cura di me. Per alcuni, prendersi cura di sé può semplicemente significare andare dal parrucchiere, oppure a fare le unghie. Per altri, può essere andare in palestra, viaggiare, mentre per altri ancora può essere restare a casa, senza fare niente! Esercizi di rilassamento, visualizzazione, lavori con la mente, con il corpo, possono essere di grande utilità, purché sia stata una scelta, e non un obbligo. Dobbiamo sempre ricordare che ognuno di noi è unico, vive momenti diversi e unici, e dà un significato particolare a tutto quello che fa. Tutti dobbiamo, innanzitutto, riconoscerci come essere umani, tenendo conto dei nostri limiti e delle nostre potenzialità. 5.4. Prendendosi cura dell’altro “Aver cura di qualcuno o qualcosa è un sentimento inerente all’essere umano, ossia, è naturale per la specie umana, fa parte della lotta per la sopravvivenza e percorre tutta l’umanità“ (Costenaro e Lacerda, 2002) Per Bettinelli et al. (2006), la grande sfida dei professionisti della sanità è prendersi cura dell’essere umano nella sua totalità, esercitando un’azione preferenziale riguardo al suo dolore e alla sua sofferenza nelle dimensioni fisiche, psichiche, sociali e spirituali, con competenze tecno scientifica e umana. “Chi cura e si lascia toccare dalla sofferenza umana diventa un radar ad alta sensibilità, si umanizza nel processo e, oltre alla conoscenza scientifica, ha la preziosa opportunità e il privilegio di crescere in sapienza. Questa sapienza lo mette sulla strada della valorizzazione e scoperta che la vita non è né un bene che possa essere privatizzato, né un problema che possa essere risolto nei circuiti digitali ed elettronici dell’informatica, ma un dono da vivere, che è collegato solidariamente con gli altri” (Pessini, 2000) Mccoughlan (2006) aggiunge alla definizione di Cure Palliative tre elementi che considera fondamentali nella cura dell’altro, che sono: la compassione, l’umiltà e l’onestà. Secondo l’autrice, bisogna avere compassione, mettersi nei panni dell’altro, cercando di fare 37
  • 38. all’altro quello che ci piacerebbe l’altro facesse per noi. In secondo luogo è necessario essere onesti, essere capaci di utilizzare le abilità di comunicazione per sedersi e parlare serenamente con il paziente rispetto a quello che sta accadendo. Bisogna avere il coraggio di parlare anche delle cose più profonde, come “sto morendo?” e che cosa questo significa veramente per il paziente, oppure affrontare tali questioni complesse con le famiglie, che hanno bisogno di molto del nostro tempo. Prendersi cura dell’altro nelle Cure Palliative è stare davanti all’imminenza della morte. Cercare di identificare la fase dell’elaborazione del lutto7 nella quale si trovano sia il paziente sia i famigliari (ricordandosi che non tutti attraversano tutte le fasi, e neanche nello stesso ordine) potrebbe aiutare nel processo di prendersi cura dei pazienti terminali e delle loro famiglie. Alencar (2005) crede che se i professionisti della sanità avessero la conoscenza delle fasi del morire e la sottigliezza di percepirle nei momenti in cui si avvicinano al paziente in fase terminale (e alla sua famiglia), questo potrebbe diventare un ricco strumento nel processo di curare entrambi. Percepire cosa succede in questo processo porta i professionisti a comprendere il comportamento del paziente e delle persone a lui vicine nell’affrontare la morte imminente. L’autrice scrive anche che l’infermiere e gli altri professionisti della sanità dovrebbero conoscere e comprendere le fasi per le quali passano i pazienti terminali/gravi e i loro familiari, per così sviluppare le loro azioni in maniera integrale, individuale, umanizzata e condivisa. Affinché questo accada con qualità e decisione, bisognerebbe trovare un compromesso con l’etica, con il rispetto per l’individualità umana, con il sapere ascoltare e far tacere quando necessario. Sarebbe anche importante avere la percezione dei momenti difficili, vissuti e manifestati sia attraverso la comunicazione verbale sia attraverso quella non verbale, cercando di agire in equipe, assistendo il paziente e le famiglie con discrezione e competenza, facendo loro riconoscere nelle azioni delle cure infermieristiche il sostegno e l’appoggio di cui hanno bisogno in quelle ore difficili. 7 Klüber Ross in “La morte e il Morire” (2000): negazione, rabbia, patteggiamento, depressione e accettazione. 38
  • 39. 6. LA CURA DEL CORPO Dal momento in cui si pensa al paziente come ad un essere “totale”, il quale deve essere considerato in tutti i suoi aspetti, bio-psico-sociali-spirituali, la “cura del corpo” potrebbe sembrare ovvia. Viene però la domanda: che cosa significa veramente “prendersi cura del corpo” in un paziente terminale? Sicuramente la massima “mente sana in corpo sano”, in questi casi, potrebbe essere anche valida, ma avrebbe bisogno di un’altra interpretazione. Quando si pensa alla cura del corpo, si dovrebbe pensare agli aspetti fisici e anche agli aspetti nutrizionali. Poiché stiamo parlando di pazienti terminali, però, si dovrebbe, innanzitutto, pensare agli aspetti riferiti alla qualità della vita e a quali potrebbero essere le sue priorità. Tornando alla questione dell’antica massima latina “Mens sana in corpore sano”, e cercando di riportarla al contesto delle Cure Palliative, si potrebbe dire, per esempio, che un corpo infastidito, pieno di dolore, fa che il paziente non riesca a dormire, aumentando la sua paura e il suo livello di ansietà (al contrario, può accadere che la paura e l’ansietà del paziente gli impediscano di dormire, e lo lascino così rigido, così teso, fermo nel letto, che come risultato aumenti il suo dolore e il suo disagio). Dire che cosa viene per primo è quasi impossibile e, in realtà, dal momento in cui si riesce a vedere il paziente come un essere completo e complesso, questo “ordine” poco importa. Prendersi cura del corpo, per un paziente nelle Cure Palliative, quindi, può significare tante cose! Togliere il dolore, per esempio. Aiutarlo a fare piccoli passi dentro della stanza! Fargli mantenere, almeno per un po’, quell’autonomia che gli resta ancora. L’importanza del lavoro in equipe nelle Cure Palliative è, quindi ancora una volta, un aspetto fondamentale e, tra tutti i membri dell’equipe, colui il quale può fare un miglior lavoro di supporto al paziente nella cura del corpo è il Fisioterapista. 6.1. La Fisioterapia Secondo Marcucci (2005), il fisioterapista detiene nella propria professione metodi e risorse unici, che sono immensamente utili nelle Cure Palliative, in linea con l’approccio multidisciplinare e integrato per la cura dei pazienti malati di cancro descritto in queste pagine.. 39
  • 40. Il ruolo del fisioterapista nelle Cure Palliative è diverso da quello ricoperto da tale professionista nelle cliniche riabilitative, in cui la “sfida”, per esempio, può essere migliorare la “performance” di un giocatore di calcio dopo un piccolo intervento chirurgico, oppure aiutare un ragazzo che ha fatto un incidente in moto imparare a camminare con l’uso di una protesi. La fisioterapia nelle Cure Palliative differisce da quella “tradizionale” specialmente per il fatto che, come ci ricorda Zegna (2001), essendo i pazienti soggetti a cambiamenti di condizione spesso rapidi e in peggioramento, anche il suo intervento deve riuscire a cambiare velocemente per poter rispondere adeguatamente alle nuove necessità. La fisioterapia, come ci ricorda Marcucci (2005), dispone di un “arsenale” completo di tecniche che completano il programma di Cure Palliative, sia nel miglioramento della sintomatologia sia nella qualità della vita. Secondo Zegna (2001), il ruolo della fisioterapia nelle Cure Palliative è quello di favorire al massimo le capacità fisiche e promuovere la maggior autonomia, cioè aiutare la persona ad adattarsi alla propria condizione. D’accordo con l’autore, una definizione di riabilitazione usata nell’ambito delle Cure Palliative indica che il suo scopo è “migliorare la qualità della vita residua, in modo che la vita dei pazienti possa essere il più possibile confortevole e soddisfacente, con il minor livello di dipendenza possibile indipendentemente dalla loro aspettativa di vita”. Marcucci (2005), scrive che i principali interventi fisioterapici analizzati per i pazienti senza possibilità di guarigione sono i metodi analgesici, gli interventi sui sintomi psico-fisici come la depressione e lo stress, l’azione nelle complicazioni osteomioarticolari, le risorse per il miglioramento della fatica, le tecniche di miglioramento della funzione polmonare, la cura dei pazienti neurologici e le peculiarità delle cure pediatriche . Per Pessini (2003), il beneficio da ricercare è quello di preservare la vita e alleviare i sintomi della malattia, dando l’opportunità al paziente di mantenere l’indipendenza funzionale, sempre che ciò sia possibile. Date queste premesse, implementare tecniche fisioterapiche senza stabilire obiettivi chiari può creare incertezze nel professionista e diminuire la fiducia del paziente. La Fisioterapia Palliativa, in conclusione, ha come obiettivo principale il miglioramento della qualità della vita dei pazienti senza possibilità di guarigione, diminuendo i sintomi e promuovendo la loro indipendenza funzionale. Affinché quest’obiettivo possa essere raggiunto, bisogna mantenere aperto un canale di 40
  • 41. comunicazione tra il fisioterapista, il paziente, i famigliari e tutti gli altri professionisti coinvolti. Bisogna sempre ricordarsi che la priorità è il paziente e rispettare la sua volontà: a volte ciò può significare semplicemente non fare alcun intervento. 6.2. La Nutrizione Quando si parla di prendersi cura del paziente terminale nella sua totalità, si devono considerare anche gli aspetti nutrizionali. Nelle Cure Palliative, come è stato detto diverse volte, l’obiettivo principale è la qualità della vita e, in tale orientamento, la terapia nutrizionale può aiutare nel generare sollievo da sintomi come, per esempio, la costipazione, la diarrea, l’inappetenza, la xerostomia, la nausea. Nelle Cure Palliative, secondo Humann et al. (2005, APUD Correa e Shibuya, 2007) è comune che il paziente presenti inappetenza, disinteresse per i cibi e rifiuto verso quelli per i quali prima aveva predilezione . Per Fernández-Roldán (APUD Correa e Shibuya, 2007) il nutrizionista è uno dei professionisti che può aiutare nell’evoluzione favorevole del paziente. Egli si pone interrogativi concernenti la condotta dietoterapica. La discussione concerne questioni di comunicazione con i famigliari e il paziente, valori morali ed etica professionale, poiché esiste il dubbio se istituire una modalità di terapia nutrizionale consista in una cura basica o in un trattamento medico. Per molti professionisti che lavorano con le Cure Palliative, c’è un vero dilemma a proposito dell’impiego della dieta per via orale, della terapia nutrizionale enterale o della nutrizione parenterale ai pazienti. Comunque, la nutrizione, come ci ricordano Correa e Shibuya (2007), possiede diversi significati, poiché dipende dall’individuo, dalle sue abitudini alimentari, dalla provenienza e dalla religione. L’alimentazione può, tra l’altro, coinvolgere affetto e vita. L’amministrazione delle terapie enterale o parenterale, il momento in cui istituirle o sospenderle e anche il tipo e la quantità da somministrare sono fattori che possono causare molti dubbi nell’equipe. Nutrizionisti e medici si domandano se può esserci qualche beneficio per il paziente, poiché è risaputo che le terapie nutrizionali aggressive non sono efficaci e possono far divenire il trattamento più costoso e stressante. D’accordo con Bozzetti et. al (1996, APUD Correa e Shibuya, 2007), per decidere se somministrare una terapia nutrizionale al paziente, devono essere presi in considerazione 41
  • 42. otto fattori, che sono: le condizioni cliniche del paziente, i suoi sintomi, l’aspettativa di vita, lo stato nutrizionale, le condizioni e accettazioni dell’alimentazione per via orale, lo stato psicologico, l’integrità del tratto gastrointestinale e la necessità di servizi speciali per offrigli la dieta. Inoltre è consigliabile iniziare il trattamento e fare una rivalutazione periodicamente. Secondo l’American Dietetic Association (ADA), la nutrizione nei pazienti con una malattia avanzata deve offrire: sostegno emotivo, piacere, aiutare nella diminuzione dell’ansietà, aumentare l’autostima e l’indipendenza e, infine, permettere una maggiore integrazione e comunicazione tra il malato e i suoi familiari. La prima scelta sarà di una dieta per via orale, a patto che il tratto gastrointestinale sia integro e il paziente presenti condizioni cliniche per realizzarla e, specialmente, abbia il desiderio di farla. La decisione di mantenere o sospendere l’alimentazione e l’idratazione dei pazienti che sono nelle Cure Palliative deve essere discussa, secondo Bachmann et. al (2001, APUD Benarroz, 2009), con l’equipe tecnica multidisciplinare, con il paziente e con i loro familiari. In alcuni casi, il paziente stesso decide di non mangiare più, e questa scelta dovrebbe essere rispettata, dal punto di vista morale ed etico, dal medico, considerando i principi dell’autonomia. Sarebbe importante ricordare che, negli ultimi giorni di vita, come ci ricorda Oria (s/anno), l’alimentazione e l’idratazione divengono sempre meno “indispensabili”, talvolta controindicate; è importante mantenere inumidito e deterso il cavo orale, soprattutto se è il malato stesso che ne esprime il bisogno e ne trae sollievo e, specialmente, ricordarsi che nutrire e idratare sono gesti di cura, di affetto, ma “fare a tutti i costi”, quando non ha più efficacia, implica inutili fatiche e incomprensioni. Bachmann et. al (2001, apud Benarroz, 2009) ci ricordano che il supporto nutrizionale è una cura di sostegno e s’inserisce, nella situazione palliativa, nella responsabilità globale, con l’obiettivo di mantenere o recuperare il benessere del paziente. E, come visto sopra, non sempre il cibo potrà promuovere conforto e benessere. Gli effetti indesiderati delle tecniche di nutrizione, specialmente della nutrizione artificiale sono, a volte, cause di peggioramento della qualità della vita, e danneggiano il vero obiettivo delle Cure Palliative. Non si raccomanda, quindi, di cominciare o mantenere una terapia nutrizionale negli ultimi momenti della vita, visto che non offre alcun sollievo al paziente. La dieta deve 42
  • 43. offrire prioritariamente conforto e l’essenziale, indipendentemente da qualsiasi condotta si ritenga di porre in atto, è rispettare la volontà dell’individuo 43
  • 44. 7. LA CURA DELLA MENTE Innanzitutto, desidero sottolineare il carattere didattico del paragrafo, poiché in realtà, dal momento in cui si pensa all’essere umano come un essere integrale, completo e complesso, non si può parlare della cura della mente senza la cura del corpo, e neanche pensare al corpo senza prendere in considerazione la mente. Ci sono vari studi che comprovano la relazione tra mente e corpo, e l’influenza che uno può esercitare sull’altro. Dire che uno si sovrappone all’altro sarebbe riduttivo, considerato che, dal mio punto di vista (anche in base alla mia esperienza lavorativa), non si può affermare con totale sicurezza “chi viene prima” tra corpo e mente Ad esempio, pensando al rapporto tra depressione e cancro in un malato: egli ha avuto il cancro perché era depresso, e questo ha causato un indebolimento del suo sistema immunitario? O è depresso come conseguenza di aver ricevuto la diagnosi di cancro? Può darsi che le due cose siano successe insieme! L’importante, comunque, è lavorare su tutti gli aspetti, organici e psicologici. La sapienza del nostro organismo è propria questa, le cose funzionano insieme! “La mente, attraverso pensieri, immagini, ricordi ed emozioni, può alterare la struttura biochimica e quella del sistema nervoso” (Rossi, 1995) L'organismo umano, come ogni sistema vivente, ha un modello organizzativo di reti interconnesse che si aggiornano costantemente in un sistema di relazioni. Per Freud e Jung (APUD Liberato e Macieira, 2008), il funzionamento delle istanze psichiche dipende dal conscio e dall’inconscio che lo compongono e del rapporto di scambio tra questi e l'ambiente. Secondo D'Andrea (2003) questo “dispositivo” raccoglie i messaggi sia da fuori sia da dentro il proprio corpo e risponde loro fisicamente e psichicamente. Secondo Müller (2005), le tecniche MENTE/CORPO migliorano la qualità della vita e agiscono anche nello sviluppo della propria infermità. Sono considerate come un approccio complementare ai trattamenti. Secondo Lawlis (1999) l’ipotesi secondo la quale la sofferenza psicologica possa deprimere il sistema immunitario, in maniera forte abbastanza da aumentare il rischio delle malattie fisiche è sempre più dimostrata dalle ricerche. Le tecniche di rilassamento, visualizzazione, controllo dello stress, psicoterapia, ecc, possono aumentare la resistenza immunologica alle malattie. 44
  • 45. 7.1. La visualizzazione La visualizzazione o immagine mentale è un processo psicobiologico naturale dell’uomo, che viene utilizzato nei processi di cura/guarigione fin dai tempi più remoti. Secondo Carvalho (1994), ci sono informazioni sull’uso di questa tecnica in Cina, nel sec. XVII a.c., in Egitto, in Tibet, in Grecia, in Africa, tra gli eschimesi e gli “indios”. Anche Asclepio, Aristotele e Ippocrate utilizzavano la visualizzazione per la diagnosi e il trattamento delle malattie. Inoltre, secondo Achterberg (1996), durante il Rinascimento, la tecnica ha continuato ad essere collegata alla medicina, specialmente con i lavori di Paracelso. Il metodo della visualizzazione era utilizzato nei trattamenti che avevano come base l’idea dell’unità tra mente, emozioni e fisico e, di conseguenza, la convinzione degli effetti di una delle parti sulle altre. Il pensiero pre-cartesiano (che ai giorni d’oggi sembra essere oggetto di rivalutazione) era, d’accordo con Capra (2006), invariabilmente olistico, e il principio dell’inseparabilità della mente, del corpo e dello spirito nelle cure andavano d’accordo con la visione del mondo dell’epoca. L’uso delle tecniche di rilassamento e della visualizzazione può essere un buon modo di prendersi cura del paziente e anche dei suoi familiari. L’obiettivo delle tecniche dovrà essere sempre d’accordo con il desiderio, oppure con le difficoltà del paziente. Secondo Rossi (1995), la mente, attraverso i pensieri, le immagini, le credenze, le memorie e le emozioni, può alterare la struttura biochimica e il sistema nervoso. Quest’alterazione è costante e involontaria. Selye (Apud Müller, 2005) nelle sue ricerche riguardo allo stress, ha dimostrato la relazione mente-corpo basata sull’analisi del meccanismo dello stress e del suo effetto sui sistemi ormonale e immunitario. E’ interessante notare che ricerche nordamericane hanno dimostrato che la mente non sa distinguere tra un’immagine reale e una immaginata. Durante la pratica della visualizzazione, il sistema immunitario induce l’organismo a reagire all’immagine mentale come se fosse reale. Questo è dovuto al modo in cui i pensieri sono “processati” (Rossi, 1995) Una questione interessante da considerare è stata segnalata da Simonton et. al (1987). Essi rendono evidente l’importanza che hanno i pensieri e le emozioni del terapeuta 45
  • 46. rispetto al paziente: questi danno la possibilità al paziente di sperimentare un mix d’immagini positive e negative, le quali influenzano a loro volta il corpo a livello cellulare. Con i pazienti terminali, la tecnica può essere di aiuto per diminuire l’ansietà, e il dolore, può aiutarlo a dormire, e infine può aiutarlo a morire in maniera più serena e tranquilla. E’ interessante considerare, un’altra volta, la “interezza” dell’essere umano, poiché abbiamo parlato di “rilassamento” (corpo) e “visualizzazione” (mente.) “Il corpo umano è un insieme le cui parti sono intrecciate. Esso possiede un elemento interno di coesione, l’anima, cresce e diminuisce, rinasce in ogni momento fino alla morte. È una grande parte organica dell’essere” (Volich 2000) 7.2. La musicoterapia L’idea formale dell’uso terapeutico della musica è nata nel dopoguerra, quando è stato scoperto che i dolori e le angosce di molti soldati feriti potevano migliorare con la musica e così molti musicisti sono stati portati a suonare negli ambienti ospedalieri. (Sacks, 2007). D’accordo con Souza (1998), la musica occupa il posto dell’emozione, e permette il passaggio tra l’emozionale e il razionale, mobilitando contenuti con i quali la sola comunicazione verbale non è sufficiente. Secondo Gonçalves (2001), ci sono varie ricerche e articoli che dimostrano il contributo della musica in medicina (di più, non solo della musica ma anche di altre attività artistiche). La musica ci permette di raggiungere molti livelli della coscienza, agendo come catalizzatore delle emozioni profonde, ed è in grado di dare supporto alla comunicazione, sia verbale sia non verbale. La musica può essere utilizzata a tal fine in diversi modi, come scrive Foxglove, 1999 (apud Seki e Galheigo, 2010). Il semplice atto di ascoltare musica può produrre cambiamenti positivi nello stato d’animo, restaurare la pace e l’equilibrio emozionale, propiziare il rilassamento e facilitare l’espressione di sentimenti come la tristezza, la rabbia e il lutto. Secondo Marcato (2002), l’impiego della musicoterapia facilita il ripristino dei ritmi fondamentali dell’organismo e della loro sincronia: “È agente di omeostasi”. La ricerca fatta da Seki e Galheigo (2010) dimostra che l’uso della musica nei processi salute-malattia-cura può dare conforto e qualità di vita alla persona malata ed 46