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La dissoluzione dell’Impero Romano porta con sé la dissoluzione dell’assetto culturale della
società in generale. Si perde così ogni continuità con le forme tradizionali di pratica teatrale. Alla
perdita dell’idea di teatro contribuirà in maniera decisiva la condanna da parte dei padri della chiesa
negli ultimi secoli della romanità quando, per altro, lo spettacolo si era ormai ridotto a
combattimenti fra gladiatori o fra gladiatori e animali feroci. Non si deve dimenticare però che
proprio tramite la chiesa, sia passata, tramite la condanna stessa, la memoria del teatro.
Progressivamente anche la Chiesa farà sue alcune tecniche spettacolari, in quanto ne comprenderà il
potere di fascinazione e si arriverà ad una spettacolarizzazione della liturgia che porterà ad una
teatralità religiosa vera e propria. Cerchiamo quindi di analizzare la condanna del teatro, o meglio
dello spettacolo in quanto tale, da parte della patristica.


La demonizzazione del teatro nei padri della chiesa:


           La condanna morale e sociale dell’attore appartiene già ai valori della classicità romana
nella quale era malvisto l’affidare al corpo, anziché alla parola, la comunicatività. Ciò è
particolarmente evidente se si presta attenzione da ciò che si può evincere dalla storia semantica di
actor e histrio1: è proprio l’uso della voce che rende il primo termine meno negativo e lo avvicina
all’orator. Per di più il professionismo dell’attività attoriale costituiva un ulteriore motivo di
discredito in quanto classificato negli infamia, mentre l’attività degli attori non professionisti era
classificata tra gli humilia. Si vede poi, nelle testimonianze di Cicerone, Orazio o di Seneca, che
essi trovavano disdicevole la progressiva incombenza dell’evento spettacolare su quello letterario,
in quanto l’occhio diventava ricettore primo in vece dell’orecchio, in un miscuglio in cui si perde di
vista la differenza fra il circo e il teatro. È dunque uno spettacolo, di gladiatori o di prostitute-attrici
che consumano veri atti sessuali nell’orchestra, che richiede agli spettatori la semplice
partecipazione emozionale, paragonabile alle folle che seguono il calcio oggi, che si trovano davanti
i primi scrittore cristiani. Essi non faranno distinzione tra il teatro e le altre forme di spettacolo,
condanneranno lo spettacolo in quanto tale in quanto forma d’idolatria.
           Sarà Tertulliano soprattutto a illustrare questo principio nel De Spectaculis e
nell’Apologeticum: per lui gli spettacoli sono idolatri soprattutto per la loro origine, in quanto legati
e riferiti continuamente, nei luoghi e nelle azioni che vi si svolgono, alle divinità pagane. Nelle
argomentazioni riguardo l’idolatria vi è anche un caso di petizione di principio: gli spettacoli sono
disonesti in quanto venerano dèi pagani, ma d’altro canto è proprio la disonestà degli spettacoli ad

1
    Zanchelli, 1964.

                                                                                                          1
essere usata come prova della non credibilità di questi dèi. Esempi di tale argomentazioni sono
presenti in Arnobio o in Agostino. Questo perché gli dèi pagani sono, per le Scritture, vane
parvenze, idoli appunto, dietro i quali agiscono spiriti maligni e nell’immoralità dello spettacolo
stesso si trova conferma di ciò2.
         Un aspetto fondamentale delle argomentazioni contro lo spettacolo è la comparazione tra il
teatro e Venere: parlando della nascita del teatro di Pompeo, Tertulliano sottolinea come Pompeo,
temendo atti censori alla sua memoria, sovrappose un tempio consacrato a Venere al proprio teatro,
dicendo esso era un tempio sotto il quale vi erano poste gradinate per gli spettacoli 3. Tertulliano fa
interagire i termini teatro e Venere al di là del loro legame oggettivo di questo passaggio: l’autore
deduce la negatività dell’elemento teatro dalla mutata valenza dell’elemento Venere portato a
sinonimo di libidine e di sfrenatezza sessuale. Poco dopo vi è l’esplicito rifiuto della corporeità e
dello spettacolo:
“È evidente l’influenza di Venere e Libero sulle arti sceniche. Ciò che appartiene tipicamente alla
scena, ciò che si riferisce al gesto o alla flessione del corpo, consacra la dissolutezza a Venere e
Libero: rammoliti una dal sesso e l’altra dal vino. Ciò, poi , che si compie con la voce, il ritmo, con
gli strumenti musicali e con la scrittura, ha come aggiudicatari gli Apolli, le Muse e i Mercurii” 4.
         Sono dunque l’aspetto visivo e la spettacolarità accattivante il bersaglio principale. La
mancata distinzione tra le forme teatrali e le altre forme di spettacolarità, quali i combattimenti tra
gladiatori o le corse dei cavalli, è propria di quasi tutti gli autori cristiani, tranne forse in parte per
Agostino, poiché per tutti ciò che conta è sì la natura di ciò che avviene in scena ma soprattutto essi
mirano alla qualità del rapporto che s’instaura tra spettacolo e spettatore. Ad esempio, non riceve un
eguale condanna da parte degli scrittori cristiani la drammaturgia pagana. La condanna c’è
esplicitamente in Tertulliano, ma si tratta di un unico accenno in tutto il trattato. In Arnobio e
Agostino la condanna dei contenuti della drammaturgia è giocata nella polemica contro gli dèi
pagani ma un passo di Lattanzio dimostra che negli autori cristiani non è assolutamente chiara la
distinzione tra drammaturgia e spettacolo, tra la disonestà del contenuto della fabule scritte dal
drammaturgo e l’oscenità corrente nelle scene dal tardo impero ad opera di mimi e istrioni.
          Per noi è facile comprendere come sia duro l’attacco nei confronti della cristianità verso
tutto ciò che non sia riconducibile a discorso o logos, certo però è che in questi scrittori non vi è un
tale riferimento. Per gli scrittori cristiani l’accusa d’idolatria è più che sufficiente il resto è in più,
infatti, è infrequente trovare nelle loro trattazioni un disgusto morale per la crudeltà di certi



2
  Cfr anche a S. Paolo, I corinti, 10 20
3
  De Spectaculis
4
  De Spectaculis

                                                                                                         2
spettacoli, cosa invece presente in scrittori pagani come Seneca; solo Lattanzio si sofferma
velocemente sulla questione, tra l’altro in modo piuttosto retorico.
          Anche per quello che riguarda l’oscenità, a costituire il vero scandalo non è tanto la
meretrice o il meretricio come pratica, ma la sua spettacolarizzazione: è il dare spettacolo che per i
cristiani costituisce il peccato maggiore per la particolarità di quel rapporto che lega il cittadino, che
si fa spettatore, sul filo dello sguardo. Sembra esserci una vera propria ossessione dello sguardo, un
accanimento maggiore per quei vizi che colpiscono l’occhio. Quando la condanna degli spettacoli
avviene nel contesto del discorso generale contro la voluttà dei sensi, come in Lattanzio o in
Girolamo, sempre a ciò che colpisce l’occhio è dato più spazio o comunque la priorità. Nel suo De
Spectaculis Tertulliano, ad esempio, da una precisa indicazione dello statuto di autorità giudicatrice
solo per colui che vede: “Metti a confronto, o uomo, l’accusato e il giudice: l’accusato è accusato
perché è visto, il giudice è giudice perché vede”. Scrive Girolamo che il vizio entra nell’anima per i
cinque sensi quasi fossero cinque finestre e se il vizio cattura la libertà dell’anima è perché la rende
schiava delle passioni5.
          È nella concezione dello spettacolo come reagente per l’esplodere delle passioni che sta uno
dei nodi centrali del rifiuto dei cristiani. C’è da un lato la passione esibita dall’attore, cioè quel
meccanismo tecnico e psicologico per cui l’attore finge ma induce in chi lo guarda passioni
autentiche. In certe notazioni di Tertulliano e di Agostino vi è una breve ma chiarissima e
convincente indicazione del processo di identificazione e transfert psicologico che lega lo spettatore
all’attore. È Agostino a portare oltre la notazione dell’uscir fuori di sé dello spettatore
individuandone la ragione in un processo di identificazione. Nelle sue Confessioni rileva come
l’uomo cerchi a teatro la sofferenza senza doverla patire lui stesso; posto passivamente a
contemplare, apprezza di più l’attore capace di fare soffrire, senza nessun moto di misericordia.
          Molto peggio è però la passione che pervada gli spettatori non per identificazione, ma per
esaltazione: non più quindi per portare fuori di sé il patimento, ma per il fatto di non essere più se
stessi che porta molto lontano dalla continenza e dal dominio delle passioni proprie del buon
cristiano. Questa critica ha in realtà radici nella tradizione stoica, un passo di Epitteto costituisce un
perfetto antecedente delle prese di posizione cristiane. Tra i cristiani è Lattanzio soprattutto a
insistere su questo aspetto consigliando di fuggire per questo qualsiasi forma di spettacolo. In
particolare è il comportamento delle folle degli spettacoli del circo che viene violentemente
censurato, ad esempio, in un passo delle Confessioni, Agostino racconta di Alipo trascinato a forza
nell’anfiteatro, il quale non seppe resistere alla curiosità provocata dal boato della folla e suo
malgrado fu coinvolto dall’euforia collettiva. Paradossalmente questo esempio, che Agostino

5
    Adversus Jovinianum

                                                                                                        3
vorrebbe biasimevole non può non figurare anche come esempio delle capacità positive dello
spettacolo, la sua enorme forza di fascinazione ad esempio. È il meccanismo stesso dell’evento
spettacolare quello che fa della folla lì convenuta un organismo in qualche modo aggregante di
spettatori che viene analizzato e poi censurato in quanto carico di valenze perturbatrici. La ricerca di
imperturbabilità del cristiano non è quella stoica, quella dell’individuo saggio, ma una visione
impositrice e didattica tesa non ad immunizzare il singolo, ma a reprimere le passioni nelle masse. È
questo che unifica nella condanna tutte le forme di spettacolo in modo sostanzialmente unitario, in
un modo che certo è filologicamente indebito ma culturalmente e ideologicamente legittimo dati i
modi e gli obiettivi dei primi cristiani, per questo nelle invettive di questi autori non sono previste
gerarchie e distinzioni tra i veri tipi di spettacolo.
        È il solo Agostino, come accennato prima, a riuscire a distinguere in maniera netta, nel De
Civitate Dei, non solo tra drammaturgia e spettacolo ma tra spettacolo teatrale che ha come base un
testo scritto e altri spettacoli o anche spettacoli teatrali non letterari; però non si spinge fino al
recupero teorico di una teatralità antica nutrita di valori alti e di classicità che risulta invece dispersa
nella rigidità e nel rigore di una polemica che arriva a confondere i piani e gli oggetti.
        Diverso è il caso di Cassiodoro all’inizio del VI secolo nella nota lettera che scrive per
Teodorico a Simmaco in cui raccomanda il restauro del teatro di Pompeo, proprio quel teatro che
Tertulliano aveva portato come esempio della immoralità del teatro stesso, e contestualmente si
produce in un’esaltazione degli spettacoli. Il tono con cui elenca le varie forme di spettacolo è
diverso dagli altri cristiani: anche il mimo e il pantomimo sono considerati con benevolenza e
ammirazione e il solo accento polemico è a quel processo di degenerazione per cui azioni nate per
diletti onesti (cosa che nessun altro cristiano avrebbe ammesso) si sono poi degradati e involgariti.
È proprio una posizione come questa di Cassiodoro che ci dimostra come la polemica anti-teatrale
degli scrittori cristiani, che tanto peserà nei secoli successivi, sia in origine viziata da presupposti
teorici che non le consentono di inquadrare l’oggetto contro cui polemizza. Ad oggi la critica appare
sostanzialmente estrinseca, a tratti superficiale, da un lato troppo tesa ad assumere gli spettacoli
come pretesto per cogliere un bersaglio che li trascende, ovvero la mentalità pagana, e dall’altro
troppo sociologicamente dipendente dall’avversione a quel particolare tipo di spettacolo che
circolava nel tardo impero, ma dal quale si partiva per una condanna globale.
        Cercando di vedere al di là dell’ideologica accusa di idolatria, per altro non imputata al solo
elemento teatrale, cerchiamo di comprendere cosa rimane dell’accusa al sistema teatrale. Ciò che
rimane è sostanziale perché va a toccare un nodo che è dentro i meccanismi del teatro ed è la critica
alla visività degli spettacoli, al loro essere mostra di eventi più che eventi, al loro prodursi come
oggetti il cui unico scopo è di creare un rapporto visivo ed emotivo con lo spettatore. Questa critica


                                                                                                          4
non è nuova, come si è visto è rintracciabile già in autori della classicità latina ma per i cristiani
s’inserisce in un differente contesto: non si tratta più di constatare un decadimento, attraverso il
passaggio dall’orecchio all’occhio, di una forma culturale di cui si compiange il glorioso passato ma
di descrivere e condannare proprio i meccanismi costitutivi della spettacolarità come evento non
estetico ma antropologico. In questa chiave si può leggere la denuncia dell’inutilità degli spettacoli
riscontrabile in Tertulliano, Lattanzio, Arnobio, Giovanni Crisostomo. Rimarcare l’inutilità di un
evento significa che esso non produce nient’altro all’infuori degli effetti immediati che dà. Se questi
effetti , che sono divertimento e soprattutto scatenamento di passioni, sono negativi e peccaminosi,
lo spettacolo in sé non potrà che essere negativo e peccaminoso. Questo aspetto è talmente
prioritario che si perde perfino quella accusa che era propria del teatro già nell’antica Grecia,
ovvero di essere un falso istituzionalizzato. L’attore pretende di essere altro da sé, cerca di
trasformarsi nell’altro da sé. Tertulliano stesso parla della “falsa imitazione” solo verso la fine del
suo trattato e in particolare riguardo la maschera. Nel De cultu foeminarum di Tertulliano vi è poi
quella che è la condanna “ontologica” dell’imitazione: “Ciò che è naturale è opera di Dio, ciò che è
artificiale è opera del diavolo”. Questo porta alla condanna di chi svolge questo affare del diavolo,
soprattutto se poi tale attività è eseguita tramite le capacità mimetiche ed istrioniche del corpo.
       Non a caso il periodo tra il V e il VI secolo, quando ogni forma di spettacolo
istituzionalizzato è stata ormai distrutta si passa al tentativo di rimozione dell’idea stessa di teatro.
Non a caso Isidoro all’inizio del VII secolo collocherà l’idea di teatro in un passato remoto e in
termini quasi irriconoscibili. Questa rimozione colpirà anche i mimi e gli istrioni girovaghi anche se
molto a livello di tradizione teorica, coniugata tuttavia con una pratica molto più tollerante di
quanto le prese di posizione ufficiale facciano pensare.
       Se la condanna fu pesante è comunque innegabile che la memoria del teatro si sia
tramandata tramite gli scritti dei Padri della Chiesa. Il ricordo prevalente è per il teatro romano
piuttosto che per quello greco grazie al fatto che nella De Civitate Dei di Agostino si narra l’origine
dei ludi scenici, fatto che stimolò la curiosità di molti eruditi e illustratori tardo-medievali. Sempre
in questo testo Agostino dichiara che le commedie e le tragedie classiche sono spettacoli meno
condannabili in quanto l’oscenità della scena non è anche oscenità della parola. È utile ricordare che
a quel tempo la lettura di Terenzio era parte integrale della educazione dei giovani di buona
famiglia e non a caso le commedie di Terenzio furono copiate e illustrate per tutto il Medioevo.
       Una delle fonti principali per la trasmissione della cultura greca e romana sono le
Etymologie del vescovo Isidoro di Siviglia (già menzionato prima) vissuto tra il VI e il VII secolo e
considerato l’ultimo dei padri della chiesa. Alcuni capitoli sono dedicati al teatro e alle arti
sceniche, descritte come una reminescenza molto remota. Nella distinzione che fa circa i generi del


                                                                                                       5
componimento è interessante notare come sia mutata la valenza delle tragedia: da un’idea fatalista
di destino cieco, si passa al concetto di responsabilità individuale: se l’eroe antico è spesso colpito
da maledizioni della stirpe e assurge a figura esemplare dell’impotenza umana, la concezione
cristiana tende a ricondurre tutto alla nozione di peccato. In sintesi Edipo si trasforma da vittima di
una tragedia di conoscenza in un matricida incestuoso.
       Si ricorda sempre a proposito dell’estetica che essa nasce nello stesso momento e tramite la
sua condanna ontologica da parte di Platone che pone l’arte tre gradi distante dal vero, imitazione di
imitazione, condanna che colpisce la mimesis in ogni sua forma. Il tentativo cristiano è quello di
deontologizzare il male, di rimuoverlo dal mondo, di passare dal concetto neoplatonico dell’uno al
concetto cristiano di Dio, dal motore immobile di Aristotele a Dio come creatore dell’universo.
Agostino è stato l’emblema filosofico di questo tentativo con la sua disamina del problema del male
e i suoi tentativi di attribuire alla cattiva conoscenza il male del mondo: se Dio è onnipotente il male
non può esistere, l’errore è dovuto al libero arbitrio dell’uomo che, non capendo, può seguire la via
sbagliata. In questo contesto la condanna a chi produce una “falsa conoscenza” come quella
dell’arte istrionica e mimetica per antonomasia, non può che essere totale.
       Non è certo un caso che la condanna di Platone avvenga in un luogo deputato ad un uso
normativo circa la società ideale, ovvero nella Repubblica, e non in un testo specificatamente
dedicato all’arte o alla poesia. In una società come quella greca, dove le capacità oratorie e di
fascinazione sulle masse potevano decidere le sorti di un dibattito pubblico e della societas in
generale non si poteva rischiare di avere cultori di poesia o teatro la cui capacità di persuasione era,
a detta dello stesso Platone, altissima, al punto che perfino il filosofo poteva essere tratto in
inganno. Ed è questa stessa distinzione, tra il linguaggio pacato del filosofo e tra il linguaggio che
eccita i sensi, che scatena la polemica cristiana contro le forme di spettacolo del tardo impero.
Completamente dimenticate, in un primo momento, sembra invece la versione di Aristotele che
nella sua Poetica cercava più di analizzare le varie forme di comunicazione nel segno della
moderatezza, un invito a quella che oggi chiameremmo una “deontologia professionale” con
valenze ontologiche meno rimarcate.
       La mancata condanna però delle commedie di Plauto e di Terenzio in quanto testi, fa
comprendere che la condanna globale della rappresentazione è dovuta allo spostamento di
attenzione dal “performer” al pubblico, poiché a teatro sarebbe esposto alla potenze di quel
processo di mimesis appunto tali da provocare la totale immedesimazione. Agostino contrapporrà
questo processo mimetico dello spettatore nelle Confessioni con il sentimento cristiano della pietas,
trovando che la gravità di questa mimesis è che produce un’eccitazione per la sofferenza vista,
senza alcuna idea di soccorso. Se si pensa che, ancora in pieno romanticismo, un autore la cui


                                                                                                      6
estetica è considerata un punto fondamentale della storia del pensiero occidentale, quale
Schopenhauer, riproporrà la pietà come punto cardine della sua visione del mondo, influenzando
autori come Wagner e Pirandello, si può avere un’idea di quanto la condanna di Platone e di
Agostino fosse radicata nel modo stesso di concepire la società e i suoi modi di rappresentare e
rappresentarsi.
       La “linea platonica” fu perseguita da Agostino, Tertulliano e Lattanzio senza che
circolassero grandi contributi testuali di Platone, la maggior parte delle loro conoscenze erano
mediate dal neo-platonismo di Plotino e soprattutto da tradizioni reiterate nella letteratura romana.
La “linea aristotelica” invece avrà proprio una riflessione teologica più fondata tra i cui esponenti
spiccano Ugo di San Vittore e Tommaso D’Aquino. L’attacco di questi teologi sarà soprattutto
contro gli aspetti folclorici connessi con la ritualità precristiana, che richiedevano una mimesis
profonda ma che mischiavano molti aspetti del sacro e del profano; uno dei massimi esponenti di
questo attacco sarà anche Abelardo. Non si può scordare anche l’ambivalente rapporto della Chiesa
di quel periodo con quella che poi sfocerà nella mistica tardo-medievale dove il rapporto mimetico
arrivava fino alla visione di Dio o al contatto con lui, ambivalenza dovuta al rapporto con la verità
rappresenta da Dio stesso.
       Che il problema della condanna da parte della patristica al teatro fosse dovuta al rapporto
con la ricerca e la pretesa di verità è emblematico nel caso di Ugo di San Vittore che nel suo
Didascalicon inserì la “theatrica” nelle arti meccaniche ma ne legittimò lo statuto solo dopo averne
disconosciuto ogni valore sul piano della sapientia e della virtus. Si tratta di un sistema teso al
divertimento nel senso proprio di vertere, volgere, da un certo corso principale senza per questo
influire sulla sua natura e direzione. Una piccola catarsi nel senso indicato da Aristotele. Proprio
riprendendo Aristotele, Ugo dirà che questo però deve avvenire in luoghi deputati e circoscritti in
un luogo specializzato ma anche di segregazione istituzionalizzata che impedisca il contagio, che
non deve toccare gli altri spazi del sociale. Insomma in un non-tempo e in un non-spazio, una sorta
di sonno innocente dell’identità e della coscienza. È chiaro che Ugo non parla del teatro come è ma
di come deve essere un teatro possibile.




                                                                                                   7
CONCLUSIONI:


       Dopo questo veloce excursus, rimane la fascinazione personale per quanto abbia contribuito
sia all’evoluzione del rito sacro, sia alla teatralità, la condanna dei Padri della Chiesa. Nella
condanna era insita la memoria e nella memoria era insito il germe della rinascita.
       Si parla spesso del Medioevo come di un’era scura e buia, priva di grande cultura e si fatica
a trovarci dentro il germe della grandezza di ciò che è venuto dopo. Indubbiamente il processo
disgregante dell’identità romana ha prodotto secoli dove era poco chiara l’idea stessa di quella che
oggi si chiamerebbe “domanda sul senso”. Difficile spiegare ai popoli che la loro realtà politica
stava cambiando, quello che vedevano quotidianamente era una realtà in totale mutamento ma i loro
riferimenti quotidiani erano gli stessi: non a caso molte delle istituzioni politiche e religiose
medioevali sono eredità diretta di cariche imperiali.
       Motivo di grande interesse personale sono, per me, le analogie, convinto come sono che la
storia si ripeta. Trovo che oggi noi assistiamo ad un neo-Medioevo: davanti a noi una società
disgregata si interroga sul senso e per di più sulla necessità di porsi ancora la domanda sul senso.
Non mi suonano estranee le visioni patristiche dovute alla mancata distinzione delle varie forme di
spettacolo. Oggi un teorico dell’estetica parla di linguaggio televisivo, di mondo dello spettacolo, di
spettacolarizzazione della politica o dello sport: tutti questi ambiti, di fatto, gli competono. A fatica
di distingue tra il concetto di arte e di comunicazione. Di nuovo la critica è contro la mercificazione
del corpo, contro la spettacolarizzazione finalizzata a se stessa, contro la totale mancanza di
contenuti e si è addirittura dimenticato, nella prassi, quel filone di sperimentazione che cercava di
evolvere e superare la parola.
       Siamo nella società del nudo, della vivisezione dei cadaveri nelle fiction, della parola e
dell’apparenza e gli intellettuali si scagliano di nuovo contro lo spettacolo che cerca solo il mero
coinvolgimento del pubblico come quello delle folle allo stadio. I teatri si dividono tra musei di un
passato di cui ripetono solo le mere parole ma non i significati - una parola talmente vuota che
nemmeno riesce a valere come significante - e realtà che a fatica sopravvivono a se stesse.
Dimenticando che la ricerca può portare a diventare significanti di se stessi molti mirano
agonisticamente a diventare significato di se stessi in un mondo compresso in un’auto-
rappresentazione di cui Platone a fatica conterebbe i gradi di distanza dal vero.




                                                                                                       8
Per la trattazione dell’argomento si è fatto riferimento a:


       Luigi Allegri, Teatro e spettacolo nel medioevo, Laterza, 1988, Roma.


       Sandra Pietrini, Spettacoli e immaginario teatrale nel medioevo, Bulzoni Editore, Roma,
       2001.


       Ambrogio Artoni, Il sacro dissidio; Presenza mimesi, teatri d’Occidente, Utet, Torino, 2005.




                                                                                                      9
Cenni bibliografici:


       Agostino, Commento al Vangelo di San Giovanni, trad. it. E note di E. Gandolfo, Roma,
       1968.


       Id., De Consensum Evangelistarum, in Migne, P. L., vol. 34.


       Id., De Doctrina Christiana, a cura di I. Martin, “Corpus Christianorum. Series latina”,
       Turnholti, 1962.


       Id., Esposizioni sui salmi, II, trad. it. e cura di V. Terulli, Roma, 1970.


       Id., La città di Dio, trad. it. di D. Gentili, Roma, 1978.


       Id., Le confessioni, trad. it. e note di C. Carena, Roma, 1965.


       Arnobio, Adversus Nationes libri VII, a cura di C. Marchesi, Torino, 1955.


       Cassiodoro, Variarum Libri XII, a cura di J. Fridh, “Corpus Christianorum. Series latina”,
       Turnholti, 1973.


       Epitteto, Il manuale, a cura di S. Arcoleo, Torino, 1963.


       Isidoro, Etymologiarium libri XVIII, in Migne, P.L., vol. 82.


       Lattanzio, Divinae Istituziones e Epitome Divinarum Istitutionum, in Migne, P.L., vol. 6.


       Tertulliano, Apologeticum, a cura di P. Frassinetti, Torino, 1965.


       Id., De Spectaculis, trad. it. e cura di E. Castorina, Firenze, 1961.




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La demonizzazione del teatro da parte dei padri della chiesa

  • 1. La dissoluzione dell’Impero Romano porta con sé la dissoluzione dell’assetto culturale della società in generale. Si perde così ogni continuità con le forme tradizionali di pratica teatrale. Alla perdita dell’idea di teatro contribuirà in maniera decisiva la condanna da parte dei padri della chiesa negli ultimi secoli della romanità quando, per altro, lo spettacolo si era ormai ridotto a combattimenti fra gladiatori o fra gladiatori e animali feroci. Non si deve dimenticare però che proprio tramite la chiesa, sia passata, tramite la condanna stessa, la memoria del teatro. Progressivamente anche la Chiesa farà sue alcune tecniche spettacolari, in quanto ne comprenderà il potere di fascinazione e si arriverà ad una spettacolarizzazione della liturgia che porterà ad una teatralità religiosa vera e propria. Cerchiamo quindi di analizzare la condanna del teatro, o meglio dello spettacolo in quanto tale, da parte della patristica. La demonizzazione del teatro nei padri della chiesa: La condanna morale e sociale dell’attore appartiene già ai valori della classicità romana nella quale era malvisto l’affidare al corpo, anziché alla parola, la comunicatività. Ciò è particolarmente evidente se si presta attenzione da ciò che si può evincere dalla storia semantica di actor e histrio1: è proprio l’uso della voce che rende il primo termine meno negativo e lo avvicina all’orator. Per di più il professionismo dell’attività attoriale costituiva un ulteriore motivo di discredito in quanto classificato negli infamia, mentre l’attività degli attori non professionisti era classificata tra gli humilia. Si vede poi, nelle testimonianze di Cicerone, Orazio o di Seneca, che essi trovavano disdicevole la progressiva incombenza dell’evento spettacolare su quello letterario, in quanto l’occhio diventava ricettore primo in vece dell’orecchio, in un miscuglio in cui si perde di vista la differenza fra il circo e il teatro. È dunque uno spettacolo, di gladiatori o di prostitute-attrici che consumano veri atti sessuali nell’orchestra, che richiede agli spettatori la semplice partecipazione emozionale, paragonabile alle folle che seguono il calcio oggi, che si trovano davanti i primi scrittore cristiani. Essi non faranno distinzione tra il teatro e le altre forme di spettacolo, condanneranno lo spettacolo in quanto tale in quanto forma d’idolatria. Sarà Tertulliano soprattutto a illustrare questo principio nel De Spectaculis e nell’Apologeticum: per lui gli spettacoli sono idolatri soprattutto per la loro origine, in quanto legati e riferiti continuamente, nei luoghi e nelle azioni che vi si svolgono, alle divinità pagane. Nelle argomentazioni riguardo l’idolatria vi è anche un caso di petizione di principio: gli spettacoli sono disonesti in quanto venerano dèi pagani, ma d’altro canto è proprio la disonestà degli spettacoli ad 1 Zanchelli, 1964. 1
  • 2. essere usata come prova della non credibilità di questi dèi. Esempi di tale argomentazioni sono presenti in Arnobio o in Agostino. Questo perché gli dèi pagani sono, per le Scritture, vane parvenze, idoli appunto, dietro i quali agiscono spiriti maligni e nell’immoralità dello spettacolo stesso si trova conferma di ciò2. Un aspetto fondamentale delle argomentazioni contro lo spettacolo è la comparazione tra il teatro e Venere: parlando della nascita del teatro di Pompeo, Tertulliano sottolinea come Pompeo, temendo atti censori alla sua memoria, sovrappose un tempio consacrato a Venere al proprio teatro, dicendo esso era un tempio sotto il quale vi erano poste gradinate per gli spettacoli 3. Tertulliano fa interagire i termini teatro e Venere al di là del loro legame oggettivo di questo passaggio: l’autore deduce la negatività dell’elemento teatro dalla mutata valenza dell’elemento Venere portato a sinonimo di libidine e di sfrenatezza sessuale. Poco dopo vi è l’esplicito rifiuto della corporeità e dello spettacolo: “È evidente l’influenza di Venere e Libero sulle arti sceniche. Ciò che appartiene tipicamente alla scena, ciò che si riferisce al gesto o alla flessione del corpo, consacra la dissolutezza a Venere e Libero: rammoliti una dal sesso e l’altra dal vino. Ciò, poi , che si compie con la voce, il ritmo, con gli strumenti musicali e con la scrittura, ha come aggiudicatari gli Apolli, le Muse e i Mercurii” 4. Sono dunque l’aspetto visivo e la spettacolarità accattivante il bersaglio principale. La mancata distinzione tra le forme teatrali e le altre forme di spettacolarità, quali i combattimenti tra gladiatori o le corse dei cavalli, è propria di quasi tutti gli autori cristiani, tranne forse in parte per Agostino, poiché per tutti ciò che conta è sì la natura di ciò che avviene in scena ma soprattutto essi mirano alla qualità del rapporto che s’instaura tra spettacolo e spettatore. Ad esempio, non riceve un eguale condanna da parte degli scrittori cristiani la drammaturgia pagana. La condanna c’è esplicitamente in Tertulliano, ma si tratta di un unico accenno in tutto il trattato. In Arnobio e Agostino la condanna dei contenuti della drammaturgia è giocata nella polemica contro gli dèi pagani ma un passo di Lattanzio dimostra che negli autori cristiani non è assolutamente chiara la distinzione tra drammaturgia e spettacolo, tra la disonestà del contenuto della fabule scritte dal drammaturgo e l’oscenità corrente nelle scene dal tardo impero ad opera di mimi e istrioni. Per noi è facile comprendere come sia duro l’attacco nei confronti della cristianità verso tutto ciò che non sia riconducibile a discorso o logos, certo però è che in questi scrittori non vi è un tale riferimento. Per gli scrittori cristiani l’accusa d’idolatria è più che sufficiente il resto è in più, infatti, è infrequente trovare nelle loro trattazioni un disgusto morale per la crudeltà di certi 2 Cfr anche a S. Paolo, I corinti, 10 20 3 De Spectaculis 4 De Spectaculis 2
  • 3. spettacoli, cosa invece presente in scrittori pagani come Seneca; solo Lattanzio si sofferma velocemente sulla questione, tra l’altro in modo piuttosto retorico. Anche per quello che riguarda l’oscenità, a costituire il vero scandalo non è tanto la meretrice o il meretricio come pratica, ma la sua spettacolarizzazione: è il dare spettacolo che per i cristiani costituisce il peccato maggiore per la particolarità di quel rapporto che lega il cittadino, che si fa spettatore, sul filo dello sguardo. Sembra esserci una vera propria ossessione dello sguardo, un accanimento maggiore per quei vizi che colpiscono l’occhio. Quando la condanna degli spettacoli avviene nel contesto del discorso generale contro la voluttà dei sensi, come in Lattanzio o in Girolamo, sempre a ciò che colpisce l’occhio è dato più spazio o comunque la priorità. Nel suo De Spectaculis Tertulliano, ad esempio, da una precisa indicazione dello statuto di autorità giudicatrice solo per colui che vede: “Metti a confronto, o uomo, l’accusato e il giudice: l’accusato è accusato perché è visto, il giudice è giudice perché vede”. Scrive Girolamo che il vizio entra nell’anima per i cinque sensi quasi fossero cinque finestre e se il vizio cattura la libertà dell’anima è perché la rende schiava delle passioni5. È nella concezione dello spettacolo come reagente per l’esplodere delle passioni che sta uno dei nodi centrali del rifiuto dei cristiani. C’è da un lato la passione esibita dall’attore, cioè quel meccanismo tecnico e psicologico per cui l’attore finge ma induce in chi lo guarda passioni autentiche. In certe notazioni di Tertulliano e di Agostino vi è una breve ma chiarissima e convincente indicazione del processo di identificazione e transfert psicologico che lega lo spettatore all’attore. È Agostino a portare oltre la notazione dell’uscir fuori di sé dello spettatore individuandone la ragione in un processo di identificazione. Nelle sue Confessioni rileva come l’uomo cerchi a teatro la sofferenza senza doverla patire lui stesso; posto passivamente a contemplare, apprezza di più l’attore capace di fare soffrire, senza nessun moto di misericordia. Molto peggio è però la passione che pervada gli spettatori non per identificazione, ma per esaltazione: non più quindi per portare fuori di sé il patimento, ma per il fatto di non essere più se stessi che porta molto lontano dalla continenza e dal dominio delle passioni proprie del buon cristiano. Questa critica ha in realtà radici nella tradizione stoica, un passo di Epitteto costituisce un perfetto antecedente delle prese di posizione cristiane. Tra i cristiani è Lattanzio soprattutto a insistere su questo aspetto consigliando di fuggire per questo qualsiasi forma di spettacolo. In particolare è il comportamento delle folle degli spettacoli del circo che viene violentemente censurato, ad esempio, in un passo delle Confessioni, Agostino racconta di Alipo trascinato a forza nell’anfiteatro, il quale non seppe resistere alla curiosità provocata dal boato della folla e suo malgrado fu coinvolto dall’euforia collettiva. Paradossalmente questo esempio, che Agostino 5 Adversus Jovinianum 3
  • 4. vorrebbe biasimevole non può non figurare anche come esempio delle capacità positive dello spettacolo, la sua enorme forza di fascinazione ad esempio. È il meccanismo stesso dell’evento spettacolare quello che fa della folla lì convenuta un organismo in qualche modo aggregante di spettatori che viene analizzato e poi censurato in quanto carico di valenze perturbatrici. La ricerca di imperturbabilità del cristiano non è quella stoica, quella dell’individuo saggio, ma una visione impositrice e didattica tesa non ad immunizzare il singolo, ma a reprimere le passioni nelle masse. È questo che unifica nella condanna tutte le forme di spettacolo in modo sostanzialmente unitario, in un modo che certo è filologicamente indebito ma culturalmente e ideologicamente legittimo dati i modi e gli obiettivi dei primi cristiani, per questo nelle invettive di questi autori non sono previste gerarchie e distinzioni tra i veri tipi di spettacolo. È il solo Agostino, come accennato prima, a riuscire a distinguere in maniera netta, nel De Civitate Dei, non solo tra drammaturgia e spettacolo ma tra spettacolo teatrale che ha come base un testo scritto e altri spettacoli o anche spettacoli teatrali non letterari; però non si spinge fino al recupero teorico di una teatralità antica nutrita di valori alti e di classicità che risulta invece dispersa nella rigidità e nel rigore di una polemica che arriva a confondere i piani e gli oggetti. Diverso è il caso di Cassiodoro all’inizio del VI secolo nella nota lettera che scrive per Teodorico a Simmaco in cui raccomanda il restauro del teatro di Pompeo, proprio quel teatro che Tertulliano aveva portato come esempio della immoralità del teatro stesso, e contestualmente si produce in un’esaltazione degli spettacoli. Il tono con cui elenca le varie forme di spettacolo è diverso dagli altri cristiani: anche il mimo e il pantomimo sono considerati con benevolenza e ammirazione e il solo accento polemico è a quel processo di degenerazione per cui azioni nate per diletti onesti (cosa che nessun altro cristiano avrebbe ammesso) si sono poi degradati e involgariti. È proprio una posizione come questa di Cassiodoro che ci dimostra come la polemica anti-teatrale degli scrittori cristiani, che tanto peserà nei secoli successivi, sia in origine viziata da presupposti teorici che non le consentono di inquadrare l’oggetto contro cui polemizza. Ad oggi la critica appare sostanzialmente estrinseca, a tratti superficiale, da un lato troppo tesa ad assumere gli spettacoli come pretesto per cogliere un bersaglio che li trascende, ovvero la mentalità pagana, e dall’altro troppo sociologicamente dipendente dall’avversione a quel particolare tipo di spettacolo che circolava nel tardo impero, ma dal quale si partiva per una condanna globale. Cercando di vedere al di là dell’ideologica accusa di idolatria, per altro non imputata al solo elemento teatrale, cerchiamo di comprendere cosa rimane dell’accusa al sistema teatrale. Ciò che rimane è sostanziale perché va a toccare un nodo che è dentro i meccanismi del teatro ed è la critica alla visività degli spettacoli, al loro essere mostra di eventi più che eventi, al loro prodursi come oggetti il cui unico scopo è di creare un rapporto visivo ed emotivo con lo spettatore. Questa critica 4
  • 5. non è nuova, come si è visto è rintracciabile già in autori della classicità latina ma per i cristiani s’inserisce in un differente contesto: non si tratta più di constatare un decadimento, attraverso il passaggio dall’orecchio all’occhio, di una forma culturale di cui si compiange il glorioso passato ma di descrivere e condannare proprio i meccanismi costitutivi della spettacolarità come evento non estetico ma antropologico. In questa chiave si può leggere la denuncia dell’inutilità degli spettacoli riscontrabile in Tertulliano, Lattanzio, Arnobio, Giovanni Crisostomo. Rimarcare l’inutilità di un evento significa che esso non produce nient’altro all’infuori degli effetti immediati che dà. Se questi effetti , che sono divertimento e soprattutto scatenamento di passioni, sono negativi e peccaminosi, lo spettacolo in sé non potrà che essere negativo e peccaminoso. Questo aspetto è talmente prioritario che si perde perfino quella accusa che era propria del teatro già nell’antica Grecia, ovvero di essere un falso istituzionalizzato. L’attore pretende di essere altro da sé, cerca di trasformarsi nell’altro da sé. Tertulliano stesso parla della “falsa imitazione” solo verso la fine del suo trattato e in particolare riguardo la maschera. Nel De cultu foeminarum di Tertulliano vi è poi quella che è la condanna “ontologica” dell’imitazione: “Ciò che è naturale è opera di Dio, ciò che è artificiale è opera del diavolo”. Questo porta alla condanna di chi svolge questo affare del diavolo, soprattutto se poi tale attività è eseguita tramite le capacità mimetiche ed istrioniche del corpo. Non a caso il periodo tra il V e il VI secolo, quando ogni forma di spettacolo istituzionalizzato è stata ormai distrutta si passa al tentativo di rimozione dell’idea stessa di teatro. Non a caso Isidoro all’inizio del VII secolo collocherà l’idea di teatro in un passato remoto e in termini quasi irriconoscibili. Questa rimozione colpirà anche i mimi e gli istrioni girovaghi anche se molto a livello di tradizione teorica, coniugata tuttavia con una pratica molto più tollerante di quanto le prese di posizione ufficiale facciano pensare. Se la condanna fu pesante è comunque innegabile che la memoria del teatro si sia tramandata tramite gli scritti dei Padri della Chiesa. Il ricordo prevalente è per il teatro romano piuttosto che per quello greco grazie al fatto che nella De Civitate Dei di Agostino si narra l’origine dei ludi scenici, fatto che stimolò la curiosità di molti eruditi e illustratori tardo-medievali. Sempre in questo testo Agostino dichiara che le commedie e le tragedie classiche sono spettacoli meno condannabili in quanto l’oscenità della scena non è anche oscenità della parola. È utile ricordare che a quel tempo la lettura di Terenzio era parte integrale della educazione dei giovani di buona famiglia e non a caso le commedie di Terenzio furono copiate e illustrate per tutto il Medioevo. Una delle fonti principali per la trasmissione della cultura greca e romana sono le Etymologie del vescovo Isidoro di Siviglia (già menzionato prima) vissuto tra il VI e il VII secolo e considerato l’ultimo dei padri della chiesa. Alcuni capitoli sono dedicati al teatro e alle arti sceniche, descritte come una reminescenza molto remota. Nella distinzione che fa circa i generi del 5
  • 6. componimento è interessante notare come sia mutata la valenza delle tragedia: da un’idea fatalista di destino cieco, si passa al concetto di responsabilità individuale: se l’eroe antico è spesso colpito da maledizioni della stirpe e assurge a figura esemplare dell’impotenza umana, la concezione cristiana tende a ricondurre tutto alla nozione di peccato. In sintesi Edipo si trasforma da vittima di una tragedia di conoscenza in un matricida incestuoso. Si ricorda sempre a proposito dell’estetica che essa nasce nello stesso momento e tramite la sua condanna ontologica da parte di Platone che pone l’arte tre gradi distante dal vero, imitazione di imitazione, condanna che colpisce la mimesis in ogni sua forma. Il tentativo cristiano è quello di deontologizzare il male, di rimuoverlo dal mondo, di passare dal concetto neoplatonico dell’uno al concetto cristiano di Dio, dal motore immobile di Aristotele a Dio come creatore dell’universo. Agostino è stato l’emblema filosofico di questo tentativo con la sua disamina del problema del male e i suoi tentativi di attribuire alla cattiva conoscenza il male del mondo: se Dio è onnipotente il male non può esistere, l’errore è dovuto al libero arbitrio dell’uomo che, non capendo, può seguire la via sbagliata. In questo contesto la condanna a chi produce una “falsa conoscenza” come quella dell’arte istrionica e mimetica per antonomasia, non può che essere totale. Non è certo un caso che la condanna di Platone avvenga in un luogo deputato ad un uso normativo circa la società ideale, ovvero nella Repubblica, e non in un testo specificatamente dedicato all’arte o alla poesia. In una società come quella greca, dove le capacità oratorie e di fascinazione sulle masse potevano decidere le sorti di un dibattito pubblico e della societas in generale non si poteva rischiare di avere cultori di poesia o teatro la cui capacità di persuasione era, a detta dello stesso Platone, altissima, al punto che perfino il filosofo poteva essere tratto in inganno. Ed è questa stessa distinzione, tra il linguaggio pacato del filosofo e tra il linguaggio che eccita i sensi, che scatena la polemica cristiana contro le forme di spettacolo del tardo impero. Completamente dimenticate, in un primo momento, sembra invece la versione di Aristotele che nella sua Poetica cercava più di analizzare le varie forme di comunicazione nel segno della moderatezza, un invito a quella che oggi chiameremmo una “deontologia professionale” con valenze ontologiche meno rimarcate. La mancata condanna però delle commedie di Plauto e di Terenzio in quanto testi, fa comprendere che la condanna globale della rappresentazione è dovuta allo spostamento di attenzione dal “performer” al pubblico, poiché a teatro sarebbe esposto alla potenze di quel processo di mimesis appunto tali da provocare la totale immedesimazione. Agostino contrapporrà questo processo mimetico dello spettatore nelle Confessioni con il sentimento cristiano della pietas, trovando che la gravità di questa mimesis è che produce un’eccitazione per la sofferenza vista, senza alcuna idea di soccorso. Se si pensa che, ancora in pieno romanticismo, un autore la cui 6
  • 7. estetica è considerata un punto fondamentale della storia del pensiero occidentale, quale Schopenhauer, riproporrà la pietà come punto cardine della sua visione del mondo, influenzando autori come Wagner e Pirandello, si può avere un’idea di quanto la condanna di Platone e di Agostino fosse radicata nel modo stesso di concepire la società e i suoi modi di rappresentare e rappresentarsi. La “linea platonica” fu perseguita da Agostino, Tertulliano e Lattanzio senza che circolassero grandi contributi testuali di Platone, la maggior parte delle loro conoscenze erano mediate dal neo-platonismo di Plotino e soprattutto da tradizioni reiterate nella letteratura romana. La “linea aristotelica” invece avrà proprio una riflessione teologica più fondata tra i cui esponenti spiccano Ugo di San Vittore e Tommaso D’Aquino. L’attacco di questi teologi sarà soprattutto contro gli aspetti folclorici connessi con la ritualità precristiana, che richiedevano una mimesis profonda ma che mischiavano molti aspetti del sacro e del profano; uno dei massimi esponenti di questo attacco sarà anche Abelardo. Non si può scordare anche l’ambivalente rapporto della Chiesa di quel periodo con quella che poi sfocerà nella mistica tardo-medievale dove il rapporto mimetico arrivava fino alla visione di Dio o al contatto con lui, ambivalenza dovuta al rapporto con la verità rappresenta da Dio stesso. Che il problema della condanna da parte della patristica al teatro fosse dovuta al rapporto con la ricerca e la pretesa di verità è emblematico nel caso di Ugo di San Vittore che nel suo Didascalicon inserì la “theatrica” nelle arti meccaniche ma ne legittimò lo statuto solo dopo averne disconosciuto ogni valore sul piano della sapientia e della virtus. Si tratta di un sistema teso al divertimento nel senso proprio di vertere, volgere, da un certo corso principale senza per questo influire sulla sua natura e direzione. Una piccola catarsi nel senso indicato da Aristotele. Proprio riprendendo Aristotele, Ugo dirà che questo però deve avvenire in luoghi deputati e circoscritti in un luogo specializzato ma anche di segregazione istituzionalizzata che impedisca il contagio, che non deve toccare gli altri spazi del sociale. Insomma in un non-tempo e in un non-spazio, una sorta di sonno innocente dell’identità e della coscienza. È chiaro che Ugo non parla del teatro come è ma di come deve essere un teatro possibile. 7
  • 8. CONCLUSIONI: Dopo questo veloce excursus, rimane la fascinazione personale per quanto abbia contribuito sia all’evoluzione del rito sacro, sia alla teatralità, la condanna dei Padri della Chiesa. Nella condanna era insita la memoria e nella memoria era insito il germe della rinascita. Si parla spesso del Medioevo come di un’era scura e buia, priva di grande cultura e si fatica a trovarci dentro il germe della grandezza di ciò che è venuto dopo. Indubbiamente il processo disgregante dell’identità romana ha prodotto secoli dove era poco chiara l’idea stessa di quella che oggi si chiamerebbe “domanda sul senso”. Difficile spiegare ai popoli che la loro realtà politica stava cambiando, quello che vedevano quotidianamente era una realtà in totale mutamento ma i loro riferimenti quotidiani erano gli stessi: non a caso molte delle istituzioni politiche e religiose medioevali sono eredità diretta di cariche imperiali. Motivo di grande interesse personale sono, per me, le analogie, convinto come sono che la storia si ripeta. Trovo che oggi noi assistiamo ad un neo-Medioevo: davanti a noi una società disgregata si interroga sul senso e per di più sulla necessità di porsi ancora la domanda sul senso. Non mi suonano estranee le visioni patristiche dovute alla mancata distinzione delle varie forme di spettacolo. Oggi un teorico dell’estetica parla di linguaggio televisivo, di mondo dello spettacolo, di spettacolarizzazione della politica o dello sport: tutti questi ambiti, di fatto, gli competono. A fatica di distingue tra il concetto di arte e di comunicazione. Di nuovo la critica è contro la mercificazione del corpo, contro la spettacolarizzazione finalizzata a se stessa, contro la totale mancanza di contenuti e si è addirittura dimenticato, nella prassi, quel filone di sperimentazione che cercava di evolvere e superare la parola. Siamo nella società del nudo, della vivisezione dei cadaveri nelle fiction, della parola e dell’apparenza e gli intellettuali si scagliano di nuovo contro lo spettacolo che cerca solo il mero coinvolgimento del pubblico come quello delle folle allo stadio. I teatri si dividono tra musei di un passato di cui ripetono solo le mere parole ma non i significati - una parola talmente vuota che nemmeno riesce a valere come significante - e realtà che a fatica sopravvivono a se stesse. Dimenticando che la ricerca può portare a diventare significanti di se stessi molti mirano agonisticamente a diventare significato di se stessi in un mondo compresso in un’auto- rappresentazione di cui Platone a fatica conterebbe i gradi di distanza dal vero. 8
  • 9. Per la trattazione dell’argomento si è fatto riferimento a: Luigi Allegri, Teatro e spettacolo nel medioevo, Laterza, 1988, Roma. Sandra Pietrini, Spettacoli e immaginario teatrale nel medioevo, Bulzoni Editore, Roma, 2001. Ambrogio Artoni, Il sacro dissidio; Presenza mimesi, teatri d’Occidente, Utet, Torino, 2005. 9
  • 10. Cenni bibliografici: Agostino, Commento al Vangelo di San Giovanni, trad. it. E note di E. Gandolfo, Roma, 1968. Id., De Consensum Evangelistarum, in Migne, P. L., vol. 34. Id., De Doctrina Christiana, a cura di I. Martin, “Corpus Christianorum. Series latina”, Turnholti, 1962. Id., Esposizioni sui salmi, II, trad. it. e cura di V. Terulli, Roma, 1970. Id., La città di Dio, trad. it. di D. Gentili, Roma, 1978. Id., Le confessioni, trad. it. e note di C. Carena, Roma, 1965. Arnobio, Adversus Nationes libri VII, a cura di C. Marchesi, Torino, 1955. Cassiodoro, Variarum Libri XII, a cura di J. Fridh, “Corpus Christianorum. Series latina”, Turnholti, 1973. Epitteto, Il manuale, a cura di S. Arcoleo, Torino, 1963. Isidoro, Etymologiarium libri XVIII, in Migne, P.L., vol. 82. Lattanzio, Divinae Istituziones e Epitome Divinarum Istitutionum, in Migne, P.L., vol. 6. Tertulliano, Apologeticum, a cura di P. Frassinetti, Torino, 1965. Id., De Spectaculis, trad. it. e cura di E. Castorina, Firenze, 1961. 10