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PROFESSIONE
Vaccini: Guida
alle controindicazioni
pag. 18
Sanità
Cannabis light: libera
vendita e tutela della salute
pag. 25
L’intervista
Elio Franzini: da filosofo
a rettore
pag. 37
InFormaMI
3. 2018 anno LXXI
Bollettino dell’OMCeOMI
360°
pag. 5
i 40anni
deLla legge
basaglia
I telefoni dell’Ordine
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3	 Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde
	I 40 ANNI DELLA LEGGE BASAGLIA
	 5	 La psichiatria tra risorse scarse e nuove sfide
	 9	 L’assistenza psichiatrica in cifre: Lombardia vs Italia
	 10	 Follia e manicomi nella storia
	 13	 Verso gli Stati Generali della medicina italiana
	 15	 Violenza sugli operatori sanitari, il corso di formazione della FNOMCeO
	 16	 Diabete e parodontite: una sfida comune
	 18	 Uso dei vaccini: una Guida per valutare controindicazioni e precauzioni
	 19	 Ricerca clinica: come orientarsi tra prove e studi
	 21	 Antidepressivi e aumento di peso
	
	 22	 AAA Società tra Professionisti cercasi
	
	 25	 Cannabis leggera ma non troppo
	 27 	 Pari efficacia a minor prezzo coi biosimilari	
	 30	 Elenco nazionale dei dirigenti delle Asl al debutto
	 32	 Telemedicina e cure palliative, a Garbagnate il primo progetto italiano
	
	 34	 Il diabete non è più quello di una volta
	 36	 Un dolce dialogo del terzo millennio
	
	 37	 Da filosofo a rettore
	
	 40	 1968 e dintorni
	 43	 Un secolo di Spagnola
	
	 46	 Da vedere e ascoltare
	 47	 Da leggere
	 48	 Eventi. OMCeOMI si dà al basket
SmartFAD
	I 	 Gli esami diagnostici essenziali di laboratorio
	 II 	 Pallido e spaesato
	 IV 	 Debole e preoccupata
	 VI 	 Stanco e avvilito	
sommario
editoriale
360°
professione
Sanità
diritto
l’intervista
clinicommedia ieri e oggi
storia e storie
2 InFormaMI
Registrazione al Tribunale di Milano
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Iscritta al Registro degli operatori
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Autori degli articoli di questo numero:
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Revisori
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Revisore Supplente
Donatella Gambera
PROFESSIONE
Vaccini: guida
alle controindicazioni
pag. 18
SANITÀ
Cannabis light: libera
vendita e tutela della salute
pag. 25
L’INTERVISTA
Elio Franzini: da filosofo
a rettore
pag. 37
INFORMAMI
3. 2018 ANNO LXXI
Bollettino dell’OMCeOMI
360°
pag. 5
I 40ANNI
DELLA LEGGE
BASAGLIA
Nota per gli autori
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33. 2018
Editoriale
Ho appena assistito in prima persona alla bella e partecipata riunione di tutte le professioni
sanitarie svoltasi a Roma, molto ben organizzata dalla FNOMCeO, a tratti, perfino entusiasmante,
in cui lo slogan principale era, in sostanza, “Italia non ci abbandonare”. Come noto, tutto è nato
in conseguenza ai rumors sulle trattative più o meno riservate relative al così detto “regionalismo
differenziato” e abbiamo appreso dalla stampa ciò che Lombardia, Emilia Romagna e Veneto hanno in
animo di fare in campo sanitario. Una sorta di quasi totale svincolo dal Sistema Sanitario Nazionale.
D’altra parte, c’è poco da meravigliarsi. Sono anni che sentiamo parlare della voglia di autonomia di
alcune Regioni. Oltretutto, in un recente referendum, i cittadini lombardi si sono espressi in maniera
decisa per l’autonomia. Tutti questi eventi, però, hanno avuto su di me uno strano effetto ed ora, ahimé,
mi sento un po’ come il famoso personaggio di Robert Louis Stevenson.
Come ricorderete, il distinto e rispettato Doctor Henry Jekyll, medico e scienziato della
nebbiosa Londra vittoriana, convinto che in ogni uomo alberghi anche una parte oscura (Sigmund era
solo sei anni più giovane di Robert Louis!), elabora una pozione per liberarla e la prova su sé stesso
dando vita al terribile e ributtante Mister Hyde. Nel mio caso, il razionale e compìto Doctor Jekyll
concorda con il fatto che non sia possibile pensare ad un’Italia che assiste i pazienti a 21 velocità.
Roberto Carlo Rossi
Lo strano caso del dottor Jekyll
e del signor Hyde
4 InFormaMI
Editoriale
È di certo affascinante pensare che chi produce di più debba avere di più, tuttavia, non può essere
accettabile che una stessa persona abbia spettanze di vita differenti a seconda di dove vive, nell’ambito
di uno stesso Paese. Una Nazione che, oltre tutto, nella Carta Costituzionale proclama l’universalismo
del Servizio Sanitario Nazionale al punto di assicurare la salute a tutti, rimugina tra sé e sé Jekyll.
D’altra parte, basta leggere alcuni passaggi dei documenti divulgati dalla stampa, per scoprire (con
sgomento) che la Lombardia vorrebbe, tra le altre cose, arrivare alla autonoma “definizione dell’utilizzo
delle risorse finanziarie da impiegare per il personale, per l’acquisito di beni e servizi, di farmaci,
dispositivi medici, nonché per l’acquisto di prestazioni da erogatori di diritto privato, a fronte della
garanzia dell’equilibrio economico-finanziario complessivo del sistema sociosanitario; … definizione di
modalità erogative dei farmaci e dei dispositivi e di indirizzi di appropriatezza terapeutica e prescrittiva”
e molto altro ancora. Queste parole non vorranno mica dire – si chiede Jekyll, che in Lombardia si
farà strada un sistema privato di welfare? Che vi saranno ulteriori tagli agli stipendi e al personale
medico negli ospedali? Che, con la scusa dell’inappropriatezza, si faranno anche tagli all’assistenza
farmaceutica? E così, al buon Doctor Jekyll viene da sostenere con entusiasmo la campagna contro il
regionalismo differenziato.
Ma ecco che, all’improvviso, spunta il mostro. Il signor Hyde appare e con un ghigno sardonico
mi ricorda che oggi i medici lombardi, sia del territorio che dell’ospedale, sono tra i meno pagati della
nazione. Non solo: nei reparti lombardi non si assume più. Si preferiscono meno impegnativi contratti
libero-professionali. Le Aziende pagano di meno (non si fanno carico neppure della previdenza, che
ognuno si deve poi pagare) e se tra qualche mese si decide di risparmiare di più, via! Il posto lo si
libera senza tante storie. Per tacere poi del potere di acquisto: la vita in una grande città come Milano
o come Brescia o in alcune località turistiche sui laghi lombardi ha un costo iperbolico. E naturalmente
le regole si rispettano, com’è giusto: quindi impossibilità a fare la libera-professione per i medici del
Sistema Sanitario Nazionale, fatta rispettare a suon di periodiche ispezioni degli organi di Polizia
Giudiziaria. “Dov’erano gli altri quando i medici della nostra Regione erano (e sono) sommersi da
questi problemi?” “Perché nessuno ha detto nulla in merito al fatto che, ad esempio, un medico di
famiglia lombardo ha una remunerazione media anche di un terzo in meno di alcune altre Regioni?”.
“E adesso vogliono arrestare il regionalismo differenziato e chiedono l’unità del Paese nella difesa del
Servizio Sanitario Nazionale!”. Maledetto Mister Hyde, non vincerà! Senz’altro prevarrà la razionalità,
l’inappuntabile pacatezza e l’intelligenza del Doctor Jekyll… Almeno spero!
Videomessaggio OMCeOMI n. 9, novembre 2018
Il videomessaggio del Presidente è disponibile a questo link.
Chi non abbia ancora preso visione o voglia riguardare i precedenti videomessaggi può collegarsi alla playlist
53. 2018
Spendiamo troppo poco per far fronte
al bisogno di assistenza psichiatrica della
popolazione. Nonostante ciò, riusciamo
a rispondere alle nuove sfide
360°
La psichiatria tra risorse
scarse e nuove sfide
antonino michienzi
Era il 13 maggio 1978, quattro giorni dopo il
ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani
a Roma. Il Presidente della Repubblica Giovanni Leone
firmava quella che sarebbe diventata la legge 180/78, la
legge Basaglia.
Undici articoli approvati in fretta e furia, in meno di 20
giorni dal suo arrivo in aula, senza quasi discussione.
La legge resterà in vigore pochi mesi, fin quando nel
dicembre dello stesso anno verrà riassorbita in quella che
sarà la legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale,
ma resta l’atto di svolta per la psichiatria italiana e la vita
di migliaia di malati.
Quest’anno ricorre il quarantennale di quella legge
ed è l’occasione per vedere quanta strada abbia fatto
l’assistenza psichiatrica, in che stato di salute sia e che
cosa rimanga ancora da fare.
“In 40 anni sono stati curati quasi 30 milioni di italiani
senza utilizzare strutture coercitive ex manicomiali”, dice
i 40anni
deLla legge
basaglia
6 InFormaMI
40 anni deLla legge basaglia360°
Riparto Fondo sanitario
nazionale
Spesa per assistenza
psichiatrica
%
PA Trento 948.081.680 65.545.000 6,9%
PA Bolzano 900.647.539 55.956.000 6,2%
Emilia Romagna 8.028.834.802 393.621.000 4,9%
Umbria 1.635.899.441 67.820.000 4,1%
Lombardia 17.782.903.729 719.521.000 4,0%
Sicilia 8.904.853.100 343.965.000 3,9%
Friuli Venezia Giulia 2.240.253.730 79.940.000 3,6%
Lazio 10.412.623.204 371.076.000 3,6%
Italia 108.472.082.678 3.824.693.000 3,5%
Puglia 7.200.524.095 242.783.000 3,4%
Toscana 6.832.328.584 230.358.000 3,4%
Liguria 3.044.793.047 97.990.000 3,2%
Abruzzo 2.396.743.998 75.840.000 3,2%
Piemonte 8.042.518.413 252.572.000 3,1%
Calabria 3.487.925.833 104.199.000 3,0%
Veneto 8.772.746.159 258.820.000 3,0%
Sardegna 2.966.438.750 84.356.000 2,8%
Molise 572.515.029 16.250.000 2,8%
Valle d’Aosta 229.965.871 6.133.000 2,7%
Campania 10.199.870.935 265.444.000 2,6%
Marche 2.824.286.068 71.348.000 2,5%
Basilicata 1.047.328.671 22.156.000 2,1%
La spesa per l’assistenza psichiatrica
Chi spende di più per l’assistenza
psichiatrica
Fonte: Nostra elaborazione
su dati Ministero della Salute
Rapporto Salute Mentale 2016
45%
12%
6%
37%
Assistenza ambulatoriale e domiciliare	 Euro 1.725.712.000
Assistenza semiresidenziale		 Euro 472.217.000
Assistenza residenziale		 Euro 1.407.865.000
Assistenza ospedaliera		 Euro 218.89.000
I dati del Sistema
Informativo per il
monitoraggio e tutela della
Salute Mentale (SISM)
sulla spesa per l’assistenza
psichiatrica in Italia per
setting assistenziale
(anno 2016).
Fonte: Rapporto Salute
Mentale 2016
73. 2018
Claudio Mencacci, direttore
del Dipartimento di
neuroscienze dellOspedale
Fatebenefratelli-Sacco di
Milano.
Basterebbe questo solo
numero a decretare il successo di un modello che,
seppur non perfetto, è studiato e imitato nel mondo,
fatto di 163 dipartimenti di salute mentale, 1.460 servizi
territoriali, 2.282 strutture residenziali, 898 strutture
semiresidenziali, 285 servizi psichiatrici di diagnosi e
cura ospedalieri e che ha anticipato di almeno quattro
lustri l’idea dell’integrazione ospedale-territorio.
Un successo, che tuttavia nasconde una criticità
divenuta ormai strutturale: la cronica carenza di risorse
economiche e umane.
“Le risorse investite dal nostro Paese nell’assistenza
psichiatrica sono sempre state molto modeste: circa il
3,5% del fondo sanitario, intorno a 4 miliardi l’anno.
Una percentuale molto bassa se si confronta con quella
di altri Paesi come Francia, Germania e Regno Unito
che riservano all’assistenza psichiatrica il 10-15% della
spesa sanitaria”.
Questa carenza di risorse non può non avere
conseguenze. La prima e più evidente è la ricaduta sul
personale. Anche se la psichiatria più di altri settori
ha retto l’urto del contingentamento del personale
dell’ultimo decennio scontiamo una grave carenza di
professionisti, psichiatri soprattutto.
Qualche numero: secondo i dati del Rapporto Salute
Mentale, nel 2016 il costo complessivo per l’assistenza
psichiatrica territoriale ammonta a 3.605.794.000 euro
suddiviso in assistenza ambulatoriale e domiciliare,
assistenza semiresidenziale, residenziale e ospedaliera
(vedi grafico e tabella a pag. 6) e la dotazione
complessiva del personale all’interno delle unità
operative psichiatriche pubbliche era pari a 31.586
unità. Di queste, circa 6.000 sono medici (psichiatri,
soprattutto), poco più di 2.000 sono psicologi, 14.000
infermieri. Completano il quadro 3.000 OTA/OSS,
quasi 2.000 educatori professionali e tecnici della
riabilitazione psichiatrica e 1.500 assistenti sociali.
Si tratta di numeri tutt’altro che rassicuranti: se la
media nazionale raggiunge infatti lo standard di un
operatore ogni 1.500 abitanti, in 14 regioni su 21 si
sconta un deficit di operatori che va dal 25 al 75% in
meno rispetto allo standard previsto.
A complicare le cose vi è poi la scarsa offerta di posti
letto dedicati alla psichiatria: sono meno di 10 per
100.000 abitanti. Solo la Turchia fa peggio di noi in
Europa (vedi tabella a pag. 8 e 9). Ciò è gran parte
frutto dell’approccio “basagliano” e territoriale della
nostra psichiatria; tuttavia, la riduzione oltre una certa
soglia dei posti letto ospedalieri mette a rischio la
capacità del sistema di rispondere alle acuzie.
“Se il settore va avanti lo fa grazie all’impegno e alla
passione degli operatori”, dice ancora Mencacci. “Ma
ciò non può impedire che in alcuni casi vengano prese
in carico solamente le situazioni più gravi”.
Un panorama che cambia
Mentre l’assistenza psichiatrica annaspa, le malattie
mentali prosperano. Si diffondono sempre di
più, cambiano di forma, obbligano a rivedere gli
assetti clinici. Nel 2016 sono stati in carico ai servizi
psichiatrici circa 800.000 malati. Inoltre, tra le prime
dieci malattie che causano disabilità ben quattro
(depressione, disturbo bipolare, schizofrenia e abuso
d’alcol) sono psichiatriche.
Velocemente sta anche cambiando il profilo del
paziente psichiatrico. Dai tempi dell’approvazione
della legge Basaglia “c’è stata una patoplastica della
malattia psichiatrica”, commenta Costanzo Gala,
direttore del Dipartimento Salute Mentale Asst
Ss Paolo e Carlo – Presidio dell’Ospedale San Paolo.
“I pazienti su cui interveniva la 180 erano popolazioni
stanziali, spesso affette da quella che gli autori
dell’epoca definivano dementia precox a indicare una
perdita della capacità cognitiva derivante dal disuso
dell’apparato mentale. Questo stato di cronicità
che non trae alcun vantaggio dalla permanenza in
ospedale costituisce la premessa alla chiusura dei
manicomi”.
Da allora la disponibilità di nuove terapie, i modelli di
presa in carico, i fattori patogenetici in gioco hanno
profondamente mutato lo scenario epidemiologico.
Ed è un cambiamento di cui è impossibile non tenere
conto. Oggi il 25% dei pazienti è affetto da disturbi
schizofrenici, oltre il 30% da disturbi dell’umore,
circa il 15% da forme d’ansia.
“Oltre alla crescita dei casi di depressione,
aumentati di quasi il 20% in dieci anni,
riscontriamo un aumento dei disturbi di
personalità e crescono i disturbi legati
Costanzo Gala, direttore del Dipartimento
Salute Mentale Asst Ss Paolo e Carlo – Presidio
dell’Ospedale San Paolo.
Claudio Mencacci, direttore del
Dipartimento di neuroscienze
dell’Ospedale Fatebenefratelli-Sacco
di Milano.
8 InFormaMI
360° 40 anni deLla legge basaglia
all’aumento della disponibilità di nuove sostanze
stupefacenti, per esempio i cannabinoidi sintetici.
Infine poi c’è tutto il capitolo delle nuove dipendenze
(da internet al gioco d’azzardo) e quello legato
ai disturbi del comportamento alimentare”, dice
Mencacci.
P come precoce
Se però c’è una tendenza che ha caratterizzato la
psichiatria degli ultimi anni è la presa d’atto di
un dato: che il 70% delle patologie psichiatriche
esordisce tra i 14 e i 24 anni.
“Ci siamo trovati di fronte a un aumento del numero
di ricoveri di minori”, afferma Mencacci. “La ragione
è da ricercare, probabilmente, nel fatto che i nostri
giovani sono sempre più esposti a fenomeni in grado
di slatentizzare i disturbi psichici: l’uso di droghe, la
carenza di sonno, l’assetto delle nostre città”.
Quale che sia l’origine, nell’ultimo decennio la
psichiatria italiana si è attrezzata per affrontare
questo nuovo fenomeno spostandosi dalla cura della
cronicità che era stato l’oggetto principale dei decenni
precedenti all’attenzione agli esordi della patologia e
ai trattamenti precoci.
Su questo fronte la Lombardia è stata tra le Regioni
apripista: “Negli ultimi anni sono stati finanziati
programmi innovativi finalizzati a intercettare i
disturbi psichici in età giovanile”, afferma Gala. Anche
intervenendo direttamente negli ambienti di vita dei
ragazzi. “Così, paradossalmente, proprio quando
la legge 180 sembrava aver dato tutto quello che
era possibile, riemerge l’importanza del suo assetto
organizzativo focalizzato sull’azione nel territorio”.
Il tutto adottando un modello a rete che coinvolga
altri attori; una strategia che ha dato ottimi risultati
negli ultimi anni nel riconoscimento precoce e nella
prevenzione delle complicanze della depressione post
partum.
La questione anziani
Intanto, i fenomeni demografici che stanno spostando
sempre in avanti le lancette dell’aspettativa di vita
hanno ripercussioni dirette in campo psichiatrico.
Così cresce il numero di anziani alle prese con il
disagio mentale.
“Il tema della patologia psichiatrica negli anziani è
sempre più importante. Le ragioni sono molteplici: il
primo è di ordine sociale e culturale. Il cambiamento
Albania 26 Andorra 14
Armenia 49 Austria 62
Azerbaigian 37 Bielorussia 67
Belgio 174 Bosnia ed Erzegovina 40
Bulgaria 67 Croazia 98
Cipro 22 Repubblica Ceca 96
Danimarca 54 Estonia 55
Finlandia 61 Francia 90
Georgia 34 Germania 128
Grecia 71 Ungheria 89
Islanda 44 Irlanda 35
Israele 44 Italia 10
Kazakistan 50 Kirghizistan 29
Lettonia 126 Lituania 108
Lussemburgo 82 Malta 136
Macedonia 54 Principato di Monaco 152
Montenegro 49 Paesi Bassi 139
Norvegia 116 Polonia 64
Portogallo 63 Moldavia 56
Romania 74 Federazione Russa 101
Serbia 75 Slovacchia 82
Slovenia 66 Spagna 36
Svezia 45 Svizzera 91
Tagikistan 18 Turchia 5
Turkmenistan 54 Ucraina 80
Regno Unito 46 Uzbekistan 25
Regione Europea dell’Oms 68
Posti letto psichiatrici
per 100.000 abitanti
Fonte: WHO Regional Office for Europe. “Psychiatric hospital
beds per 100 000”. European Health for All.
Visitato: 18 ottobre 2018
che sta investendo la nostra epoca è così tumultuoso
da privare le persone di ogni punto di riferimento
e gli anziani sono quelli che fanno più fatica ad
adattarsi”, dice Gala. “Le innovazioni tecnologiche che
si susseguono a ritmi vorticosi, i cambiamenti nella
93. 2018
L’assistenza psichiatrica in cifre:
Lombardia vs Italia
cristina gaviraghi
Lo scorso maggio è stato pubblicato dal Ministero della Salute il Rapporto
sulla Salute Mentale 2016, basato sulle informazioni raccolte dal SISM
(Sistema Informativo per la Salute Mentale).
Nel 2016 gli utenti psichiatrici assistiti dai servizi specialistici sono stati
sul territorio nazionale 807.000, con un tasso di circa 160 per 10.000
abitanti. Oltre la metà degli utenti sono state donne, principalmente con
disturbi affettivi, nevrotici e depressivi. Per i pazienti maschi, invece,
i disturbi più diffusi sono stati quelli schizofrenici, di personalità e
legati all’abuso di sostanze. La fascia di età più coinvolta è stata quella
compresa tra i 45 e i 54 anni, mentre i minori di 25 anni si sono rivolti
meno ai servizi psichiatrici.
Una situazione simile a quella lombarda, che ha visto nel 2016 circa
143.000 utenti psichiatrici assistiti (171 per 10.000 abitanti), con in
evidenza un tasso di prevalenza per 10.000 abitanti di 48,1 per la
depressione, circa 10 punti in più rispetto al valore di riferimento
nazionale. Un’assistenza erogata in Lombardia da 154 strutture per servizi
territoriali, 289 servizi residenziali e 155 semiresidenziali, queste ultime di
quasi il 20% superiori alla media nazionale. La Lombardia dispone inoltre
di 800 posti letto in degenza ordinaria. Nel 2016 sono state effettuate circa
20.000 dimissioni da strutture psichiatriche ospedaliere, un 10% in più
rispetto alla media italiana, dopo una degenza media di 13 giorni.
Il ricorso al TSO è stato inferiore rispetto al valore nazionale (-37,5%): 829
nel 2016, con un tasso di 10 per 100.000 abitanti. Una variazione analoga
rispetto alla media italiana, ma di tipo incrementale, si è registrata
invece per gli accessi in Pronto Soccorso con diagnosi psichiatrica che
in Lombardia nel 2016 sono stati quasi 130.000, di cui circa 8.000 per
schizofrenia e altri disturbi funzionali, 5.000 per depressione, e 51.000
per sindromi nevrotiche e somatoformi. I pazienti psichiatrici lombardi
usufruiscono anche di cure farmacologiche
per una spesa lorda di oltre 81
milioni di euro per antidepressivi,
litio e antipsicotici. Proprio
per i consumi in quest’ultima
categoria di farmaci, la
Lombardia si ritrova al secondo
posto nella classifica nazionale.
Nel 2016 gli utenti psichiatrici assistiti dai servizi specialistici sono stati sul
territorio nazionale 807.000, circa 160 per 10.000 abitanti. Oltre la metà sono
state donne, principalmente con disturbi affettivi, nevrotici e depressivi.
struttura urbana, i nuovi modelli familiari che si
diffondono. Non è strano che in un simile scenario,
l’anziano si senta estromesso dalla struttura
socioculturale”.
L’altra ragione ha a che vedere soprattutto con
l’allungamento dell’aspettativa di vita che fa sì che
si intreccino problemi che di solito sono separati,
producendo un mix inedito. “Per esempio, come
avviene nei malati più giovani, anche negli anziani
non è raro che compaiano disturbi psichici come
conseguenza della convivenza con altre patologie:
tuttavia la fragilità di questa popolazione rende
la loro gestione più delicata. Gli stessi problemi
psicocompartamentali negli anziani si intrecciano
con fattori organici, per esempio il fisiologico
declino cognitivo.Ciò rende ancor più difficile la
loro gestione. Specie per le famiglie”, continua lo
specialista.
Siamo attrezzati a rispondere a questi nuovi
scenari? Pur tra mille difficoltà legate alla carenza
di risorse, la risposta ai bisogni medici di questo
nuovo esercito di malati non è un problema:
“Tuttavia” dice ancora Gala “se oggi siamo attrezzati
a rispondere agli aspetti medici, di più si dovrebbe
fare sull’aspetto sociale, anche per prevenire il
più grave problema psichiatrico dell’anziano: il
suicidio”.
E così torniamo alla 180, con il malato considerato
come persona nei suoi aspetti sociali e relazionali.
Per il futuro, le sfide non mancano: “Vorrei una
psichiatria sempre più dedicata alla prevenzione,
al riconoscimento precoce”, dice Mencacci. “E alla
messa in atto tempestiva di trattamenti
adeguati, visto che oggi siamo in grado di
mettere in campo una risposta scientifica
e tecnologica in grado di migliorare la
qualità di vita del malato e restituirlo alla
società, anche in termini di contributo
professionale e lavorativo”.
L’esperto conclude: “Penso poi a una
psichiatria che riconosca le differenze
di genere, uomini e donne totalmente diverse
hanno modalità di presentazione diversa. E a una
psichiatria che si occupi di cura e guarigione e non
di custodia e controllo sociale. Non siamo i custodi
della normalità: siamo una branca medica che si
deve occupare delle persone per curarle, anche
laddove non sia possibile guarirle”.
10 InFormaMI
360° 40 anni deLla legge basaglia
Follia e manicomi
nella storia
Espressione della divinità, possesso del maligno,
emblema della pericolosità per la società e
per il potere. Come le diverse epoche hanno
interpretato la malattia mentale
cristina gaviraghi
Gli ultimi manicomi
in Italia hanno chiuso
definitivamente i battenti a fine
anni ’90, come ultimo atto di un
processo iniziato vent’anni prima
con l’approvazione della legge
180. Un provvedimento che ha
cambiato il modo di considerare e
gestire la malattia mentale, frutto
di un’evoluzione lenta e a volte
contraddittoria, che ha percorso
la storia della follia nel corso dei
secoli.
Gli insani, gli alienati, i matti non
sono sempre stati rinchiusi e
isolati dalla società. Nell’antichità
i folli avevano nell’immaginario
collettivo qualcosa di divino, di
soprannaturale e la loro diversità
veniva “curata” attraverso riti
mistico-religiosi operati da
sacerdoti.
Sarà con Ippocrate, tra il IV e
V secolo a.C., che il disturbo
mentale troverà una collocazione
in ambito medico: il cervello viene
ritenuto alla base dell’intelligenza
e, nel caso sia squilibrato,
causa della malattia mentale.
Un’interpretazione organica che
verrà rafforzata secoli dopo da
Galeno (II sec. d.C.) con studi sul
sistema nervoso centrale e con
l’elaborazione di una prima teoria
sul rapporto tra cervello e mente.
Allora il folle non destava ostilità
e veniva accettato come malato.
L’interesse per la follia restò
vivo anche nell’antica Roma,
ma, col trascorrere dei secoli,
venne contaminato da visioni
e interpretazioni religiose che
con l’arrivo del Medioevo
presero il sopravvento. Il folle
per il Medioevo divenne un
indemoniato, aggredito da una
forza malvagia che, insinuandosi
nei suoi umori, ne contagiava il
corpo. La gestione della malattia
Francisco Goya, Il giardino dei pazzi (1794).
113. 2018
mentale passò così dai medici alla
Chiesa, all’interno dei monasteri, a
opera di esorcisti e inquisitori.
Dopo il XV secolo, però, la follia
cominciò a perdere il suo carattere
religioso e iniziò a insinuarsi
l’idea della pericolosità: il malato
di mente era una minaccia per la
società e andava, perciò, rimosso
da essa. Nacquero le prime case
di internamento, emblema delle
quali fu l’Hopital General di Parigi
del 1656, dove venivano rinchiusi,
non certo per essere curati, non
solo i matti, ma tutti i reietti della
società: poveri, vagabondi, storpi,
nullafacenti e anche criminali.
Tali case di internamento si
diffusero in tutta Europa,
diventando luoghi di pura
reclusione che spogliavano gli
individui della loro dignità fino alla
fine dei loro giorni.
Sarà solo sulla scia degli ideali
illuministi che qualcosa inizierà a
cambiare. Nel XVIII secolo riprese
piede la spiegazione della follia
in termini di malattia mentale. In
Francia, Philippe Pinel cominciò
a distinguere i malati di mente da
poveri e vagabondi, intuendo la
necessità di luoghi specifici e di
nuovi approcci deputati alla loro
cura, dando via alla nascita dei
primi manicomi, la cui costruzione
in Italia fu richiesta per lo più
da ordini ecclesiastici. Pinel
liberò letteralmente dalle catene
i pazienti rinchiusi nelle case di
internamento, convinto che la
malattia mentale fosse uno stato
di alterazione di un equilibrio
esistente nelle passioni umane, da
curare moderando e riorientando
gli eccessi e la disarmonia. Un
approccio sposato in Italia da
Vincenzo Chiarugi, direttore del
manicomio fiorentino di Bonifazio
aperto nel 1788.
Il passaggio tra ’800 e ’900
segnò l’arrivo di un cambiamento:
si avvertì di più la necessità di
comprendere i sintomi della
malattia mentale piuttosto che
reprimerli e la psicoanalisi
mosse i suoi primi passi. Freud
approfondì in Francia, insieme al
neuropatologo Charcot, che si era
concentrato sulla cura dell’isteria
tramite l’ipnosi, le tematiche
riguardanti l’inconscio, che
porteranno poi all’elaborazione di
un primo modello psicoterapeutico
per le malattie mentali.
Nacque la psichiatria come scienza
autonoma che restò però, anche per
l’influsso del positivismo, ancorata
a una spiegazione organica della
malattia mentale: un cervello malato
era alla base di un comportamento
deviato.
Fu in questo clima che in Italia si
sviluppò il dibattito, anche politico,
sulla gestione delle malattie mentali.
Si arrivò all’approvazione, da parte
del governo Giolitti, della legge
36 del 1904, che diede omogeneità
nazionale alle precedenti normative
territoriali sulla regolamentazione
dei manicomi. Un provvedimento
più di ordine pubblico che di
tipo sanitario, che disponeva il
ricovero coatto negli ospedali
psichiatrici, in seguito a certificato
medico e ordinanza del questore.
Il manicomio era, da un punto
di vista giuridico e scientifico, il
luogo esclusivo per il trattamento
dei disturbi mentali, ma restava
fondamentalmente un luogo di
contenzione.
Negli anni successivi il numero
dei pazienti ospitati nei manicomi
continuò a crescere tra terapie
quali l’elettroshock, lo shock
insulinico e le lobotomie frontali.
All’Ospedale psichiatrico di
Mombello, alle porte di Milano,
ormai sovraffollato, si decise di
affiancare una succursale che fu
ultimata nel 1924 e data in gestione a
privati. Quindici anni dopo divenne
un manicomio pubblico e, in seguito
all’ampliamento del 1945, venne
intitolato a Paolo Pini, il neurologo
milanese pioniere nella cura dei
malati psichiatrici e non in situazioni
di svantaggio sociale. Sarà questo il
manicomio più importante di Milano
che nel tempo arriverà a accogliere
oltre 1.000 pazienti, organizzerà
anche una sezione per adolescenti,
ingrandirà la biblioteca, si doterà
di sala cinematografica, laboratori
creativi e compagnia filodrammatica,
fino a ospitare nel 1959 la prima
clinica universitaria di psichiatria
milanese. Chiuse nel 1999, dopo
aver vissuto la storia degli ospedali
psichiatrici italiani nel XX secolo.
Una storia che vide l’avvento, tra gli
anni 50 e 60 dei primi psicofarmaci,
che sostituirono le terapie di shock,
André Brouillet, Il professor Jean-Martin Charcot insegna alla Salpêtrière, 1887.
12 InFormaMI
360° 40 anni deLla legge basaglia
e che assistette al progredire della
ricerca psichiatrica in cui si faceva
largo la necessità di valutare
il contesto sociale, biologico e
personale del paziente.
Nella seconda metà del secolo la
legge Giolitti appariva sempre
più anacronistica: i manicomi
erano rimasti immobili, mentre
la società era cambiata. L’avvento
degli psicofarmaci, migliorando
il controllo dei pazienti, permise
la sperimentazione di soluzioni
alternative a quelle in uso fino ad
allora per gestire la malattia mentale.
Si stava recuperando l’idea di
curabilità del disturbo mentale
e superando la sua visione
esclusivamente medico-organicista.
In tutta Europa presero piede
movimenti che si contrapponevano
alla psichiatria di stampo
istituzionale e che misero in crisi il
modello asilare in vigore. Complice
una nuova sensibilità verso i diritti
dei pazienti, si rese necessaria una
riforma della normativa per gli
ospedali psichiatrici istituzionali,
strutture ormai troppo costose e
inefficienti.
Un primo cambiamento avvenne
con la legge 431 del 1968 che istituì
servizi di assistenza territoriale,
ridefinì l’organizzazione dei
manicomi e regolamentò il ricovero
volontario. Il provvedimento abolì
inoltre l’obbligo di iscrizione al
casellario giudiziario dei pazienti
ricoverati in vigore dal 1930.
Fu, però, la legge Basaglia
del 1978 la vera riforma: decretò
la fine dei ricoveri negli ospedali
psichiatrici, istituti che diventarono
strutture a esaurimento fino a
essere definitivamente chiusi
nel 1999. Questi furono sostituiti
da un’assistenza della malattia
mentale gestita in presidi
extraospedalieri territoriali o,
se necessario, presso i servizi
psichiatrici di diagnosi e cura
presenti negli ospedali generali.
Ma la legge Basaglia rappresentò
anche una rivoluzione politica
e culturale nella gestione della
malattia mentale, basando i suoi
principi sul diritto alla cura e alla
salute del paziente psichiatrico
e non più sulla sua postulata
pericolosità. Gli 11 articoli della
legge affermarono il diritto
costituzionale alla volontarietà della
cura anche per il malato mentale,
che da allora può subire un
trattamento obbligatorio solo in casi
particolari determinati dall’urgenza
e dal fallimento di altri tentativi
terapeutici. Il malato mentale,
considerato con i suoi aspetti sociali
e relazionali, diventò così oggetto
di interventi di prevenzione, cura e
riabilitazione.
Un’idea di cura che Basaglia
sperimentò di persona, prima come
direttore del manicomio di Gorizia e
successivamente di quello di Trieste,
strutture dove riportò i pazienti
a essere persone, togliendoli
dall’isolamento e dall’anonimato,
aprendo gli spazi e ridando loro
identità, libertà e dignità.
A 40 anni dalla sua approvazione,
la legge 180 non si è rivelata
priva di lacune, specialmente nel
delineare con precisione il futuro
dell’assistenza psichiatrica in
un territorio intriso di disparità
regionali. Resta comunque un
provvedimento che ha visto l’Italia
un pioniere a livello mondiale nella
gestione della malattia mentale.
1977: l’anno di Basaglia
Lo si ricorda per la legge 180 del 1978, ma fu un anno prima che Franco Basaglia dimostrò in modo tangibile il frutto del suo
lavoro e delle sue idee. Nel 1977 fu annunciata la definitiva chiusura dell’ospedale psichiatrico di Trieste di cui Basaglia era
direttore. Un’esperienza che venne raccontata in una sua intervista sul numero 152 di Tempo Medico. Nell’articolo lo psichiatra
veneto raccontò come si arrivò a quel passo decisivo, dall’esperienza goriziana all’influenza ricevuta dalla “comunità terapeutica”
sperimentata in Inghilterra. Il desiderio di ridare dignità al malato, la cui patologia è “uno stato di disadattamento da curare
sullo stesso terreno sociale”, le cui ragioni vanno “cercate ed estirpate per condurre a poco a poco il malato alla realtà, inserirlo
in un ambiente il più possibile normale”. Un processo non privo di difficoltà e osteggiatori: dagli psichiatri vecchio stampo, agli
amministratori fino all’opinione pubblica, ma che rappresentava per Basaglia “il solo approccio valido, l’unico modo per rispondere
al giuramento di Ippocrate”.
133. 2018
“È il tempo di attivarci, di essere concreti e di avviare un
confronto con tutta la professione, coinvolgendo l’intera
società civile”. Con queste parole lo scorso 24 marzo
il presidente FNOMCeO Filippo Anelli ha dato il “la” a
quello che sarà, il prossimo anno, una vera chiamata alle
armi per tutti i medici e odontoiatri d’Italia
PROFESSIONE andrea porta
Verso gli Stati Generali
della medicina italiana
A conclusione della sua prima relazione
da presidente Anelli ha proposto di indire per il
2019 un grande evento politico: gli Stati Generali
della medicina italiana. “Siamo pronti a sfidare
il cambiamento”, ha detto. L’idea è un anno zero
della professione, un momento grazie al quale la
professione ripensi a se stessa per decidere che
cosa fare del proprio futuro. Non è un caso che tutto
ciò arrivi in questo 2018 ormai alle spalle, anno nel
quale il Servizio Sanitario Nazionale ha compiuto
quarant’anni non senza qualche problema strutturale
che gli impedisce di garantire completa equità delle
cure: “Come medico non posso accettare che dodici
milioni di italiani abbiano rinunciato a una terapia
o a un esame diagnostico perché non potevano
permetterselo”, aveva detto.
Ruolo sociale del medico
A distanza di nove mesi da quel primo proclama,
Anelli è tornato sul tema in occasione della conferenza
di presentazione degli Stati Generali tenutasi a Roma
lo scorso 20 dicembre. Contattato da InFormaMi,
Anelli precisa che non saranno un evento, ma un
percorso. “Vogliamo avviare un dibattito su questioni
ben precise già partendo dal confronto con gli ordini
locali”. Un tema tra tutti ha a oggi grande rilievo, nelle
intenzioni di Anelli: quello del ruolo sociale e culturale
del medico. “Viviamo in un periodo storico che vede
una crisi della medicina a livello culturale, proprio
nel contesto di un profondo rinnovamento della
scienza medica stessa” spiega. Il problema si inscrive
in seno alla più ampia crisi delle professioni liberali:
“Sempre più spesso il medico da professionista è
relegato a esecutore parte di un sistema più ampio,
fatto di regole precise dentro le quali ha poco spazio
decisionale”. Il tema caldo per Anelli è chiaramente
quello dell’appropriatezza: “Questa è diventata una
tale priorità da aver fatto saltare il rapporto individuale
con il paziente, bastato per sua natura sulla fiducia”.
L’idea è quella di lavorare per recuperare la valenza
sociale della professione medica, recuperandone
l’autorevolezza: “Oggi siamo troppo spesso di fronte a
medici dello Stato invece che a medici dei cittadini”.
Più autonomia e meno burocrazia
Questa immagine di medico relegato a burocrate
ritorna nella presentazione che Anelli ha tenuto in
occasione del Consiglio Nazionale del 6 luglio in cui
ha illustrato, in modo ancora più esaustivo, i temi caldi
che costituiranno l’ossatura degli Stati Generali. Del
resto anche Roberto Rossi, presidente OMCeO Milano,
sembra sulla stessa lunghezza d’onda commentando
le ipotesi sostenute da Anelli: “Il medico non è più
opinion leader, nella nostra società”. Il senso è chiaro:
se si priva il medico dell’autonomia, se si riduce
la sua attività a medicina amministrata, si priva il
sistema della libertà democratica e si trasformano
Auguste Couder: Versailles, 5 maggio 1789, apertura degli Stati Generali
wikipedia
14 InFormaMI
PROFESSIONE
inoltre i servizi e i diritti a semplici atti burocratici
finalizzati a rispondere agli interessi dello Stato e non
ai bisogni dei cittadini. “Il primo a poter cambiare
è il medico stesso”, ha detto Rossi. “Se non è lui il
primo a essere convinto del suo ruolo, nulla cambia”.
Senza autonomia, si esclude inoltre l’originalità e
l’innovazione tipiche delle libere professioni: “In un
sistema come quello attuale, i cambiamenti sono visti
come deviazioni rischiose e non come opportunità.
Questo però è il primo passo verso la morte della
professione stessa e della
qualità delle cure”. Che,
detto in parole semplici,
è come dire: se il medico
deve attenersi a linee guida
stabilite dall’alto, allora il
suo ruolo viene totalmente
svuotato.
Cento tesi da cui partire
Le tematiche sollevate
da Rossi proseguono la
valutazione del testo di
Ivan Cavicchi, docente
all’Università Tor Vergata
di Roma ed esperto di
politiche sanitarie, dal titolo Gli Stati Generali della
professione medica: 100 tesi per discutere il medico
del futuro. Il documento, presentato ufficialmente
durante la conferenza stampa di dicembre, non
vuole rappresentare la posizione di FNOMCeO ma
resta pur sempre un punto di partenza verso una
riflessione sulla questione medica. Dopo averlo
analizzato per verificarne la rispondenza alle linee
di indirizzo della Federazione, Rossi ha avuto modo
di definirlo “complesso e non facilmente digeribile,
ma pur sempre utile ad avviare un dibattito che
si concretizzerà in un convegno che intendiamo
organizzare come OMCeO Milano”.
Il ruolo della ricerca e quello del medico
C’è poi il tema della medicina basata sulle prove:
questa rappresenta la realtà, oggi, e certamente
un’opportunità. Ma è anche in questo contesto mutato
che il medico deve rivedere il proprio ruolo. In questo
senso gli Stati Generali saranno anche occasione per
ribadire l’importanza del rapporto medico paziente nel
contesto del progresso scientifico: “La ricerca fornisce
dati fondamentali”, precisa Anelli, “ma resta il medico,
con la sua cultura ed esperienza, a doverli interpretare
e adattare, quasi cucendoli sul singolo paziente”.
Altrimenti ci troveremmo costretti ad ammettere che
un algoritmo potrebbe un giorno essere più efficiente
di un professionista in carne e ossa. Insomma, la
rivoluzione che Anelli si aspetta
passa attraverso una medicina
nuovamente umanistica, benché
alla luce delle evidenze fornite
da una ricerca necessariamente
inarrestabile.
Fake news e ruolo
del medico
La rivoluzione che gli Stati
Generali prospettano è motivata
però anche dalle evidenti
trasformazioni culturali in
termini di accessibilità, da parte
dei pazienti, all’informazione
clinica. In questo, il tema del
digitale ha un peso notevole. Del resto secondo
il Censis, che ha pubblicato lo scorso anno un
comunicato in cui sono riportati i principali risultati di
una ricerca condotta in collaborazione con Assosalute,
un quarto degli italiani di fronte a piccoli disturbi di
salute si rivolge alla rete per cercare soluzioni. Più
di metà di loro, circa 8,8 milioni di persone, è stata
però vittima di fake news. “Se il paziente dispone
di molti strumenti per informarsi non sempre
attendibili, d’altro canto il medico oggi non sembra
avere altrettanti mezzi per gestire il paziente stesso”,
prosegue Rossi. Manca ancora una capacità diffusa di
interagire efficacemente con le ansie di un paziente che
si autodocumenta in modo inadeguato: i nuovi medici
dovranno essere dunque preparati anche sotto questo
profilo.
Le resistenze interne
Se il tema delle aggressioni ai medici ha fatto e fa
parlare ancora (purtroppo) molto, esiste un’altra
forma di sopraffazione verso i camici bianchi molto
meno evidente ma costante: “Notiamo” commenta
“Il primo a poter cambiare è il medico stesso. Se non è lui
il primo a essere convinto del suo ruolo, nulla cambia.”
153. 2018
ancora Rossi “un accanimento culturale verso il
medico ogniqualvolta qualcosa non funziona, ma
la sensazione è che i medici non se ne accorgano”.
Clinici quindi come capri espiatori di un sistema
più complesso, anche agli occhi della politica.
Ovviamente gli obiettivi non sono semplici da
raggiungere, e non saranno gli Stati Generali a
cambiare le cose se non ci sarà un ripensamento da
parte dei medici stessi che parta dal superamento di
alcune resistenze interne: “Quella al cambiamento,
prima di tutte”, dice Rossi. “Occorre che ci
prepariamo a un cambiamento epocale: molti
colleghi lo hanno già interiorizzato, altri, specie ai
vertici delle amministrazioni, ancora faticano”.
Al di là di singole realtà più virtuose di altre, un
ripensamento del ruolo del medico deve avvenire
lungo tutto lo Stivale partendo dalle realtà provinciali.
In fondo è quanto Anelli ha avuto modo di ricordare
a luglio in occasione dell’incontro a Bari con Antonio
Decaro, sindaco della città e presidente di ANCI
(Associazione Nazionale Comuni Italiani): “I Comuni
sono le istituzioni più prossime ai cittadini, le più
idonee a interpretarne necessità ed esigenze”, ha
detto il Presidente. “I medici e tutti i professionisti
della sanità sono il terminale del Servizio Sanitario
Nazionale: da qui il ruolo politico e sociale di collanti
della democrazia”.
Una Magna Carta per la professione?
Punto di arrivo degli Stati Generali dovrà essere la
stesura di quello che Anelli definisce un “documento
storico”, una Magna Carta della professione medica
scritta dai medici insieme a tutta la società civile. In
questo testo dovranno confluire riflessioni e obiettivi
che riguarderanno i temi dell’autonomia della
professione, quello del ruolo del medico in una società
che cambia e naturalmente quello della deontologia.
“Questo documento”, dice, “dovrà proiettare il medico
verso il futuro. Vuole pertanto essere un punto
di partenza più che un obiettivo, che tenga conto
della necessità di rivalutare il ruolo medico pur nel
contesto delle criticità economiche e delle necessità
di sostenibilità del sistema”. Un complesso equilibrio,
quello che la classe medica del prossimo futuro
dovrà saper gestire, tra i diritti del cittadino a cure di
qualità e la necessità di far quadrare i conti. Del resto,
come ha affermato lo stesso presidente a marzo, “se
vogliamo salvare il medico ippocratico dobbiamo
avere il coraggio intellettuale di distinguere quello che
va da quello che non va”.
Violenza sugli operatori sanitari,
il corso di formazione della FNOMCeO
Sono quasi 10.000 i medici e gli odontoiatri che a partire dal 15 ottobre hanno iniziato sul portale
FADINMED il corso di formazione a distanza (FAD) “Violenza degli operatori sanitari”. Il tema è già stato
ampiamente trattato su InFormaMi pubblicato a dicembre 2017 e rientra tra le priorità individuate dalla
Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCeO) per riposizionare la
professione, rafforzando il rapporto fiduciario e ripristinando la comunicazione medico-paziente.
Il corso, coordinato dal Gruppo di Lavoro della FNOMCeO per la sicurezza degli operatori sanitari,
si propone di sensibilizzare medici e odontoiatri sul fenomeno, sottolineando l’importanza di non sottovalutare mai alcun
comportamento violento, sia esso verbale, fisico o psicologico e di denunciare sempre qualsiasi evento. Importanti enti
internazionali, compresa l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), sono concordi nel raccomandare un approccio ispirato alla
cultura della tolleranza zero. Infatti è ormai assodato che la violenza non fisica prelude a quella fisica senza soluzione di continuità
e che accettare le manifestazioni meno clamorose, ritenendole non pericolose o addirittura accettandole come parte del rischio
professionale, pone le basi per il verificarsi di fatti gravi e tragici.
Purtroppo, nonostante le pagine di cronaca siano dense di episodi di violenza a danno degli operatori sanitari, la mancata denuncia
resta tuttora la tendenza prevalente e l’entità della sottonotifica (si stima in circa 7 casi su 10) impedisce di mettere a fuoco con
precisione le dinamiche. Da qui la necessità di un approccio globale, integrato e partecipativo al fenomeno, che ne consideri gli
aspetti sociali, economici, organizzativi e culturali, in modo da affrontarlo dalle radici.
Il corso FAD è disponibile gratuitamente per un anno a tutti gli iscritti FNOMCeO ed eroga 8 crediti ECM.
PROFESSIONE
Antibiotico-resistenza,
una piccola grande guerra
pag. 17
SaNItà
Doping: contro etica e salute
pag. 24
L’INtERvISta
Luigi Naldini: il futuro della
terapia genica
pag. 33
InFormaMIBollettino dell’OMCeOMI
4. 2017 annO LXX
360°
pag. 5
Quando chi cura diventa
un nemico
16 InFormaMI
Diabete e parodontite:
una sfida comune
PROFESSIONE martina alberani
La correlazione tra salute orale e sistemica è molto più stretta di quanto si creda,
basti pensare che chi soffre di parodontite ha un rischio più alto di sviluppare
diabete e, al progredire della malattia dentale, si osserva un peggioramento
anche sul piano metabolico
La relazione tra diabete di
tipo 2 e parodontite è un caso
esemplare: non una, ma due
malattie croniche non trasmissibili
tra loro strettamente legate.
Insomma una doppia sfida per i
professionisti sanitari che ormai
sanno bene come il fronte della
cronicità e il contrasto a uno stile di
vita non salutare (giocato su fattori
di rischio come tabacco, alcol,
alimentazione e sedentarietà) siano
i principali temi di salute pubblica
dei paesi industrializzati.
Tra le numerose patologie che
si accompagnano al diabete, la
parodontite è particolarmente
interessante, visto lo stretto
rapporto di reciprocità1
e la
rilevanza epidemiologica (vedi box).
Questa “relazione pericolosa” è
stata analizzata in un documento
congiunto dell’European
Federation of Periodontology
e dell’International Diabetes
Federation, che ha coinvolto 15
esperti provenienti da Europa,
Stati Uniti e Asia e ha raccolto le
prove disponibili in letteratura
su patogenesi, epidemiologia e
impatto della terapia parodontale
sul controllo metabolico.2
16 InFormaMI
che Cosa sappiamo oggi
di questa relazione?
I risultati emersi indicano che la
presenza di parodontite, specie
se grave, si associa a un rischio
elevato di sviluppare prediabete,
insulino-resistenza e anche diabete
di tipo 2.
D’altra parte alcuni studi di coorte
mostrano che i pazienti diabetici
con parodontite hanno livelli
significativamente più elevati di
emoglobina glicata rispetto a quelli
senza problemi parodontali.
La relazione tra le due patologie
si ripercuote anche sulle
complicanze del diabete, la
letteratura riporta un’associazione
tra peggiori condizioni
parodontali e l’insorgenza di
retinopatia diabetica, piede
diabetico e complicanze renali e
cardiovascolari.
In generale, la mortalità
complessiva è significativamente
elevata in pazienti affetti da diabete
di tipo 2 e parodontite.
173. 2018
Per quanto riguarda la patogenesi,
in entrambe le condizioni si assiste
a una modificazione di diversi
mediatori e indici della risposta
immunitaria e dell’infiammazione
come interleuchina 1 β,
tumor necrosis factor (TNF) α,
interleuchina 6, rapporto tra
RANKL (Receptor Activator of
Nuclear Factor Kappa-Β Ligand)
e osteoprotegerina, espressione
dei recettori Toll simili (Toll-like
receptor).
Altri dati mostrano che a un
efficace controllo del diabete
corrisponde una riduzione dello
stress ossidativo e dei livelli
di citochine circolanti e un
miglioramento del profilo lipidico.
Tuttavia non ci sono studi che
correlino tali cambiamenti con
la risoluzione del quadro clinico
parodontale, mentre è dimostrato
che una terapia di successo per la
parodontite riduce il livello della
proteina C reattiva e del TNF α nel
paziente diabetico.
che Cosa si può fare?
Il destino del diabete e quello della
parodontite sono inesorabilmente
legati ed è importante una presa in
carico globale dallo screening, alla
diagnosi, fino al trattamento.
Prima arriva la diagnosi, prima
si può iniziare il trattamento e
migliori sono le possibilità di
prevenire complicanze e costi
sanitari correlati.
Il trattamento parodontale (scaling
and root planing) è sicuro, efficace,
ed è associato a una riduzione dei
livelli di emoglobina glicata nei
pazienti con diabete di tipo 2, con
percentuali che oscillano tra lo
0,24% e lo 0,48% dopo 3-4 mesi.
Tuttavia non è stato dimostrato
che l’effetto si mantenga sul lungo
periodo e non è stata ancora
stabilita la soglia di miglioramento
del quadro parodontale cui
corrisponde il calo dell’emoglobina
glicata.
La terapia antibiotica, quando
aggiunta al trattamento
parodontale, non sembra
apportare benefici aggiuntivi al
controllo glicemico.
È invece provato il ruolo dello
screening per il diabete in un
contesto di cure odontoiatriche: la
collaborazione multidisciplinare
e multiprofessionale si afferma
sempre di più come chiave per
elevare la qualità dell’assistenza. Il
National Institute for Health and
Care Excellence (NICE) suggerisce
che tutti i professionisti sanitari,
e tra questi gli odontoiatri, siano
coinvolti in prima linea nello
screening del diabete3
.
È fondamentale che gli operatori
prestino attenzione all’anamnesi
e ai sintomi di allarme relativi
all’una e all’altra patologia, avendo
cura di indirizzare il paziente dallo
specialista più adeguato in base
alle caratteristiche individuali di
malattia.
Deve essere coinvolto anche il
paziente, con una comunicazione
improntata a fargli comprendere
la relazione tra le due condizioni
e soprattutto le possibili
conseguenze di uno scarso
controllo di entrambe.
A conferma e a sostegno di
questa tesi, il 17 novembre 2018 in
occasione della Giornata mondiale
del diabete, si è svolto a Milano il
workshop “Diabete: una patologia
condivisa”, voluto da OMCeO
Milano, società scientifiche e
associazioni di pazienti e dedicato
a delineare le strategie per il
trattamento del diabete in un’ottica
I numeri
Secondo le stime aggiornate al 2017
dell’International Diabetes Federation, a
livello mondiale hanno il diabete 425 milioni di
persone tra i 20 e i 79 anni (circa l’8,8% della
popolazione globale). In assenza di interventi,
questo numero è destinato a crescere fino a
629 milioni nel 2045. I cittadini europei con
diabete di tipo 2 sono al momento 58 milioni, il
6,8% della popolazione del vecchio continente
e saranno 67 milioni nel 2045. Il diabete di
tipo 2 è la forma più comune e si stima che
rappresenti circa il 90% dei casi di malattia nei
Paesi industrializzati. Inoltre, 212,4 milioni di
persone hanno il diabete senza saperlo.4
Per quanto riguarda la parodontite, il 45-
50% degli adulti ne soffre (seppure nella
forma più lieve) e questa percentuale sale
sopra il 60% nelle persone con più di 65
anni.5,6
La parodontite grave colpisce nel
mondo l’11,2% della popolazione adulta7
ed
è causa di edentulia, compromissione dello
stato di nutrizione, riduzione della qualità
della vita, dello stato di salute percepita e
dell’autostima.8,9
di gestione multidisciplinare e
partecipata. Ampio spazio è stato
dedicato al rapporto tra diabete e
parodontite e alla necessità di fare
fronte comune per combattere le
due patologie.
Bibliografia
1
Taylor GW. Annals of Periodontology 2001 6, 99-112
2
Sanz M et al. Diabetes Res Clin Pract 2017;137:231-41
3
National Institute for Health and Care Excellence (NICE). 2012
4
International Diabetes Federation. 2017
5
Eke PI, et al. Journal of Periodontology 2016;87,1174-85
6
White DA, et al. British Dental Journal 2012;213:567-72
7
Kassebaum NJ, et al. Journal of Dental Research
2014;93:1045-53
8
Al-Harthi LS, et al. Australian Dental Journal 2013;58,274-7
9
Buset SL, et al. Journal of Clinical Periodontology
2016;43:333-44
18 InFormaMI
PROFESSIONE margherita martini
“I vaccini utilizzati
nei programmi nazionali di
immunizzazione sono tra i prodotti
farmaceutici più controllati e
sicuri. Tuttavia, come per ogni
farmaco, possono esserci delle
controindicazioni, che devono
essere identificate prima di
procedere con la vaccinazione,
per evitare reazioni avverse gravi.
Oppure si può essere in presenza di
precauzioni che possono aumentare
il rischio di reazioni avverse gravi o
portare a una risposta immunitaria
inadeguata, o di avvertenze, quando
la vaccinazione può interferire con
gli effetti di alcuni farmaci.
In certi casi, quando si è in
presenza di una precauzione, è
necessario valutare il beneficio/
rischio individuale della
vaccinazione” spiega Antonietta
Filia, medico igienista e ricercatore
dell’Istituto Superiore di Sanità, e
uno degli autori della Guida alle
controindicazioni alle vaccinazioni,
giunta a febbraio 2018 alla quinta
edizione, completamente aggiornata
rispetto a quella del 2009. “È però
anche vero che esistono molte
false controindicazioni, ovvero
sintomi o condizioni che non
precludono la vaccinazione e che
comportano opportunità ‘perse’ per
la somministrazione dei vaccini”
continua Filia.
Il documento, redatto dai massimi
esperti con il supporto di diverse
società scientifiche e approvato dal
La Guida alle controindicazioni alle
vaccinazioni è un prezioso documento
tecnico di supporto alla corretta
somministrazione dei vaccini
Gruppo tecnico consultivo nazionale
sulle vaccinazioni e dal Consiglio
Superiore di Sanità, esamina tutti i
vaccini disponibili in Italia.
“La specificità dell’intervento
vaccinale rende necessario facilitare
il più possibile l’attività del personale
sanitario che lavora in questo
ambito. Per questo la Guida offre
raccomandazioni sull’uso dei vaccini
anche in circostanze nelle quali, per il
singolo operatore, è difficile reperire
dati di sicurezza ed efficacia che
possano supportarlo nel processo
decisionale. Inoltre, può riportare
indicazioni che vanno oltre quelle
previste nella scheda tecnica dei
singoli vaccini, poiché la sicurezza
e l’efficacia del vaccino continuano
a essere monitorate anche dopo
l’immissione in commercio” racconta
Antonietta Filia.
Il personale sanitario deve verificare
la presenza di controindicazioni e/o
precauzioni in ogni persona prima di
somministrare qualsiasi vaccino. “Per
far questo, non è necessario eseguire
una visita medica prima della
vaccinazione (salvo che la persona
non appaia ammalata o riferisca una
malattia in corso) né sono richiesti
esami di laboratorio o accertamenti
diagnostici. Il triage prevaccinale
può essere effettuato semplicemente
rivolgendo alla persona che si deve
vaccinare (o ai genitori, nel caso in
cui a vaccinarsi sia un bambino) una
serie di precise e semplici domande
contenute in una scheda anamnestica
standardizzata. La Guida riporta due
schede di triage, una per i bambini
fino ai 18 mesi di età e l’altra per i
bimbi di età superiore a 18 mesi, per
gli adolescenti e per gli adulti”
spiega Filia.
In ambito vaccinale
si definisce:
controindicazione una
condizione nel ricevente che aumenta il
rischio di gravi reazioni avverse.
precauzione una condizione
nel ricevente che può aumentare il
rischio di gravi reazioni avverse o che
può compromettere la capacità del
vaccino di indurre un’adeguata risposta
immunitaria.
avvertenza una condizione nel
ricevente per la quale le vaccinazioni
eseguite, pur restando efficaci e sicure,
possono interferire con gli effetti di
alcuni farmaci di cui è previsto un
successivo o contemporaneo utilizzo.
evento avverso qualsiasi
manifestazione indesiderata che può
presentarsi durante un trattamento
con un prodotto farmaceutico o dopo la
somministrazione di un vaccino ma che
non ha necessariamente una relazione
causale con questi.
reazione avversa qualsiasi
manifestazione indesiderata e dannosa
che si verifica in caso di corretta
somministrazione di sostanze usate per
la profilassi, la diagnosi o la terapia,
o per la modificazione di funzioni
fisiologiche. […] diversamente da un
evento avverso, è caratterizzata dalla
dimostrazione di una relazione causale
tra il farmaco o vaccino e l’evento
sulla base di criteri oggettivi stabiliti
dalle autorità di farmacovigilanza che
includono anche i dati della letteratura
scientifica e il giudizio del medico
segnalatore.
LaGuidaperl’usosicurodeivaccini
La Guida alle controindicazioni
alle vaccinazioni si conferma
un documento necessario e
fondamentale per aiutare gli
operatori sanitari ad acquisire
conoscenze e competenze pratiche
utili nel lavoro quotidiano.
Fonte: “Guida alle
controindicazioni
alle vaccinazioni”
(ed. febbraio 2018)
193. 2018
Ricerca clinica:
come orientarsi tra prove
e studi
PROFESSIONE Raffaella Daghini
Affidarsi esclusivamente all’autorevolezza della
fonte per valutare la qualità di uno studio clinico e
l’affidabilità dei suoi risultati non è sufficiente.
Un caso recente mostra come anche le riviste
scientifiche più autorevoli possono sbagliare
In tempi di evidence based medicine, la qualità
delle prove scientifiche riportate in letteratura è un
elemento tanto cruciale quanto difficile da valutare. È
cruciale perché aiuta il medico a orientare le proprie
scelte terapeutiche e assistenziali verso le pratiche
che si sono rivelate più efficaci in studi e ricerche di
alta qualità. D’altra parte, è difficile da valutare perché
gli studi pubblicati sono estremamente numerosi,
gli elementi da prendere in esame per definire
la qualità dei risultati sono tanti e non sempre di
immediata comprensione e il tempo a disposizione
dei professionisti per questo tipo di analisi è spesso
limitato.
L’autorevolezza della rivista su cui un articolo viene
pubblicato è spesso un primo criterio di valutazione
che viene spontaneo utilizzare: si è naturalmente
portati, infatti, a considerare gli articoli pubblicati
su New England Journal of Medicine, Lancet, Jama,
British Medical Journal o Nature “affidabili” in
partenza. Tuttavia, poiché errare è umano, anche il
processo – pur rigoroso – che porta alla pubblicazione
degli studi sulle riviste scientifiche più autorevoli può
a volte incepparsi o essere influenzato.
Un caso recente e significativo riguarda un importante
articolo sui benefici della dieta mediterranea
pubblicato nel 2013 sul New England Journal of
Medicine,1
che nello scorso mese di giugno è stato
ritrattato e ripubblicato a seguito di una nuova analisi
dei dati.
Lo studio, condotto in 11 centri spagnoli, ha coinvolto
quasi 7.500 persone con alto rischio cardiovascolare, che
sono state assegnate casualmente a tre tipologie di dieta:
una dieta mediterranea rinforzata con olio extravergine di
oliva, una dieta mediterranea con supplemento di frutta
secca mista e una dieta a basso apporto di grassi (gruppo
di controllo).
Le conclusioni dello studio originale indicavano che la
dieta mediterranea poteva ridurre il rischio di eventi
cardiovascolari maggiori di circa il 30% nella popolazione
ad alto rischio rispetto ai controlli. Un risultato ripreso
anche dalla stampa laica con grande clamore e
considerato un riferimento per gli studi sull’efficacia della
dieta mediterranea.
Randomizzazione ma non troppo
Qual è stata, dunque, la ragione della ritrattazione?
Come spesso accade nel mondo scientifico, un altro
gruppo di ricerca ha sottoposto i dati presentati ad
analisi, evidenziando incongruenze nella procedura
di randomizzazione dei partecipanti. Questo ha spinto
i ricercatori spagnoli a rivedere il proprio lavoro: è
emerso che in alcuni casi i membri di una famiglia erano
20 InFormaMI
PROFESSIONE
stati assegnati allo stesso gruppo e quindi avevano
seguito la medesima dieta. L’assegnazione, in questi
casi, era stata tutt’altro che casuale, come era invece
previsto dal protocollo dello studio, e questo può
influire sui risultati: infatti, i membri della stessa
famiglia condividono geni e influenze ambientali,
che rappresentano fattori di confondimento rispetto
alla valutazione degli effetti della dieta sugli esiti
considerati. Inoltre, in uno dei centri di ricerca, i
partecipanti di un intero villaggio erano stati tutti
assegnati allo stesso gruppo di studio, creando
dunque un cluster.
I ricercatori spagnoli hanno rielaborato i dati
escludendo i “casi dubbi” (circa 1.600), confermando
comunque le conclusioni dello studio originale
riguardo all’efficacia della dieta mediterranea rispetto a
quella di controllo, anche se le hanno espresse con una
forma meno assertiva.
L’importanza del senso critico
Questa vicenda è solo un esempio, ma stimola una
riflessione su come si possano valutare la qualità degli
studi clinici e l’affidabilità dei loro risultati.
I possibili problemi sono molteplici: si va dagli errori
metodologici, come quello alla base della ritrattazione
dello studio del New England Journal of Medicine, alle
vere e proprie frodi, che si basano principalmente su
alterazione di immagini e falsificazioni di dati.
Secondo Enrico Bucci, biologo molecolare e
“cacciatore di frodi”, che si dedica da anni ai temi
dell’integrità della ricerca scientifica, una percentuale
che va dal 4 al 17% dei lavori scientifici presenterebbe
qualche forma di manipolazione, indipendentemente
dall’impact factor delle riviste che li pubblicano.
Esisterebbe, invece, una correlazione tra il numero
di articoli manipolati e i gruppi di ricerca che hanno
ritrattato almeno un lavoro.
Se le frodi non sono facilmente individuabili
nemmeno dai revisori delle riviste più prestigiose,
la validità metodologica di uno studio può essere
valutata, almeno in parte, attraverso alcuni accorgimenti
e una buona dose di senso critico: se alcuni aspetti
richiedono conoscenze specifiche per individuare punti
deboli (per esempio il disegno dello studio o la tecnica di
analisi statistica impiegata), per altri è possibile rilevare
indizi di debolezza metodologica che dovrebbero fare
scattare un campanello d’allarme.
Uno studio di bassa qualità, per esempio, spesso
dichiara come esiti aspetti poco significativi dal punto
di vista clinico (endpoint surrogati), oppure riunisce
esiti diversi (endpoint multipli) che non consentono di
distinguere l’effetto del trattamento in esame su quelli
davvero importanti; infine, talvolta gli esiti vengono
cambiati durante lo studio e vengono presentati quelli
per i quali il dato di efficacia risulta più solido.
Un altro aspetto da valutare criticamente è la modalità
con cui vengono presentati i risultati: se sono espressi
solo in termini di rischio relativo, occorre dubitare; il
rischio assoluto e il numero di casi da trattare sono dati
più adeguati in termini di comunicazione dei risultati per
sostenere l’efficacia del trattamento.
In uno studio metodologicamente valido, poi, gli autori
dovrebbero dichiarare a priori le analisi che condurranno
sui diversi sottogruppi e le motivazioni di queste
analisi. Se sono decise a posteriori, invece, la validità
dei risultati ottenuti è bassa, perché probabilmente
sono state realizzate con l’obiettivo di individuare una
sottopopolazione in cui l’intervento è risultato per caso
efficace ed enfatizzare quel risultato a discapito di quelli
negativi. Non va inoltre sottovalutato il peso del bias di
pubblicazione, che porta a privilegiare la divulgazione
sulle riviste scientifiche degli studi che danno risultati
positivi rispetto a quelli che falliscono, fornendo quindi
una percezione distorta della reale efficacia degli
interventi studiati.
È fondamentale, infine, leggere sempre al termine di
un articolo scientifico le dichiarazioni di conflitto di
interesse degli autori e le loro affiliazioni, considerando
anche i possibili legami tra gli autori e la rivista su cui
hanno pubblicato il lavoro.
Da ultimo, ma non certo per importanza, un articolo
valido deve riportare fatti e dati consistenti, cioè
confermati da altre fonti indipendenti: tanto più sono
numerose le fonti indipendenti che riportano fatti
coerenti, tanto più lo studio è rilevante.
Bibliografia
1
Estruch R et al. N Engl J Med 2018;378:e34
Un aspetto da valutare criticamente è la modalità con cui
vengono presentati i risultati: se sono espressi solo in termini
di rischio relativo, occorre dubitare; il rischio assoluto e il
numero di casi da trattare sono dati più adeguati in termini
di comunicazione dei risultati per sostenere l’efficacia del
trattamento studiato
213. 2018
simonetta pagliani
Chi assume antidepressivi
è a rischio di sovrappeso o di
obesità: lo sostiene un recente
studio1
coordinato dagli
epidemiologi del King’s College
di Londra, che ha esaminato il
database della UK Clinical Practice
Research Datalink (oltre 2 milioni
di assistiti) e ha selezionato
oltre 130.000 uomini e oltre
150.000 donne con almeno tre
determinazioni dell’indice di massa
corporea. Dall’analisi si è visto che
nel primo anno di arruolamento
ha ricevuto la prescrizione di un
antidepressivo il 18% degli assistiti,
il 13% degli uomini e il 22,4% delle
donne, soprattutto nella fascia di
età tra i 30 e i 59 anni. Nel corso del
decennio di osservazione il rischio
di un aumento del peso corporeo
≥5% è risultato significativamente
maggiore nel sottogruppo esposto
agli antidepressivi (rischio relativo
1,21). Il rischio era più marcato
nel primo anno ed era presente, e
simile, sia per i soggetti normopeso
(rischio relativo 1,29), sia per i
soggetti già in sovrappeso (rischio
relativo 1,29).
Rimane poco chiaro se sia
la depressione a sostenere
l’incremento ponderale o se
sia il depresso che curandosi
ingrassa. L’anergia per mancanza
di motivazioni limita il consumo di
calorie e la deflessione dell’umore
è accompagnata da disturbi
dell’appetito che sono causati
dalla disfunzione di specifici
neurotrasmettitori (noradrenalina,
serotonina, dopamina) sulla quale
agisce la terapia farmacologica.
Si ipotizza che la relazione sia
reciproca: da una parte l’obesità
aumenta il rischio di depressione
dall’altra la depressione può
favorire lo sviluppo di obesità.2
Quando si parla di antidepressivi,
però, si fa riferimento a più
classi di farmaci con meccanismi
d’azione ed effetti collaterali
tra loro diversi. L’influenza sul
peso corporeo sembra essere
relativo al diverso grado di
affinità degli antidepressivi
non solo per i recettori della
serotonina, ma anche per i
recettori H1 dell’istamina; la
stessa affinità recettoriale sembra
associata anche all’instaurarsi
di iperglicemia e di sindrome
metabolica. In particolare
sembrano associati a un maggiore
aumento di peso mirtazapina e
nortriptilina rispetto a bupropione,
trazodone e fluoxetina.
Bibliografia
1
Gafoor R, et al. BMJ 2018;361:k1951
2
Luppino FS, et al. Arch Gen Psychiatry
2010; 67: 220-29.
Una proposta per contenere
l’effetto sfavorevole sul peso è
quella di utilizzare farmaci come
per esempio la metformina e la
betaistina, un analogo dell’istamina,
debole H1 agonista, anche se
off label per questa indicazione.
Giancarlo Stoccoro, psichiatra che
ha operato per molti anni nelle
strutture ospedaliere e nei centri
psicosociali (CPS) di Melegnano,
Paullo e San Donato Milanese si
dice contrario e ritiene che non sia
necessario l’uso di farmaci ulteriori
in quanto “l’eventuale sovrappeso
da antidepressivi è di solito
contenuto e facilmente contrastabile
con una vita più attiva”. Inoltre
prosegue l’esperto “se è vero che
tutti i serotoninergici, fluoxetina
compresa, dopo un’iniziale
riduzione dell’appetito, spesso
legata alla transitoria nausea,
possono poi indurne l’aumento
(per i dolci, in particolare), nella
pratica clinica solo mirtazapina e
amisulpride hanno comportato, in
alcuni casi, la necessità di essere
sostituiti”.
Antidepressivi
e aumento di peso
Le persone depresse tendono ad
accumulare chili. Colpa della malattia
o della terapia? Secondo uno studio
recente i farmaci antidepressivi
potrebbero giocare un ruolo
22 InFormaMI
diritto
A vedere l’esigua lista delle Società tra
Professionisti (StP) iscritte all’Ordine dei medici
chirurghi e odontoiatri di Milano (22 in tutta la
provincia) viene da chiedersi se i medici siano a
conoscenza di questo strumento che dal 2013 offre a
tutti i professionisti che operano in ambito medico di
lavorare sotto forma di società: l’StP è in effetti l’unica
modalità di esercizio della professione medica in ambito
societario oggi ammissibile, a parte l’associazione
di medici (lo studio associato). A ribadirlo è stato
anche il Ministero dello Sviluppo Economico ma a
gettare qualche ombra su questa apparente certezza
è intervenuto il Decreto Lorenzin sulla Concorrenza
(Legge n. 124 del 2017) che per quanto riguarda
l’ambito odontoiatrico permette l’attività anche a
“società”, non meglio definite (di capitali pure o StP?).
Secondo l’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di
Milano le società menzionate all’articolo 153 del Decreto
sono soltanto le StP, perché prevedono la maggioranza
di soci professionisti e consentono il controllo
deontologico da parte dell’Ordine dove è iscritta l’StP.
Ma il Decreto, secondo altre scuole di pensiero, sembra
invece aver aperto la possibilità di operare in campo
odontoiatrico anche a società pure di capitali, prestando
quindi il fianco a diverse interpretazioni.
Che cosa sono le StP?
Sono state introdotte dalla Legge n. 183 del 2011 e
regolamentate con il Decreto ministeriale n. 34 del 2013.
Dal 2013 al 2017, anno di entrata in vigore del Decreto
Lorenzin, sono state però pochissime le singole posizioni
che si sono “trasformate” in StP, mentre rispetto agli
studi tradizionali hanno continuato a crescere le società
non StP, soprattutto in ambito odontoiatrico.
Secondo le ultime ricerche fatte al Registro Imprese di
Infocamere, a oggi nella provincia di Milano esistono
angelica giambelluca
AAA
Società tra Professionisti
cercasi L’StP, benché sia l’unica forma di società ammissibile (e legale)
tra professionisti in ambito medico, non decolla
233. 2018
• l’oggetto della società è esclusivamente l’esercizio
di attività professionali (anche multidisciplinari)
regolamentate nel sistema ordinistico;
• l’obbligo di stipulare una polizza assicurativa per la
copertura dei rischi derivanti dalla responsabilità civile
per i danni causati ai clienti dai singoli soci professionisti;
• l’iscrizione all’albo professionale competente.
Il controllo deontologico
Grazie all’iscrizione all’Ordine competente, le StP possono
essere sottoposte a un controllo deontologico da parte
degli Ordini. Mentre, se non sono registrate in questo
modo, il controllo può avvenire solo sanzionando il
direttore sanitario, cosa difficile da fare se è iscritto a un
Ordine diverso da quello in cui opera territorialmente
la struttura. Ecco perché l’Ordine dei medici chirurghi
e odontoiatri di Milano, proprio all’indomani
Province Società ATECO
86.23
Studi
odontoiatrici
Società ATECO
86.22
Studi medici
specialisticI
Totale
imprese
StP
odontoiatria
StP
altre
specialità
 
Totale
StP
% StP
sul totale
delle imprese
       
Aosta 8 3 11 1 0 1 9%
Ancona 45 43 88 0 1 1 1%
Bari 48 39 87 6 3 9 10%
Bologna 126 168 294 0 0 0 0%
Cagliari 84 54 138 0 1 1 1%
Campobasso 12 19 31 0 0 0 0%
Catanzaro 19 28 47 0 0 0 0%
Firenze 32 81 113 1 2 3 3%
Genova 45 44 89 13 4 17 19%
L’Aquila 14 16 30 2 4 6 20%
Milano 771 392 1163 9 13 22 2%
Napoli 192 221 413 4 7 11 3%
Palermo 121 127 248 3 5 8 3%
Perugia 52 31 83 0 0 0 0%
Potenza 25 24 49 0 1 1 2%
Roma 415 503 918 8 27 35 4%
Torino 307 227 534 9 3 12 2%
Trento 28 26 54 4 1 5 9%
Trieste 10 6 16 0 0 0 0%
Venezia 110 101 211 0 0 0 0%
771 società, sia di capitali sia di persone, registrate con
il codice ATECO (ATtività ECOnomiche) 86.23 (attività
degli studi odontoiatrici) e 392 società registrate con
il codice ATECO 86.22 (servizi degli studi medici
specialistici). Di tutte queste, andando a vedere quelle
che sono iscritte anche sul sito della FNOMCeO, come
StP sono registrate solo 9 StP di odontoiatria e solo 13
StP di altre specialità (vedi tabella). Un po’ poche, vista
la circolare del Ministero dello Sviluppo Economico,
considerato che la legge che le istituisce è del 2013
e il fatto che l’apparente esimente concessa agli
odontoiatri dal Decreto Lorenzin è solo dello scorso
anno. Ecco le principali caratteristiche di questa forma
associativa:
• la presenza di almeno due terzi dei soci-professionisti
nella gestione societaria. Ammessi anche soci non
professionisti, ma devono essere in minoranza;
Le StP in Italia I dati provengono dal Servizio Telemaco-Registro Imprese InfoCamera – ricerca
effettuata in base al codice ATECO (colonne in azzurro) e dal sito della FNOMCeO
(colonne in grigio). Ultima consultazione: ottobre 2018 per entrambe le fonti.
24 InFormaMI
diritto
dell’approvazione del Decreto Lorenzin, ha ribadito
con la delibera n. 216 del 2017 come le uniche società
legittimate a svolgere attività odontoiatrica siano le
StP, specificando che le società che non rientrano in
questa fattispecie non possono esercitare questo tipo
di attività. “Per noi questo è un punto fondamentale”,
ribadisce Andrea Senna, vice presidente dell’Ordine
dei medici chirurghi e odontoiatri di Milano e
presidente della Commissione albo odontoiatri
(CAO) provinciale. “Le società di cui parla l’art.
153 del Decreto Lorenzin per noi sono solo le StP.
Anche le catene dentali che operano come Società
a responsabilità limitata (Srl) per noi sarebbero
obbligate a diventare StP, ma purtroppo le leggi sono
interpretabili e per molti colleghi non è chiaro questo
obbligo”.
L’obbligo sussiste davvero per tutti?
Sono davvero tutti obbligati a diventare StP o per le
strutture/cliniche di una certa dimensione l’obbligo
decade? A intervenire sul tema era stato per l’appunto
il Ministero dello Sviluppo Economico che con una
nota del 23 dicembre 2016 ha ribadito come la StP sia
l’unico contesto in cui è possibile l’esercizio di attività
professionali regolamentate nel sistema ordinistico.
Nello stesso parere, il Ministero non ha però escluso
che sia consentita, nell’ambito dell’attività sanitaria, la
costituzione di società, purché servano per offrire un
prodotto diverso e più complesso rispetto all’opera
dei singoli professionisti. Quindi si può costituire una
società non StP che opera in ambito medico, se:
• offre servizi complementari all’attività medica; in
questo caso tra questa società e il professionista c’è
un contratto e le due attività rimangono distinte;
oppure
• il suo aspetto organizzativo e capitalistico risulta
del tutto prevalente rispetto allo svolgimento (pur
presente) di attività professionali “protette”. È il
tipico caso delle grandi cliniche o dei grandi centri
polispecialistici con investimenti di capitali ingenti e
con molti dipendenti-collaboratori, dove sono offerti
sia servizi medici sia di degenza, laboratorio analisi,
eccetera.
Perché allora non si sono registrate
molte più StP?
La risposta non è facile. Messi da parte i dubbi fiscali
sul reddito chiariti dall’Agenzia delle Entrate (il reddito
delle StP è da considerare reddito di impresa), come
spiega Alessandro Terzuolo, commercialista, i motivi
per cui la StP non è decollata sono diversi. “Innanzitutto,
l’esclusività dell’attività professionale rende impossibile
nella stessa società esercitare, per esempio, anche
attività immobiliare o investimenti finanziari, senza
contare che non si può aprire più di una StP.
Ci sono poi gli aspetti contributivi: le StP, benché
costituite in forma di società di capitali applicano una
sorta di ‘trasparenza’ contributiva. Per i soci dell’Ente
Nazionale di Previdenza e Assistenza dei Medici e
degli Odontoiatri (ENPAM) si deve conteggiare nel
proprio reddito ai fini contributivi anche la quota
di utili della StP non distribuiti. Secondo l’Enpam
questa “trasparenza” contributiva dovrebbe applicarsi
anche alle società non StP, ma per le StP la trasparenza
contributiva è un automatismo. Tuttavia, la possibilità
di avere fino a un terzo di soci non medici-odontoiatri
e la tassazione con aliquota al 24% tipica delle Srl sono
vantaggi da considerare in modo attento”.
A sentire i (pochi) professionisti che hanno scelto questa
forma associativa, i veri vantaggi sono soprattutto
operativi e gestionali. Silvia Malaguti, che lavora in una
delle prime StP che si sono costituite, le considera come
le uniche forme di società possibili per chi vuole offrire
una medicina integrata: “Abbiamo optato per le StP per
poter operare anche con figure professionali differenti.
Da noi lavorano infatti anche neurologi, osteopati,
fisioterapisti e psicologi. Inoltre – aggiunge – il nostro
commercialista inizialmente aveva dovuto studiare per
bene tutti gli aspetti per supportarci, perché non c’era,
e non c’è neanche oggi, un’informazione esaustiva sui
reali vantaggi che comporta aprire una StP”.
Opinione condivisa da Matteo Tretti Clementoni,
direttore di una StP che si occupa di chirurgia plastica
ed estetica: “Sono passato a una StP per due motivi:
il primo fiscale, perché come partita IVA individuale
pagavo fino al 60% di tasse, passando all’StP la
tassazione invece è più sostenibile. Il secondo motivo
è poter lavorare con altri professionisti. Devo dire che
mi trovo molto bene. Ne ho parlato con altri colleghi
ma purtroppo quasi nessuno è a conoscenza di questa
forma di società. E credo sia questo il motivo per cui
non è così diffusa”.
A sentire i (pochi) professionisti che hanno scelto questa
forma associativa, i veri vantaggi sono soprattutto
operativi e gestionali
I3 . 2018
Gli esami diagnostici essenziali
di laboratorio
Come iscriversi
aL corso
Partecipare al corso FAD
è semplice. Una volta letto
questo dossier, tutti gli iscritti
all’OMCeO Milano, medici e
odontoiatri, possono rispondere
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i crediti ECM. Ecco come fare:
1. se non si è già registrati,
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5. cliccare sul questionario e
rispondere alle domande ECM;
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limite massimo)
6. rispondere al questionario di
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7. scaricare l’attestazione dei
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corso
Per qualunque dubbio o difficoltà
scrivere a:
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3.2018
“Una diagnosi accurata è il primo passo per un trattamento efficace. Nessuno dovrebbe
ammalarsi o morire per la mancanza di servizi diagnostici o perché non è disponibile
l’esame appropriato”. Queste le parole con cui Tedros Adhanom Ghebr, direttore generale
dell’OMS ha presentato a maggio 2018 la prima edizione della lista degli esami diagnostici
essenziali in vitro (World Health Organization model list of essential in vitro diagnostics).
Autore: Maria Rosa Valetto
Revisore: Maria Grazia Manfredi
Consigliere OMCeO MI
Medico di Medicina Generale
ATS Città Metropolitana di Milano
Destinatari: medici e odontoiatri
Durata prevista: 2 ore (compresa la
lettura di questo dossier)
Durata: dall’1 novembre 2018 al
31 ottobre 2019
Evento ECM n. 242199; Provider Zadig (n. 103)
II InFormaMIII SmartFad
“Mi pare che non ci siamo mai visti” con un sorriso Luisa, medico di medici-
na generale accoglie nel suo ambulatorio un uomo esile apparentemente sulla
settantina. Lo accompagna una donna più giovane che la dottoressa riconosce
come sua assistita.
“No, dottoressa, mio padre è rimasto solo e si è trasferito con noi da qualche mese.
Abbiamo subito scelto lei come medico” risponde la figlia porgendo la tessera sanitaria.
“Grazie per la fiducia e, dunque, piacere di conoscerla, signor Livio” esclama Luisa leggendo il
nome sul documento.
“Buongiorno” il laconico saluto ma ancor più il tono della voce e lo sguardo lasciano trasparire un
misto di diffidenza e di disagio.
“Che mi dice?”
È la figlia a prendere la parola: “Sono preoccupata. Trovo mio padre affaticato e molto pallido,
persino grigio direi. Non è mai stato robusto, ma credo che abbia perso anche un paio di chili”.
“Ma per forza, Teresa. Portato via dall’aria buona e dal sole del mio paese, sono finito qui. Quando
apro la finestra vedo grattacieli e respiro smog. Pure l’appetito mi è passato” protesta Livio.
“Scusate un secondo.... Stefano, ora ti spiego…” Luisa si rivolge al tirocinante che frequenta il
suo studio da un paio di settimane. “È un nuovo paziente. Ecco, vedi, risulta già iscritto tra i miei
assistiti. Dobbiamo però raccogliere tutte le informazioni”.
“Che mi dice, signor Livio?” il medico ripete la domanda sperando che Teresa eviti di intromettersi
ancora.
“Che le dico? A parte una nefrite da giovanotto, mai visto un medico in vita mia, mai preso medi-
cine”. Luisa e Stefano sorridono.
“Sì, però, papà, adesso è necessario. Sei arrivato in salute ai tuoi 77 anni, ma i prossimi bisogna
difenderli”.
“Complimenti signor Livio, quando è entrato in ambulatorio le avevo fatto un bello sconto sull’età”
dichiara la dottoressa.
Stefano effettua l’anamnesi. Ci vuole un attimo perché la storia clinica di Livio è praticamente
silente. Solo un ricovero negli anni Sessanta per una probabile glomerulonefrite, forse preceduta
da una malattia reumatica.
Teresa propone: “Non si può fare un bel check up?”.
Stefano, ancora inesperto nella relazione medico-paziente, non nasconde un’espressione sconcer-
tata che tuttavia non frena l’insistenza: “Intendevo qualche prelievo, quelli essenziali, giusto per
tranquillità…”.
Pallido e spaesato
la storia
parte I
commento
A maggio 2018 l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha
pubblicato per la prima volta un documento sugli esami di labo-
ratorio essenziali (Essential Diagnostics List), sviluppato da una
commissione di 19 esperti dell’OMS e destinato a integrazioni e
aggiornamenti annuali.
Secondo la definizione dell’OMS, sono esami diagnostici essenziali
quelli che rispondono alle priorità di salute della popolazione in
base a criteri come la prevalenza di malattia e la rilevanza per la
salute pubblica, le prove di efficacia e di accuratezza e la costo-
efficacia. Più in dettaglio, gli esami diagnostici essenziali in vitro
sono quelli per la valutazione di laboratorio di campioni biologici
con lo scopo unico o principale di acquisire informazioni per la
diagnosi e il monitoraggio di malattie o per i test di compatibilità.
La lista comprende 113 esami:
58 esami generali di laboratorio di routine, indicati per la diagnosi
di un ampio spettro di malattie, infettive e croniche, classificate per
disciplina (chimica clinica, sierologia, ematologia, microbiologia,
micologia) e per tipo di esame (per esempio bilirubina, emocromo
completo)
55 esami indicati per la diagnosi e il follow up di alcune malattie
individuate come prioritarie dall’OMS (infezione da HIV,TBC, mala-
ria, epatite B e C, infezione da papillomavirus, sifilide), classificate
per malattia e per analita.
Per ogni esame vengono fornite diverse informazioni: l’obiettivo
dell’indagine, la metodica, il campione biologico, il livello assi-
stenziale raccomandato per l’erogazione della prestazione. Viene
inoltre indicata l’eventuale disponibilità di linee guida o raccoman-
dazioni dell’OMS.
WHO model list of essential in vitro diagnostics. 2018.
Essential diagnostics: a lever for health systems reform? Lancet
2018;391:2080.
III3 . 2018
Mentre il tirocinante effettua l’esame obiettivo, la dottoressa cerca di contenere
le richieste di Teresa: “Signora, capisco la sua preoccupazione, ma le assicuro che
fare un check up non è molto utile”.
“Davvero?”
“Davvero. Quella di fare esami per inquadrare la situazione del paziente è un po’ una moda che
non migliora le possibilità di individuare possibili malattie e di curarle. Anzi ormai sappiamo che
possono essere sufficienti pochi esami scelti con precisione basandosi sui sintomi e sull’esito della
visita medica”.
“Qualche decina di esami di laboratorio e si copre tutta la diagnostica delle principali malattie”
pensa il tirocinante riavvolgendo il bracciale dello sfigmomanometro. Poi si rivolge alla collega:
“Quasi nulla da segnalare. Solo un marcato pallore delle mucose e una lieve tachicardia, 110 pul-
sazioni, ritmico”.
Il paziente ha seguito con attenzione, ma sempre in silenzio, i gesti e le parole della figlia e dei due
medici. Luisa fa nuovamente un tentativo per renderlo protagonista: “Signor Livio, vorrei sentire
anche la sua voce!”.
“E cosa le devo dire, dottoressa? Che se non fossi qui, ma a casa mia, a quest’ora sarei a pescare
o a raccogliere funghi?”
“Giusto, le stesse cose che ama fare mio padre che ha più o meno la sua età. Comunque, non ab-
biamo trovato nulla di preoccupante. Ci potrebbe essere solo un po’ di anemia”.
“Quindi qualche esame bisogna farlo?” domanda Teresa.
“Sì, qualcuno sì, ma mirato”.
la storia
parte II
La lista OMS indica gli esami diagnostici essenziali per i diversi li-
velli organizzativi di un sistema sanitario. Individua un primo livello
organizzativo, le cure primarie, senza dotazione di laboratori o con
minima dotazione, e un secondo livello, le strutture con laboratori
diagnostici, ulteriormente suddivisi in laboratori ospedalieri o di-
strettuali, laboratori provinciali, regionali o specialistici, laboratori
di riferimento nazionali. Considerando per esempio la diagnosi di
anemia, come indagine per il primo livello è previsto il dosaggio
dell’emoglobina (su sangue intero venoso o capillare, su plasma o
su siero), come indagini per il secondo livello l’ematocrito (su san-
gue intero venoso o capillare) e l’emocromo completo con metodica
automatizzata (su sangue intero venoso). L’emocromo completo
con conteggio manuale (su sangue intero venoso o capillare) viene
indicato in seconda battuta dopo la determinazione con metodica
automatizzata.
WHO model list of essential in vitro diagnostics. 2018.
“A rigore basterebbe l’emoglobina” dice Stefano alla collega.
“Stai pensando alle indicazioni OMS e da questo punto di vista hai ‘rigorosamente’
ragione. Ma considera il contesto, intendo la disponibilità di servizi diagnostici.
Siccome stiamo per inviare il paziente a un laboratorio distrettuale, mi sento ragio-
nevolmente sicura di rispettare criteri di appropriatezza richiedendo anche ematocri-
to ed emocromo. Non siamo in un paese in via di sviluppo” dice sorridendo la dottoressa.
“Se è per questo, allora indagherei anche la funzione renale. Un’insufficienza cronica ci sta con l’età,
la storia e, tutto sommato, l’obiettività negativa” suggerisce il tirocinante.
“Sono d’accordo. C’è anche un altro fatto. Se ci limitiamo al minimo indispensabile, rischiamo di
inviare più volte a fare un prelievo questo signore che rimpiange torrenti di montagna abbondanti di
trote e boschi dove fanno capolino i porcini”.
la storia
parte III
Gli esami diagnostici essenziali di laboratorio
Considerando la diagnostica per la funzionalità renale, come inda-
gine per il primo livello è prevista il dosaggio dell’albumina sulle
urine (stick urinario), come indagini per il secondo livello il dosag-
gio di albumina (su siero o plasma o nelle urine), azotemia (urea,
su siero o plasma), creatininemia (su siero con stima della velocità
di filtrazione glomerulare o nelle urine). In alternativa è possibile
effettuare una serie di esami metabolici (pannello metabolico di
base, su sangue intero venoso o siero o plasma) che comprende
glicemia, sodiemia, carbossiemia, azotemia, rapporto urea/creati-
nina, eventualmente calcemia o una serie più numerosa (pannello
metabolico completo) che comprende, oltre ai precedenti, magne-
siemia, proteine totali e frazionate, bilirubinemia (diretta o totale),
fosfatasi alcalina, transaminasi. In aggiunta è indicato l’esame
delle urine completo(con metodica automatizzata).
WHO model list of essential in vitro diagnostics. 2018.
commento
commento
IV InFormaMIIV SmartFad
la storia
conclusione
“Eh, il giorno che organizzano un corso avanzato di buon senso è… lontano. Scherzi a parte, la no-
vità interessante che sta emergendo è questa: da decenni ormai si afferma la necessità di un utilizzo
appropriato dei farmaci, ma solo recentemente si inizia a capire che è altrettanto importante l’appro-
priatezza nel richiedere esami, a partire dai più comuni esami del sangue”.
la storia
parte IV
“Orientiamoci verso le indagini per anemia, insufficienza renale e pannello metabo-
lico di base più esame urine”. Stefano al computer inizia a compilare la ricetta rossa.
“Adesso vi spiego quello che ci siamo detti” dice Luisa rivolgendosi a Livio e alla figlia.
“Il collega sta facendo la richiesta per alcuni esami che possono stabilire se davvero c’è una
situazione di anemia e indagare le cause più probabili”.
“Sono proprio necessari?” chiede l’anziano paziente, mentre Teresa annuisce vigorosamente e sta
per intervenire di nuovo, preceduta dalla dottoressa.
“Sì, direi proprio di sì”.
“Dove dobbiamo fare il prelievo?” chiede Teresa.
“Al laboratorio dell’ASL”.
“Ci faranno aspettare molto?”.
“No, signora, per fortuna per gli esami del sangue e delle urine non ci sono liste d’attesa. Solo biso-
gna andare presto la mattina per evitare di attendere diverse ore…”.
“Questo non è un problema per mio padre, abituato a svegliarsi al canto del gallo”. Livio, assai meno
nervoso rispetto all’inizio della visita, sorride alle parole della figlia e aggiunge “E ad andare a letto
con le galline”.
Quando padre e figlia sono usciti dallo studio, i due medici hanno uno scambio di opinioni.
“Non è banale conciliare le indicazioni teoriche con le esigenze reali dell’assistenza” dichiara Stefano.
“Basta il buon senso”.
“Già ma come si fa a… impararlo?”.
La lista degli esami diagnostici essenziali si pone come un riferi-
mento per i decisori degli Stati membri (dai ministeri ai direttori
dei laboratori diagnostici), in grado di migliorare l’appropriatez-
za. Si raccomanda che le indicazioni vengano introdotte nella
pratica tenendo conto delle specificità locali (caratteristiche de-
mografiche, peso delle malattie, priorità sanitarie, disponibilità
di trattamenti, esperienza del personale, eccetera).
La lista degli esami diagnostici essenziali si aggiunge e integra
la lista dei farmaci essenziali (Essential Medicines List) in uso da
ormai 40 anni e giunta alla sua 20a edizione per i farmaci degli
adulti e alla 6a per i farmaci pediatrici.
Una diagnosi tempestiva e accurata è fondamentale per raggiun-
gere un’assistenza di qualità centrata sul paziente. Oltre a questo
beneficio individuale garantisce benefici per la salute pubblica,
per esempio, la rapida individuazione di focolai di malattia infet-
tiva o la riduzione dell’uso inappropriato di antibiotici.
WHO model list of essential in vitro diagnostics. 2018.
Essential diagnostics: a lever for health systems reform? Lancet
2018;391:2080.
WHO. The selection and use of essential medicines. Report of the
WHO Expert Committee, 2017.
commento
Bollettino 3-2018 omceomi
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Bollettino 3-2018 omceomi

  • 1. PROFESSIONE Vaccini: Guida alle controindicazioni pag. 18 Sanità Cannabis light: libera vendita e tutela della salute pag. 25 L’intervista Elio Franzini: da filosofo a rettore pag. 37 InFormaMI 3. 2018 anno LXXI Bollettino dell’OMCeOMI 360° pag. 5 i 40anni deLla legge basaglia
  • 2. I telefoni dell’Ordine Ricordiamo che, ai sensi dell’art. 16 comma 7 D.P.R. 185/2008, sei tenuto a comunicarci il tuo indirizzo di Posta Elettronica Certificata (PEC). Se non lo hai già fatto, segnalalo inviandolo a: segreteria@pec.omceomi.it Grazie. Direzione Dott. Marco CAVALLO tel. 02.86471.1 Segreteria del Presidente Giusy PECORARO tel. 02.86471410 Segreteria consigliere medicina generale Cinzia PARLANTI tel. 02.86471400 Segreteria del vice presidente Silvana BALLAN tel. 02.86471423 Segreteria del consigliere segretario Laura CAZZOLI tel. 02.86471413 Segreteria commissioni Maria FLORIS tel. 02.86471417 Area giuridica amministrativa Avv. Mariateresa GARBARINI tel. 02.86471414 Segreterie organi collegiali Ufficio deontologia procedimenti disciplinari Dott.ssa Daniela MORANDO tel. 02.86471405 Ufficio iscrizioni, cancellazioni, certificati Alessandra GUALTIERI tel. 02.86471402 Cinzia PARLANTI tel. 02.86471400 Maria FLORIS tel. 02.86471417 Marina ZAFFARONI tel. 02.86471448 Front office Cinzia PARLANTI (Stampa) tel. 02.86471400 Maria FLORIS tel. 02.86471417 Amministrazione e contabilità Rag. Antonio FERRARI tel. 02.86471407 Contabilità - visti d’equità Gabriella BANFI tel. 02.86471409 Rossana RAVASIO tel. 02.86471419 Sofia CAPPELLARO tel. 02.86471411 Ufficio Stampa - sito istituzionale Dott.ssa Mariantonia FARINA tel. 02.86471449 Aggiornamento ECM Sarah BALLARÈ tel. 02.86471401 Mariantonia FARINA tel. 02.86471449 Segreteria commissione odontoiatri Silvana BALLAN tel. 02.86471423 Pubblicità sanitaria e psicoterapeuti Lorena COLOMBO tel. 02.86471420 CED Lucrezia CANTONI tel. 02.86471424 Loris GASLINI tel. 02.86471412 Centralino Fabio SORA tel. 02.864711 ENPAM - Pratiche pensioni Stefania PARROTTA tel. 02.86471404 Katia COSTA tel. 02.86471404 Ricevimento telefonico: lunedì e mercoledì h 14:00-16:00 martedì e giovedì h 10:00-12:00 Ricevimento in sede (su appuntamento) lunedì e mercoledì h 10:00-12:00 martedì e giovedì h 14:00-16:00 Per prenotare il proprio appuntamento, chiamare il numero di telefono: 02.86471404 Una segreteria telefonica è sempre attiva per lasciare eventuali messaggi; il referente d’ufficio provvederà a rispondere appena possibile. Sportello ENPAM, modalità di ricevimento www.omceomi.it Collegati con l’Ordine
  • 3. 3 Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde I 40 ANNI DELLA LEGGE BASAGLIA 5 La psichiatria tra risorse scarse e nuove sfide 9 L’assistenza psichiatrica in cifre: Lombardia vs Italia 10 Follia e manicomi nella storia 13 Verso gli Stati Generali della medicina italiana 15 Violenza sugli operatori sanitari, il corso di formazione della FNOMCeO 16 Diabete e parodontite: una sfida comune 18 Uso dei vaccini: una Guida per valutare controindicazioni e precauzioni 19 Ricerca clinica: come orientarsi tra prove e studi 21 Antidepressivi e aumento di peso 22 AAA Società tra Professionisti cercasi 25 Cannabis leggera ma non troppo 27 Pari efficacia a minor prezzo coi biosimilari 30 Elenco nazionale dei dirigenti delle Asl al debutto 32 Telemedicina e cure palliative, a Garbagnate il primo progetto italiano 34 Il diabete non è più quello di una volta 36 Un dolce dialogo del terzo millennio 37 Da filosofo a rettore 40 1968 e dintorni 43 Un secolo di Spagnola 46 Da vedere e ascoltare 47 Da leggere 48 Eventi. OMCeOMI si dà al basket SmartFAD I Gli esami diagnostici essenziali di laboratorio II Pallido e spaesato IV Debole e preoccupata VI Stanco e avvilito sommario editoriale 360° professione Sanità diritto l’intervista clinicommedia ieri e oggi storia e storie
  • 4. 2 InFormaMI Registrazione al Tribunale di Milano n° 366 del 14 agosto 1948 Iscritta al Registro degli operatori di comunicazione (ROC) al n. 20573 (delibera AGCOM n. 666/08/CONS del 26 novembre 2008). Direttore Responsabile Roberto Carlo Rossi Comitato di Redazione Andrea Senna, Luigi Di Caprio, Ugo Giovanni Tamborini, Luciana Bovone, Geltrude Consalvo, Costanzo Gala, Ugo Garbarini, Dalila Greco, Maria Grazia Manfredi, Danilo Mazzacane, Claudio Procopio, Sandro Siervo, Martino Trapani Redazione e realizzazione Zadig Srl via Ampère 59, 20131 Milano tel. 02 7526131 - fax 02 76113040 segreteria@zadig.it www.zadig.it Direttore: Pietro Dri Redazione: Nicoletta Scarpa, Maria Rosa Valetto (coordinamento) Grafica: Luisa Goglio Autori degli articoli di questo numero: Martina Alberani, Claudia Arcari, Sergio Cima, Raffaella Daghini, Cristina Da Rold, Valeria Esposito, Ugo Garbarini, Cristina Gaviraghi, Angelica Giambelluca, Roberto Lanzi, Andrea Laurenzi, Margherita Martini, Antonino Michienzi, Simonetta Pagliani, Francesca Perticone, Andrea Porta, Patrizia Salvaterra, Nicoletta Scarpa, Maria Rosa Valetto Segreteria Mariantonia Farina Via Lanzone 31, 20123 Milano tel. 02 86471449 stampa@omceomi.it Stampa Cartostampa Chiandetti Srl, Stamperia a Reana del Rojale, Italia Trimestrale Spedizione a cura di Nexive SpA Via Fantoli 6/3, 20138 Milano Dati generali relativi all’Ordine Consiglio Direttivo Presidente Roberto Carlo Rossi Vice Presidente Andrea Senna Segretario Ugo Giovanni Tamborini Tesoriere Luigi Di Caprio Presidente Onorario Ugo Garbarini Consiglieri Andrea Senna, Luigi Di Caprio, Ugo Giovanni Tamborini, Sara Andreani, Luciana Bovone, Giovanni Campolongo, Giovanni Canto, Giuseppe Antonio Deleo, Costanzo Gala, Maria Grazia Manfredi, Jason Franco Ronald Motta Jones, Claudio Giovanni Pagliani, Massimo Parise, Giordano Pietro Pochintesta, Stefano Rusconi, Sandro Siervo, Martino Trapani, Maria Teresa Zocchi Commissione Albo odontoiatri Presidente Andrea Senna Componenti Jason Franco Ronald Motta Jones, Claudio Giovanni Pagliani, Claudio Procopio, Sandro Siervo Collegio Revisori dei conti Presidente Danilo Renato Mazzacane Revisori Geltrude Consalvo, Mariapaola Seveso Revisore Supplente Donatella Gambera PROFESSIONE Vaccini: guida alle controindicazioni pag. 18 SANITÀ Cannabis light: libera vendita e tutela della salute pag. 25 L’INTERVISTA Elio Franzini: da filosofo a rettore pag. 37 INFORMAMI 3. 2018 ANNO LXXI Bollettino dell’OMCeOMI 360° pag. 5 I 40ANNI DELLA LEGGE BASAGLIA Nota per gli autori Gli articoli e la relativa iconografia impegnano esclusivamente la responsabilità degli autori. I materiali inviati non verranno restituiti. Il Comitato di Redazione si riserva il diritto di apportare modifiche a titoli, testi e immagini degli articoli pubblicati. I testi dovranno pervenire in redazione in formato word, le illustrazioni su supporto elettronico dovranno essere separate dal testo in formato TIFF, EPS o JPG, con risoluzione non inferiore a 300 dpi.
  • 5. 33. 2018 Editoriale Ho appena assistito in prima persona alla bella e partecipata riunione di tutte le professioni sanitarie svoltasi a Roma, molto ben organizzata dalla FNOMCeO, a tratti, perfino entusiasmante, in cui lo slogan principale era, in sostanza, “Italia non ci abbandonare”. Come noto, tutto è nato in conseguenza ai rumors sulle trattative più o meno riservate relative al così detto “regionalismo differenziato” e abbiamo appreso dalla stampa ciò che Lombardia, Emilia Romagna e Veneto hanno in animo di fare in campo sanitario. Una sorta di quasi totale svincolo dal Sistema Sanitario Nazionale. D’altra parte, c’è poco da meravigliarsi. Sono anni che sentiamo parlare della voglia di autonomia di alcune Regioni. Oltretutto, in un recente referendum, i cittadini lombardi si sono espressi in maniera decisa per l’autonomia. Tutti questi eventi, però, hanno avuto su di me uno strano effetto ed ora, ahimé, mi sento un po’ come il famoso personaggio di Robert Louis Stevenson. Come ricorderete, il distinto e rispettato Doctor Henry Jekyll, medico e scienziato della nebbiosa Londra vittoriana, convinto che in ogni uomo alberghi anche una parte oscura (Sigmund era solo sei anni più giovane di Robert Louis!), elabora una pozione per liberarla e la prova su sé stesso dando vita al terribile e ributtante Mister Hyde. Nel mio caso, il razionale e compìto Doctor Jekyll concorda con il fatto che non sia possibile pensare ad un’Italia che assiste i pazienti a 21 velocità. Roberto Carlo Rossi Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde
  • 6. 4 InFormaMI Editoriale È di certo affascinante pensare che chi produce di più debba avere di più, tuttavia, non può essere accettabile che una stessa persona abbia spettanze di vita differenti a seconda di dove vive, nell’ambito di uno stesso Paese. Una Nazione che, oltre tutto, nella Carta Costituzionale proclama l’universalismo del Servizio Sanitario Nazionale al punto di assicurare la salute a tutti, rimugina tra sé e sé Jekyll. D’altra parte, basta leggere alcuni passaggi dei documenti divulgati dalla stampa, per scoprire (con sgomento) che la Lombardia vorrebbe, tra le altre cose, arrivare alla autonoma “definizione dell’utilizzo delle risorse finanziarie da impiegare per il personale, per l’acquisito di beni e servizi, di farmaci, dispositivi medici, nonché per l’acquisto di prestazioni da erogatori di diritto privato, a fronte della garanzia dell’equilibrio economico-finanziario complessivo del sistema sociosanitario; … definizione di modalità erogative dei farmaci e dei dispositivi e di indirizzi di appropriatezza terapeutica e prescrittiva” e molto altro ancora. Queste parole non vorranno mica dire – si chiede Jekyll, che in Lombardia si farà strada un sistema privato di welfare? Che vi saranno ulteriori tagli agli stipendi e al personale medico negli ospedali? Che, con la scusa dell’inappropriatezza, si faranno anche tagli all’assistenza farmaceutica? E così, al buon Doctor Jekyll viene da sostenere con entusiasmo la campagna contro il regionalismo differenziato. Ma ecco che, all’improvviso, spunta il mostro. Il signor Hyde appare e con un ghigno sardonico mi ricorda che oggi i medici lombardi, sia del territorio che dell’ospedale, sono tra i meno pagati della nazione. Non solo: nei reparti lombardi non si assume più. Si preferiscono meno impegnativi contratti libero-professionali. Le Aziende pagano di meno (non si fanno carico neppure della previdenza, che ognuno si deve poi pagare) e se tra qualche mese si decide di risparmiare di più, via! Il posto lo si libera senza tante storie. Per tacere poi del potere di acquisto: la vita in una grande città come Milano o come Brescia o in alcune località turistiche sui laghi lombardi ha un costo iperbolico. E naturalmente le regole si rispettano, com’è giusto: quindi impossibilità a fare la libera-professione per i medici del Sistema Sanitario Nazionale, fatta rispettare a suon di periodiche ispezioni degli organi di Polizia Giudiziaria. “Dov’erano gli altri quando i medici della nostra Regione erano (e sono) sommersi da questi problemi?” “Perché nessuno ha detto nulla in merito al fatto che, ad esempio, un medico di famiglia lombardo ha una remunerazione media anche di un terzo in meno di alcune altre Regioni?”. “E adesso vogliono arrestare il regionalismo differenziato e chiedono l’unità del Paese nella difesa del Servizio Sanitario Nazionale!”. Maledetto Mister Hyde, non vincerà! Senz’altro prevarrà la razionalità, l’inappuntabile pacatezza e l’intelligenza del Doctor Jekyll… Almeno spero! Videomessaggio OMCeOMI n. 9, novembre 2018 Il videomessaggio del Presidente è disponibile a questo link. Chi non abbia ancora preso visione o voglia riguardare i precedenti videomessaggi può collegarsi alla playlist
  • 7. 53. 2018 Spendiamo troppo poco per far fronte al bisogno di assistenza psichiatrica della popolazione. Nonostante ciò, riusciamo a rispondere alle nuove sfide 360° La psichiatria tra risorse scarse e nuove sfide antonino michienzi Era il 13 maggio 1978, quattro giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani a Roma. Il Presidente della Repubblica Giovanni Leone firmava quella che sarebbe diventata la legge 180/78, la legge Basaglia. Undici articoli approvati in fretta e furia, in meno di 20 giorni dal suo arrivo in aula, senza quasi discussione. La legge resterà in vigore pochi mesi, fin quando nel dicembre dello stesso anno verrà riassorbita in quella che sarà la legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, ma resta l’atto di svolta per la psichiatria italiana e la vita di migliaia di malati. Quest’anno ricorre il quarantennale di quella legge ed è l’occasione per vedere quanta strada abbia fatto l’assistenza psichiatrica, in che stato di salute sia e che cosa rimanga ancora da fare. “In 40 anni sono stati curati quasi 30 milioni di italiani senza utilizzare strutture coercitive ex manicomiali”, dice i 40anni deLla legge basaglia
  • 8. 6 InFormaMI 40 anni deLla legge basaglia360° Riparto Fondo sanitario nazionale Spesa per assistenza psichiatrica % PA Trento 948.081.680 65.545.000 6,9% PA Bolzano 900.647.539 55.956.000 6,2% Emilia Romagna 8.028.834.802 393.621.000 4,9% Umbria 1.635.899.441 67.820.000 4,1% Lombardia 17.782.903.729 719.521.000 4,0% Sicilia 8.904.853.100 343.965.000 3,9% Friuli Venezia Giulia 2.240.253.730 79.940.000 3,6% Lazio 10.412.623.204 371.076.000 3,6% Italia 108.472.082.678 3.824.693.000 3,5% Puglia 7.200.524.095 242.783.000 3,4% Toscana 6.832.328.584 230.358.000 3,4% Liguria 3.044.793.047 97.990.000 3,2% Abruzzo 2.396.743.998 75.840.000 3,2% Piemonte 8.042.518.413 252.572.000 3,1% Calabria 3.487.925.833 104.199.000 3,0% Veneto 8.772.746.159 258.820.000 3,0% Sardegna 2.966.438.750 84.356.000 2,8% Molise 572.515.029 16.250.000 2,8% Valle d’Aosta 229.965.871 6.133.000 2,7% Campania 10.199.870.935 265.444.000 2,6% Marche 2.824.286.068 71.348.000 2,5% Basilicata 1.047.328.671 22.156.000 2,1% La spesa per l’assistenza psichiatrica Chi spende di più per l’assistenza psichiatrica Fonte: Nostra elaborazione su dati Ministero della Salute Rapporto Salute Mentale 2016 45% 12% 6% 37% Assistenza ambulatoriale e domiciliare Euro 1.725.712.000 Assistenza semiresidenziale Euro 472.217.000 Assistenza residenziale Euro 1.407.865.000 Assistenza ospedaliera Euro 218.89.000 I dati del Sistema Informativo per il monitoraggio e tutela della Salute Mentale (SISM) sulla spesa per l’assistenza psichiatrica in Italia per setting assistenziale (anno 2016). Fonte: Rapporto Salute Mentale 2016
  • 9. 73. 2018 Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze dellOspedale Fatebenefratelli-Sacco di Milano. Basterebbe questo solo numero a decretare il successo di un modello che, seppur non perfetto, è studiato e imitato nel mondo, fatto di 163 dipartimenti di salute mentale, 1.460 servizi territoriali, 2.282 strutture residenziali, 898 strutture semiresidenziali, 285 servizi psichiatrici di diagnosi e cura ospedalieri e che ha anticipato di almeno quattro lustri l’idea dell’integrazione ospedale-territorio. Un successo, che tuttavia nasconde una criticità divenuta ormai strutturale: la cronica carenza di risorse economiche e umane. “Le risorse investite dal nostro Paese nell’assistenza psichiatrica sono sempre state molto modeste: circa il 3,5% del fondo sanitario, intorno a 4 miliardi l’anno. Una percentuale molto bassa se si confronta con quella di altri Paesi come Francia, Germania e Regno Unito che riservano all’assistenza psichiatrica il 10-15% della spesa sanitaria”. Questa carenza di risorse non può non avere conseguenze. La prima e più evidente è la ricaduta sul personale. Anche se la psichiatria più di altri settori ha retto l’urto del contingentamento del personale dell’ultimo decennio scontiamo una grave carenza di professionisti, psichiatri soprattutto. Qualche numero: secondo i dati del Rapporto Salute Mentale, nel 2016 il costo complessivo per l’assistenza psichiatrica territoriale ammonta a 3.605.794.000 euro suddiviso in assistenza ambulatoriale e domiciliare, assistenza semiresidenziale, residenziale e ospedaliera (vedi grafico e tabella a pag. 6) e la dotazione complessiva del personale all’interno delle unità operative psichiatriche pubbliche era pari a 31.586 unità. Di queste, circa 6.000 sono medici (psichiatri, soprattutto), poco più di 2.000 sono psicologi, 14.000 infermieri. Completano il quadro 3.000 OTA/OSS, quasi 2.000 educatori professionali e tecnici della riabilitazione psichiatrica e 1.500 assistenti sociali. Si tratta di numeri tutt’altro che rassicuranti: se la media nazionale raggiunge infatti lo standard di un operatore ogni 1.500 abitanti, in 14 regioni su 21 si sconta un deficit di operatori che va dal 25 al 75% in meno rispetto allo standard previsto. A complicare le cose vi è poi la scarsa offerta di posti letto dedicati alla psichiatria: sono meno di 10 per 100.000 abitanti. Solo la Turchia fa peggio di noi in Europa (vedi tabella a pag. 8 e 9). Ciò è gran parte frutto dell’approccio “basagliano” e territoriale della nostra psichiatria; tuttavia, la riduzione oltre una certa soglia dei posti letto ospedalieri mette a rischio la capacità del sistema di rispondere alle acuzie. “Se il settore va avanti lo fa grazie all’impegno e alla passione degli operatori”, dice ancora Mencacci. “Ma ciò non può impedire che in alcuni casi vengano prese in carico solamente le situazioni più gravi”. Un panorama che cambia Mentre l’assistenza psichiatrica annaspa, le malattie mentali prosperano. Si diffondono sempre di più, cambiano di forma, obbligano a rivedere gli assetti clinici. Nel 2016 sono stati in carico ai servizi psichiatrici circa 800.000 malati. Inoltre, tra le prime dieci malattie che causano disabilità ben quattro (depressione, disturbo bipolare, schizofrenia e abuso d’alcol) sono psichiatriche. Velocemente sta anche cambiando il profilo del paziente psichiatrico. Dai tempi dell’approvazione della legge Basaglia “c’è stata una patoplastica della malattia psichiatrica”, commenta Costanzo Gala, direttore del Dipartimento Salute Mentale Asst Ss Paolo e Carlo – Presidio dell’Ospedale San Paolo. “I pazienti su cui interveniva la 180 erano popolazioni stanziali, spesso affette da quella che gli autori dell’epoca definivano dementia precox a indicare una perdita della capacità cognitiva derivante dal disuso dell’apparato mentale. Questo stato di cronicità che non trae alcun vantaggio dalla permanenza in ospedale costituisce la premessa alla chiusura dei manicomi”. Da allora la disponibilità di nuove terapie, i modelli di presa in carico, i fattori patogenetici in gioco hanno profondamente mutato lo scenario epidemiologico. Ed è un cambiamento di cui è impossibile non tenere conto. Oggi il 25% dei pazienti è affetto da disturbi schizofrenici, oltre il 30% da disturbi dell’umore, circa il 15% da forme d’ansia. “Oltre alla crescita dei casi di depressione, aumentati di quasi il 20% in dieci anni, riscontriamo un aumento dei disturbi di personalità e crescono i disturbi legati Costanzo Gala, direttore del Dipartimento Salute Mentale Asst Ss Paolo e Carlo – Presidio dell’Ospedale San Paolo. Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze dell’Ospedale Fatebenefratelli-Sacco di Milano.
  • 10. 8 InFormaMI 360° 40 anni deLla legge basaglia all’aumento della disponibilità di nuove sostanze stupefacenti, per esempio i cannabinoidi sintetici. Infine poi c’è tutto il capitolo delle nuove dipendenze (da internet al gioco d’azzardo) e quello legato ai disturbi del comportamento alimentare”, dice Mencacci. P come precoce Se però c’è una tendenza che ha caratterizzato la psichiatria degli ultimi anni è la presa d’atto di un dato: che il 70% delle patologie psichiatriche esordisce tra i 14 e i 24 anni. “Ci siamo trovati di fronte a un aumento del numero di ricoveri di minori”, afferma Mencacci. “La ragione è da ricercare, probabilmente, nel fatto che i nostri giovani sono sempre più esposti a fenomeni in grado di slatentizzare i disturbi psichici: l’uso di droghe, la carenza di sonno, l’assetto delle nostre città”. Quale che sia l’origine, nell’ultimo decennio la psichiatria italiana si è attrezzata per affrontare questo nuovo fenomeno spostandosi dalla cura della cronicità che era stato l’oggetto principale dei decenni precedenti all’attenzione agli esordi della patologia e ai trattamenti precoci. Su questo fronte la Lombardia è stata tra le Regioni apripista: “Negli ultimi anni sono stati finanziati programmi innovativi finalizzati a intercettare i disturbi psichici in età giovanile”, afferma Gala. Anche intervenendo direttamente negli ambienti di vita dei ragazzi. “Così, paradossalmente, proprio quando la legge 180 sembrava aver dato tutto quello che era possibile, riemerge l’importanza del suo assetto organizzativo focalizzato sull’azione nel territorio”. Il tutto adottando un modello a rete che coinvolga altri attori; una strategia che ha dato ottimi risultati negli ultimi anni nel riconoscimento precoce e nella prevenzione delle complicanze della depressione post partum. La questione anziani Intanto, i fenomeni demografici che stanno spostando sempre in avanti le lancette dell’aspettativa di vita hanno ripercussioni dirette in campo psichiatrico. Così cresce il numero di anziani alle prese con il disagio mentale. “Il tema della patologia psichiatrica negli anziani è sempre più importante. Le ragioni sono molteplici: il primo è di ordine sociale e culturale. Il cambiamento Albania 26 Andorra 14 Armenia 49 Austria 62 Azerbaigian 37 Bielorussia 67 Belgio 174 Bosnia ed Erzegovina 40 Bulgaria 67 Croazia 98 Cipro 22 Repubblica Ceca 96 Danimarca 54 Estonia 55 Finlandia 61 Francia 90 Georgia 34 Germania 128 Grecia 71 Ungheria 89 Islanda 44 Irlanda 35 Israele 44 Italia 10 Kazakistan 50 Kirghizistan 29 Lettonia 126 Lituania 108 Lussemburgo 82 Malta 136 Macedonia 54 Principato di Monaco 152 Montenegro 49 Paesi Bassi 139 Norvegia 116 Polonia 64 Portogallo 63 Moldavia 56 Romania 74 Federazione Russa 101 Serbia 75 Slovacchia 82 Slovenia 66 Spagna 36 Svezia 45 Svizzera 91 Tagikistan 18 Turchia 5 Turkmenistan 54 Ucraina 80 Regno Unito 46 Uzbekistan 25 Regione Europea dell’Oms 68 Posti letto psichiatrici per 100.000 abitanti Fonte: WHO Regional Office for Europe. “Psychiatric hospital beds per 100 000”. European Health for All. Visitato: 18 ottobre 2018 che sta investendo la nostra epoca è così tumultuoso da privare le persone di ogni punto di riferimento e gli anziani sono quelli che fanno più fatica ad adattarsi”, dice Gala. “Le innovazioni tecnologiche che si susseguono a ritmi vorticosi, i cambiamenti nella
  • 11. 93. 2018 L’assistenza psichiatrica in cifre: Lombardia vs Italia cristina gaviraghi Lo scorso maggio è stato pubblicato dal Ministero della Salute il Rapporto sulla Salute Mentale 2016, basato sulle informazioni raccolte dal SISM (Sistema Informativo per la Salute Mentale). Nel 2016 gli utenti psichiatrici assistiti dai servizi specialistici sono stati sul territorio nazionale 807.000, con un tasso di circa 160 per 10.000 abitanti. Oltre la metà degli utenti sono state donne, principalmente con disturbi affettivi, nevrotici e depressivi. Per i pazienti maschi, invece, i disturbi più diffusi sono stati quelli schizofrenici, di personalità e legati all’abuso di sostanze. La fascia di età più coinvolta è stata quella compresa tra i 45 e i 54 anni, mentre i minori di 25 anni si sono rivolti meno ai servizi psichiatrici. Una situazione simile a quella lombarda, che ha visto nel 2016 circa 143.000 utenti psichiatrici assistiti (171 per 10.000 abitanti), con in evidenza un tasso di prevalenza per 10.000 abitanti di 48,1 per la depressione, circa 10 punti in più rispetto al valore di riferimento nazionale. Un’assistenza erogata in Lombardia da 154 strutture per servizi territoriali, 289 servizi residenziali e 155 semiresidenziali, queste ultime di quasi il 20% superiori alla media nazionale. La Lombardia dispone inoltre di 800 posti letto in degenza ordinaria. Nel 2016 sono state effettuate circa 20.000 dimissioni da strutture psichiatriche ospedaliere, un 10% in più rispetto alla media italiana, dopo una degenza media di 13 giorni. Il ricorso al TSO è stato inferiore rispetto al valore nazionale (-37,5%): 829 nel 2016, con un tasso di 10 per 100.000 abitanti. Una variazione analoga rispetto alla media italiana, ma di tipo incrementale, si è registrata invece per gli accessi in Pronto Soccorso con diagnosi psichiatrica che in Lombardia nel 2016 sono stati quasi 130.000, di cui circa 8.000 per schizofrenia e altri disturbi funzionali, 5.000 per depressione, e 51.000 per sindromi nevrotiche e somatoformi. I pazienti psichiatrici lombardi usufruiscono anche di cure farmacologiche per una spesa lorda di oltre 81 milioni di euro per antidepressivi, litio e antipsicotici. Proprio per i consumi in quest’ultima categoria di farmaci, la Lombardia si ritrova al secondo posto nella classifica nazionale. Nel 2016 gli utenti psichiatrici assistiti dai servizi specialistici sono stati sul territorio nazionale 807.000, circa 160 per 10.000 abitanti. Oltre la metà sono state donne, principalmente con disturbi affettivi, nevrotici e depressivi. struttura urbana, i nuovi modelli familiari che si diffondono. Non è strano che in un simile scenario, l’anziano si senta estromesso dalla struttura socioculturale”. L’altra ragione ha a che vedere soprattutto con l’allungamento dell’aspettativa di vita che fa sì che si intreccino problemi che di solito sono separati, producendo un mix inedito. “Per esempio, come avviene nei malati più giovani, anche negli anziani non è raro che compaiano disturbi psichici come conseguenza della convivenza con altre patologie: tuttavia la fragilità di questa popolazione rende la loro gestione più delicata. Gli stessi problemi psicocompartamentali negli anziani si intrecciano con fattori organici, per esempio il fisiologico declino cognitivo.Ciò rende ancor più difficile la loro gestione. Specie per le famiglie”, continua lo specialista. Siamo attrezzati a rispondere a questi nuovi scenari? Pur tra mille difficoltà legate alla carenza di risorse, la risposta ai bisogni medici di questo nuovo esercito di malati non è un problema: “Tuttavia” dice ancora Gala “se oggi siamo attrezzati a rispondere agli aspetti medici, di più si dovrebbe fare sull’aspetto sociale, anche per prevenire il più grave problema psichiatrico dell’anziano: il suicidio”. E così torniamo alla 180, con il malato considerato come persona nei suoi aspetti sociali e relazionali. Per il futuro, le sfide non mancano: “Vorrei una psichiatria sempre più dedicata alla prevenzione, al riconoscimento precoce”, dice Mencacci. “E alla messa in atto tempestiva di trattamenti adeguati, visto che oggi siamo in grado di mettere in campo una risposta scientifica e tecnologica in grado di migliorare la qualità di vita del malato e restituirlo alla società, anche in termini di contributo professionale e lavorativo”. L’esperto conclude: “Penso poi a una psichiatria che riconosca le differenze di genere, uomini e donne totalmente diverse hanno modalità di presentazione diversa. E a una psichiatria che si occupi di cura e guarigione e non di custodia e controllo sociale. Non siamo i custodi della normalità: siamo una branca medica che si deve occupare delle persone per curarle, anche laddove non sia possibile guarirle”.
  • 12. 10 InFormaMI 360° 40 anni deLla legge basaglia Follia e manicomi nella storia Espressione della divinità, possesso del maligno, emblema della pericolosità per la società e per il potere. Come le diverse epoche hanno interpretato la malattia mentale cristina gaviraghi Gli ultimi manicomi in Italia hanno chiuso definitivamente i battenti a fine anni ’90, come ultimo atto di un processo iniziato vent’anni prima con l’approvazione della legge 180. Un provvedimento che ha cambiato il modo di considerare e gestire la malattia mentale, frutto di un’evoluzione lenta e a volte contraddittoria, che ha percorso la storia della follia nel corso dei secoli. Gli insani, gli alienati, i matti non sono sempre stati rinchiusi e isolati dalla società. Nell’antichità i folli avevano nell’immaginario collettivo qualcosa di divino, di soprannaturale e la loro diversità veniva “curata” attraverso riti mistico-religiosi operati da sacerdoti. Sarà con Ippocrate, tra il IV e V secolo a.C., che il disturbo mentale troverà una collocazione in ambito medico: il cervello viene ritenuto alla base dell’intelligenza e, nel caso sia squilibrato, causa della malattia mentale. Un’interpretazione organica che verrà rafforzata secoli dopo da Galeno (II sec. d.C.) con studi sul sistema nervoso centrale e con l’elaborazione di una prima teoria sul rapporto tra cervello e mente. Allora il folle non destava ostilità e veniva accettato come malato. L’interesse per la follia restò vivo anche nell’antica Roma, ma, col trascorrere dei secoli, venne contaminato da visioni e interpretazioni religiose che con l’arrivo del Medioevo presero il sopravvento. Il folle per il Medioevo divenne un indemoniato, aggredito da una forza malvagia che, insinuandosi nei suoi umori, ne contagiava il corpo. La gestione della malattia Francisco Goya, Il giardino dei pazzi (1794).
  • 13. 113. 2018 mentale passò così dai medici alla Chiesa, all’interno dei monasteri, a opera di esorcisti e inquisitori. Dopo il XV secolo, però, la follia cominciò a perdere il suo carattere religioso e iniziò a insinuarsi l’idea della pericolosità: il malato di mente era una minaccia per la società e andava, perciò, rimosso da essa. Nacquero le prime case di internamento, emblema delle quali fu l’Hopital General di Parigi del 1656, dove venivano rinchiusi, non certo per essere curati, non solo i matti, ma tutti i reietti della società: poveri, vagabondi, storpi, nullafacenti e anche criminali. Tali case di internamento si diffusero in tutta Europa, diventando luoghi di pura reclusione che spogliavano gli individui della loro dignità fino alla fine dei loro giorni. Sarà solo sulla scia degli ideali illuministi che qualcosa inizierà a cambiare. Nel XVIII secolo riprese piede la spiegazione della follia in termini di malattia mentale. In Francia, Philippe Pinel cominciò a distinguere i malati di mente da poveri e vagabondi, intuendo la necessità di luoghi specifici e di nuovi approcci deputati alla loro cura, dando via alla nascita dei primi manicomi, la cui costruzione in Italia fu richiesta per lo più da ordini ecclesiastici. Pinel liberò letteralmente dalle catene i pazienti rinchiusi nelle case di internamento, convinto che la malattia mentale fosse uno stato di alterazione di un equilibrio esistente nelle passioni umane, da curare moderando e riorientando gli eccessi e la disarmonia. Un approccio sposato in Italia da Vincenzo Chiarugi, direttore del manicomio fiorentino di Bonifazio aperto nel 1788. Il passaggio tra ’800 e ’900 segnò l’arrivo di un cambiamento: si avvertì di più la necessità di comprendere i sintomi della malattia mentale piuttosto che reprimerli e la psicoanalisi mosse i suoi primi passi. Freud approfondì in Francia, insieme al neuropatologo Charcot, che si era concentrato sulla cura dell’isteria tramite l’ipnosi, le tematiche riguardanti l’inconscio, che porteranno poi all’elaborazione di un primo modello psicoterapeutico per le malattie mentali. Nacque la psichiatria come scienza autonoma che restò però, anche per l’influsso del positivismo, ancorata a una spiegazione organica della malattia mentale: un cervello malato era alla base di un comportamento deviato. Fu in questo clima che in Italia si sviluppò il dibattito, anche politico, sulla gestione delle malattie mentali. Si arrivò all’approvazione, da parte del governo Giolitti, della legge 36 del 1904, che diede omogeneità nazionale alle precedenti normative territoriali sulla regolamentazione dei manicomi. Un provvedimento più di ordine pubblico che di tipo sanitario, che disponeva il ricovero coatto negli ospedali psichiatrici, in seguito a certificato medico e ordinanza del questore. Il manicomio era, da un punto di vista giuridico e scientifico, il luogo esclusivo per il trattamento dei disturbi mentali, ma restava fondamentalmente un luogo di contenzione. Negli anni successivi il numero dei pazienti ospitati nei manicomi continuò a crescere tra terapie quali l’elettroshock, lo shock insulinico e le lobotomie frontali. All’Ospedale psichiatrico di Mombello, alle porte di Milano, ormai sovraffollato, si decise di affiancare una succursale che fu ultimata nel 1924 e data in gestione a privati. Quindici anni dopo divenne un manicomio pubblico e, in seguito all’ampliamento del 1945, venne intitolato a Paolo Pini, il neurologo milanese pioniere nella cura dei malati psichiatrici e non in situazioni di svantaggio sociale. Sarà questo il manicomio più importante di Milano che nel tempo arriverà a accogliere oltre 1.000 pazienti, organizzerà anche una sezione per adolescenti, ingrandirà la biblioteca, si doterà di sala cinematografica, laboratori creativi e compagnia filodrammatica, fino a ospitare nel 1959 la prima clinica universitaria di psichiatria milanese. Chiuse nel 1999, dopo aver vissuto la storia degli ospedali psichiatrici italiani nel XX secolo. Una storia che vide l’avvento, tra gli anni 50 e 60 dei primi psicofarmaci, che sostituirono le terapie di shock, André Brouillet, Il professor Jean-Martin Charcot insegna alla Salpêtrière, 1887.
  • 14. 12 InFormaMI 360° 40 anni deLla legge basaglia e che assistette al progredire della ricerca psichiatrica in cui si faceva largo la necessità di valutare il contesto sociale, biologico e personale del paziente. Nella seconda metà del secolo la legge Giolitti appariva sempre più anacronistica: i manicomi erano rimasti immobili, mentre la società era cambiata. L’avvento degli psicofarmaci, migliorando il controllo dei pazienti, permise la sperimentazione di soluzioni alternative a quelle in uso fino ad allora per gestire la malattia mentale. Si stava recuperando l’idea di curabilità del disturbo mentale e superando la sua visione esclusivamente medico-organicista. In tutta Europa presero piede movimenti che si contrapponevano alla psichiatria di stampo istituzionale e che misero in crisi il modello asilare in vigore. Complice una nuova sensibilità verso i diritti dei pazienti, si rese necessaria una riforma della normativa per gli ospedali psichiatrici istituzionali, strutture ormai troppo costose e inefficienti. Un primo cambiamento avvenne con la legge 431 del 1968 che istituì servizi di assistenza territoriale, ridefinì l’organizzazione dei manicomi e regolamentò il ricovero volontario. Il provvedimento abolì inoltre l’obbligo di iscrizione al casellario giudiziario dei pazienti ricoverati in vigore dal 1930. Fu, però, la legge Basaglia del 1978 la vera riforma: decretò la fine dei ricoveri negli ospedali psichiatrici, istituti che diventarono strutture a esaurimento fino a essere definitivamente chiusi nel 1999. Questi furono sostituiti da un’assistenza della malattia mentale gestita in presidi extraospedalieri territoriali o, se necessario, presso i servizi psichiatrici di diagnosi e cura presenti negli ospedali generali. Ma la legge Basaglia rappresentò anche una rivoluzione politica e culturale nella gestione della malattia mentale, basando i suoi principi sul diritto alla cura e alla salute del paziente psichiatrico e non più sulla sua postulata pericolosità. Gli 11 articoli della legge affermarono il diritto costituzionale alla volontarietà della cura anche per il malato mentale, che da allora può subire un trattamento obbligatorio solo in casi particolari determinati dall’urgenza e dal fallimento di altri tentativi terapeutici. Il malato mentale, considerato con i suoi aspetti sociali e relazionali, diventò così oggetto di interventi di prevenzione, cura e riabilitazione. Un’idea di cura che Basaglia sperimentò di persona, prima come direttore del manicomio di Gorizia e successivamente di quello di Trieste, strutture dove riportò i pazienti a essere persone, togliendoli dall’isolamento e dall’anonimato, aprendo gli spazi e ridando loro identità, libertà e dignità. A 40 anni dalla sua approvazione, la legge 180 non si è rivelata priva di lacune, specialmente nel delineare con precisione il futuro dell’assistenza psichiatrica in un territorio intriso di disparità regionali. Resta comunque un provvedimento che ha visto l’Italia un pioniere a livello mondiale nella gestione della malattia mentale. 1977: l’anno di Basaglia Lo si ricorda per la legge 180 del 1978, ma fu un anno prima che Franco Basaglia dimostrò in modo tangibile il frutto del suo lavoro e delle sue idee. Nel 1977 fu annunciata la definitiva chiusura dell’ospedale psichiatrico di Trieste di cui Basaglia era direttore. Un’esperienza che venne raccontata in una sua intervista sul numero 152 di Tempo Medico. Nell’articolo lo psichiatra veneto raccontò come si arrivò a quel passo decisivo, dall’esperienza goriziana all’influenza ricevuta dalla “comunità terapeutica” sperimentata in Inghilterra. Il desiderio di ridare dignità al malato, la cui patologia è “uno stato di disadattamento da curare sullo stesso terreno sociale”, le cui ragioni vanno “cercate ed estirpate per condurre a poco a poco il malato alla realtà, inserirlo in un ambiente il più possibile normale”. Un processo non privo di difficoltà e osteggiatori: dagli psichiatri vecchio stampo, agli amministratori fino all’opinione pubblica, ma che rappresentava per Basaglia “il solo approccio valido, l’unico modo per rispondere al giuramento di Ippocrate”.
  • 15. 133. 2018 “È il tempo di attivarci, di essere concreti e di avviare un confronto con tutta la professione, coinvolgendo l’intera società civile”. Con queste parole lo scorso 24 marzo il presidente FNOMCeO Filippo Anelli ha dato il “la” a quello che sarà, il prossimo anno, una vera chiamata alle armi per tutti i medici e odontoiatri d’Italia PROFESSIONE andrea porta Verso gli Stati Generali della medicina italiana A conclusione della sua prima relazione da presidente Anelli ha proposto di indire per il 2019 un grande evento politico: gli Stati Generali della medicina italiana. “Siamo pronti a sfidare il cambiamento”, ha detto. L’idea è un anno zero della professione, un momento grazie al quale la professione ripensi a se stessa per decidere che cosa fare del proprio futuro. Non è un caso che tutto ciò arrivi in questo 2018 ormai alle spalle, anno nel quale il Servizio Sanitario Nazionale ha compiuto quarant’anni non senza qualche problema strutturale che gli impedisce di garantire completa equità delle cure: “Come medico non posso accettare che dodici milioni di italiani abbiano rinunciato a una terapia o a un esame diagnostico perché non potevano permetterselo”, aveva detto. Ruolo sociale del medico A distanza di nove mesi da quel primo proclama, Anelli è tornato sul tema in occasione della conferenza di presentazione degli Stati Generali tenutasi a Roma lo scorso 20 dicembre. Contattato da InFormaMi, Anelli precisa che non saranno un evento, ma un percorso. “Vogliamo avviare un dibattito su questioni ben precise già partendo dal confronto con gli ordini locali”. Un tema tra tutti ha a oggi grande rilievo, nelle intenzioni di Anelli: quello del ruolo sociale e culturale del medico. “Viviamo in un periodo storico che vede una crisi della medicina a livello culturale, proprio nel contesto di un profondo rinnovamento della scienza medica stessa” spiega. Il problema si inscrive in seno alla più ampia crisi delle professioni liberali: “Sempre più spesso il medico da professionista è relegato a esecutore parte di un sistema più ampio, fatto di regole precise dentro le quali ha poco spazio decisionale”. Il tema caldo per Anelli è chiaramente quello dell’appropriatezza: “Questa è diventata una tale priorità da aver fatto saltare il rapporto individuale con il paziente, bastato per sua natura sulla fiducia”. L’idea è quella di lavorare per recuperare la valenza sociale della professione medica, recuperandone l’autorevolezza: “Oggi siamo troppo spesso di fronte a medici dello Stato invece che a medici dei cittadini”. Più autonomia e meno burocrazia Questa immagine di medico relegato a burocrate ritorna nella presentazione che Anelli ha tenuto in occasione del Consiglio Nazionale del 6 luglio in cui ha illustrato, in modo ancora più esaustivo, i temi caldi che costituiranno l’ossatura degli Stati Generali. Del resto anche Roberto Rossi, presidente OMCeO Milano, sembra sulla stessa lunghezza d’onda commentando le ipotesi sostenute da Anelli: “Il medico non è più opinion leader, nella nostra società”. Il senso è chiaro: se si priva il medico dell’autonomia, se si riduce la sua attività a medicina amministrata, si priva il sistema della libertà democratica e si trasformano Auguste Couder: Versailles, 5 maggio 1789, apertura degli Stati Generali wikipedia
  • 16. 14 InFormaMI PROFESSIONE inoltre i servizi e i diritti a semplici atti burocratici finalizzati a rispondere agli interessi dello Stato e non ai bisogni dei cittadini. “Il primo a poter cambiare è il medico stesso”, ha detto Rossi. “Se non è lui il primo a essere convinto del suo ruolo, nulla cambia”. Senza autonomia, si esclude inoltre l’originalità e l’innovazione tipiche delle libere professioni: “In un sistema come quello attuale, i cambiamenti sono visti come deviazioni rischiose e non come opportunità. Questo però è il primo passo verso la morte della professione stessa e della qualità delle cure”. Che, detto in parole semplici, è come dire: se il medico deve attenersi a linee guida stabilite dall’alto, allora il suo ruolo viene totalmente svuotato. Cento tesi da cui partire Le tematiche sollevate da Rossi proseguono la valutazione del testo di Ivan Cavicchi, docente all’Università Tor Vergata di Roma ed esperto di politiche sanitarie, dal titolo Gli Stati Generali della professione medica: 100 tesi per discutere il medico del futuro. Il documento, presentato ufficialmente durante la conferenza stampa di dicembre, non vuole rappresentare la posizione di FNOMCeO ma resta pur sempre un punto di partenza verso una riflessione sulla questione medica. Dopo averlo analizzato per verificarne la rispondenza alle linee di indirizzo della Federazione, Rossi ha avuto modo di definirlo “complesso e non facilmente digeribile, ma pur sempre utile ad avviare un dibattito che si concretizzerà in un convegno che intendiamo organizzare come OMCeO Milano”. Il ruolo della ricerca e quello del medico C’è poi il tema della medicina basata sulle prove: questa rappresenta la realtà, oggi, e certamente un’opportunità. Ma è anche in questo contesto mutato che il medico deve rivedere il proprio ruolo. In questo senso gli Stati Generali saranno anche occasione per ribadire l’importanza del rapporto medico paziente nel contesto del progresso scientifico: “La ricerca fornisce dati fondamentali”, precisa Anelli, “ma resta il medico, con la sua cultura ed esperienza, a doverli interpretare e adattare, quasi cucendoli sul singolo paziente”. Altrimenti ci troveremmo costretti ad ammettere che un algoritmo potrebbe un giorno essere più efficiente di un professionista in carne e ossa. Insomma, la rivoluzione che Anelli si aspetta passa attraverso una medicina nuovamente umanistica, benché alla luce delle evidenze fornite da una ricerca necessariamente inarrestabile. Fake news e ruolo del medico La rivoluzione che gli Stati Generali prospettano è motivata però anche dalle evidenti trasformazioni culturali in termini di accessibilità, da parte dei pazienti, all’informazione clinica. In questo, il tema del digitale ha un peso notevole. Del resto secondo il Censis, che ha pubblicato lo scorso anno un comunicato in cui sono riportati i principali risultati di una ricerca condotta in collaborazione con Assosalute, un quarto degli italiani di fronte a piccoli disturbi di salute si rivolge alla rete per cercare soluzioni. Più di metà di loro, circa 8,8 milioni di persone, è stata però vittima di fake news. “Se il paziente dispone di molti strumenti per informarsi non sempre attendibili, d’altro canto il medico oggi non sembra avere altrettanti mezzi per gestire il paziente stesso”, prosegue Rossi. Manca ancora una capacità diffusa di interagire efficacemente con le ansie di un paziente che si autodocumenta in modo inadeguato: i nuovi medici dovranno essere dunque preparati anche sotto questo profilo. Le resistenze interne Se il tema delle aggressioni ai medici ha fatto e fa parlare ancora (purtroppo) molto, esiste un’altra forma di sopraffazione verso i camici bianchi molto meno evidente ma costante: “Notiamo” commenta “Il primo a poter cambiare è il medico stesso. Se non è lui il primo a essere convinto del suo ruolo, nulla cambia.”
  • 17. 153. 2018 ancora Rossi “un accanimento culturale verso il medico ogniqualvolta qualcosa non funziona, ma la sensazione è che i medici non se ne accorgano”. Clinici quindi come capri espiatori di un sistema più complesso, anche agli occhi della politica. Ovviamente gli obiettivi non sono semplici da raggiungere, e non saranno gli Stati Generali a cambiare le cose se non ci sarà un ripensamento da parte dei medici stessi che parta dal superamento di alcune resistenze interne: “Quella al cambiamento, prima di tutte”, dice Rossi. “Occorre che ci prepariamo a un cambiamento epocale: molti colleghi lo hanno già interiorizzato, altri, specie ai vertici delle amministrazioni, ancora faticano”. Al di là di singole realtà più virtuose di altre, un ripensamento del ruolo del medico deve avvenire lungo tutto lo Stivale partendo dalle realtà provinciali. In fondo è quanto Anelli ha avuto modo di ricordare a luglio in occasione dell’incontro a Bari con Antonio Decaro, sindaco della città e presidente di ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani): “I Comuni sono le istituzioni più prossime ai cittadini, le più idonee a interpretarne necessità ed esigenze”, ha detto il Presidente. “I medici e tutti i professionisti della sanità sono il terminale del Servizio Sanitario Nazionale: da qui il ruolo politico e sociale di collanti della democrazia”. Una Magna Carta per la professione? Punto di arrivo degli Stati Generali dovrà essere la stesura di quello che Anelli definisce un “documento storico”, una Magna Carta della professione medica scritta dai medici insieme a tutta la società civile. In questo testo dovranno confluire riflessioni e obiettivi che riguarderanno i temi dell’autonomia della professione, quello del ruolo del medico in una società che cambia e naturalmente quello della deontologia. “Questo documento”, dice, “dovrà proiettare il medico verso il futuro. Vuole pertanto essere un punto di partenza più che un obiettivo, che tenga conto della necessità di rivalutare il ruolo medico pur nel contesto delle criticità economiche e delle necessità di sostenibilità del sistema”. Un complesso equilibrio, quello che la classe medica del prossimo futuro dovrà saper gestire, tra i diritti del cittadino a cure di qualità e la necessità di far quadrare i conti. Del resto, come ha affermato lo stesso presidente a marzo, “se vogliamo salvare il medico ippocratico dobbiamo avere il coraggio intellettuale di distinguere quello che va da quello che non va”. Violenza sugli operatori sanitari, il corso di formazione della FNOMCeO Sono quasi 10.000 i medici e gli odontoiatri che a partire dal 15 ottobre hanno iniziato sul portale FADINMED il corso di formazione a distanza (FAD) “Violenza degli operatori sanitari”. Il tema è già stato ampiamente trattato su InFormaMi pubblicato a dicembre 2017 e rientra tra le priorità individuate dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCeO) per riposizionare la professione, rafforzando il rapporto fiduciario e ripristinando la comunicazione medico-paziente. Il corso, coordinato dal Gruppo di Lavoro della FNOMCeO per la sicurezza degli operatori sanitari, si propone di sensibilizzare medici e odontoiatri sul fenomeno, sottolineando l’importanza di non sottovalutare mai alcun comportamento violento, sia esso verbale, fisico o psicologico e di denunciare sempre qualsiasi evento. Importanti enti internazionali, compresa l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), sono concordi nel raccomandare un approccio ispirato alla cultura della tolleranza zero. Infatti è ormai assodato che la violenza non fisica prelude a quella fisica senza soluzione di continuità e che accettare le manifestazioni meno clamorose, ritenendole non pericolose o addirittura accettandole come parte del rischio professionale, pone le basi per il verificarsi di fatti gravi e tragici. Purtroppo, nonostante le pagine di cronaca siano dense di episodi di violenza a danno degli operatori sanitari, la mancata denuncia resta tuttora la tendenza prevalente e l’entità della sottonotifica (si stima in circa 7 casi su 10) impedisce di mettere a fuoco con precisione le dinamiche. Da qui la necessità di un approccio globale, integrato e partecipativo al fenomeno, che ne consideri gli aspetti sociali, economici, organizzativi e culturali, in modo da affrontarlo dalle radici. Il corso FAD è disponibile gratuitamente per un anno a tutti gli iscritti FNOMCeO ed eroga 8 crediti ECM. PROFESSIONE Antibiotico-resistenza, una piccola grande guerra pag. 17 SaNItà Doping: contro etica e salute pag. 24 L’INtERvISta Luigi Naldini: il futuro della terapia genica pag. 33 InFormaMIBollettino dell’OMCeOMI 4. 2017 annO LXX 360° pag. 5 Quando chi cura diventa un nemico
  • 18. 16 InFormaMI Diabete e parodontite: una sfida comune PROFESSIONE martina alberani La correlazione tra salute orale e sistemica è molto più stretta di quanto si creda, basti pensare che chi soffre di parodontite ha un rischio più alto di sviluppare diabete e, al progredire della malattia dentale, si osserva un peggioramento anche sul piano metabolico La relazione tra diabete di tipo 2 e parodontite è un caso esemplare: non una, ma due malattie croniche non trasmissibili tra loro strettamente legate. Insomma una doppia sfida per i professionisti sanitari che ormai sanno bene come il fronte della cronicità e il contrasto a uno stile di vita non salutare (giocato su fattori di rischio come tabacco, alcol, alimentazione e sedentarietà) siano i principali temi di salute pubblica dei paesi industrializzati. Tra le numerose patologie che si accompagnano al diabete, la parodontite è particolarmente interessante, visto lo stretto rapporto di reciprocità1 e la rilevanza epidemiologica (vedi box). Questa “relazione pericolosa” è stata analizzata in un documento congiunto dell’European Federation of Periodontology e dell’International Diabetes Federation, che ha coinvolto 15 esperti provenienti da Europa, Stati Uniti e Asia e ha raccolto le prove disponibili in letteratura su patogenesi, epidemiologia e impatto della terapia parodontale sul controllo metabolico.2 16 InFormaMI che Cosa sappiamo oggi di questa relazione? I risultati emersi indicano che la presenza di parodontite, specie se grave, si associa a un rischio elevato di sviluppare prediabete, insulino-resistenza e anche diabete di tipo 2. D’altra parte alcuni studi di coorte mostrano che i pazienti diabetici con parodontite hanno livelli significativamente più elevati di emoglobina glicata rispetto a quelli senza problemi parodontali. La relazione tra le due patologie si ripercuote anche sulle complicanze del diabete, la letteratura riporta un’associazione tra peggiori condizioni parodontali e l’insorgenza di retinopatia diabetica, piede diabetico e complicanze renali e cardiovascolari. In generale, la mortalità complessiva è significativamente elevata in pazienti affetti da diabete di tipo 2 e parodontite.
  • 19. 173. 2018 Per quanto riguarda la patogenesi, in entrambe le condizioni si assiste a una modificazione di diversi mediatori e indici della risposta immunitaria e dell’infiammazione come interleuchina 1 β, tumor necrosis factor (TNF) α, interleuchina 6, rapporto tra RANKL (Receptor Activator of Nuclear Factor Kappa-Β Ligand) e osteoprotegerina, espressione dei recettori Toll simili (Toll-like receptor). Altri dati mostrano che a un efficace controllo del diabete corrisponde una riduzione dello stress ossidativo e dei livelli di citochine circolanti e un miglioramento del profilo lipidico. Tuttavia non ci sono studi che correlino tali cambiamenti con la risoluzione del quadro clinico parodontale, mentre è dimostrato che una terapia di successo per la parodontite riduce il livello della proteina C reattiva e del TNF α nel paziente diabetico. che Cosa si può fare? Il destino del diabete e quello della parodontite sono inesorabilmente legati ed è importante una presa in carico globale dallo screening, alla diagnosi, fino al trattamento. Prima arriva la diagnosi, prima si può iniziare il trattamento e migliori sono le possibilità di prevenire complicanze e costi sanitari correlati. Il trattamento parodontale (scaling and root planing) è sicuro, efficace, ed è associato a una riduzione dei livelli di emoglobina glicata nei pazienti con diabete di tipo 2, con percentuali che oscillano tra lo 0,24% e lo 0,48% dopo 3-4 mesi. Tuttavia non è stato dimostrato che l’effetto si mantenga sul lungo periodo e non è stata ancora stabilita la soglia di miglioramento del quadro parodontale cui corrisponde il calo dell’emoglobina glicata. La terapia antibiotica, quando aggiunta al trattamento parodontale, non sembra apportare benefici aggiuntivi al controllo glicemico. È invece provato il ruolo dello screening per il diabete in un contesto di cure odontoiatriche: la collaborazione multidisciplinare e multiprofessionale si afferma sempre di più come chiave per elevare la qualità dell’assistenza. Il National Institute for Health and Care Excellence (NICE) suggerisce che tutti i professionisti sanitari, e tra questi gli odontoiatri, siano coinvolti in prima linea nello screening del diabete3 . È fondamentale che gli operatori prestino attenzione all’anamnesi e ai sintomi di allarme relativi all’una e all’altra patologia, avendo cura di indirizzare il paziente dallo specialista più adeguato in base alle caratteristiche individuali di malattia. Deve essere coinvolto anche il paziente, con una comunicazione improntata a fargli comprendere la relazione tra le due condizioni e soprattutto le possibili conseguenze di uno scarso controllo di entrambe. A conferma e a sostegno di questa tesi, il 17 novembre 2018 in occasione della Giornata mondiale del diabete, si è svolto a Milano il workshop “Diabete: una patologia condivisa”, voluto da OMCeO Milano, società scientifiche e associazioni di pazienti e dedicato a delineare le strategie per il trattamento del diabete in un’ottica I numeri Secondo le stime aggiornate al 2017 dell’International Diabetes Federation, a livello mondiale hanno il diabete 425 milioni di persone tra i 20 e i 79 anni (circa l’8,8% della popolazione globale). In assenza di interventi, questo numero è destinato a crescere fino a 629 milioni nel 2045. I cittadini europei con diabete di tipo 2 sono al momento 58 milioni, il 6,8% della popolazione del vecchio continente e saranno 67 milioni nel 2045. Il diabete di tipo 2 è la forma più comune e si stima che rappresenti circa il 90% dei casi di malattia nei Paesi industrializzati. Inoltre, 212,4 milioni di persone hanno il diabete senza saperlo.4 Per quanto riguarda la parodontite, il 45- 50% degli adulti ne soffre (seppure nella forma più lieve) e questa percentuale sale sopra il 60% nelle persone con più di 65 anni.5,6 La parodontite grave colpisce nel mondo l’11,2% della popolazione adulta7 ed è causa di edentulia, compromissione dello stato di nutrizione, riduzione della qualità della vita, dello stato di salute percepita e dell’autostima.8,9 di gestione multidisciplinare e partecipata. Ampio spazio è stato dedicato al rapporto tra diabete e parodontite e alla necessità di fare fronte comune per combattere le due patologie. Bibliografia 1 Taylor GW. Annals of Periodontology 2001 6, 99-112 2 Sanz M et al. Diabetes Res Clin Pract 2017;137:231-41 3 National Institute for Health and Care Excellence (NICE). 2012 4 International Diabetes Federation. 2017 5 Eke PI, et al. Journal of Periodontology 2016;87,1174-85 6 White DA, et al. British Dental Journal 2012;213:567-72 7 Kassebaum NJ, et al. Journal of Dental Research 2014;93:1045-53 8 Al-Harthi LS, et al. Australian Dental Journal 2013;58,274-7 9 Buset SL, et al. Journal of Clinical Periodontology 2016;43:333-44
  • 20. 18 InFormaMI PROFESSIONE margherita martini “I vaccini utilizzati nei programmi nazionali di immunizzazione sono tra i prodotti farmaceutici più controllati e sicuri. Tuttavia, come per ogni farmaco, possono esserci delle controindicazioni, che devono essere identificate prima di procedere con la vaccinazione, per evitare reazioni avverse gravi. Oppure si può essere in presenza di precauzioni che possono aumentare il rischio di reazioni avverse gravi o portare a una risposta immunitaria inadeguata, o di avvertenze, quando la vaccinazione può interferire con gli effetti di alcuni farmaci. In certi casi, quando si è in presenza di una precauzione, è necessario valutare il beneficio/ rischio individuale della vaccinazione” spiega Antonietta Filia, medico igienista e ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità, e uno degli autori della Guida alle controindicazioni alle vaccinazioni, giunta a febbraio 2018 alla quinta edizione, completamente aggiornata rispetto a quella del 2009. “È però anche vero che esistono molte false controindicazioni, ovvero sintomi o condizioni che non precludono la vaccinazione e che comportano opportunità ‘perse’ per la somministrazione dei vaccini” continua Filia. Il documento, redatto dai massimi esperti con il supporto di diverse società scientifiche e approvato dal La Guida alle controindicazioni alle vaccinazioni è un prezioso documento tecnico di supporto alla corretta somministrazione dei vaccini Gruppo tecnico consultivo nazionale sulle vaccinazioni e dal Consiglio Superiore di Sanità, esamina tutti i vaccini disponibili in Italia. “La specificità dell’intervento vaccinale rende necessario facilitare il più possibile l’attività del personale sanitario che lavora in questo ambito. Per questo la Guida offre raccomandazioni sull’uso dei vaccini anche in circostanze nelle quali, per il singolo operatore, è difficile reperire dati di sicurezza ed efficacia che possano supportarlo nel processo decisionale. Inoltre, può riportare indicazioni che vanno oltre quelle previste nella scheda tecnica dei singoli vaccini, poiché la sicurezza e l’efficacia del vaccino continuano a essere monitorate anche dopo l’immissione in commercio” racconta Antonietta Filia. Il personale sanitario deve verificare la presenza di controindicazioni e/o precauzioni in ogni persona prima di somministrare qualsiasi vaccino. “Per far questo, non è necessario eseguire una visita medica prima della vaccinazione (salvo che la persona non appaia ammalata o riferisca una malattia in corso) né sono richiesti esami di laboratorio o accertamenti diagnostici. Il triage prevaccinale può essere effettuato semplicemente rivolgendo alla persona che si deve vaccinare (o ai genitori, nel caso in cui a vaccinarsi sia un bambino) una serie di precise e semplici domande contenute in una scheda anamnestica standardizzata. La Guida riporta due schede di triage, una per i bambini fino ai 18 mesi di età e l’altra per i bimbi di età superiore a 18 mesi, per gli adolescenti e per gli adulti” spiega Filia. In ambito vaccinale si definisce: controindicazione una condizione nel ricevente che aumenta il rischio di gravi reazioni avverse. precauzione una condizione nel ricevente che può aumentare il rischio di gravi reazioni avverse o che può compromettere la capacità del vaccino di indurre un’adeguata risposta immunitaria. avvertenza una condizione nel ricevente per la quale le vaccinazioni eseguite, pur restando efficaci e sicure, possono interferire con gli effetti di alcuni farmaci di cui è previsto un successivo o contemporaneo utilizzo. evento avverso qualsiasi manifestazione indesiderata che può presentarsi durante un trattamento con un prodotto farmaceutico o dopo la somministrazione di un vaccino ma che non ha necessariamente una relazione causale con questi. reazione avversa qualsiasi manifestazione indesiderata e dannosa che si verifica in caso di corretta somministrazione di sostanze usate per la profilassi, la diagnosi o la terapia, o per la modificazione di funzioni fisiologiche. […] diversamente da un evento avverso, è caratterizzata dalla dimostrazione di una relazione causale tra il farmaco o vaccino e l’evento sulla base di criteri oggettivi stabiliti dalle autorità di farmacovigilanza che includono anche i dati della letteratura scientifica e il giudizio del medico segnalatore. LaGuidaperl’usosicurodeivaccini La Guida alle controindicazioni alle vaccinazioni si conferma un documento necessario e fondamentale per aiutare gli operatori sanitari ad acquisire conoscenze e competenze pratiche utili nel lavoro quotidiano. Fonte: “Guida alle controindicazioni alle vaccinazioni” (ed. febbraio 2018)
  • 21. 193. 2018 Ricerca clinica: come orientarsi tra prove e studi PROFESSIONE Raffaella Daghini Affidarsi esclusivamente all’autorevolezza della fonte per valutare la qualità di uno studio clinico e l’affidabilità dei suoi risultati non è sufficiente. Un caso recente mostra come anche le riviste scientifiche più autorevoli possono sbagliare In tempi di evidence based medicine, la qualità delle prove scientifiche riportate in letteratura è un elemento tanto cruciale quanto difficile da valutare. È cruciale perché aiuta il medico a orientare le proprie scelte terapeutiche e assistenziali verso le pratiche che si sono rivelate più efficaci in studi e ricerche di alta qualità. D’altra parte, è difficile da valutare perché gli studi pubblicati sono estremamente numerosi, gli elementi da prendere in esame per definire la qualità dei risultati sono tanti e non sempre di immediata comprensione e il tempo a disposizione dei professionisti per questo tipo di analisi è spesso limitato. L’autorevolezza della rivista su cui un articolo viene pubblicato è spesso un primo criterio di valutazione che viene spontaneo utilizzare: si è naturalmente portati, infatti, a considerare gli articoli pubblicati su New England Journal of Medicine, Lancet, Jama, British Medical Journal o Nature “affidabili” in partenza. Tuttavia, poiché errare è umano, anche il processo – pur rigoroso – che porta alla pubblicazione degli studi sulle riviste scientifiche più autorevoli può a volte incepparsi o essere influenzato. Un caso recente e significativo riguarda un importante articolo sui benefici della dieta mediterranea pubblicato nel 2013 sul New England Journal of Medicine,1 che nello scorso mese di giugno è stato ritrattato e ripubblicato a seguito di una nuova analisi dei dati. Lo studio, condotto in 11 centri spagnoli, ha coinvolto quasi 7.500 persone con alto rischio cardiovascolare, che sono state assegnate casualmente a tre tipologie di dieta: una dieta mediterranea rinforzata con olio extravergine di oliva, una dieta mediterranea con supplemento di frutta secca mista e una dieta a basso apporto di grassi (gruppo di controllo). Le conclusioni dello studio originale indicavano che la dieta mediterranea poteva ridurre il rischio di eventi cardiovascolari maggiori di circa il 30% nella popolazione ad alto rischio rispetto ai controlli. Un risultato ripreso anche dalla stampa laica con grande clamore e considerato un riferimento per gli studi sull’efficacia della dieta mediterranea. Randomizzazione ma non troppo Qual è stata, dunque, la ragione della ritrattazione? Come spesso accade nel mondo scientifico, un altro gruppo di ricerca ha sottoposto i dati presentati ad analisi, evidenziando incongruenze nella procedura di randomizzazione dei partecipanti. Questo ha spinto i ricercatori spagnoli a rivedere il proprio lavoro: è emerso che in alcuni casi i membri di una famiglia erano
  • 22. 20 InFormaMI PROFESSIONE stati assegnati allo stesso gruppo e quindi avevano seguito la medesima dieta. L’assegnazione, in questi casi, era stata tutt’altro che casuale, come era invece previsto dal protocollo dello studio, e questo può influire sui risultati: infatti, i membri della stessa famiglia condividono geni e influenze ambientali, che rappresentano fattori di confondimento rispetto alla valutazione degli effetti della dieta sugli esiti considerati. Inoltre, in uno dei centri di ricerca, i partecipanti di un intero villaggio erano stati tutti assegnati allo stesso gruppo di studio, creando dunque un cluster. I ricercatori spagnoli hanno rielaborato i dati escludendo i “casi dubbi” (circa 1.600), confermando comunque le conclusioni dello studio originale riguardo all’efficacia della dieta mediterranea rispetto a quella di controllo, anche se le hanno espresse con una forma meno assertiva. L’importanza del senso critico Questa vicenda è solo un esempio, ma stimola una riflessione su come si possano valutare la qualità degli studi clinici e l’affidabilità dei loro risultati. I possibili problemi sono molteplici: si va dagli errori metodologici, come quello alla base della ritrattazione dello studio del New England Journal of Medicine, alle vere e proprie frodi, che si basano principalmente su alterazione di immagini e falsificazioni di dati. Secondo Enrico Bucci, biologo molecolare e “cacciatore di frodi”, che si dedica da anni ai temi dell’integrità della ricerca scientifica, una percentuale che va dal 4 al 17% dei lavori scientifici presenterebbe qualche forma di manipolazione, indipendentemente dall’impact factor delle riviste che li pubblicano. Esisterebbe, invece, una correlazione tra il numero di articoli manipolati e i gruppi di ricerca che hanno ritrattato almeno un lavoro. Se le frodi non sono facilmente individuabili nemmeno dai revisori delle riviste più prestigiose, la validità metodologica di uno studio può essere valutata, almeno in parte, attraverso alcuni accorgimenti e una buona dose di senso critico: se alcuni aspetti richiedono conoscenze specifiche per individuare punti deboli (per esempio il disegno dello studio o la tecnica di analisi statistica impiegata), per altri è possibile rilevare indizi di debolezza metodologica che dovrebbero fare scattare un campanello d’allarme. Uno studio di bassa qualità, per esempio, spesso dichiara come esiti aspetti poco significativi dal punto di vista clinico (endpoint surrogati), oppure riunisce esiti diversi (endpoint multipli) che non consentono di distinguere l’effetto del trattamento in esame su quelli davvero importanti; infine, talvolta gli esiti vengono cambiati durante lo studio e vengono presentati quelli per i quali il dato di efficacia risulta più solido. Un altro aspetto da valutare criticamente è la modalità con cui vengono presentati i risultati: se sono espressi solo in termini di rischio relativo, occorre dubitare; il rischio assoluto e il numero di casi da trattare sono dati più adeguati in termini di comunicazione dei risultati per sostenere l’efficacia del trattamento. In uno studio metodologicamente valido, poi, gli autori dovrebbero dichiarare a priori le analisi che condurranno sui diversi sottogruppi e le motivazioni di queste analisi. Se sono decise a posteriori, invece, la validità dei risultati ottenuti è bassa, perché probabilmente sono state realizzate con l’obiettivo di individuare una sottopopolazione in cui l’intervento è risultato per caso efficace ed enfatizzare quel risultato a discapito di quelli negativi. Non va inoltre sottovalutato il peso del bias di pubblicazione, che porta a privilegiare la divulgazione sulle riviste scientifiche degli studi che danno risultati positivi rispetto a quelli che falliscono, fornendo quindi una percezione distorta della reale efficacia degli interventi studiati. È fondamentale, infine, leggere sempre al termine di un articolo scientifico le dichiarazioni di conflitto di interesse degli autori e le loro affiliazioni, considerando anche i possibili legami tra gli autori e la rivista su cui hanno pubblicato il lavoro. Da ultimo, ma non certo per importanza, un articolo valido deve riportare fatti e dati consistenti, cioè confermati da altre fonti indipendenti: tanto più sono numerose le fonti indipendenti che riportano fatti coerenti, tanto più lo studio è rilevante. Bibliografia 1 Estruch R et al. N Engl J Med 2018;378:e34 Un aspetto da valutare criticamente è la modalità con cui vengono presentati i risultati: se sono espressi solo in termini di rischio relativo, occorre dubitare; il rischio assoluto e il numero di casi da trattare sono dati più adeguati in termini di comunicazione dei risultati per sostenere l’efficacia del trattamento studiato
  • 23. 213. 2018 simonetta pagliani Chi assume antidepressivi è a rischio di sovrappeso o di obesità: lo sostiene un recente studio1 coordinato dagli epidemiologi del King’s College di Londra, che ha esaminato il database della UK Clinical Practice Research Datalink (oltre 2 milioni di assistiti) e ha selezionato oltre 130.000 uomini e oltre 150.000 donne con almeno tre determinazioni dell’indice di massa corporea. Dall’analisi si è visto che nel primo anno di arruolamento ha ricevuto la prescrizione di un antidepressivo il 18% degli assistiti, il 13% degli uomini e il 22,4% delle donne, soprattutto nella fascia di età tra i 30 e i 59 anni. Nel corso del decennio di osservazione il rischio di un aumento del peso corporeo ≥5% è risultato significativamente maggiore nel sottogruppo esposto agli antidepressivi (rischio relativo 1,21). Il rischio era più marcato nel primo anno ed era presente, e simile, sia per i soggetti normopeso (rischio relativo 1,29), sia per i soggetti già in sovrappeso (rischio relativo 1,29). Rimane poco chiaro se sia la depressione a sostenere l’incremento ponderale o se sia il depresso che curandosi ingrassa. L’anergia per mancanza di motivazioni limita il consumo di calorie e la deflessione dell’umore è accompagnata da disturbi dell’appetito che sono causati dalla disfunzione di specifici neurotrasmettitori (noradrenalina, serotonina, dopamina) sulla quale agisce la terapia farmacologica. Si ipotizza che la relazione sia reciproca: da una parte l’obesità aumenta il rischio di depressione dall’altra la depressione può favorire lo sviluppo di obesità.2 Quando si parla di antidepressivi, però, si fa riferimento a più classi di farmaci con meccanismi d’azione ed effetti collaterali tra loro diversi. L’influenza sul peso corporeo sembra essere relativo al diverso grado di affinità degli antidepressivi non solo per i recettori della serotonina, ma anche per i recettori H1 dell’istamina; la stessa affinità recettoriale sembra associata anche all’instaurarsi di iperglicemia e di sindrome metabolica. In particolare sembrano associati a un maggiore aumento di peso mirtazapina e nortriptilina rispetto a bupropione, trazodone e fluoxetina. Bibliografia 1 Gafoor R, et al. BMJ 2018;361:k1951 2 Luppino FS, et al. Arch Gen Psychiatry 2010; 67: 220-29. Una proposta per contenere l’effetto sfavorevole sul peso è quella di utilizzare farmaci come per esempio la metformina e la betaistina, un analogo dell’istamina, debole H1 agonista, anche se off label per questa indicazione. Giancarlo Stoccoro, psichiatra che ha operato per molti anni nelle strutture ospedaliere e nei centri psicosociali (CPS) di Melegnano, Paullo e San Donato Milanese si dice contrario e ritiene che non sia necessario l’uso di farmaci ulteriori in quanto “l’eventuale sovrappeso da antidepressivi è di solito contenuto e facilmente contrastabile con una vita più attiva”. Inoltre prosegue l’esperto “se è vero che tutti i serotoninergici, fluoxetina compresa, dopo un’iniziale riduzione dell’appetito, spesso legata alla transitoria nausea, possono poi indurne l’aumento (per i dolci, in particolare), nella pratica clinica solo mirtazapina e amisulpride hanno comportato, in alcuni casi, la necessità di essere sostituiti”. Antidepressivi e aumento di peso Le persone depresse tendono ad accumulare chili. Colpa della malattia o della terapia? Secondo uno studio recente i farmaci antidepressivi potrebbero giocare un ruolo
  • 24. 22 InFormaMI diritto A vedere l’esigua lista delle Società tra Professionisti (StP) iscritte all’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Milano (22 in tutta la provincia) viene da chiedersi se i medici siano a conoscenza di questo strumento che dal 2013 offre a tutti i professionisti che operano in ambito medico di lavorare sotto forma di società: l’StP è in effetti l’unica modalità di esercizio della professione medica in ambito societario oggi ammissibile, a parte l’associazione di medici (lo studio associato). A ribadirlo è stato anche il Ministero dello Sviluppo Economico ma a gettare qualche ombra su questa apparente certezza è intervenuto il Decreto Lorenzin sulla Concorrenza (Legge n. 124 del 2017) che per quanto riguarda l’ambito odontoiatrico permette l’attività anche a “società”, non meglio definite (di capitali pure o StP?). Secondo l’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Milano le società menzionate all’articolo 153 del Decreto sono soltanto le StP, perché prevedono la maggioranza di soci professionisti e consentono il controllo deontologico da parte dell’Ordine dove è iscritta l’StP. Ma il Decreto, secondo altre scuole di pensiero, sembra invece aver aperto la possibilità di operare in campo odontoiatrico anche a società pure di capitali, prestando quindi il fianco a diverse interpretazioni. Che cosa sono le StP? Sono state introdotte dalla Legge n. 183 del 2011 e regolamentate con il Decreto ministeriale n. 34 del 2013. Dal 2013 al 2017, anno di entrata in vigore del Decreto Lorenzin, sono state però pochissime le singole posizioni che si sono “trasformate” in StP, mentre rispetto agli studi tradizionali hanno continuato a crescere le società non StP, soprattutto in ambito odontoiatrico. Secondo le ultime ricerche fatte al Registro Imprese di Infocamere, a oggi nella provincia di Milano esistono angelica giambelluca AAA Società tra Professionisti cercasi L’StP, benché sia l’unica forma di società ammissibile (e legale) tra professionisti in ambito medico, non decolla
  • 25. 233. 2018 • l’oggetto della società è esclusivamente l’esercizio di attività professionali (anche multidisciplinari) regolamentate nel sistema ordinistico; • l’obbligo di stipulare una polizza assicurativa per la copertura dei rischi derivanti dalla responsabilità civile per i danni causati ai clienti dai singoli soci professionisti; • l’iscrizione all’albo professionale competente. Il controllo deontologico Grazie all’iscrizione all’Ordine competente, le StP possono essere sottoposte a un controllo deontologico da parte degli Ordini. Mentre, se non sono registrate in questo modo, il controllo può avvenire solo sanzionando il direttore sanitario, cosa difficile da fare se è iscritto a un Ordine diverso da quello in cui opera territorialmente la struttura. Ecco perché l’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Milano, proprio all’indomani Province Società ATECO 86.23 Studi odontoiatrici Società ATECO 86.22 Studi medici specialisticI Totale imprese StP odontoiatria StP altre specialità   Totale StP % StP sul totale delle imprese         Aosta 8 3 11 1 0 1 9% Ancona 45 43 88 0 1 1 1% Bari 48 39 87 6 3 9 10% Bologna 126 168 294 0 0 0 0% Cagliari 84 54 138 0 1 1 1% Campobasso 12 19 31 0 0 0 0% Catanzaro 19 28 47 0 0 0 0% Firenze 32 81 113 1 2 3 3% Genova 45 44 89 13 4 17 19% L’Aquila 14 16 30 2 4 6 20% Milano 771 392 1163 9 13 22 2% Napoli 192 221 413 4 7 11 3% Palermo 121 127 248 3 5 8 3% Perugia 52 31 83 0 0 0 0% Potenza 25 24 49 0 1 1 2% Roma 415 503 918 8 27 35 4% Torino 307 227 534 9 3 12 2% Trento 28 26 54 4 1 5 9% Trieste 10 6 16 0 0 0 0% Venezia 110 101 211 0 0 0 0% 771 società, sia di capitali sia di persone, registrate con il codice ATECO (ATtività ECOnomiche) 86.23 (attività degli studi odontoiatrici) e 392 società registrate con il codice ATECO 86.22 (servizi degli studi medici specialistici). Di tutte queste, andando a vedere quelle che sono iscritte anche sul sito della FNOMCeO, come StP sono registrate solo 9 StP di odontoiatria e solo 13 StP di altre specialità (vedi tabella). Un po’ poche, vista la circolare del Ministero dello Sviluppo Economico, considerato che la legge che le istituisce è del 2013 e il fatto che l’apparente esimente concessa agli odontoiatri dal Decreto Lorenzin è solo dello scorso anno. Ecco le principali caratteristiche di questa forma associativa: • la presenza di almeno due terzi dei soci-professionisti nella gestione societaria. Ammessi anche soci non professionisti, ma devono essere in minoranza; Le StP in Italia I dati provengono dal Servizio Telemaco-Registro Imprese InfoCamera – ricerca effettuata in base al codice ATECO (colonne in azzurro) e dal sito della FNOMCeO (colonne in grigio). Ultima consultazione: ottobre 2018 per entrambe le fonti.
  • 26. 24 InFormaMI diritto dell’approvazione del Decreto Lorenzin, ha ribadito con la delibera n. 216 del 2017 come le uniche società legittimate a svolgere attività odontoiatrica siano le StP, specificando che le società che non rientrano in questa fattispecie non possono esercitare questo tipo di attività. “Per noi questo è un punto fondamentale”, ribadisce Andrea Senna, vice presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Milano e presidente della Commissione albo odontoiatri (CAO) provinciale. “Le società di cui parla l’art. 153 del Decreto Lorenzin per noi sono solo le StP. Anche le catene dentali che operano come Società a responsabilità limitata (Srl) per noi sarebbero obbligate a diventare StP, ma purtroppo le leggi sono interpretabili e per molti colleghi non è chiaro questo obbligo”. L’obbligo sussiste davvero per tutti? Sono davvero tutti obbligati a diventare StP o per le strutture/cliniche di una certa dimensione l’obbligo decade? A intervenire sul tema era stato per l’appunto il Ministero dello Sviluppo Economico che con una nota del 23 dicembre 2016 ha ribadito come la StP sia l’unico contesto in cui è possibile l’esercizio di attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico. Nello stesso parere, il Ministero non ha però escluso che sia consentita, nell’ambito dell’attività sanitaria, la costituzione di società, purché servano per offrire un prodotto diverso e più complesso rispetto all’opera dei singoli professionisti. Quindi si può costituire una società non StP che opera in ambito medico, se: • offre servizi complementari all’attività medica; in questo caso tra questa società e il professionista c’è un contratto e le due attività rimangono distinte; oppure • il suo aspetto organizzativo e capitalistico risulta del tutto prevalente rispetto allo svolgimento (pur presente) di attività professionali “protette”. È il tipico caso delle grandi cliniche o dei grandi centri polispecialistici con investimenti di capitali ingenti e con molti dipendenti-collaboratori, dove sono offerti sia servizi medici sia di degenza, laboratorio analisi, eccetera. Perché allora non si sono registrate molte più StP? La risposta non è facile. Messi da parte i dubbi fiscali sul reddito chiariti dall’Agenzia delle Entrate (il reddito delle StP è da considerare reddito di impresa), come spiega Alessandro Terzuolo, commercialista, i motivi per cui la StP non è decollata sono diversi. “Innanzitutto, l’esclusività dell’attività professionale rende impossibile nella stessa società esercitare, per esempio, anche attività immobiliare o investimenti finanziari, senza contare che non si può aprire più di una StP. Ci sono poi gli aspetti contributivi: le StP, benché costituite in forma di società di capitali applicano una sorta di ‘trasparenza’ contributiva. Per i soci dell’Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza dei Medici e degli Odontoiatri (ENPAM) si deve conteggiare nel proprio reddito ai fini contributivi anche la quota di utili della StP non distribuiti. Secondo l’Enpam questa “trasparenza” contributiva dovrebbe applicarsi anche alle società non StP, ma per le StP la trasparenza contributiva è un automatismo. Tuttavia, la possibilità di avere fino a un terzo di soci non medici-odontoiatri e la tassazione con aliquota al 24% tipica delle Srl sono vantaggi da considerare in modo attento”. A sentire i (pochi) professionisti che hanno scelto questa forma associativa, i veri vantaggi sono soprattutto operativi e gestionali. Silvia Malaguti, che lavora in una delle prime StP che si sono costituite, le considera come le uniche forme di società possibili per chi vuole offrire una medicina integrata: “Abbiamo optato per le StP per poter operare anche con figure professionali differenti. Da noi lavorano infatti anche neurologi, osteopati, fisioterapisti e psicologi. Inoltre – aggiunge – il nostro commercialista inizialmente aveva dovuto studiare per bene tutti gli aspetti per supportarci, perché non c’era, e non c’è neanche oggi, un’informazione esaustiva sui reali vantaggi che comporta aprire una StP”. Opinione condivisa da Matteo Tretti Clementoni, direttore di una StP che si occupa di chirurgia plastica ed estetica: “Sono passato a una StP per due motivi: il primo fiscale, perché come partita IVA individuale pagavo fino al 60% di tasse, passando all’StP la tassazione invece è più sostenibile. Il secondo motivo è poter lavorare con altri professionisti. Devo dire che mi trovo molto bene. Ne ho parlato con altri colleghi ma purtroppo quasi nessuno è a conoscenza di questa forma di società. E credo sia questo il motivo per cui non è così diffusa”. A sentire i (pochi) professionisti che hanno scelto questa forma associativa, i veri vantaggi sono soprattutto operativi e gestionali
  • 27. I3 . 2018 Gli esami diagnostici essenziali di laboratorio Come iscriversi aL corso Partecipare al corso FAD è semplice. Una volta letto questo dossier, tutti gli iscritti all’OMCeO Milano, medici e odontoiatri, possono rispondere al questionario online e acquisire i crediti ECM. Ecco come fare: 1. se non si è già registrati, registrarsi sulla piattaforma www.saepe.it scegliendo un ID e PIN per l’accesso 2. entro 48 ore ricollegarsi alla piattaforma e inserire ID e PIN 3. cliccare al piede della pagina sul banner SmartFAD 4. cliccare il titolo del corso 5. cliccare sul questionario e rispondere alle domande ECM; si ricorda che le domande sono randomizzate, quindi variano nei tentativi successivi (non c’è un limite massimo) 6. rispondere al questionario di customer satisfaction 7. scaricare l’attestazione dei crediti cliccando in alto a destra su “Crediti” e quindi sulla stampantina vicino al titolo del corso Per qualunque dubbio o difficoltà scrivere a: gestione@saepe.it 3.2018 “Una diagnosi accurata è il primo passo per un trattamento efficace. Nessuno dovrebbe ammalarsi o morire per la mancanza di servizi diagnostici o perché non è disponibile l’esame appropriato”. Queste le parole con cui Tedros Adhanom Ghebr, direttore generale dell’OMS ha presentato a maggio 2018 la prima edizione della lista degli esami diagnostici essenziali in vitro (World Health Organization model list of essential in vitro diagnostics). Autore: Maria Rosa Valetto Revisore: Maria Grazia Manfredi Consigliere OMCeO MI Medico di Medicina Generale ATS Città Metropolitana di Milano Destinatari: medici e odontoiatri Durata prevista: 2 ore (compresa la lettura di questo dossier) Durata: dall’1 novembre 2018 al 31 ottobre 2019 Evento ECM n. 242199; Provider Zadig (n. 103)
  • 28. II InFormaMIII SmartFad “Mi pare che non ci siamo mai visti” con un sorriso Luisa, medico di medici- na generale accoglie nel suo ambulatorio un uomo esile apparentemente sulla settantina. Lo accompagna una donna più giovane che la dottoressa riconosce come sua assistita. “No, dottoressa, mio padre è rimasto solo e si è trasferito con noi da qualche mese. Abbiamo subito scelto lei come medico” risponde la figlia porgendo la tessera sanitaria. “Grazie per la fiducia e, dunque, piacere di conoscerla, signor Livio” esclama Luisa leggendo il nome sul documento. “Buongiorno” il laconico saluto ma ancor più il tono della voce e lo sguardo lasciano trasparire un misto di diffidenza e di disagio. “Che mi dice?” È la figlia a prendere la parola: “Sono preoccupata. Trovo mio padre affaticato e molto pallido, persino grigio direi. Non è mai stato robusto, ma credo che abbia perso anche un paio di chili”. “Ma per forza, Teresa. Portato via dall’aria buona e dal sole del mio paese, sono finito qui. Quando apro la finestra vedo grattacieli e respiro smog. Pure l’appetito mi è passato” protesta Livio. “Scusate un secondo.... Stefano, ora ti spiego…” Luisa si rivolge al tirocinante che frequenta il suo studio da un paio di settimane. “È un nuovo paziente. Ecco, vedi, risulta già iscritto tra i miei assistiti. Dobbiamo però raccogliere tutte le informazioni”. “Che mi dice, signor Livio?” il medico ripete la domanda sperando che Teresa eviti di intromettersi ancora. “Che le dico? A parte una nefrite da giovanotto, mai visto un medico in vita mia, mai preso medi- cine”. Luisa e Stefano sorridono. “Sì, però, papà, adesso è necessario. Sei arrivato in salute ai tuoi 77 anni, ma i prossimi bisogna difenderli”. “Complimenti signor Livio, quando è entrato in ambulatorio le avevo fatto un bello sconto sull’età” dichiara la dottoressa. Stefano effettua l’anamnesi. Ci vuole un attimo perché la storia clinica di Livio è praticamente silente. Solo un ricovero negli anni Sessanta per una probabile glomerulonefrite, forse preceduta da una malattia reumatica. Teresa propone: “Non si può fare un bel check up?”. Stefano, ancora inesperto nella relazione medico-paziente, non nasconde un’espressione sconcer- tata che tuttavia non frena l’insistenza: “Intendevo qualche prelievo, quelli essenziali, giusto per tranquillità…”. Pallido e spaesato la storia parte I commento A maggio 2018 l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha pubblicato per la prima volta un documento sugli esami di labo- ratorio essenziali (Essential Diagnostics List), sviluppato da una commissione di 19 esperti dell’OMS e destinato a integrazioni e aggiornamenti annuali. Secondo la definizione dell’OMS, sono esami diagnostici essenziali quelli che rispondono alle priorità di salute della popolazione in base a criteri come la prevalenza di malattia e la rilevanza per la salute pubblica, le prove di efficacia e di accuratezza e la costo- efficacia. Più in dettaglio, gli esami diagnostici essenziali in vitro sono quelli per la valutazione di laboratorio di campioni biologici con lo scopo unico o principale di acquisire informazioni per la diagnosi e il monitoraggio di malattie o per i test di compatibilità. La lista comprende 113 esami: 58 esami generali di laboratorio di routine, indicati per la diagnosi di un ampio spettro di malattie, infettive e croniche, classificate per disciplina (chimica clinica, sierologia, ematologia, microbiologia, micologia) e per tipo di esame (per esempio bilirubina, emocromo completo) 55 esami indicati per la diagnosi e il follow up di alcune malattie individuate come prioritarie dall’OMS (infezione da HIV,TBC, mala- ria, epatite B e C, infezione da papillomavirus, sifilide), classificate per malattia e per analita. Per ogni esame vengono fornite diverse informazioni: l’obiettivo dell’indagine, la metodica, il campione biologico, il livello assi- stenziale raccomandato per l’erogazione della prestazione. Viene inoltre indicata l’eventuale disponibilità di linee guida o raccoman- dazioni dell’OMS. WHO model list of essential in vitro diagnostics. 2018. Essential diagnostics: a lever for health systems reform? Lancet 2018;391:2080.
  • 29. III3 . 2018 Mentre il tirocinante effettua l’esame obiettivo, la dottoressa cerca di contenere le richieste di Teresa: “Signora, capisco la sua preoccupazione, ma le assicuro che fare un check up non è molto utile”. “Davvero?” “Davvero. Quella di fare esami per inquadrare la situazione del paziente è un po’ una moda che non migliora le possibilità di individuare possibili malattie e di curarle. Anzi ormai sappiamo che possono essere sufficienti pochi esami scelti con precisione basandosi sui sintomi e sull’esito della visita medica”. “Qualche decina di esami di laboratorio e si copre tutta la diagnostica delle principali malattie” pensa il tirocinante riavvolgendo il bracciale dello sfigmomanometro. Poi si rivolge alla collega: “Quasi nulla da segnalare. Solo un marcato pallore delle mucose e una lieve tachicardia, 110 pul- sazioni, ritmico”. Il paziente ha seguito con attenzione, ma sempre in silenzio, i gesti e le parole della figlia e dei due medici. Luisa fa nuovamente un tentativo per renderlo protagonista: “Signor Livio, vorrei sentire anche la sua voce!”. “E cosa le devo dire, dottoressa? Che se non fossi qui, ma a casa mia, a quest’ora sarei a pescare o a raccogliere funghi?” “Giusto, le stesse cose che ama fare mio padre che ha più o meno la sua età. Comunque, non ab- biamo trovato nulla di preoccupante. Ci potrebbe essere solo un po’ di anemia”. “Quindi qualche esame bisogna farlo?” domanda Teresa. “Sì, qualcuno sì, ma mirato”. la storia parte II La lista OMS indica gli esami diagnostici essenziali per i diversi li- velli organizzativi di un sistema sanitario. Individua un primo livello organizzativo, le cure primarie, senza dotazione di laboratori o con minima dotazione, e un secondo livello, le strutture con laboratori diagnostici, ulteriormente suddivisi in laboratori ospedalieri o di- strettuali, laboratori provinciali, regionali o specialistici, laboratori di riferimento nazionali. Considerando per esempio la diagnosi di anemia, come indagine per il primo livello è previsto il dosaggio dell’emoglobina (su sangue intero venoso o capillare, su plasma o su siero), come indagini per il secondo livello l’ematocrito (su san- gue intero venoso o capillare) e l’emocromo completo con metodica automatizzata (su sangue intero venoso). L’emocromo completo con conteggio manuale (su sangue intero venoso o capillare) viene indicato in seconda battuta dopo la determinazione con metodica automatizzata. WHO model list of essential in vitro diagnostics. 2018. “A rigore basterebbe l’emoglobina” dice Stefano alla collega. “Stai pensando alle indicazioni OMS e da questo punto di vista hai ‘rigorosamente’ ragione. Ma considera il contesto, intendo la disponibilità di servizi diagnostici. Siccome stiamo per inviare il paziente a un laboratorio distrettuale, mi sento ragio- nevolmente sicura di rispettare criteri di appropriatezza richiedendo anche ematocri- to ed emocromo. Non siamo in un paese in via di sviluppo” dice sorridendo la dottoressa. “Se è per questo, allora indagherei anche la funzione renale. Un’insufficienza cronica ci sta con l’età, la storia e, tutto sommato, l’obiettività negativa” suggerisce il tirocinante. “Sono d’accordo. C’è anche un altro fatto. Se ci limitiamo al minimo indispensabile, rischiamo di inviare più volte a fare un prelievo questo signore che rimpiange torrenti di montagna abbondanti di trote e boschi dove fanno capolino i porcini”. la storia parte III Gli esami diagnostici essenziali di laboratorio Considerando la diagnostica per la funzionalità renale, come inda- gine per il primo livello è prevista il dosaggio dell’albumina sulle urine (stick urinario), come indagini per il secondo livello il dosag- gio di albumina (su siero o plasma o nelle urine), azotemia (urea, su siero o plasma), creatininemia (su siero con stima della velocità di filtrazione glomerulare o nelle urine). In alternativa è possibile effettuare una serie di esami metabolici (pannello metabolico di base, su sangue intero venoso o siero o plasma) che comprende glicemia, sodiemia, carbossiemia, azotemia, rapporto urea/creati- nina, eventualmente calcemia o una serie più numerosa (pannello metabolico completo) che comprende, oltre ai precedenti, magne- siemia, proteine totali e frazionate, bilirubinemia (diretta o totale), fosfatasi alcalina, transaminasi. In aggiunta è indicato l’esame delle urine completo(con metodica automatizzata). WHO model list of essential in vitro diagnostics. 2018. commento commento
  • 30. IV InFormaMIIV SmartFad la storia conclusione “Eh, il giorno che organizzano un corso avanzato di buon senso è… lontano. Scherzi a parte, la no- vità interessante che sta emergendo è questa: da decenni ormai si afferma la necessità di un utilizzo appropriato dei farmaci, ma solo recentemente si inizia a capire che è altrettanto importante l’appro- priatezza nel richiedere esami, a partire dai più comuni esami del sangue”. la storia parte IV “Orientiamoci verso le indagini per anemia, insufficienza renale e pannello metabo- lico di base più esame urine”. Stefano al computer inizia a compilare la ricetta rossa. “Adesso vi spiego quello che ci siamo detti” dice Luisa rivolgendosi a Livio e alla figlia. “Il collega sta facendo la richiesta per alcuni esami che possono stabilire se davvero c’è una situazione di anemia e indagare le cause più probabili”. “Sono proprio necessari?” chiede l’anziano paziente, mentre Teresa annuisce vigorosamente e sta per intervenire di nuovo, preceduta dalla dottoressa. “Sì, direi proprio di sì”. “Dove dobbiamo fare il prelievo?” chiede Teresa. “Al laboratorio dell’ASL”. “Ci faranno aspettare molto?”. “No, signora, per fortuna per gli esami del sangue e delle urine non ci sono liste d’attesa. Solo biso- gna andare presto la mattina per evitare di attendere diverse ore…”. “Questo non è un problema per mio padre, abituato a svegliarsi al canto del gallo”. Livio, assai meno nervoso rispetto all’inizio della visita, sorride alle parole della figlia e aggiunge “E ad andare a letto con le galline”. Quando padre e figlia sono usciti dallo studio, i due medici hanno uno scambio di opinioni. “Non è banale conciliare le indicazioni teoriche con le esigenze reali dell’assistenza” dichiara Stefano. “Basta il buon senso”. “Già ma come si fa a… impararlo?”. La lista degli esami diagnostici essenziali si pone come un riferi- mento per i decisori degli Stati membri (dai ministeri ai direttori dei laboratori diagnostici), in grado di migliorare l’appropriatez- za. Si raccomanda che le indicazioni vengano introdotte nella pratica tenendo conto delle specificità locali (caratteristiche de- mografiche, peso delle malattie, priorità sanitarie, disponibilità di trattamenti, esperienza del personale, eccetera). La lista degli esami diagnostici essenziali si aggiunge e integra la lista dei farmaci essenziali (Essential Medicines List) in uso da ormai 40 anni e giunta alla sua 20a edizione per i farmaci degli adulti e alla 6a per i farmaci pediatrici. Una diagnosi tempestiva e accurata è fondamentale per raggiun- gere un’assistenza di qualità centrata sul paziente. Oltre a questo beneficio individuale garantisce benefici per la salute pubblica, per esempio, la rapida individuazione di focolai di malattia infet- tiva o la riduzione dell’uso inappropriato di antibiotici. WHO model list of essential in vitro diagnostics. 2018. Essential diagnostics: a lever for health systems reform? Lancet 2018;391:2080. WHO. The selection and use of essential medicines. Report of the WHO Expert Committee, 2017. commento