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La ristorazione ospedaliera
Ho letto recentemente alcuni documenti riguardanti il vitto nelle strutture ospedaliere, dove
in sostanza si sottolineano due punti fondamentali:
1 - la maggior parte dei pazienti si lamenta del cibo;
2 - il 35-40% del cibo servito finisce nella spazzatura.
C'è da sottolineare che dal punto di vista clinico, è stato riscontrato che molti pazienti, in
particolare anziani e malati cronici, arrivano in ospedale, dopo aver già ridotto l'assunzione
di alimenti nei giorni precedenti il ricovero, con conseguente calo di peso; e spesso si
trovano in condizioni di malnutrizione.
Qualunque sia il motivo del ricovero, l'alimentazione in ospedale è parte integrante della
terapia clinica, e se durante la degenza dovesse essere insufficiente rappresenterà un
ostacolo alla guarigione e di conseguenza aumenterà il periodo di degenza.
Già nel 2011 il Ministero della Salute aveva approvato delle linee di indirizzo per la
ristorazione ospedaliera e assistenziale, rivolte a migliorare:
sia la gestione, la prevenzione e la cura della malnutrizione nei malati cronici, sia il
rapporto con il cibo dei pazienti ricoverati.
Purtroppo, non sono stati fatti grandi passi avanti in questa direzione, e secondo le
informazioni disponibili, solo il 10% delle strutture ospedaliere ha dato seguito alle direttive
del Ministero.
Chi volesse approfondire vi invito a leggere il file
http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1435_allegato.pdf
Non entro nel merito della gestione sanitaria del problema, che lascio volentieri agli esperti
di nutrizione, ma voglio dire alcune cose riguardo l'aspetto “commerciale”.
Il servizio di ristorazione ospedaliera rientra nel settore detto della “ristorazione collettiva”,
al quale appartengono oltre alla ristorazione assistenziale, anche quella comunitaria,
scolastica e aziendale; quest'ultima realtà, è sempre meno presente nelle aziende italiane.
Nella stragrande maggioranza dei casi il servizio è svolto da società esterne.
Sul mercato sono presenti aziende specializzate multinazionali, nazionali e regionali, che
svolgono il servizio dopo aver vinto una gara d'appalto.
Le gare sono sempre al ribasso, perché le ASL hanno interesse a risparmiare; i margini
per ogni singolo pasto servito sono ridottissimi, e l'utile per l'azienda di ristorazione viene
fuori solo facendo grandi numeri, ottimizzando al massimo i sistemi di produzione, o
risparmiando sulla qualità delle materie prime.
Si può dire quindi che gli interessi di chi produce i pasti e di chi paga il conto, non vadano
proprio “a braccetto” con gli interessi di chi i pasti li deve mangiare.
Da addetto alla ristorazione, so che gestire un ristorante dove “nessuno vorrebbe mai
mangiare”, non è impresa facile. A peggiorare ulteriormente il quadro c'è anche il fatto che
il cliente/paziente vive il cibo come una medicina.
Tutto ciò non gioca certo a favore di chi deve produrre e distribuire i prodotti, e tanto meno
aiuta il cliente ad apprezzare quanto viene proposto.
Diventa quindi fondamentale lavorare sulla comunicazione per migliorare la qualità
percepita dei cibi, che nella maggioranza dei casi, non sono cosi “cattivi” come sembra.
Oltre all'informazione specifica, di pertinenza di dietisti e nutrizionisti, e in attesa che le
ASL si attrezzano per recepire le direttive ministeriali, si potrebbe attivare una
comunicazione capace di rendere più “attraenti” i cibi.
Le strutture che hanno optato per i pasti serviti e confezionati in squallidi contenitori
monoporzione o vassoi di plastica sigillati, se proprio non li possono sostituire, potrebbero
provare a renderli un po' più attraenti, inserendo frasi o disegni invitanti; gli esempi non
mancano: basta andare in giro negli scaffali dei supermercati e vedere come sono fatte le
confezioni dei prodotti pronti, che hanno colori e scritte cosi attraenti che fanno proprio
venire voglia di comprarli e mangiarli.
Mi piacerebbe inoltre vedere qualche addetto alla distribuzione dei pasti vestito da grande
chef, con tanto di cappellone, aggirarsi intorno ai letti, con un mestolone in mano, o magari
con un menu di quelli di alta cucina e foto di piatti succulenti, sempre con una battuta
pronta, per far sorridere i clienti. Patch Adams ha insegnato molto a riguardo, e i risultati
della clown therapy che aiuta i piccoli a guarire negli ospedali pediatrici ne è la conferma.
Il coinvolgimento dei famigliari, almeno quelli disponibili, potrebbe essere un altro valido
aiuto ai pazienti, mangiare con qualcuno della famiglia o che si conosce contribuisce a
rendere più appetitoso anche un “boccone più amaro”, questa pratica è attualmente
limitata ai pazienti non autosufficienti.
Mi fermo qui, ma sono diverse le idee che potrebbero essere messe in pratica, per
migliorare la qualità percepita dei pasti serviti, e che potrebbero aumentare il gradimento, il
risparmio dei prodotti, fino a migliorare lo stato di salute dei pazienti, e ridurne i tempi di
degenza.
Dispiace invece constatare che molti amministratori delle ASL preferiscano dedicare più
energie a nascondere e minimizzare il problema, piuttosto che cercare una soluzione,
come invece già richiede il Ministero della Salute.
Lo stesso vale per le aziende di ristorazione che pensano solo ai costi e ai margini di
guadagno, dimenticandosi che le persone che mangiano i loro prodotti non sono “clienti
qualsiasi”, ma hanno esigenze, necessità, e soprattutto un rapporto col cibo molto diverso
da chi va a mangiare in un ristorante.
E' mia convinzione che, come sempre, un po' di buon senso e buona volontà da parte di
tutti gli interessati (pazienti compresi), aiuterebbe a risolvere la questione che cosi appare
molto più difficile di quanto invece è in realtà, almeno in quei casi (e sono molti) in cui i
prodotti sono di qualità e devono essere solamente “venduti meglio”..
La foto di copertina è presa da “Alimentazione negli ospedali e nelle RSA” di Anna De
Magistris.

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  • 1. La ristorazione ospedaliera Ho letto recentemente alcuni documenti riguardanti il vitto nelle strutture ospedaliere, dove in sostanza si sottolineano due punti fondamentali: 1 - la maggior parte dei pazienti si lamenta del cibo; 2 - il 35-40% del cibo servito finisce nella spazzatura. C'è da sottolineare che dal punto di vista clinico, è stato riscontrato che molti pazienti, in particolare anziani e malati cronici, arrivano in ospedale, dopo aver già ridotto l'assunzione di alimenti nei giorni precedenti il ricovero, con conseguente calo di peso; e spesso si trovano in condizioni di malnutrizione. Qualunque sia il motivo del ricovero, l'alimentazione in ospedale è parte integrante della terapia clinica, e se durante la degenza dovesse essere insufficiente rappresenterà un ostacolo alla guarigione e di conseguenza aumenterà il periodo di degenza. Già nel 2011 il Ministero della Salute aveva approvato delle linee di indirizzo per la ristorazione ospedaliera e assistenziale, rivolte a migliorare: sia la gestione, la prevenzione e la cura della malnutrizione nei malati cronici, sia il rapporto con il cibo dei pazienti ricoverati. Purtroppo, non sono stati fatti grandi passi avanti in questa direzione, e secondo le informazioni disponibili, solo il 10% delle strutture ospedaliere ha dato seguito alle direttive del Ministero. Chi volesse approfondire vi invito a leggere il file http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1435_allegato.pdf Non entro nel merito della gestione sanitaria del problema, che lascio volentieri agli esperti di nutrizione, ma voglio dire alcune cose riguardo l'aspetto “commerciale”. Il servizio di ristorazione ospedaliera rientra nel settore detto della “ristorazione collettiva”, al quale appartengono oltre alla ristorazione assistenziale, anche quella comunitaria, scolastica e aziendale; quest'ultima realtà, è sempre meno presente nelle aziende italiane. Nella stragrande maggioranza dei casi il servizio è svolto da società esterne. Sul mercato sono presenti aziende specializzate multinazionali, nazionali e regionali, che svolgono il servizio dopo aver vinto una gara d'appalto. Le gare sono sempre al ribasso, perché le ASL hanno interesse a risparmiare; i margini per ogni singolo pasto servito sono ridottissimi, e l'utile per l'azienda di ristorazione viene fuori solo facendo grandi numeri, ottimizzando al massimo i sistemi di produzione, o risparmiando sulla qualità delle materie prime.
  • 2. Si può dire quindi che gli interessi di chi produce i pasti e di chi paga il conto, non vadano proprio “a braccetto” con gli interessi di chi i pasti li deve mangiare. Da addetto alla ristorazione, so che gestire un ristorante dove “nessuno vorrebbe mai mangiare”, non è impresa facile. A peggiorare ulteriormente il quadro c'è anche il fatto che il cliente/paziente vive il cibo come una medicina. Tutto ciò non gioca certo a favore di chi deve produrre e distribuire i prodotti, e tanto meno aiuta il cliente ad apprezzare quanto viene proposto. Diventa quindi fondamentale lavorare sulla comunicazione per migliorare la qualità percepita dei cibi, che nella maggioranza dei casi, non sono cosi “cattivi” come sembra. Oltre all'informazione specifica, di pertinenza di dietisti e nutrizionisti, e in attesa che le ASL si attrezzano per recepire le direttive ministeriali, si potrebbe attivare una comunicazione capace di rendere più “attraenti” i cibi. Le strutture che hanno optato per i pasti serviti e confezionati in squallidi contenitori monoporzione o vassoi di plastica sigillati, se proprio non li possono sostituire, potrebbero provare a renderli un po' più attraenti, inserendo frasi o disegni invitanti; gli esempi non mancano: basta andare in giro negli scaffali dei supermercati e vedere come sono fatte le confezioni dei prodotti pronti, che hanno colori e scritte cosi attraenti che fanno proprio venire voglia di comprarli e mangiarli. Mi piacerebbe inoltre vedere qualche addetto alla distribuzione dei pasti vestito da grande chef, con tanto di cappellone, aggirarsi intorno ai letti, con un mestolone in mano, o magari con un menu di quelli di alta cucina e foto di piatti succulenti, sempre con una battuta pronta, per far sorridere i clienti. Patch Adams ha insegnato molto a riguardo, e i risultati della clown therapy che aiuta i piccoli a guarire negli ospedali pediatrici ne è la conferma. Il coinvolgimento dei famigliari, almeno quelli disponibili, potrebbe essere un altro valido aiuto ai pazienti, mangiare con qualcuno della famiglia o che si conosce contribuisce a rendere più appetitoso anche un “boccone più amaro”, questa pratica è attualmente limitata ai pazienti non autosufficienti. Mi fermo qui, ma sono diverse le idee che potrebbero essere messe in pratica, per migliorare la qualità percepita dei pasti serviti, e che potrebbero aumentare il gradimento, il risparmio dei prodotti, fino a migliorare lo stato di salute dei pazienti, e ridurne i tempi di degenza. Dispiace invece constatare che molti amministratori delle ASL preferiscano dedicare più energie a nascondere e minimizzare il problema, piuttosto che cercare una soluzione, come invece già richiede il Ministero della Salute. Lo stesso vale per le aziende di ristorazione che pensano solo ai costi e ai margini di guadagno, dimenticandosi che le persone che mangiano i loro prodotti non sono “clienti qualsiasi”, ma hanno esigenze, necessità, e soprattutto un rapporto col cibo molto diverso da chi va a mangiare in un ristorante. E' mia convinzione che, come sempre, un po' di buon senso e buona volontà da parte di tutti gli interessati (pazienti compresi), aiuterebbe a risolvere la questione che cosi appare molto più difficile di quanto invece è in realtà, almeno in quei casi (e sono molti) in cui i prodotti sono di qualità e devono essere solamente “venduti meglio”.. La foto di copertina è presa da “Alimentazione negli ospedali e nelle RSA” di Anna De Magistris.