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TECNOLOGIA E DISEGNO:
IL SENSO CULTURALE OGGI
Gabriele Righetto
Centro d’Ateneo di Ecologia Umana
– Università di Padova




Una specie che fa segni.
Lo scenario di Italo Calvino
L’atto del disegnare è un gesto arcaico e primordiale: lasciare traccia nel
mondo esterno del mondo interno: la mente che scrive la sua conoscenza su
fattori esterni e materiali.
Questa capacità primordiale ha avuto un’enorme sviluppo ed ha imboccato
due rivoli fondamentali: quello della rappresentazione e quello della
scrittura. Anche se è assai probabile che la forma rappresentativa sia vissuta
a lungo assieme a quella segnica in senso puro. Ce lo testimonia il fatto che
tra le scritture più antiche il fenomeno degli ideogrammi e geroglifici, ossia
delle scritture supportate da rappresentazioni stilizzate, sono presenti in
grandi culture antiche come quella cinese ed egiziana.
Educare al disegno oggi significa occuparsi dei sistemi rappresentativi
attuali, ma non disdegnando la formazione alla cultura dei segni in generale
e quindi avendo sensibilità anche alle fonti lontane del disegno.

Questa capacità complessa di leggere il fenomeno dei segni, con dimensioni
metastoriche e metaspaziali, è presente in modo splendido in un racconto
delle Cosmicomiche di Italo Calvino, denominato proprio ‘Un segno nello
spazio’.
Ho trascritto alcuni stralci significativi che consentono non solo di cogliere
la genialità narrativa dello scrittore, ma anche la sua capacità di teorizzare le
problematiche dei segni in forma narrante.
Gustiamoci dunque questo approccio sapientemente narrativo-teorico
collocato in un fondale cronologicamente lontanissimo, quando il Sole
compieva la sua rivoluzione intorno alla Galassia in circa duecento milioni
di anni e un essere, Qfwfq, forma primordiale di esistente, tentava di dar
senso al suo esistere, in uno scenario abissalmente metafisico:


‘ .. io una volta passando feci un segno in un punto dello spazio, apposta per
poterlo ritrovare duecento milioni di anni dopo, quando saremmo ripassati
di lì al prossimo giro. Un segno come? E’ difficile da dire perché se vi si
dice segno voi pensate subito a qualcosa che si distingua da un qualcosa, e
lì non c’era niente che si distinguesse da niente; voi pensate subito a un
segno marcato con qualche arnese oppure con le mani, che poi l’arnese o le
mani si tolgono e invece il segno resta, ma a quel tempo arnesi non ce
n’erano ancora, e nemmeno mani, o denti, o nasi, tutte cose che si ebbero

                                       1
poi in seguito, ma molto tempo dopo. La forma da dare al segno, voi dite
non è un problema perché, qualsiasi forma abbia, un segno basta serva da
segno, cioè sia diverso oppure eguale ad altri segni. Anche qui voi fate
presto a parlare, ma io a quell’epoca non avevo esempi a cui rifarmi per
dire lo faccio uguale o lo faccio diverso, cose da copiare non ce n’erano, e
neppure una linea, retta o curva che fosse, si sapeva cos’era, o un punto, o
una sporgenza o una rientranza. Avevo intenzione di fare un segno, questo
sì, ossia avevo l’intenzione di considerare segno una qualsiasi cosa che mi
venisse fatto di fare, quindi avendo io, in quel punto dello spazio e non in un
altro, fatto qualcosa intendendo di fare un segno, risultò che ci avevo fatto
un segno davvero.
Pensare qualcosa non era mai stato possibile, primo perché mancavano le
cose da pensare, e secondo perché mancavano i segni per pensarle, ma dal
momento che c’era quel segno, ne veniva la possibilità che chi pensasse,
pensasse un segno, e quindi quello lì, nel senso che il segno era la cosa che
si poteva pensare e anche il segno della cosa pensata cioè di se stesso
….
Era come un nome, il nome di quel punto, e anche il mio nome che io avevo
segnato in quel punto, insomma era l’unico nome disponibile per tutto ciò
che richiedeva un nome.
…
e mi misi a fare ipotesi (..) su teorie secondo le quali un dato segno doveva
essere necessariamente in un dato modo, o procedendo per esclusione
provavo a eliminare tutti i segni meno probabili per arrivare a quello giusto,
ma tutti questi segni immaginari svanivano con una labilità inarrestabile
perché non c’era quel primo segno a far da termine di confronto.

----
in un punto che doveva essere proprio quel punto, al posto del mio segno
c’era un fregaccio informe, un’abrasione nello spazio slabbrata e pesta.
…
Lo spazio, senza segno, era tornato una voragine di vuoto, senza principio
né fine, nauseante, in cui tutto – me compreso – si perdeva.
…
la cancellatura era la negazione del segno, e quindi non segnava, cioè non
serviva a distinguere un punto dai punti precedenti e seguenti.
..
i segni servono anche a giudicare chi li traccia, e che in un anno galattico i
gusti e le idee hanno tempo di cambiare, e il modo di considerare quelli di
prima dipende da quel che viene dopo, insomma avevo paura che quello che
ora poteva apparire un segno perfetto, tra duecento o seicento milioni di
anni mi avrebbe fatto fare brutta figura. Invece nel mio rimpianto, il primo
segno (..) doveva contenere qualcosa che a tutte le forme sarebbe
sopravvissuto, cioè il fatto di essere segno e basta.

---
L’idea di marcare con dei segni così com’era venuta a me e a Kgwgk,
l’avevano avuta in tanti, sparsi su miliardi di pianeti d’altri sistemi solari, e
continuamente m’imbattevo in uno di questi cosi, o un paio, o addirittura
una dozzina, semplici ghirigori bidimensionali, oppure solidi a tre
dimensioni (per esempio, dei poliedri), o anche roba messa su con più

                                       2
accuratezza, con la quarta dimensione e tutto. Fatto sta che arrivo al mio
segno, e ce ne trovo cinque, tutti lì. E il mio non son buono a riconoscerlo.
E’ questo, no è quest’altro, macché, questo ha l’aria troppo moderna,
eppure potrebbe essere anche il più antico, qui non riconosco la mia mano,
figuriamoci se a me veniva in mente di farlo così…E intanto la galassia
scorreva nello spazio e si lasciava dietro segni vecchi e segni nuovi e io non
avevo ritrovato il mio.1




Iconomachia e Iconocrazia: o Iconocultura?


L’atto del produrre immagini non ha avuto sempre vita facile, anche se i
primordi della cultura della nostra specie sono splendidamente testimoniate
nelle pitture rupestri e la cultura delle immagini ha avuto il contributo di
grandi personalità e grandi testimonianze di specifiche culture
dell’immagine, vi sono state pure situazioni contrarie o ostili alle immagini e
il fenomeno va sotto la voce dell’iconoclastia.

        Le dottrine iconoclaste si sono espresse tra il sec VII e IX (725-842
        ca) nell’impero bizantino provocando tensioni politiche e feroci
        persecuzioni. Vi è un rigorismo anche nel primo Cristianesimo,
        fedele ai divieti dell’Antico testamento che è sostanzialmente
        anticonico: Origene, Ireneo, Eusebio di Cesarea ne sono espressioni
        eloquenti, mentre Basilio e Gregorio Magno riconoscevano alle
        immagini un valore didattico e catechetico. Il culto universale era la
        croce, la più antica forma di venerazione di un’immagine.
        Soprattutto in oriente, secondo il platonismo dominante, la stessa
        immagine era riguardata come il luogo della presenza misteriosa di
        un archetipo che comunicava qualche cosa della sua grazia e potenza.
        Nel 730 Leone III l’Isaurico ordinò la distruzione di tutte le immagini
        facendo dell’iconoclastia la dottrina ufficiale dell’impero.
        Il figlio Costantino V Copronimo convocò il concilio di Hieria per
        approfondire la giustificazione teologica del problema.
        Secondo gli iconoclasti la rappresentazione dell’umanità di Cristo
        avrebbe portato al nestorianesimo (ossia alla teoria secondo la quale
        Dio è formato da due persone connesse attraverso un’unione
        puramente morale), mentre una rappresentazione disincarnata intesa a
        significare la divinità di Cristo avrebbe peccato di monofisismo (che
        negava la doppia natura di Cristo, per sostenere che la natura divina
        ha assorbito quella umana).
        Il vero culto consisterebbe nel coltivare nel proprio cuore le immagini
        di Cristo e dei santi, imitandoli nella vita, mentre la presenza di

1

Italo Calvino
Un segno nello spazio
In
Le cosmicomiche
Einaudi 1965

                                       3
Cristo va cercata nell’eucarestia e non nelle immagini. Nicea
       ripristinò il culto delle immagini (787), ma una ripresa iconoclasta si
       ebbe fra 813 e 842.
       Nel medioevo l’iconoclastia serpeggiò nel pensiero ereticale. E in
       oriente la vittoria del partito delle icone influenzò l’arte bizantina e
       russo-ortodossa.
       Ampie sacche di posizioni iconoclaste persistono all’interno del
       fondamentalismo islamico e in ogni caso l’arte figurativa islamica
       segnala un diffuso divieto per il figurativo e ancor più per la scultura
       figurativa. Nell’Islam l’iconomachia ossia il contrasto per il culto
       delle immagini non deriva dal Corano ma piuttosto dalla stretta
       osservanza del primo dei 10 comandamenti (‘Non avere altri dei di
       fronte a me’). Esso si applica essenzialmente ai manufatti religiosi e
       ai monumenti, mentre l’architettura secolare permette delle eccezioni
       a questa norma. Il rifiuto dell’arte figurativa ha incitato i Musulmani
       ad esplorare alcuni sistemi geometrici assai complessi (decorazioni a
       traforo con graticci di geometria molto elaborata, motivi a forme
       stellari assai complessi, arabeschi, mosaici articolatissimi ecc.).
       Si può tranquillamente dire che la cultura mondiale ha avuto,
       soprattutto nel medioevo, un alto contributo della cultura araba per lo
       sviluppo della geometria e dei sistemi rappresentativi geometrici.
       Quindi è un po’ difficile dire che l’iconomachia sia stata nettamente
       la nemica dello sviluppo dei sistemi rappresentativi e di disegno,
       perché invece paradossalmente le culture iconoclaste o comunque
       iconomache, hanno dato un alto contributo allo sviluppo dei sistemi
       rappresentativi informali, astratti e geometrici, forse per
       compensazione alla chiusura al mondo rappresentativo realistico e
       naturalistico. Anche se questo è a sua volta molto poco sostenibile se
       pensiamo a quella straordinaria tecnologia costituita dai tappeti molto
       diffusa nel mondo islamico, dove la stilizzazione di animali e vegetali
       costituisce la fonte ispiratrice di decori favolosi, supportati da
       tecniche di intreccio e di nodi che poggiano su sistemi progettuali e di
       design dei cartoni di base afferenti a forme molto evolute e raffinate.
       Sul tema delle culture iconofobe e iconofile non possiamo non
       rilevare che l’attuale società infoindustriale, soprattutto nella sua
       dimensione multimediale, è giunta ad un potere delle immagini così
       importante e diffuso che si può parlare di potere delle immagini e
       sfondo patologico dell’uso di esse, ossia si può parlare di iconocrazia
       e iconomania.
       Poiché siamo in presenza di eccessi, spesso accompagnati da uno
       scarso uso consapevole degli stessi, si deve evidenziare la necessità
       del rilancio di una cultura del disegno e delle rappresentazioni, ossia
       di una ponderata iconocultura.



L’emergere del disegno tecnico e dei
plastici
Se il medioevo è stato attraversato da movimenti iconoclasti e da problemi di
rappresentazione, il mondo classico era invece denso di presenze figurative e
di manifestazioni di disegno. Anzi nei governanti vi era consapevolezza che
                                      4
con le immagini era possibile indurre maggiore influenza sul popolo e si
poteva suscitare un alone magico sul potere stesso.
Dal punto di vista strettamente tecnico, non mancano testimonianze che
attestano quanto gli strumenti della pianta, alzato frontale e laterale fossero
presenti nel mondo antico egiziano, grecolatino e del Vicino Oriente2. In
molte tombe di civiltà lontane sono state rinvenuti modelli di case e templi e
tutto lascia supporre che questi fossero prodotti votivi, ma attestano anche
l’esistenza di pratiche e produzioni di modelli plastici.
E tutto questo induce a pensare all’esistenza di un diffuso uso di disegno
tecnico anche nell’antichità, di cui non rimane traccia da un lato per la
precarietà e degradabilità dei materiali con cui si realizzavano i prodotti
rappresentativi in forma tecnica e per l’abitudine a non conservare troppo a
lungo tali prodotti quando gli artefatti reali da tempo erano stati portati a
compimento concreto.

Per quanto riguarda i disegni tecnici, esistono testimonianze assai rilevanti
relative alla cultura gotica che è il punto di riferimento più diretto per la
cultura moderna. Inoltre l’esplosione dell’architettura e dei manufatti di
grande pregio, compresi quelli in argento e oro, in epoca gotica, hanno come
parallelo un grande impulso all’attività del disegno e potremmo dire del
disegno moderno, perché dal punto di vista tecnico il mondo moderno trova
le sue fondamentali radici nel contesto Gotico.
Il contesto Gotico non sviluppa solo una rinnovata eccellenza del disegno
tecnico, ma anche avvia una pratica molto più consueta della
rappresentazione del pensiero plastico mediante modelli.
Non si deve proprio sottovalutare che l’incremento qualitativo dell’oreficeria
contribuisce all’evoluzione delle tecniche di costruzione di modelli. Infatti
l’oreficeria conduce ad un’aumentata capacità di produrre artefatti in forma
miniaturizzata. Tra le forme miniaturizzate dall’oreficeria un posto non
minore è occupato dall’architettura che diviene tema per prodotti orafi come
portagioie, scatole, contenitori che simulano grandi edifici.
Sempre in epoca gotica si ha il formidabile emergere degli orologi meccanici
che attestano l’esistenza di accurati disegni tecnici necessari per poter
controllare la realizzazione di ingranaggi decisamente miniaturizzati. Certo
si deve aspettare il 1344 perché il padovano Jacopo Dondi detto
dell’Orologio (nome che diventerà patrimonio della famiglia) realizzi il
primo orologio meccanico in senso compiuto. Ma il risultato era l’esito di
molti altri avvicinamenti tecnici (supportati da disegni e modelli) se lo stesso
Dante nel Paradiso della Comedia fa cenno ad elementi di orologio
meccanico:
“indi come orologio, che ne chiami
nell’ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché l’ami,
che l’una parte e l’altra tira ed urge,
2

I progetti della tomba di Ramesse IV e del tempio di Ghorab sono rinvenibili al Museo
Egizio di Torino e All’University College of London. So entrambi illustrati in
MILLON H.A.
I modelli architettonici nel Rinascimento
In Magnago Lampugnani V. e Millon H. 1994
Rinascimento.Da Brunelleschi a Michelangelo.
Bompiani, Milano

                                            5
tin tin sonando con sì dolce nota,
che il ben disposto spirto d’amor turge,
così vid’io la gloriosa ruota
muoversi …. [canto X v. 139-146]

Il Rinascimento si pone come grande momento rinnovativo, ma in realtà si
muove in logica continuativa con le conquiste tecniche apportate dal mondo
gotico e le perfeziona.
Il disegno tecnico, soprattutto in architettura assume aspetti formali e
funzionali più compiuti e si affianca alla pratica di costruzione di modelli
lignei, strumento fondamentale per portare a compimento i progetti.
Sul ruolo dei modelli plastici parlano con chiarezza personaggi centrali della
cultura tecnica rinascimentale come Leon Battista Alberti o si tramanda
come si lavorasse con strumenti tecnici adatti al pensiero plastico ad esempio
nel cantiere di Filippo Brunelleschi.

Nel libro De re aedificatoria Alberti precisa che “l’architettura nel suo
complesso si compone del disegno e della costruzione. Quanto al disegno,
tutto il suo oggetto e il suo metodo consistono nel trovare un modo esatto e
soddisfacente per adattare insieme e collegare linee ed angoli, per mezzo dei
quali risulti interamente definito l’aspetto dell’edificio. […] Né il disegno
contiene in sé nulla che dipenda dal materiale; bensì è tale da potersi
riconoscere come invariato in più edifici, nei quali si riscontri immutata
un’unica forma, nei quali cioè le parti che li costituiscono, la collocazione e
l’ordinamento di ciascuna di esse corrispondano esattamente tra loro nella
totalità degli angoli e delle linee. Si potranno progettare mentalmente tale
forme nella loro interezza prescindendo affatto dai materiali
[….] L’idea, essendosi formata nella mente, era imperfetta e poteva trovare
la propria forma conseguente solo attraverso l’esame, la valutazione e le
modifiche attuabili mediante i disegni. Questi stessi poi dovevano essere
studiati, giudicati e migliorati mediante i modelli, approssimando così infine
l’espressione all’idea”.
L’Alberti rivela anche le fragilità del disegno tecnico:
“…molto frequentemente mi è venuto fatto di concepire opere che a tutta
prima mi parevano lodevolissime, invece una volta disegnate, rivelavano
errori, e gravissimi, proprio in quella parte che più mi era piaciuta, tornando
poi di nuovo con la meditazione su quanto avevo disegnato, e misurandone
le proporzioni, riconoscevo e deploravo la mia incuria; infine avendo
fabbricato i modelli, spesso, esaminandone partitamente gli elementi, mi
accorgevo di essermi sbagliato anche nel numero.”
E’ un’esplicita affermazione sul ruolo del disegno come linguaggio specifico
del pensiero plastico.
NeI libro De re aedificatoria l’Alberti raccomanda particolarmente l’uso
l’utilizzo dei modelli anche per scopi pratici, quali ad esempio “la posizione
rispetto all’ambiente, la delimitazione dell’area, il numero delle parti
dell’edificio e la loro disposizione, la conformazione dei muri, la solidità
delle coperture.” E per indicare come durante il Rinascimento il pensiero
plastico facesse ricorso all’uso sistematico di modelli, è bene ricordare che
Filippo Brunelleschi ottenne la commissione per costruire una cupola non
centinata, dopo che ebbe preparato un grande modello in mattoni e legno
“sanza alcuna armatura”.

                                      6
Dopo il Rinascimento continua l’evoluzione del disegno tecnico, ma non si
deve sottovalutare il ruolo di comunicatore dell’immaginario che ha il
disegno tecnico e basti, fra tutti, ricordare l’opera di Valturio e di Francesco
di Giorgio.
Necessarie o immaginarie che fossero le macchine disegnate, “a Valturio
spetta il merito di esserne stato il grande divulgatore non foss’altro perché
con lui termina l’epoca dei trattati manoscritti: nuove forme di
comunicazione permetteranno una circolazione più ampia del pensiero.
[…] In Francesco di Giorgio poi è assente ogni dettaglio di tipo decorativo
che possa distogliere l’attenzione dal meccanismo illustrato: il disegno è
ridotto alla pura essenzialità; il particolare importante viene ‘esploso’; si
utilizzano lettere di riferimento per facilitare la lettura delle descrizioni. E’
con Francesco di Giorgio che l’iconografia assume una connotazione più
propriamente ‘ingegneristica’”3.
La diffusione della stampa contribuirà a veicolare i caratteri sobri e laconici
del disegno tecnico e l’influenza di Cartesio, con l’impostazione delle
coordinate che da lui prendono nome, introdurranno nei sistemi grafici un
fattore matematico ed algebrico di notevole rilevanza.
Al progresso del sempre maggiore nitore tecnico del disegno tecnico darà un
apporto significativo anche Newton che, nel suo testo pubblicato sull’Ottica,
introdurrà tavole di raro rigore, quel rigore che diventerà stile divulgato
nell’iconografia dell’Encyclopedie, il testo celebrativo della compiutezza
dello stile ingegneristico e che avrà il momento di massima affermazione
con gli ingegneri dell’800, protagonisti nella progettazione di tipo
industriale.
Anche per i modelli e i plastici il rafforzamento del loro ruolo segnalato nel
Rinascimento continuerà nei secoli XVII e XVIII (ed è pratica testimoniata
da manufatti sopravvissuti ad esempio con lo Juvarra e C. Wren)
La realizzazione di modelli architettonici non aveva particolare sostegno
nell’Ecole des Beux Arts e nel secolo XIX tale tradizione ebbe un’eclisse,
non però in campo ingegneristico dato il suo riferimento con la prestigiosa
Ecole Polytechnique che si conformerà sempre più ad orizzonti di tipo
positivistico.4
Poi le posizioni si misceleranno e l’uso razionale dei modelli riprenderà
soprattutto nell’ambito del Razionalismo architettonico e non solo, di cui il
Bauhaus rappresenta un apice, rafforzato poi dalla scuola di Ulm. Mies van
der Rohe, Le Corbusier, Wright, ma anche Gaudì produssero modellini in
forme molto varie, come pensiero plastico applicato.
E forse può essere interessante citare proprio Wright che parla della sua
infanzia e del manifestarsi del suo pensiero plastico precoce:

3

BASSIGNANA P.L.
L’iconografia di Valturio in
In
ID
Le macchine fantastiche di Valturio
U. Allemandi 1988
4
 LEMOINE B. 1993
Architettura e ingegneria come professioni
Jaca Book, Milano

                                             7
“Acquistai presto la sensibilità al modello costruttivo, evolventesi in tutto ciò
che vedevo. In questo modo, imparavo a “vedere”; e quando vidi, non mi
curai di ricercare aspetti fortuiti della natura. Volevo comporre”5.
E’ importante pertanto sviluppare le forme di comunicazione che passano
per il disegno e la produzione di modelli, sapendo con chiarezza che si tratta
di “una forma di pensiero […] è un modo di conoscere: ‘verum factum’. La
conoscenza di una cosa è la conoscenza della sua genesi.” tenendo anche
conto che è un linguaggio molto peculiare: “mentre la lingua si sviluppa
linearmente, le immagini si presentano simultaneamente” Quindi consentono
l’idea e l’espressione di una forma importante di comunicazione spaziale e
temporale6



Tecnologia e computer
 Noi non siamo più, direbbe McLuhan, in contesto gutenberghiano, siamo
decisamente postgutemberghiani in forme che neppure l’inventore di questa
espressione credo fosse in grado di immaginare appieno.
Oggi gli strumenti di comunicazione sono ampiamente digitali e pensare al
rapporto Tecnologia, disegno e modelli senza collocarsi dentro il mondo
digitale, significherebbe rifugiarsi dentro un museo dell’800 per prepararsi
all’odissea nello spazio del 2050.
La tematica delle rappresentazioni informatizzate è ormai forse il contesto
più ‘naturale’ in cui esprimere e realizzare rappresentazioni tecnologiche.

Il tema è vastissimo e ho pensato di indicarne i contorni realizzando una
piccola antologia tratta da un opuscolo per molti versi illuminante:

         G. SCHMITT 1998
         Information architecture.
         Basi e futuro del CAAD
         Testo & Immagine, Torino.

In esso si affrontano e si illustrano gli scenari e le operatività relative al
CAD, al computer come medium, alle dimensioni del disegnare e progettare
on line ossia in Web, cosa sia possibile produrre nella VRML (realtà virtuale
o meglio Virtual Reality Modeling Language) e come ci si possa inserire
tecnologicamente in una prospettiva di Netizen, cittadino della rete.
Per un uso estensivo dei suggerimenti di Schmitt consiglio di sostituire i
termini architettura, edifici e consimili con artefatto o tecnologico, perché
dal punto di vista logico la sostituzione comunque funziona e consente di
collocare il discorso sullo scenario ampio della Tecnologia e non solo
dell’Architettura.

5

WRIGHT F.LL. 1963
Testamento
Einaudi, Torino p. 20-21
6

DE FUSCO R. 2001
Trattato di architettura
Laterza, Roma-Bari
Con attenzione per il cap. Terzo ‘Il disegno’ p. 136- 193.

                                              8
p. 5

Non più matita elettronica
L’espressione Computer Aieded Architectural Design (CAAD), [ è più usato
CAD, Computer Aided Design) : la progettazione architettonica con
l’ausilio del computer fonde i due mondi, mettendo a fuoco il fine primario
dei computer in architettura: migliorare l’ambiente edificato, fornendo a chi
opera metodi e strumenti di lavoro avanzati.
Disegnare non è più il compito principale dei computer in architettura. Il
ruolo e il modo in cui viene percepito l’uso dei computer cambiano in
continuazione, in quanto quello che un tempo veniva denominato
‘calcolatore’ diventa di anno in anno sempre più veloce e potente nella sua
funzione di supporto ai progettisti. Fino a poco tempo fa i computer
venivano considerati alla stregua di una matita elettronica o di una
sofisticata macchina per scrivere.
Ma ora questo luogo comune sarebbe un grave abbaglio, in quanto le
modalità di ausili alla progettazione sono sempre più innovative: il
computer può fungere non solo da medium, ma anche da vero e proprio
socio dello studio di architettura.
…
Per quanto riguarda la programmazione e la progettazione, può servire per
documentare, organizzare e immagazzinare informazioni, mostrare sullo
schermo alternative di progettazione e creare disegni esecutivi o modelli per
i lavoratori sul cantiere

L’edificio finito è sempre più dotato di sensori di sensori, controlli, monitor
e computer di tutti i tipi. Quando il fabbricato è in funzione, il computer
serve per ottimizzare la manutenzione, per calcolare il consumo energetico e
gli affitti, per la rete di impianti di sicurezza e per individuare le possibili
alternative d’uso nel caso di utilizzazione dei vari locali per scopi diversi da
quelli prefissati.

p. 10

Processo di informazione
Nel 1941 Sigfried Giedion definì il tempo come la quarta dimensione
dell’architettura. Ora l’informazione dovrebbe essere considerata come la
quinta dimensione.
Essa può essere diffusa in quattro categorie:
1-      le informazioni presenti nella mente del progettista, che influenzano
in partenza il disegno,
2-      le informazioni provenienti dall’esterno, ossia i riferimenti formali
esterni
3–      le informazioni generatesi durante il processo di produzione e
costruzione
4-      informazioni che vengono alla luce nel corso della vita di un edificio.

Le informazioni presenti nella memoria del progettista stanno alla base
della sua cultura architettonica e vengono arricchite durante ogni processo
di progettazione.
                                       9
p. 21

Disegno tradizionale e digitale
I programmi di disegno per computer non costituiscono una minaccia per il
disegno tradizionale, perché per lo più imitano mezzi convenzionali. Ma la
prossima generazione di programmi di disegno e modellazione riuscirà a
dimostrare i vantaggi del computer, perché saranno di supporto durante la
fase di strutturazione del disegno, faciliteranno il salvataggio di diverse
versioni, renderanno automatiche le operazioni ripetitive e semplificheranno
la revisione dei progetti.
…

I modelli
Un modello descrive la realtà secondo diversi livelli di astrazione. (..)
Dal punto di vista spaziale, il modello è una parte fondamentale per la
progettazione, perché composizioni complesse difficilmente possono essere
comprese e riconosciute nella loro interezza tramite altri mezzi. La
disposizione spaziale e la complessità del progetto sono riconosciute solo al
momento della creazione di un modello. Quest’ultimo diventa uno strumento
di disegno, grazie al quale possono essere valutate le caratteristiche del
progetto, e infatti nei modelli reali il trattamento tattile dei materiali e il
posizionamento degli elementi risultano cruciali.
I modelli digitali danno vita a una situazione nuova, in quanto sono usati
principalmente per la visualizzazione e la valutazione di insieme.

..
Nella maggioranza dei casi, il modello digitale è derivato dai metodi
tradizionali che sono poi simulati attraverso mezzi digitali. Per esempio, il
livello di definizione visiva di un modello digitale può variare senza per
questo distruggere il carattere e l’essenza di un modello. Semmai avviene il
contrario: il contenuto di informazioni di un modello simile aumenta, perché
fornisce tutti i dettagli solo per le aree che interessano per una determinata
ragione. Questo cambiamento del livello di informazione di una struttura
non può avere luogo nei modelli reali, e questo rappresenta perciò uno dei
grandi vantaggi del modello digitale.

p. 23

La simulazione
La simulazione è la rappresentazione di un oggetto basata su un’astrazione
appropriata e un modello. Le tecniche di simulazione ci aiutano a capire
meglio i progetti e gli edifici.
La simulazione ha una lunga storia, iniziata con modelli di legno, pietra,
argilla e carta, usati come esempi.




                                      10
…
27 –

Un po’ di premoderno
Già nel Decimo secolo i disegni architettonici in Europa costituirono un
primo tipo di astrazioni che apparivano come virtualmente reali a clienti e
costruttori potenziali, o almeno abbastanza reali da fondare le decisioni da
prendere su di loro.
Con la scoperta delle tecniche prospettiche, i disegni diventarono più precisi
e si svilupparono in una forma d’arte con numerose varianti, dai disegni
tecnici ai disegni di presentazione.
I modelli in legno fecero la loro apparizione già prima del Rinascimento e
nell’Ottocento vennero integrati con modelli di carta e cartoncino.
Ogni nuova invenzione aiutava a migliorare la comprensione dei progetti
architettonici, riducendo lo sforzo di astrazione da parte dell’osservatore e
aumentando la complessità della rappresentazione.

…
27 –
Caschi con display, lo strumento dopo
tecnigrafo e monitor?
Caschi dotati di display sembrano destinati a diventare lo strumento ideale
per questo tipo di visualizzazioni, al posto del classico schermo. Tuttavia, la
bassa qualità di definizione degli attuali display digitali e le limitazioni dei
caschi mantengono la proiezione su schermo accompagnata dal suono
stereo come il metodo più efficace.

..
31 –

Lavorare in team on line
lavorare in una squadra collegata elettronicamente è molto più stimolante
del lavoro individuale su computer. Si possono utilizzare sinergie e
raggiungere gli obiettivi in maniera più veloce, dato che le conoscenze dei
vari collaboratori, unite, portano spesso a soluzioni estremamente efficaci.
33 –
Sincronismo temporale o asincronismo
Con la fine del ventesimo secolo il CSCW (Computer Supported
Collaborative Work) ha cominciato a prendere piede come possibile metodo
di istruzione scolastica.
I primi esperimenti di CSCW in questo ambito risalgono al 1994 quando
furono perfezionati gli studi di disegno virtuale fra il Mit e le università
europee e asiatiche.
L’insegnamento è un ideale campo di prova per l’ulteriore sviluppo del
CSCW perché, durante gli esperimenti condotti, gli studenti e i
programmatori, interagendo, imparano contemporaneamente.
..
In teoria tutti possono lavorare insieme su un progetto restando in luoghi
diversi, sia nello stesso momento (sincronismo temporale) che


                                      11
separatamente (asincronismo) con l’ultima versione del disegno sempre
disponibile a tutti i membri del gruppo.




63
L’informazione come materia prima
l’importanza di materie prime come acqua , legno, olio o ferro sta
diminuendo nei paesi postindustriali, mentre il ruolo dell’informazione,
considerata come vera e propria materia prima sta aumentando. Presa da
sola, l’informazione è inutilizzabile come un minerale non lavorato, ma se è
elaborata e posta all’interno del contesto più idoneo può avere effetti di
lunga durata.
….
Agli esordi degli scambi di dati elettronici ci si basava su un’infrastruttura
comune, riportando i dati su un medium esterno, inviandolo poi per lettera e
riportare il contenuto su un secondo computer, quando le reti sono
configurate in modo tale da permettere il libero flusso di dati fra tutte le
postazioni coinvolte.
Gli industriali del Diciottesimo e Diciannovesimo secolo si erano arricchiti
raffinando materie prime, e in seguito sono state accumulate immense future
tramite la costruzione di strade e ferrovie, con l’obiettivo di sviluppare
infrastrutture per il trasporto e la lavorazione di materie prime. La
situazione si ripete oggi, con organizzazioni che forniscono infrastrutture
per l’informazione.
Nei paesi più industrializzati il trasporto delle informazioni è stato un
monopolio statale molto proficuo fino all’apertura dei mercati delle
telecomunicazioni. Con la scomparsa dei monopoli la competizione è
aumentata, diminuendo i costi per i clienti, ma anche creando una certa
confusione riguardo all’enorme numero di nuovi servizi. L’elemento comune
di tutti questi processi di sviluppo è che viene data più importanza al modo
con cui reperire e trovare informazioni, che all’accumulo di informazioni in
una memoria o in una macchina informatica locale. Il luogo non fisico in cui
la materia prima può essere estratta e lavorata è Internet, questo costituisce
l’unico luogo percepibile ogni qualvolta è possibile ottenere un
collegamento.

p.66

Il territorio delle informazioni
L’espressione “territorio delle informazioni” è in qualche modo un termine
contraddittorio, in quanto nella sempre più emergente era dell’informazione
la maggior parte dei territori conosciuti, ossia territori privati, militari o
nazionali, hanno perso il loro significato originario. Tuttavia può essere
utile per descrivere un territorio futuro per il progetto architettonico che
possieda caratteristiche simili ai territori veri e propri. Il territorio delle
informazioni è popolato da chi possiede accesso a un nodo della rete
digitale. Forme di controllo dell’accesso, di privilegio e nuove regole stanno
per essere messe a punto. Con la proliferazione di collegamenti attraverso

                                      12
cavi e satelliti, anche nelle aree più sperdute del globo, l’accesso diviene
decisamente più facile. Ma l’accesso e la lunghezza d’onda possono essere
ottenuti solo da chi se li può permettere a livello economico. Il raggio
d’azione di Internet definisce i confini del territorio delle informazioni.
Regolamenti vengono creati in continuazione. E nel giro di pochi mesi
un’etichetta di accesso alla rete viene messa a punto. Gruppi politici e
finanziari tentano di prendere in mano il controllo di questo nuovo
territorio.




Per un museo
del disegno tecnico
Il disegno e i sistemi di rappresentazione sono un universo in continua
espansione e cambiamento, ma sono anche storia di una cultura.
Un modo per cogliere la propensione al continuo cambiamento, ma anche a
conoscere tecniche rappresentative che oggi non esistono più possono essere
offerte da visite a musei, ricercando le testimonianze di disegno e processi di
evoluzione di disegni.
Ovviamente l’impresa diventa più facile se si diffondono particolari sezioni
dentro i musei della scienza e della tecnica esistenti oppure, e meglio, si
forma qualche museo specialistico del disegno tecnologico e delle
rappresentazioni con mezzi tecnologici.
 Il problema è affrontato da Paolo Portoghesi in un articolo che tratta dei
disegni tecnici come ‘ritratti di macchine’7:

Pg.264 “Commentando alcuni bellissimi disegni industriali dell’800,
ritrovati e pubblicati dall’archivio storico Ansaldo, Paolo Portoghesi li
definisce ‘ritratti di macchine’.
C’è tecnica, funzionalità e bellezza “dal ruolo di animale domestico, di
rassicurante strumento, la macchina è passata a rivestire il ruolo
dell’oggetto pensante di un sistema di forze che condiziona la nostra vita e
mentre la rende più comoda, la allontana sempre più dal suo ritmo
originario.

Del disegno relativo alla locomotiva dell’Ansaldo: “nonostante si tratti di
un prospetto-sezione, di un disegno analitico quindi, e non naturalistico,
l’impressione a prima vista è quella di un vero e proprio ritratto.

7

Per un museo del disegno tecnico
In
CORTI B. (a cura di) 1991
Archeologia industriale
ICMAI – Il coltello di Delfo, Brescia


                                        13
Come in certi disegni di epoca gotica si è adottato il sistema di
rappresentare in trasparenza vari aspetti dell’oggetto non visibili
contemporaneamente ma con gran cura – del tutto assente nei disegni gotici
– di rendere sempre inequivoca la rappresentazione, tratteggiando le parti
non visibili o introducendo piccoli stratagemmi visivi, come il finto squarcio
della lamiera da cui si intravede il dispositivo di comando sul fondo della
caldaia.
Eliminando dal disegno alcune parti ripetitive, perché simmetriche,
fingendone altre trasparenti, ma scendendo nel dettaglio fino a descrivere le
specchiature decorative della carrozzeria, l’anonimo disegnatore è riuscito
con un solo disegno a descrivere minutamente e in modo univoco un
meccanismo complesso che oggi verrebbe probabilmente rappresentato per
parti su molti fogli diversi.


Tomas Maldonado in Reale e virtuale8 evidenzia che “alcuni studiosi
intravedono in certe manifestazioni dell’arte contemporanea elementi, se non
di iconoclastia, sicuramente di iconofobia. Cfr. J.J. Goux (1973) e K.Clark
(1981)”
Riferisco questo per far cenno ai problemi di ampio rapporto e vasto che poi
esiste tra disegno tecnico e disegno, scultura e pittura in generale. Ma mi
fermo qui perché la questione, data la natura di questo scritto, va solo
accennata.




PER UN REPERTORIO DI QUESTIONI
Per sondare in modo mirato alcuni problemi centrali del rapporto tra
tecnologia, disegno e senso culturale, indico ora di seguito una sorta di
repertorio e glossario che contengono un’indicazione divisa per ambiti, nella
speranza che possa servire come strumento di lavoro per quanti non già
vogliano essere informati, quanto semmai pronti ad esercitare una didattica
non ingabbiata in stereotipie, pur non sottovalutando il valore del patrimonio
storico. Mi viene da rammentare il monito di Montaigne che invitava a
considerare come coloro che hanno troppa attenzione e conoscenza riferite
alle questioni del passato, spesso sono assai ignoranti sulle questioni
presenti.




8
  MALDONADO T. 1992
Reale e virtuale
Feltrinelli, Torino p.23 nota   30

                                     14
Schizzo
Il pensiero immaginario e rappresentativo emerge nella mente sotto forma
quasi esclusivamente plastica, ossia le immagini mentali si configurano
come appartenenti ad uno spazio e in quanto situate in uno spazio.
E’ ben difficile avere un processo immaginario di tipo bidimensionale, a
meno che non si pensi esplicitamente ad un disegno, allora però il disegno in
sé appare bidimensionale, seppur inserito in un’ambientazione di contesto
che è tridimensionale.
Il disegno bidimensionale è un artificio, ma un artificio che sta in un luogo
tridimensionale.
Ogni aspetto reale che noi esperiamo si trova in uno scenario tridimensionale
e l'immaginario e l'onirico si collocano in un ambiente mentale, ma non
usano un linguaggio drasticamente diverso dalla tridimensionalità del reale,
vengono infranti i parametri temporali, la composizione degli eventi con un
tasso elevato di arbitrarietà, si deformano aspetti cromatici e formali, ma non
cessa l’affiorare della dimensione tridimensionale, malgrado tutte le
deformazioni possibili del mondo onirico.
L’immaginario mentale non si sofferma ed emerge solo nell’onirico, ossia
nella condizione di stato di non veglia, ma emerge ed è attivo anche in stato
di veglia, quando si rallenta il processo di focalizzazione della percezione
esterna e si insegue la focalizzazione della percezione interna e delle
immagini che il pensiero figurativo fa emergere sullo scenario mentale.
Alle immagini mentali non si assiste come spettatori passivi (come accade
per lo più nelle immagini oniriche ), ma si orienta l’affiorare e la produzione
delle immagini che affiorano con una certa arbitrarietà e le si fa scomparire
per un atto volitivo che vuole ‘allontanare delle immagini’ e richiede
l’esplorazione di altri tipi di immagini.
Quando non c’è alcun tentativo esplicito per orientare, scegliere o negare
alcune immagini, anche se si è in stato veglia, si è nella dimensione del
fantasticare: le immagini scorrono per associazione libera o flusso non
orientato.
Se ciò avviene in stato di veglia, lo stato di coscienza attiva assiste
all’emergere delle immagini e lascia che vadano senza che vi sia un perché
dell’orientamento. E’ un lasciarsi andare e talvolta anche un lasciare andare.
E’ uno stato onirico senza che vi sia lo stato di sonno, è un gioco mentale
che comunque presenta delle condizioni pre-ipnotiche.
Ai fini della produzione tecnologica e pratica tutto questo può apparire del
tutto inutile. Può risultare anche solo mentalmente ludico.

Il pensiero immaginativo comincia ad essere più esplicitamente produttivo e
pre-tecnologico, quando lo stato di coscienza interviene introducendo
meccanismi di selezione e di censura.
La selezione più importante è determinata dalla constatazione che si sia in
presenza di immagini possibili. Ossia immagini che non sono reali, ma che
possono essere vissute come traducibili e trasferibili in contesto reale. Ossia
appaiono immagini che la dimensione onirica emette e la dimensione della
coscienza valuta come fattibili.


                                      15
In questo stadio vi è compresenza di veglia e pre-veglia o meglio una
continuità tra mondo della veglia-coscienza e mondo dell’immaginario-
onirico.
La coscienza, in tale stadio intermedio, è in grado di stabilire che emergono
anche immagini del tutto fantastiche, ossia che non sono supponibili in
termini di fattibilità.
In tal caso la coscienza è in grado di intervenire ed esprimere un giudizio
cosciente di censura: interrompere il flusso di immagini e inseguire altre
piste e flussi, finche non compare la percezione-intuizione di fattibilità.
Tale percezione-intuizione non è oggettiva e varia da soggetto a soggetto.

Se un soggetto è vissuto in un contesto fortemente normativo che ha sempre
enfatizzato il valore dell’esistente e la persistenza del già dato ed ha punito,
disprezzato o comunque non considerato la dimensione del possibile e del
mutevole, allora è facile che la censura-selezione delle immagini mentali
scatti quasi su tutto e tutto quello che non ha riscontro percettivo immediato
ed non abbia consenso sociale potrà venire considerato subito fantastico,
senza alcuna terra di transizione verso l’immaginario fattibile.
L’immaginario di soggetti vissuti in un contesto del genere e che abbiano
accettato acriticamente questo processo sociale, tendono ad avere un
immaginario conformista, ossia riproduttivo di dati di fatto, esistenti, anche
se non a loro disposizione. Per loro l’immaginario è un esistente non vissuto
o disponibile, più che un vissuto del tutto nuovo ed inedito. Non esiste
insomma, nei casi estremi, la dimensione dell’immaginario desiderativo,
prevale la dimensione del reale mancante o irraggiungibile.

L’educazione al disegno progettuale è innanzitutto educazione al pensiero
immaginario aperto al possibile, orientato al possibile, ma non appiattito sul
reale esistente.
Il flusso dell’immaginario fattibile e possibile emerge nella mente pressoché
informe e a basso tasso di determinazione. In questo senso è molto instabile,
ma è pur sempre un processo mentale di cui si può avere coscienza.
Questa esperienza mentale rimane incomunicabile se non si esternalizza e
diviene un’esperienza retinica sia per chi la produce, sia per altri che
possono vedere il prodotto che può avere effetti retinici.
In questo senso allora deve diventare segno e disegno. Ma trattandosi di un
immaginario ad alta precarietà non può che affidarsi ad uno strumento
precario e congruente, ossia allo schizzo.

Lo schizzo non è un segno definito di immagine, ma una traccia euristica alla
ricerca e all’inseguimento di un’immagine mentale che si sta facendo e
crescendo.
L’attività dello schizzo testimonia l’attività del fiutare la pista e del processo
di avvicinamento ad un incontro forse possibile e fattibile, sempre più
possibile e sempre più fattibile.
Lo schizzo non deve preoccuparsi di avere un’alta significatività tecnica, ma
piuttosto un’alta plausibilità di sviluppo e di definizione futura.

Lo schizzo è come un insieme di orme ed impronte che fanno supporre di
poter inseguire un soggetto che si suppone esistere, ma ancora non si fa
presenza.

                                       16
Poiché il processo è rapido e mutevole, anche il prodotto materiale che
testimonia la volatilità delle orme ed impronte mentali deve essere rapido e
mutevole, suggerire l’immagine, non riprodurla e fissarla, provocare con dei
segni la nascita di immagini successive, sempre meno indistinte e sempre più
rispondenti ad un bisogno o scopo.

L’attività dello schizzare deve avere una notevole scioltezza e non deve porsi
il problema e la pesantezza del giudizio del bel disegno, non deve avere
remore di tipo estetico, ma solo di efficienza a trattenere e rilanciare una
pista ideativa.
Ma l’attività deve essere anche sostenuta e diretta da processi di censura:
vanno abbandonate quelle immagini mentali e quegli abbozzi e schizzi che
non appaiono orientati al raggiungimento di un prodotto di cui si avvertono
alcuni caratteri imprecisati, ma di cui si avverte anche quello che è più
scostante rispetto allo scopo.
Esattamente come in analogia di una pista olfattiva nella fase in cui non si
conosce la fonte del profumo, ma si è colta la scia. Se la scia si mantiene
costante o si intensifica allora la direzione di esplorazione è plausibile, ma se
l’intensità diminuisce o scompare, allora bisogna abbandonare la pista e
girovagare anche a vuoto finché non si capta di nuovo una pista odorosa
significativa e ci si trova ad immergersi sempre più nell’intensità odorosa.

Gli schizzi sono quasi sempre al plurale, perché sono atti di ‘fiuto’ verso
immagini di cui si coglie la scia, ma non la presenza. Eppure si ha un
qualche sentore quando la scia è falsa o cessa.
Gli schizzi non sono disegni selvaggi, proprio perché sono regolati da un
interno processo di selezione – censura.
Ma sono anche rappresentazioni colte, nel senso che devono rivelare
comunque un metodo di base e un impianto orientato flessibilmente e non
devono rivelare troppo una carica emotiva (anche se non possono non averla
perché il tratto si accelera e diviene più dinamico e deciso quando si ha
percezione di essere nella pista giusta ed invece diventa più incerto,
tremolante, privo di contorno netto, si avviluppa in linee sovrabbondanti
quando non sa da che parte andare)

Il metodo sta prevalentemente nel pensiero plastico, ossia nel disegnare
pensando alla spazialità.
La spazialità non ha un unico modo di vedere le cose reali o immaginarie che
essere siano. Esse offrono molti punti di vista, ma ve ne sono alcuni che
hanno determinato i campi dell’emergenza delle grandi differenze nelle
immagini e nello spazio.
Esse emergono dalle dimensioni del vissuto spaziale. Un’immagine la si può
vivere dall’alto, dal basso, di fronte o di lato oppure dall’esterno o
dall’interno.
Ovviamente vi sono molte situazioni intermedie, ma alto/basso, frontale
/laterale, fuori/dentro sono condizioni strutturali di base e rivelano che
usando questi approcci il pensiero che disegna è di fatto un pensiero che
esplora e conosce.
Il disegno è una forma di pensiero esplorativa e conoscitiva.



                                       17
Quindi un disegno, in termini più tecnici, può essere esplorativo e cognitivo
almeno negli elementi strutturali se pensa la pianta, l’alzato frontale e
laterale e le sezioni.
E’ ancor più esplorativo se riesce in qualche modo a rappresentare
unitariamente questi aspetti secondo un modello assonometrico ingenuo (non
quindi subito rigorosamente mensurale), ma sempre dotato di sequenza
esplorativa e cioè assonometria a schizzo che visualizza la pianta o il
basamento (o l’area apicale) e visualizza assonometricamente il fronte o lo
scorcio laterale.
Ed ancora raggiunge maggiore esplorazione se è in grado di rappresentare
l’interno con una sezione o più sezioni longitudinali, verticali e intermedie,
con metodi ingenui di trasparenza o di spaccato.

Lo schizzo colto esplora le immagini della mente, ma le esplora con metodo
seguendo i sentieri della pianta, alzato frontale e laterale e la sezione. E se la
mente non ha prodotto un’immagine di questi aspetti, la componente volitiva
interroga la mente e la induce ad esplorare aspetti non immediatamente
emersi, ma che il’metodo’ suggerisce e richiede.
Lo schizzo non è dunque una semplice annotazione rapida, ma è una
sistematica esplorazione alla ricerca di piste soddisfacenti e soluzioni
immaginarie plausibili e fattibili.

Solo allora si può osare di passare al disegno tecnico ed esecutivo, ossia al
disegno che incorpora in sé la dimensione delle misure rigorose, della
geometrizzazione e matematicizzazione convenzionale e che si pone non più
la ricerca e l’esplorazione di una possibilità, ma si pone la ricerca della
fattibilità reale e della costruttività.



Il plastico in cartoncino o lo
schizzo plastico
Non va dimenticato che in tecnologia l’immaginario è orientato
prevalentemente alla progettazione di oggetti ed artefatti tridimensionali e
quindi la rappresentazione è bene abbia anche l’esperienza 3D ossia a tre
dimensioni.
Oggi questa prospettiva è enormemente facilitata dagli strumenti digitali. La
computer grafica consente di disegnare e progettare avendo riscontri
stereometrici immediati, verificando con il rendering il risultato di un
pensiero plastico. Di questo parliamo in una sezione di questo scritto ed a
questa rimandiamo.

Talvolta però si può ricorrere ad un prodotto artigianale che usa materiali
poveri e rappresentazioni abbozzate, ma tridimensionali. Si tratta dello
schizzo plastico, esperienza rappresentativa interessante anche se oggi poco
consueta, ma molto in auge nella tradizione ottocentesca dell’Ecole
Polytecnique, propugnatrice dell’uso di modellini in cartoncino..

Un esempio molto interessante è offerto da Robert Venturi, Scott Brown and
Associates in una sequenza di modellini dal cartaceo al ligneo pubblicata in

                                       18
un’illustrazione della National Gallery Sainsbury Wing, completamento e
espansione della National Gallery di Londra9.
In essa si mostrano alcuni passaggi dai cardboard models, (ossia modellini in
cartoncino sostenuti da una strutturina in filo di ferro o bastoncini ) fino al
modello plastico formalmente compiuto che simula la forma solida reale, ma
con riduzione di scala.

Nei modellini a cartoncino le parti non strutturali. (decori, aperture che
possono essere più o meno ampie e non decisive per la struttura portante
possono essere solo disegnate a matita o penna sulle superfici cartacee
collocate sulla struttura di filo di ferro che invece sostiene elementi
importanti e strutturali.
Il pregio dei modellini a schizzo e che è possibile mutare velocemente
ipotesi progettuale e farsi un’idea intuitiva degli effetti reali possibili, è una
sorta di rendering impressivo adatto a procedere per prove ed errori e quindi
per avvicinarsi sempre più ad un’idea compiuta e convincente sul piano
progettuale.


Il disegno digitale
Ciò che connota il disegno tecnico è il carattere di precisione. Quando si
tratta di schizzo tecnico ci si preoccupa di sondare alcune idee orientanti e la
componente mensurale è relativamente poco importante, ma quando si vuole
simulare il reale e il fattibile e ci si orienta a sondare la condizione effettiva
di un artefatto che passa dall’immaginario al reale, allora lo strumento
mediatore è il disegno tecnico.
In esso la dimensione della precisione delle misure e delle quote non è
rinunciabile.

La precisione mensurale non è perseguibile se non c’è supporto di strumenti
in grado di controllare la misurazione, in modo rigoroso e certo.
Da questo punto di vista gli strumenti base che hanno verificato la precisione
delle misure nel disegno sono stati, per secoli, le squadrette, i righelli
graduati e il goniometro.

In epoca industriale questi strumenti separati si sono congiunti in una sintesi
rappresentata da una macchina per disegno e cioè il tecnigrafo.
Per tutto il periodo industriale il tecnigrafo è stata la regina delle macchine
da disegnare, assieme ai lucidi che consentivano di realizzare disegni per
sovrapposizione e sintesi.
Il tecnigrafo ha cominciato ad andare in pensione quando si è affacciato il
mondo della computer grafica che da un lato ha standardizzato alcune
operazioni di mensurazione ricorrenti e dall’altro ha condotto a programmi
di disegno sempre più sintetici, con i quali, lavorando su un settore di
grafica, in parallelo si ottengono risultati su altri settori. Ad esempio se si
lavora su un piano bidimensionale per realizzare la pianta di un disegno di
artefatto, si ottengono contemporaneamente gli alzati frontali e laterali, la
9

AMERY C. 1991
A celebration of art & architecture
National Gallery , London

                                       19
rappresentazione strutturale o in filo di ferro simulato o iron wire, la
renderizzazione che restituisce una rappresentazione realistica dell’oggetto
progettato in forma tridimensionale, la possibilità di rotazione per esplorare
l’oggetto digitale girandogli attorno, la promenade interna ed esterna e le
esplosioni assonometriche di vario tipo per vedere la struttura compositiva
dell’artefatto, inoltre si possono anche ipotizzare delle animazioni che
rendono l’artefatto in un contesto ambientato e dinamico. Ovviamente tutto
questo è più o meno possibile a seconda del tipo di programma informatico
a cui si fa ricorso. Se un programma è molto sofisticato le possibilità
rappresentative aumentano e viceversa.

Questo oggi è l’orizzonte evoluto del disegno e una scuola che insista dando
il primato alle squadrette, righelli e goniometri produce un falso culturale
grave e fa perdere tempo agli allievi con operazioni di retroguardia che
sviliscono le capacità elaborative degli allievi senza incentivare attività di
profilo più alto.
Non ha più che tanto senso perdere tempo a quadrare il foglio o impostare i
piani ortogonali perché oggi queste sono banali operazioni meccaniche.
Quello che conta è invece educare al rigore, alla creatività, alla
produttività, alla rappresentatività.

Una scuola che non insegni disegno digitale è una scuola che vende
paccottiglia e residui da soffitta.
Ciò non vuol dire che è tramontato il valore del disegno a mano libera e
dello schizzo in modo specifico. Esso è il disegno generativo e nobile, la
fonte diretta dove le immagini mentali si trasformano in immagini retiniche
per volontà e capacità del produttore stesso delle immagini mentali.
Il disegno a schizzo è garante che la parte libera, personale, generativa del
pensiero plastico e immaginativo rimane nelle mani e nella responsabilità
diretta delle persone. Pertanto in grande misura il tecnigrafo, le squadrette e
il goniometro possono in parte andare in soffitta, sostituiti egregiamente
dalle squadrette, righelli, goniometri, tecnigrafi digitali che fanno meglio e di
più sul piano riproduttivo, mentre la dimensione produttiva del disegno deve
rimanere ancorata al disegno a schizzo e ad un disegno a schizzo quanto
meno ingenuo possibile.
Antico e contemporaneo trovano così una loro forte sintesi migliorativa.
Sono le forme mediane che devono essere considerate al tramonto, in quanto
nulla aggiungono e semmai tolgono in termini di espressività.
Il disegno a schizzo aiuta a pensare 3D, ossia tridimensionalmente. Il dialogo
diretto con la mente genera originalmente immagini 3D, mentre la computer
grafica deve sviluppare la capacità di rappresentare il pensiero plastico nei
modi più rigorosi e plurimodali possibili.




CAD/CAM
I disegni digitali oggi hanno molte possibilità e versioni, ma quando sono
pensati e orientati alla progettazione rientrano tutti nella categoria del CAD,
ossia Computer Aieded Design.


                                       20
Assieme al CAD che è lo strumento operativo della produzione del disegno
progettuale, può esserci anche uno strumento di controllo e valutazione del
prodotto ‘disegno digitale’ e allora si tratta di CAE (Computer Aieded
Engineering).
Si tratta dell’analisi automatica dei progetti digitali per riscontrarvi eventuali
errori e verificare l’adeguatezza della scelta dei materiali per gli artefatti
reali, per controllare la resistenza degli spessori e, nel caso di progettazione
di stampi, l’efficienza dei punti di alimentazione, dei valori di pressione da
introdurre e della velocità del processo.
Se ci fermassimo però al solo orizzonte (peraltro assai interessante) del
CAD/CAE, resteremmo reclusi nel mondo immateriale o virtuale, mentre la
Tecnologia non si esaurisce di certo, anche nella forma avanzata, solo nella
dimensione della Trasformazione Virtuale, ma rimane ampiamente collegata
alla Trasformazione reale, e cioè materiale fatta di atomi, materia, peso e
volume.

Questa dimensione riguarda lo stesso mondo digitale, ma quel mondo
digitale che opera con la materia e la trasforma. E’ insomma il mondo della
robotica e dell’automazione.
Occorrono però delle forme mediative tra l’artefatto progettato digitalmente
e l’artefatto reale. Molto spesso, per non dire sempre, è necessario fare una
verifica su qualcosa che sta di mezzo tra il progetto e la realizzazione ossia i
modelli e i prototipi.

I modelli e stereolitografia - Esiste una lunga tradizione di modelli prodotti
nel passato anche lontano e per lo più in legno. Oggi i modelli possono
essere prodotti con l’intervento diretto del disegno informatico che
interfaccia non solo il computer che lo fa e lo visualizza, ma anche gli
strumenti digitali che trasformano il disegno in oggetto materiale, mediante
la tecnica della stereolitografia. In questo caso interviene la dimensione del
CAM (computer Aieded. Manifacturing) che può provvedere sia alla
produzione del modello che all’artefatto in serie, mediante macchine
controllate dal calcolatore.

Oggi i modelli si realizzano per lo più non in legno, ma in fibra con supporto
informatico ed è un processo piuttosto veloce, tanto che il metodo è
chiamato RP (Rapid Prototyping).

Il sistema RP legge i dati di un modello computerizzato e questo viene
scomposto dall’elaboratore in una serie di strati molto sottili, da entità
sensibilmente al di sotto del millimetro.
Le immagini relative ad ogni strato vengono inviate ad una macchina
robotica che realizza materialmente il modello utilizzando delle resine,
policarbonati, cere o altre sostanze fluido-plastiche.

Realizzato roboticamente il primo strato, si passa alla sovrapposizione di un
secondo. La procedura continua fino alla riproduzione materica di tutte le
sezioni.
Con queste metodologie le modellizzazioni stereolitografate avvengono per
lo più senza intervento manuale o di utensili né richiedono attrezzature di
fissaggio.

                                       21
Con tali metodologie è possibile realizzare modelli ricchi di particolari
interni ed esterni che le realizzazioni tradizionali non consentivano. Non
richiedono competenze molto diverse da un normale operatore di macchine
numeriche, al massimo occorre un’attenzione a problemi di sottosquadro per
alcune posizioni dei supporti.

Il polimero usato nella stereolitografia è in genere fotosensibile e si solidifica
quando viene esposto alla luce. Un raggio laser, pilotato da un dispositivo a
specchi, è orientato sulla superficie della resina e percorre la superficie
solidificandola punto per punto e fetta per fetta.
Una volta realizzato il modello esso viene estratto dal robot e solidificato
definitivamente in un forno a luce ultravioletta..

Dopo di ciò può essere anche verniciato o sabbiato o ricevere altre finiture
speciali.
Le ricerche si stanno spostando sempre più per giungere alla stereolitografia
con materiali anche più efficienti come i metalli e le polveri ceramiche10.


Le quattro rappresentazioni del
pensiero plastico
Il pensiero plastico si esprime, ossia si rappresenta sia con disegni collocati
su superfici bidimensionali che mediante la realizzazione di manufatti e
artefatti materiali o immateriali (quindi digitalizzati) ma aventi o tre
dimensioni reali o tre dimensioni simulate.
Il pensiero plastico in ogni caso è sempre un pensiero 3D, pertanto un
singolo disegno bidimensionale non può esprimere e realizzare pensiero
plastico, ma solo, e al massimo, una visione parziale del pensiero plastico.

Le assonometrie, ad esempio, sono le forme bidimensionali che meglio si
avvicinano al pensiero plastico, ma anche una sola assonometria non può
condurre alla rappresentazione del pensiero plastico. Perché non possono
essere visti tutti i punti di vista dell’artefatto rappresentato. Quindi, anche nel
caso delle assonometrie, occorre ricorrere a più punti di vista e almeno due
con una visione dall’alto e dal basso e in controcampo.
In realtà occorrono altre assonometrie con spaccato per valutare l’interno del
manufatto.
In tutto i casi possiamo dire che il pensiero plastico non può accontentarsi di
un solo punto di vista, perché il bidimensionale lo tradisce sempre.
Il pensiero plastico è sempre plurivisivo perché pensa girando attorno al
manufatto esplorato o pensato e vi entra dentro esplorando con tante visioni
quante sono quelle necessarie per cogliere tutte le differenze significative.



10

MACCHI CASSIA A. 1995
Dal progetto al modello alla produzione
In
Stileindustria anno 1 numero 2 – editoriale Domus


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Sul piano non logicotecnico, ma espressivo, il cubismo ha tentato di
esprimere il tentativo di superare i limiti della monovisione che sembrava
implicita nel supporto bidimensionale della rappresentazione. Il cubismo ha
allora abbandonato il realismo retinico e si è collocato nella plurivisione per
assemblaggio parziale di più punti di vista sintetizzati in una sola superficie
rappresentativa bidimensionale.

Pensiero plastico territoriale. – Comunque un artefatto non ha i confini
solo interni a se stesso, appartiene ad un intorno, ad un contesto e ad un
ambiente.
Anche l’esplorazione di questi aspetti fondamentali richiede lo sviluppo di
pensiero plastico e rappresentazione plastica.
Ciò comporta lo sviluppo del pensiero plastico territoriale, di cui il
vedutismo prospettico dall’alto a volo d’uccello, maturato in contesto
illuministico e settecentesco, ha rappresentato uno straordinario avvio.
I disegni tecnologici di reti, di impronta per lo più ingegneristica, come gli
acquedotti, le reti elettriche, le reti telefoniche, le reti di telefonia mobile, le
reti telematiche afferiscono alla tipologia del disegno plastico territoriale.

Con l’evolversi del pensiero ecologico e della sostenibilità si è sviluppato
anche un altro importante pensiero plastico territoriale, quello che considera
tecnicamente ciò che Commoner chiama ‘la chiusura del cerchio’ ossia il
fatto che ogni elemento di matrice naturale, dopo che è stato trasformato
tecnologicamente e ha superato il ciclo di vita come artefatto, ritorna a
stretto contatto con l’ecosfera e gli elementi naturali e allora deve essere
compatibile durante il suo periodo di attività e dopo la dismissione.
Ecco allora che, ad esempio, l’acqua naturale captata per gli acquedotti,
diventa acqua tecnologica ed entra nel pensiero plastico delle condotte, degli
impianti degli edifici e transita nelle reti fognarie e se si vuole che il cerchio
si chiuda allora l’acqua tecnologica, specie se fortemente inquinata, deve
ritornare nei corpi idrici naturali una volta depurata in modo adeguato e
quindi dopo essere passata attraverso l’ecotecnologia degli impianti di
depurazione. Solo allora correttamente potrebbe immettersi nei corpi idrici
naturali chiudendo il cerchio del processo - acqua naturale – acqua
tecnologica – acqua rinaturalizzata con processo tecnologico riconvertente –
acqua naturale.

Analogo discorso si dovrebbe fare
- per i fumi (ossia aria tecnologica) prima di immetterli nell’atmosfera
   (ossia nell’aria naturale)
- e per i suoli tecnologici (ossia contenenti additivi fisico-chimici sintetici,
   esito di attività tecnologiche) prima di essere immessi in connessione con
   il suolo naturale, capace di attività biotica.

Esistono allora quattro modalità fondamentali di pensiero plastico:

-   il pensiero esplorativo dell’intorno esterno di un
    artefatto ( rappresentazione per piani ortogonali con le
    procedure primarie della pianta, alzato frontale e        alzato laterale,
    sintetizzati nelle sequenze assonometriche che possono fare
    l’esplorazione dell’intorno mediante rappresentazioni in sequenza estesa

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fino a dare la visibilità a tutto il processo esplorativo che compie il giro
    attorno all’artefatto)
-   il pensiero esplorativo interno dell’artefatto, ossia
    presupponendo di poter andare dentro la ‘pelle dell’artefatto’ per
    coglierne gli elementi costitutivi che non sarebbero visibili e pensabili
    come costituenti strutturali al di sotto della superficie (i mezzi
    rappresentativi per fare tale esplorazione di pensiero plastico interno
    sono le sezioni, le assonometrie a spaccato, le assonometrie esplose e in
    campo digitale le promenades digitali)
-   il pensiero plastico territoriale che vede l’insieme di un artefatto esteso
    come un sito ad impiantistica complessa o con l’assetto di rete
    territoriale.
    Il pensiero plastico richiede la capacità di una visione
    ampia che quasi mai è data da situazioni e contesti normali. E’ più facile
    che sul piano percettivo si realizzi mediante voli d’aereo e si concretizzi
    in foto aeree oppure producendo panoramiche da alte torri, antenne o
    cime di montagne che consentano riprese estese. In realtà il pensiero
    plastico territoriale spesso deve integrare la non visibilità reale con una
    visibilità tecnica per essere in grado di sviluppare delle rappresentazioni
    di insieme vasto e consentire l’esplorazione di artefatti estesi sia nella
    tipologia dell’esplorazione esterna che nella esplorazione interna.
    Usando quindi le forme rappresentative a scala ampia che si sono
    ricordate per i due precedenti tipi di pensiero plastico riferiti ad artefatti
    piccoli o comunque circoscritti.
-   il pensiero plastico ecologico è un particolare tipo di
    pensiero territoriale. Dal punto di vista tecnico e delle modalità di
    rappresentazione non differisce da quello territoriale descritto in
    precedenza. Se ne differenzia fortemente per le finalità. Esso infatti è un
    pensiero plastico che pensa e rappresenta la sequenza operativa che non
    solo produce e fa funzionare un artefatto esteso su un territorio vasto, ma
    soprattutto indica, pensa, descrive, esplora, valuta i punti e contesti
    tecnologici in cui il ‘cerchio si chiude’, ossia dove l’ecotecnologia
    garantisce le situazioni in grado di esprimere la sostenibilità del ritorno
    alla rinaturalizzazione.

    Dei quattro tipi fondamentali di pensiero plastico
-   due sono mirati prevalentemente sull’artefatto
    due sono mirati sul territorio e il contesto ambientale in cui un
-
    artefatto agisce e produce rapporti di interdipendenza, ossia dove da
    topico diventa sistemico.


Il valore dei modelli
Il pensiero plastico, pur esprimendosi prevalentemente con l’uso di artifici
bidimensionali, diventa compiutamente plastico solo quando costruisce
artefatti rappresentativi a tre dimensioni, ossia produce plastici.

Il pensiero plastico ha allora bisogno di andare un po’ oltre la sola
dimensione grafica per accedere ad un campo che è del pensiero scultoreo o
modellistico.


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Abbiamo testimonianze che attestano che nell’antichità si faceva ampio uso
di plastici, anche se non sono giunti a noi se non attraverso citazioni nella
grafica e pittura di ceramiche o frammenti di affresco miracolosamente
salvati.
Sappiamo che anche il medioevo romanico faceva uso di modellini, ossia
pensiero plastico materializzato, ma è con la cultura gotica che si diffonde un
ampio uso di modellini, pur se di questi stessi non abbiamo documenti
originali, ma rappresentazioni parallele presenti sotto forma di artefatti
nell’oreficeria e nella scultura a tutto tondo o a basso rilievo.
E’ il Rinascimento che consacra l’uso dei modelli plastici e pur avendo perso
l’immensa produzione che vi fu di modelli lignei, comunque ci rimangono
numerosi esemplari autentici che ci mostrano in modo plastico come questa
pratica fosse molto in auge e come il Rinascimento abbia immesso nella
cultura occidentale una procedura fondamentale che poi si sviluppò
ulteriormente nel seicento, arrivò a forme artistiche e non solo tecniche con
la scenografia e le macchine teatrali e ebbe il suo momento di consacrazione
con la cultura illuminista fino a divenire patrimonio consueto della cultura
ingegneristica consacrata dall’industrialismo che, essendo civiltà delle
macchine, aveva più che mai bisogno di affidarsi alla transizione dal
progettato al realizzato attraverso la conferma e il controllo dei prototipi e
dei modelli plastici.
Oggi sappiamo che l’ultimo fronte della produzione di modelli ha
un’interfaccia digitale nella coppia CAD/CAM che consente di produrre
modelli di grande precisione attraverso la procedura di stereolitografia e la
prototipizzazione rapida.

Dobbiamo anche ricordare un passaggio importante consacrato e diffuso
anche con l’autorità di Galileo: gli esperimenti non sono più di tipo logico-
formale ed argomentativo di tipo verbale, sono sperimentali non solo perché
sottoposti al vaglio, ma perché verificati in applicazioni in contesti artificiali
e materiali costituiti da modellini di strumentazioni:
sono così indagate le leggi della caduta dei gravi con modelli di piani
inclinati, del pendolo con ricostruzioni semplificate che consentano di avere
modelli per verifica dell’isocronismo, ecc.

Non è il caso di diffondersi a descrivere le procedure di realizzazione di
modellini, perché occuperebbero troppo tempo, ma bisogna sottolineare
l’irrinunciabile importanza di far fare agli allievi questa esperienza, senza la
quale il pensiero       plastico manca di una modalità di espressione
fondamentale e non è dotato di uno strumento operativo concreto.

Forse invece è opportuno spendere due brevi parole               sulle tipologie
principali di modelli o plastici:



-      modelli isomorfi: rappresentano in modo plastico un artefatto o un
       contesto artificiale in modo visibilmente imitativo delle forme
       dell’artefatto reale. I plastici degli architetti e degli ingegneri in
       genere sono di questo tipo.
       I modellini-giocattolo delle automobiline, moto, aerei e veicoli in
       genere, passione dei collezionisti, sono per lo più di questo tipo.

                                       25
I modelli isomorfi sono adatti a sviluppare il pensiero plastico mirato
    sulla comprensione della ‘forma’ dei manufatti

-   modelli analoghi: se io metto in piedi due grossi libri di altezza e
    volume eguali e sopra vi stendo orizzontalmente un foglio di cartone
    pari alla distanza esterna dei due libri-contrafforti, ottengo un
    modello analogico di ponte.
    Un modello analogico non somiglia in niente all’artefatto reale né per
    materiali usati né per funzionamento perché non opera nelle stesse
    condizioni dell’artefatto reale, ma serve per capire la struttura e le
    dinamiche fisiche dell’artefatto modellizzato. Serve per capire alcuni
    ‘comportamenti’ dell’artefatto nella sua versione simulata. Presenta
    una vaga forma che richiama ‘analogamente’ l’artefatto di
    riferimento, ma soprattutto serve ad evidenziare come si tengono
    insieme le parti costitutive dell’artefatto divenendo un insieme
    interagente in modo congruo (ossia si fa struttura) e come funziona
    rispetto alle sollecitazioni e dinamiche fisiche che agiscono su di lui.

    modelli omologhi: con questo tipo di modelli si vuol mettere in
    evidenza la logica di similarità tra modello e artefatto reale non tanto
    per forma e capacità di tenuta alle sollecitazioni, ma per le leggi
    scientifiche e logiche a cui fa riferimento. E’ il tipo di modello meno
    realistico in quanto si rifà alle categorie astratte e formali, logiche e
    matematiche dell’artefatto di riferimento.
    Un esempio significativo è dato dal tunnel del vento usato per
    studiare la forma aerodinamica dei veicolo, auto o aerei che siano.
    Nella realtà non esiste un tunnel del vento, ma esiste il vento reale e
    l’azione dinamica dell’aria sui corpi in movimento. Il tunnel del
    vento prende in considerazione la logica della dinamica dell’aria e la
    applica in un modello che non ha niente di realistico, ma evidenzia
    una similarità rispetto ad un aspetto funzionale e logico.
    I modelli scientifici in genere sono omologhi.
    Ad esempio quando Galileo volle modellizzare l’isocronismo del
    pendolo ricorse ad un modello. La realizzazione materiale di un
    artefatto materiale e strumentale di pendolo o, per citare un altro
    caso, di piano inclinato è il modello omologo dell’isocronismo e della
    caduta dei gravi.
    Il modello omologo non riproduce realisticamente una situazione di
    caduta o sollevamento, ma semplifica enormemente la
    rappresentazione della realtà, consentendone un’interpretazione
    rigorosamente logica e matematica. Poiché i modelli omologhi sono i
    più difficili, forse può essere utile fare un altro esempio.
    Se si volesse capire come agisce la forza di gravità in una struttura
    che abbia più livelli di altezza (es. un edificio a molti piani), si può
    fare una struttura deformabile composta da parti sovrapponibili e
    collegate.
    In concreto si possono prendere alcune lamine metalliche e saldarle
    in modo che formino un nastro a cerchio o ellissoide. Tre o quattro di
    questi nastri si sovrappongono uno all’altro saldandoli nella parte
    mediana e superiore. Il primo viene saldato al piano di appoggio e i
    successivi sono fissati fra loro nella zona mediana del sovrastante.

                                   26
In tal modo si ottiene una struttura composita, sviluppata in altezza.
       Essa é costituita da nastri metallici collegati e da vuoti.
       Se si mette un peso sulla parte superiore dell’ultimo nastro-anello,
       tutti i nastri si deformano e si schiacciano.
       Se il peso lo metto solo nella parte sottostante dell’ultimo anello più
       alto, tutti gli anelli si schiacciano, ma la parte superiore dell’ultimo
       anello si schiaccia meno, perché non sollecitata direttamente.
       Se il peso lo metto nell’ultimo anello più basso e nella parte
       sottostante a livello del piano di appoggio, l’intera struttura non
       subisce deformazioni, perché l’oggetto pesante agisce sulla superficie
       del piano di appoggio e non interessa la struttura superiore.
       Se il peso lo metto in un anello mediano, gli anelli sottostanti si
       deformano, ma la parte soprastante non presenta deformazione
       significativa.
       Un altro bell’esempio di modello omologo è la pila di Volta. Essa
       non è l’elettricità, ma è un modello in grado di produrla e dimostrarla
       esistente.
       I modelli omologhi servono pertanto a studiare un aspetto logico o
       scientifico o matematico, ma hanno ben poco di simile sia alla forma
       che alla struttura reale di un edificio o di un fenomeno, mentre la
       logica dell’azione della forza di gravità è ben rappresentata
       nell’esempio del modello a nastri metallici.
       I modelli omologhi sono i più difficili da spiegare e soprattutto
       inventare e quindi non vanno proposti senza un esercizio preparatorio
       alle capacità plastiche di tipo meno complesso (a meno che non
       emergano spontaneamente dagli allievi e allora bisogna accogliere
       con grande gratificazione l’evento e spiegare di quale natura plastica
       sia dotato).
       Comunque gli studenti vanno abituati a pensare plasticamente,
       -        dapprima usando i modelli isomorfi (hanno la stessa forma del
                reale),
       -        poi i modelli analoghi (hanno la struttura simile al reale per
                renderli sensibili,
       -        appena sarà possibile, pensare plasticamente anche le leggi
                fisiche e di geodinamica applicata agli artefatti. Allora si
                introdurranno gradualmente i modelli omologhi.
                I modelli omologhi non somigliano minimamente alla forma
                dell’artefatto di riferimento, non ne esprimono neppure la
                funzione, sono piuttosto la rappresentazione concretizzata del
                concetto astratto che dà senso e logica ai vincoli e alle
                logiche rigorose di un artefatto, è una rappresentazione
                materiale o percepibile di concetti astratti, formali e
                scientifici.


Il pensiero visivo-plastico del dettaglio:
dal piccolo al nanotecnologico
Il disegno è un processo di conoscenza del mondo mentale e del mondo
reale. Fa da ponte conoscitivo fra le due modalità di produrre e utilizzare
immagini ed è strumento per elaborare – trasformare le immagini retiniche,

                                      27
ma è anche mezzo per rettificare le immagini mentali e portarle a farsi
dialoganti, compatibili e fattibili rispetto al mondo reale ed esterno.

La capacità di analisi del mondo mentale e del mondo esterno certamente
conduce alla condizione di produrre anche immagini integrate e unitarie, ma
non poche volte il processo conoscitivo e progettuale ha bisogno di
soffermarsi su aspetti parziali, settoriali e particolari.
Esiste allora la necessità di pensare e rappresentare il dettaglio, sapendo che
non poche volte il dettaglio è tutt’altro che un fenomeno marginale, piuttosto
caratterizza l’insieme di un artefatto e gli attribuisce dotazioni fondamentali.
Il dettaglio in questo caso diventa una sorta di artefatto dentro l’artefatto con
una sua quasi autonomia forma e funzione.

Saper pensare quali sono i contorni e le aree di pertinenza del dettaglio è un
pensiero che giostra bene le capacità analitiche e sintetiche. Anche nella
scelta del dettaglio la rappresentazione deve essere adeguata, ossia
necessaria e sufficiente.
La capacità di pensare al dettaglio oggi è molto facilitata in quanto tutti sono
‘istruiti’ dal linguaggio fotografico e filmico all’interno dei quali svolge un
ruolo determinante la tecnica della zoomata.
La zoomata è proprio la scelta della riduzione di campo visivo per mettere in
evidenza un particolare e un dettaglio che cessano in quel momento di essere
tali e diventano semmai oggetto in senso pieno e proprio.
Il linguaggio filmico ha elaborato una articolazione sapiente dei rapporti tra
intero e parte con le distinzioni in sequenza dove possono succedersi
momenti di visione ampia e di visione ristrettissima, secondo il ben noto
repertorio: campo lunghissimo, campo lungo, panoramica, campo
americano, campo medio, primo piano, primissimo piano, dettaglio,
zoomata in profondità e dissolvenza.
Anche nel mondo premoderno i grandi progettisti ricorrevano al disegno di
dettaglio per focalizzare momenti significativi dell’artefatto che volevano
realizzare.
Oggi, grazie alla consuetudine filmica, è possibile ricorrere maggiormente al
pensiero plastico di dettaglio, ma non si tratta di operazione semplice.
Occorre allora educare alla scelta pertinente ed utile e non favorire processi
dispersivi di indagine grafica parcellizzata e frammentata.
Occorre che il disegno e le rappresentazioni d’insieme e di dettaglio siano
orientati a costruire un’organica sintassi della comunicazione
rappresentativa, con le sue scansioni di paratassi, ipotassi, ossia di
coordinazione delle parti o di distinzione gerarchica delle parti.
Questa dimensione diventa ancor più importante in un contesto di società
infoindustriale. Infatti la presenza massiccia di circuiti digitali e integrati in
modo progressivo porta al fenomeno diffuso della miniaturizzazione spinta
in forma incrementale.
I manufatti contenenti microprocessori e circuiti integrati riguardano un
mondo tecnologico reale, ma sempre più lontano dalla visione retinica
umana. Si tratta di tecnologia esistente, ma non visiva, propriamente
tecnologia avisiva, ma che proprio per questa sua caratteristica ha bisogno di
una nuova visibilità. Essa può venire dal mondo della rappresentazione e del
disegno, ovviamente con tutta prevalenza rispetto al disegno digitale.


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La miniaturizzazione digitale è comprensibile e comunicabile se si diffonde
una pratica di disegno in grado di rappresentare il miniaturizzato e di far
capire la natura sofisticata ed efficace digitalizato a scala ridotta e
ridottissima. E’ soprattutto in questo campo che va applicata la metodologia
dello zoom e delle procedure maturate in campo fotografico e filmico.
Nella progettazione di artefatti con componentistica elettronica è
impensabile la progettazione e la comprensione degli infoggetti, ciò implica
la gestione di particolari e microdettagli.

Il discorso sul disegno con orizzonte miniaturizzato si fa ancora più
significativo quando si consideri che il mondo robotizzato costituisce il
versante materiale della dimensione digitale e immateriale della tecnologia
dell’infosocietà.
Se i robot, soprattutto nella versione della fabbrica automatizzata e
robotizzata, mantengono una volumetria notevole e cioè macroscopica, ora si
affaccia un nuovo versante della tecnologia rappresentato da robot sempre
più piccoli, piccoli al punto di entrare nella categoria della tecnologia
avisiva. Si tratta, per usare una terminologia sintetica, delle nanotecnologie.
Un campo di applicazione considerato subito di grande applicabilità e utilità è
quello della microchirurgia e della microdiagnostica in grado di entrare nel corpo
umano con nanomacchine poco invasive.
Ma in realtà la nonotecnologia si annuncia come campo assai fertile in moltissimi
settori e, se vogliamo educare le nuove generazioni al contesto di vita in cui
effettivamente esprimeranno la loro esistenza, non possiamo eludere l’educazione al
miniaturizzato e ancor più al nanotecnologico, con i corrispettivi apprendimenti in
campo di disegno e rappresentazione.


Gli artefatti ‘ufficiosi’ e strumentali
In tecnologia il disegno è sempre in funzione degli artefatti, ma non sempre ciò che
si progetta appare come artefatto finale, vi sono numerosi artefatti che precedono la
realizzazione dell’artefatto o sono collaterali o complementari all’artefatto.
Non mi riferisco tanto ai modelli e ai plastici che non confluiscono materialmente
all’artefatto finale, ma pur sempre rivelano un riferimento per la progettazione o
visualizzazione dell’artefatto in se stesso, ma mi riferisco
- agli stampi,
- alle casseforme,
- ai calchi
- alle gettate
- ai casseri
- alle matrici per la riproduzione in serie.

Anche gli elementi elencati in precedenza sono artefatti, ma non appaiono quasi mai
per i destinatari-utenti degli artefatti. Eppure sono indispensabili per realizzare
quegli artefatti nel cui processo realizzativo siano richieste una fusione e una colata.
Anche questi pre-artefatti o artefatti strumentali richiedono progettazione, quindi
disegno e disegno in genere molto accurato, certamente non di livello inferiore
all’artefatto finale.
Anzi si deve dire che l’artefatto finale non poche volte viene progettato e disegnato
in un certo modo proprio perché l’uso degli stampi impone alcune condizioni o
vincoli come ad esempio il problema di non avere effetti da sottosquadro, ossia
cavità o incisioni profonde che formino un angolo acuto con il piano da cui
derivano e in cui affondano.

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Se si produce un sottosquadro il materiale fuso o colata non solo fatica ad andare in
un anfratto così ramificato, ma una volta solidificato non consente di estrarre il
manufatto dallo stampo stesso, in quanto si forma una parte rigida incistata e non
estraibile se non rompendola..
Ecco allora che il disegno dell’artefatto progettato non deve considerare condizioni
da sottosquadro oppure deve aggirare il problema del sottosquadro con una
rotazione o frazionamento dello stampo tale da non impedire l’estrazione
dell’artefatto solidificato dentro lo stampo ad operazioni concluse. di fusione o
colata.
E’ chiaro che la capacità di disegnare gli artefatti strumentali in funzione della
corretta produzione non è una questione minore del disegno tecnico.
Come pure non è questione minore quella di progettare e disporre in modo rigoroso
i ponteggi, le centinature e le impalcature quando si deve produrre un artefatto
architettonico o comunque di dimensioni medioestese ed estese..



Le foto e i filmati tecnici
Un ultimo cenno, last but not least come si dice, va ai sistemi di rappresentazione
legati alle procedure fotografiche e dei filmati.
La questione diventa sempre più importante non solo perché è uno dei sistemi
rappresentativi più ricorrenti nella nostra società, ma anche perché con la diffusione
delle macchine fotografiche e videocamere digitali si rende possibile un’interfaccia
friendly con i computer e quindi l’azione sul materiale digitalizzato pure in ottica
progettuale.

Va anche sottolineato che la modalità di rappresentare gli artefatti più antica e
consolidata è quella della pianta, dell’alzato frontale e dell’alzato laterale.
Bene: in molti casi è possibile realizzare rappresentazioni rigorose non mediante
disegno e grafica, ma mediante foto e filmati, ovviamente con il vincolo che le
riprese siano rigorosamente zenitali, isomorfe di scala (cioè con costanza di asse di
focalizzazione) e con un’impostazione concettualmente impostata su una sequenza
di piani ortogonali.
Questo aspetto è importante anche perché sempre più gli artefatti possono stare sul
mercato se vengono ben rappresentati e la buona rappresentazione è quella in grado
di offrire una rigorosa illustrazione ed informazione.

Le foto e i filmati di tipo tecnico sono molto adatti nella compitazione di cataloghi,
dépliant o CD illustrativi dei prodotti soprattutto ad uso di operatori, tecnici,
imprenditori e responsabili commerciali o clienti di livello culturale elevato.

Non possiamo non fare cenno su un sistema di rappresentazione che oggi ha molta
più diffusione in campo tecnico dopo lo sviluppo di forme semplificate di tipo
digitalizzato e cioè l’animazione.
L’animazione è una tecnica rappresentativa in grado di far descrivere, progettare e
problematizzare un artefatto nella sua prospettiva dinamica.
L’animazione è proprio un ottimo strumento per simulare il funzionamento, gli
stadi e le fasi che un artefatto può avere quando l’artefatto vada considerato come
processo e non come prodotto colto in un istante chiuso.
Di fatto l’animazione consente di introdurre tecniche e linguaggi filmici nella
gestione tecnica degli artefatti, senza ancora dover realizzare l’artefatto in senso
proprio.
Le animazioni consentono pertanto esperienze di prototipi simulati.



                                         30
Altro discorso è quello rivolto a foto e filmati di tipo emozionale o estetico come
prevalentemente avviene in campo pubblicitario. Questo è un altro importante
campo che interessa sempre la rappresentazione tecnica pur se non è direttamente
rivolta alla produzione e informazione di artefatti. Semmai considera effetti alone
sugli artefatti a scopi di marketing e di vendita.
Tale settore della rappresentazione tecnica esula da quello che volevamo qui
considerare, anche se costituisce un campo importantissimo dei sistemi di
rappresentazione.




CONCLUSIONI ?
Il pensiero plastico, come si spera di aver evidenziato, è modalità importante
dell’intelligenza umana. Esso richiede un articolato linguaggio specifico e
questo riguarda il disegno e i sistemi di rappresentazione.

La casistica dei sistemi di rappresentazione è assai vasta, ma alcune modalità
di rappresentazione appaiono ineliminabili, per cui (in un sistema formativo
che voglia dare rilevanza alla tecnologia), tali modalità di rappresentazione
devono essere considerate e sviluppate.
La natura ampia di tale forma di conoscenza ed elaborazione di conoscenza
costituisce una cultura, ossia un sistema complesso mediante il quale le
persone esplorano il mondo e le dinamiche della mente, codificano le
conoscenze ed elaborano nuovi processi, introducendo nuovi comportamenti
e confermando comportamenti già esistenti, in una visione ecosistemica in
cui l’intero ambiente inteso come ecospazio, viene colto e vissuto in modo
coordinato, pur avendo strumenti per indagare, progettare, gestire modificare
i grandi campi ecosistemici del biospazio, tecnospazio e sociospazio.

Che il disegno e i sistemi di rappresentazione possano costituire fattori
significativi per promuovere un’ecologia della mente, credo che nelle cose
qui dette possa essere stato se non descritto in modo esauriente, almeno colto
in modo intuitivo.
Ma per rendere più esplicito quest’ultima questione ovviamente
occorrerebbe argomentare di più e più a fondo. Ma non è il caso.
Ci basti un’idea primaria o abbozzata. O meglio uno schizzo.


                                                         5 dicembre 01




                                        31
Bibliografia

AMERY C. 1991
A celebration of art & architecture
National Gallery, London

BASSIGNANA P.L.
L’iconografia di Valturio in
In
ID
Le macchine fantastiche di Valturio
U. Allemandi 1988

ITALO CALVINO 1965
Un segno nello spazio
In
Le cosmicomiche
Einaudi 1965

CORTI B. (a cura di) 1991
Archeologia industriale
ICMAI – Il coltello di Delfo, Brescia

DE FUSCO R. 2001
Trattato di architettura
Laterza, Roma-Bari
Con attenzione per il cap. Terzo ‘Il disegno’ p. 136- 193.

LEMOINE B. 1993
Architettura e ingegneria come professioni
Jaca Book, Milano

MACCHI CASSIA A. 1995
Dal progetto al modello alla produzione
In
Stileindustria anno 1 numero 2 – editoriale Domus

MAGNAGO LAMPUGNANI V. E MILLON H. 1994
Rinascimento. Da Brunelleschi a Michelangelo.
Bompiani, Milano

MALDONADO T. 1992
Reale e virtuale
Feltrinelli, Torino

G. SCHMITT 1998
Information architecture.
Basi e futuro del CAAD
Testo & Immagine, Torino.

WRIGHT F.LL. 1963
Testamento
Einaudi, Torino p. 20-21




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  • 1. TECNOLOGIA E DISEGNO: IL SENSO CULTURALE OGGI Gabriele Righetto Centro d’Ateneo di Ecologia Umana – Università di Padova Una specie che fa segni. Lo scenario di Italo Calvino L’atto del disegnare è un gesto arcaico e primordiale: lasciare traccia nel mondo esterno del mondo interno: la mente che scrive la sua conoscenza su fattori esterni e materiali. Questa capacità primordiale ha avuto un’enorme sviluppo ed ha imboccato due rivoli fondamentali: quello della rappresentazione e quello della scrittura. Anche se è assai probabile che la forma rappresentativa sia vissuta a lungo assieme a quella segnica in senso puro. Ce lo testimonia il fatto che tra le scritture più antiche il fenomeno degli ideogrammi e geroglifici, ossia delle scritture supportate da rappresentazioni stilizzate, sono presenti in grandi culture antiche come quella cinese ed egiziana. Educare al disegno oggi significa occuparsi dei sistemi rappresentativi attuali, ma non disdegnando la formazione alla cultura dei segni in generale e quindi avendo sensibilità anche alle fonti lontane del disegno. Questa capacità complessa di leggere il fenomeno dei segni, con dimensioni metastoriche e metaspaziali, è presente in modo splendido in un racconto delle Cosmicomiche di Italo Calvino, denominato proprio ‘Un segno nello spazio’. Ho trascritto alcuni stralci significativi che consentono non solo di cogliere la genialità narrativa dello scrittore, ma anche la sua capacità di teorizzare le problematiche dei segni in forma narrante. Gustiamoci dunque questo approccio sapientemente narrativo-teorico collocato in un fondale cronologicamente lontanissimo, quando il Sole compieva la sua rivoluzione intorno alla Galassia in circa duecento milioni di anni e un essere, Qfwfq, forma primordiale di esistente, tentava di dar senso al suo esistere, in uno scenario abissalmente metafisico: ‘ .. io una volta passando feci un segno in un punto dello spazio, apposta per poterlo ritrovare duecento milioni di anni dopo, quando saremmo ripassati di lì al prossimo giro. Un segno come? E’ difficile da dire perché se vi si dice segno voi pensate subito a qualcosa che si distingua da un qualcosa, e lì non c’era niente che si distinguesse da niente; voi pensate subito a un segno marcato con qualche arnese oppure con le mani, che poi l’arnese o le mani si tolgono e invece il segno resta, ma a quel tempo arnesi non ce n’erano ancora, e nemmeno mani, o denti, o nasi, tutte cose che si ebbero 1
  • 2. poi in seguito, ma molto tempo dopo. La forma da dare al segno, voi dite non è un problema perché, qualsiasi forma abbia, un segno basta serva da segno, cioè sia diverso oppure eguale ad altri segni. Anche qui voi fate presto a parlare, ma io a quell’epoca non avevo esempi a cui rifarmi per dire lo faccio uguale o lo faccio diverso, cose da copiare non ce n’erano, e neppure una linea, retta o curva che fosse, si sapeva cos’era, o un punto, o una sporgenza o una rientranza. Avevo intenzione di fare un segno, questo sì, ossia avevo l’intenzione di considerare segno una qualsiasi cosa che mi venisse fatto di fare, quindi avendo io, in quel punto dello spazio e non in un altro, fatto qualcosa intendendo di fare un segno, risultò che ci avevo fatto un segno davvero. Pensare qualcosa non era mai stato possibile, primo perché mancavano le cose da pensare, e secondo perché mancavano i segni per pensarle, ma dal momento che c’era quel segno, ne veniva la possibilità che chi pensasse, pensasse un segno, e quindi quello lì, nel senso che il segno era la cosa che si poteva pensare e anche il segno della cosa pensata cioè di se stesso …. Era come un nome, il nome di quel punto, e anche il mio nome che io avevo segnato in quel punto, insomma era l’unico nome disponibile per tutto ciò che richiedeva un nome. … e mi misi a fare ipotesi (..) su teorie secondo le quali un dato segno doveva essere necessariamente in un dato modo, o procedendo per esclusione provavo a eliminare tutti i segni meno probabili per arrivare a quello giusto, ma tutti questi segni immaginari svanivano con una labilità inarrestabile perché non c’era quel primo segno a far da termine di confronto. ---- in un punto che doveva essere proprio quel punto, al posto del mio segno c’era un fregaccio informe, un’abrasione nello spazio slabbrata e pesta. … Lo spazio, senza segno, era tornato una voragine di vuoto, senza principio né fine, nauseante, in cui tutto – me compreso – si perdeva. … la cancellatura era la negazione del segno, e quindi non segnava, cioè non serviva a distinguere un punto dai punti precedenti e seguenti. .. i segni servono anche a giudicare chi li traccia, e che in un anno galattico i gusti e le idee hanno tempo di cambiare, e il modo di considerare quelli di prima dipende da quel che viene dopo, insomma avevo paura che quello che ora poteva apparire un segno perfetto, tra duecento o seicento milioni di anni mi avrebbe fatto fare brutta figura. Invece nel mio rimpianto, il primo segno (..) doveva contenere qualcosa che a tutte le forme sarebbe sopravvissuto, cioè il fatto di essere segno e basta. --- L’idea di marcare con dei segni così com’era venuta a me e a Kgwgk, l’avevano avuta in tanti, sparsi su miliardi di pianeti d’altri sistemi solari, e continuamente m’imbattevo in uno di questi cosi, o un paio, o addirittura una dozzina, semplici ghirigori bidimensionali, oppure solidi a tre dimensioni (per esempio, dei poliedri), o anche roba messa su con più 2
  • 3. accuratezza, con la quarta dimensione e tutto. Fatto sta che arrivo al mio segno, e ce ne trovo cinque, tutti lì. E il mio non son buono a riconoscerlo. E’ questo, no è quest’altro, macché, questo ha l’aria troppo moderna, eppure potrebbe essere anche il più antico, qui non riconosco la mia mano, figuriamoci se a me veniva in mente di farlo così…E intanto la galassia scorreva nello spazio e si lasciava dietro segni vecchi e segni nuovi e io non avevo ritrovato il mio.1 Iconomachia e Iconocrazia: o Iconocultura? L’atto del produrre immagini non ha avuto sempre vita facile, anche se i primordi della cultura della nostra specie sono splendidamente testimoniate nelle pitture rupestri e la cultura delle immagini ha avuto il contributo di grandi personalità e grandi testimonianze di specifiche culture dell’immagine, vi sono state pure situazioni contrarie o ostili alle immagini e il fenomeno va sotto la voce dell’iconoclastia. Le dottrine iconoclaste si sono espresse tra il sec VII e IX (725-842 ca) nell’impero bizantino provocando tensioni politiche e feroci persecuzioni. Vi è un rigorismo anche nel primo Cristianesimo, fedele ai divieti dell’Antico testamento che è sostanzialmente anticonico: Origene, Ireneo, Eusebio di Cesarea ne sono espressioni eloquenti, mentre Basilio e Gregorio Magno riconoscevano alle immagini un valore didattico e catechetico. Il culto universale era la croce, la più antica forma di venerazione di un’immagine. Soprattutto in oriente, secondo il platonismo dominante, la stessa immagine era riguardata come il luogo della presenza misteriosa di un archetipo che comunicava qualche cosa della sua grazia e potenza. Nel 730 Leone III l’Isaurico ordinò la distruzione di tutte le immagini facendo dell’iconoclastia la dottrina ufficiale dell’impero. Il figlio Costantino V Copronimo convocò il concilio di Hieria per approfondire la giustificazione teologica del problema. Secondo gli iconoclasti la rappresentazione dell’umanità di Cristo avrebbe portato al nestorianesimo (ossia alla teoria secondo la quale Dio è formato da due persone connesse attraverso un’unione puramente morale), mentre una rappresentazione disincarnata intesa a significare la divinità di Cristo avrebbe peccato di monofisismo (che negava la doppia natura di Cristo, per sostenere che la natura divina ha assorbito quella umana). Il vero culto consisterebbe nel coltivare nel proprio cuore le immagini di Cristo e dei santi, imitandoli nella vita, mentre la presenza di 1 Italo Calvino Un segno nello spazio In Le cosmicomiche Einaudi 1965 3
  • 4. Cristo va cercata nell’eucarestia e non nelle immagini. Nicea ripristinò il culto delle immagini (787), ma una ripresa iconoclasta si ebbe fra 813 e 842. Nel medioevo l’iconoclastia serpeggiò nel pensiero ereticale. E in oriente la vittoria del partito delle icone influenzò l’arte bizantina e russo-ortodossa. Ampie sacche di posizioni iconoclaste persistono all’interno del fondamentalismo islamico e in ogni caso l’arte figurativa islamica segnala un diffuso divieto per il figurativo e ancor più per la scultura figurativa. Nell’Islam l’iconomachia ossia il contrasto per il culto delle immagini non deriva dal Corano ma piuttosto dalla stretta osservanza del primo dei 10 comandamenti (‘Non avere altri dei di fronte a me’). Esso si applica essenzialmente ai manufatti religiosi e ai monumenti, mentre l’architettura secolare permette delle eccezioni a questa norma. Il rifiuto dell’arte figurativa ha incitato i Musulmani ad esplorare alcuni sistemi geometrici assai complessi (decorazioni a traforo con graticci di geometria molto elaborata, motivi a forme stellari assai complessi, arabeschi, mosaici articolatissimi ecc.). Si può tranquillamente dire che la cultura mondiale ha avuto, soprattutto nel medioevo, un alto contributo della cultura araba per lo sviluppo della geometria e dei sistemi rappresentativi geometrici. Quindi è un po’ difficile dire che l’iconomachia sia stata nettamente la nemica dello sviluppo dei sistemi rappresentativi e di disegno, perché invece paradossalmente le culture iconoclaste o comunque iconomache, hanno dato un alto contributo allo sviluppo dei sistemi rappresentativi informali, astratti e geometrici, forse per compensazione alla chiusura al mondo rappresentativo realistico e naturalistico. Anche se questo è a sua volta molto poco sostenibile se pensiamo a quella straordinaria tecnologia costituita dai tappeti molto diffusa nel mondo islamico, dove la stilizzazione di animali e vegetali costituisce la fonte ispiratrice di decori favolosi, supportati da tecniche di intreccio e di nodi che poggiano su sistemi progettuali e di design dei cartoni di base afferenti a forme molto evolute e raffinate. Sul tema delle culture iconofobe e iconofile non possiamo non rilevare che l’attuale società infoindustriale, soprattutto nella sua dimensione multimediale, è giunta ad un potere delle immagini così importante e diffuso che si può parlare di potere delle immagini e sfondo patologico dell’uso di esse, ossia si può parlare di iconocrazia e iconomania. Poiché siamo in presenza di eccessi, spesso accompagnati da uno scarso uso consapevole degli stessi, si deve evidenziare la necessità del rilancio di una cultura del disegno e delle rappresentazioni, ossia di una ponderata iconocultura. L’emergere del disegno tecnico e dei plastici Se il medioevo è stato attraversato da movimenti iconoclasti e da problemi di rappresentazione, il mondo classico era invece denso di presenze figurative e di manifestazioni di disegno. Anzi nei governanti vi era consapevolezza che 4
  • 5. con le immagini era possibile indurre maggiore influenza sul popolo e si poteva suscitare un alone magico sul potere stesso. Dal punto di vista strettamente tecnico, non mancano testimonianze che attestano quanto gli strumenti della pianta, alzato frontale e laterale fossero presenti nel mondo antico egiziano, grecolatino e del Vicino Oriente2. In molte tombe di civiltà lontane sono state rinvenuti modelli di case e templi e tutto lascia supporre che questi fossero prodotti votivi, ma attestano anche l’esistenza di pratiche e produzioni di modelli plastici. E tutto questo induce a pensare all’esistenza di un diffuso uso di disegno tecnico anche nell’antichità, di cui non rimane traccia da un lato per la precarietà e degradabilità dei materiali con cui si realizzavano i prodotti rappresentativi in forma tecnica e per l’abitudine a non conservare troppo a lungo tali prodotti quando gli artefatti reali da tempo erano stati portati a compimento concreto. Per quanto riguarda i disegni tecnici, esistono testimonianze assai rilevanti relative alla cultura gotica che è il punto di riferimento più diretto per la cultura moderna. Inoltre l’esplosione dell’architettura e dei manufatti di grande pregio, compresi quelli in argento e oro, in epoca gotica, hanno come parallelo un grande impulso all’attività del disegno e potremmo dire del disegno moderno, perché dal punto di vista tecnico il mondo moderno trova le sue fondamentali radici nel contesto Gotico. Il contesto Gotico non sviluppa solo una rinnovata eccellenza del disegno tecnico, ma anche avvia una pratica molto più consueta della rappresentazione del pensiero plastico mediante modelli. Non si deve proprio sottovalutare che l’incremento qualitativo dell’oreficeria contribuisce all’evoluzione delle tecniche di costruzione di modelli. Infatti l’oreficeria conduce ad un’aumentata capacità di produrre artefatti in forma miniaturizzata. Tra le forme miniaturizzate dall’oreficeria un posto non minore è occupato dall’architettura che diviene tema per prodotti orafi come portagioie, scatole, contenitori che simulano grandi edifici. Sempre in epoca gotica si ha il formidabile emergere degli orologi meccanici che attestano l’esistenza di accurati disegni tecnici necessari per poter controllare la realizzazione di ingranaggi decisamente miniaturizzati. Certo si deve aspettare il 1344 perché il padovano Jacopo Dondi detto dell’Orologio (nome che diventerà patrimonio della famiglia) realizzi il primo orologio meccanico in senso compiuto. Ma il risultato era l’esito di molti altri avvicinamenti tecnici (supportati da disegni e modelli) se lo stesso Dante nel Paradiso della Comedia fa cenno ad elementi di orologio meccanico: “indi come orologio, che ne chiami nell’ora che la sposa di Dio surge a mattinar lo sposo perché l’ami, che l’una parte e l’altra tira ed urge, 2 I progetti della tomba di Ramesse IV e del tempio di Ghorab sono rinvenibili al Museo Egizio di Torino e All’University College of London. So entrambi illustrati in MILLON H.A. I modelli architettonici nel Rinascimento In Magnago Lampugnani V. e Millon H. 1994 Rinascimento.Da Brunelleschi a Michelangelo. Bompiani, Milano 5
  • 6. tin tin sonando con sì dolce nota, che il ben disposto spirto d’amor turge, così vid’io la gloriosa ruota muoversi …. [canto X v. 139-146] Il Rinascimento si pone come grande momento rinnovativo, ma in realtà si muove in logica continuativa con le conquiste tecniche apportate dal mondo gotico e le perfeziona. Il disegno tecnico, soprattutto in architettura assume aspetti formali e funzionali più compiuti e si affianca alla pratica di costruzione di modelli lignei, strumento fondamentale per portare a compimento i progetti. Sul ruolo dei modelli plastici parlano con chiarezza personaggi centrali della cultura tecnica rinascimentale come Leon Battista Alberti o si tramanda come si lavorasse con strumenti tecnici adatti al pensiero plastico ad esempio nel cantiere di Filippo Brunelleschi. Nel libro De re aedificatoria Alberti precisa che “l’architettura nel suo complesso si compone del disegno e della costruzione. Quanto al disegno, tutto il suo oggetto e il suo metodo consistono nel trovare un modo esatto e soddisfacente per adattare insieme e collegare linee ed angoli, per mezzo dei quali risulti interamente definito l’aspetto dell’edificio. […] Né il disegno contiene in sé nulla che dipenda dal materiale; bensì è tale da potersi riconoscere come invariato in più edifici, nei quali si riscontri immutata un’unica forma, nei quali cioè le parti che li costituiscono, la collocazione e l’ordinamento di ciascuna di esse corrispondano esattamente tra loro nella totalità degli angoli e delle linee. Si potranno progettare mentalmente tale forme nella loro interezza prescindendo affatto dai materiali [….] L’idea, essendosi formata nella mente, era imperfetta e poteva trovare la propria forma conseguente solo attraverso l’esame, la valutazione e le modifiche attuabili mediante i disegni. Questi stessi poi dovevano essere studiati, giudicati e migliorati mediante i modelli, approssimando così infine l’espressione all’idea”. L’Alberti rivela anche le fragilità del disegno tecnico: “…molto frequentemente mi è venuto fatto di concepire opere che a tutta prima mi parevano lodevolissime, invece una volta disegnate, rivelavano errori, e gravissimi, proprio in quella parte che più mi era piaciuta, tornando poi di nuovo con la meditazione su quanto avevo disegnato, e misurandone le proporzioni, riconoscevo e deploravo la mia incuria; infine avendo fabbricato i modelli, spesso, esaminandone partitamente gli elementi, mi accorgevo di essermi sbagliato anche nel numero.” E’ un’esplicita affermazione sul ruolo del disegno come linguaggio specifico del pensiero plastico. NeI libro De re aedificatoria l’Alberti raccomanda particolarmente l’uso l’utilizzo dei modelli anche per scopi pratici, quali ad esempio “la posizione rispetto all’ambiente, la delimitazione dell’area, il numero delle parti dell’edificio e la loro disposizione, la conformazione dei muri, la solidità delle coperture.” E per indicare come durante il Rinascimento il pensiero plastico facesse ricorso all’uso sistematico di modelli, è bene ricordare che Filippo Brunelleschi ottenne la commissione per costruire una cupola non centinata, dopo che ebbe preparato un grande modello in mattoni e legno “sanza alcuna armatura”. 6
  • 7. Dopo il Rinascimento continua l’evoluzione del disegno tecnico, ma non si deve sottovalutare il ruolo di comunicatore dell’immaginario che ha il disegno tecnico e basti, fra tutti, ricordare l’opera di Valturio e di Francesco di Giorgio. Necessarie o immaginarie che fossero le macchine disegnate, “a Valturio spetta il merito di esserne stato il grande divulgatore non foss’altro perché con lui termina l’epoca dei trattati manoscritti: nuove forme di comunicazione permetteranno una circolazione più ampia del pensiero. […] In Francesco di Giorgio poi è assente ogni dettaglio di tipo decorativo che possa distogliere l’attenzione dal meccanismo illustrato: il disegno è ridotto alla pura essenzialità; il particolare importante viene ‘esploso’; si utilizzano lettere di riferimento per facilitare la lettura delle descrizioni. E’ con Francesco di Giorgio che l’iconografia assume una connotazione più propriamente ‘ingegneristica’”3. La diffusione della stampa contribuirà a veicolare i caratteri sobri e laconici del disegno tecnico e l’influenza di Cartesio, con l’impostazione delle coordinate che da lui prendono nome, introdurranno nei sistemi grafici un fattore matematico ed algebrico di notevole rilevanza. Al progresso del sempre maggiore nitore tecnico del disegno tecnico darà un apporto significativo anche Newton che, nel suo testo pubblicato sull’Ottica, introdurrà tavole di raro rigore, quel rigore che diventerà stile divulgato nell’iconografia dell’Encyclopedie, il testo celebrativo della compiutezza dello stile ingegneristico e che avrà il momento di massima affermazione con gli ingegneri dell’800, protagonisti nella progettazione di tipo industriale. Anche per i modelli e i plastici il rafforzamento del loro ruolo segnalato nel Rinascimento continuerà nei secoli XVII e XVIII (ed è pratica testimoniata da manufatti sopravvissuti ad esempio con lo Juvarra e C. Wren) La realizzazione di modelli architettonici non aveva particolare sostegno nell’Ecole des Beux Arts e nel secolo XIX tale tradizione ebbe un’eclisse, non però in campo ingegneristico dato il suo riferimento con la prestigiosa Ecole Polytechnique che si conformerà sempre più ad orizzonti di tipo positivistico.4 Poi le posizioni si misceleranno e l’uso razionale dei modelli riprenderà soprattutto nell’ambito del Razionalismo architettonico e non solo, di cui il Bauhaus rappresenta un apice, rafforzato poi dalla scuola di Ulm. Mies van der Rohe, Le Corbusier, Wright, ma anche Gaudì produssero modellini in forme molto varie, come pensiero plastico applicato. E forse può essere interessante citare proprio Wright che parla della sua infanzia e del manifestarsi del suo pensiero plastico precoce: 3 BASSIGNANA P.L. L’iconografia di Valturio in In ID Le macchine fantastiche di Valturio U. Allemandi 1988 4 LEMOINE B. 1993 Architettura e ingegneria come professioni Jaca Book, Milano 7
  • 8. “Acquistai presto la sensibilità al modello costruttivo, evolventesi in tutto ciò che vedevo. In questo modo, imparavo a “vedere”; e quando vidi, non mi curai di ricercare aspetti fortuiti della natura. Volevo comporre”5. E’ importante pertanto sviluppare le forme di comunicazione che passano per il disegno e la produzione di modelli, sapendo con chiarezza che si tratta di “una forma di pensiero […] è un modo di conoscere: ‘verum factum’. La conoscenza di una cosa è la conoscenza della sua genesi.” tenendo anche conto che è un linguaggio molto peculiare: “mentre la lingua si sviluppa linearmente, le immagini si presentano simultaneamente” Quindi consentono l’idea e l’espressione di una forma importante di comunicazione spaziale e temporale6 Tecnologia e computer Noi non siamo più, direbbe McLuhan, in contesto gutenberghiano, siamo decisamente postgutemberghiani in forme che neppure l’inventore di questa espressione credo fosse in grado di immaginare appieno. Oggi gli strumenti di comunicazione sono ampiamente digitali e pensare al rapporto Tecnologia, disegno e modelli senza collocarsi dentro il mondo digitale, significherebbe rifugiarsi dentro un museo dell’800 per prepararsi all’odissea nello spazio del 2050. La tematica delle rappresentazioni informatizzate è ormai forse il contesto più ‘naturale’ in cui esprimere e realizzare rappresentazioni tecnologiche. Il tema è vastissimo e ho pensato di indicarne i contorni realizzando una piccola antologia tratta da un opuscolo per molti versi illuminante: G. SCHMITT 1998 Information architecture. Basi e futuro del CAAD Testo & Immagine, Torino. In esso si affrontano e si illustrano gli scenari e le operatività relative al CAD, al computer come medium, alle dimensioni del disegnare e progettare on line ossia in Web, cosa sia possibile produrre nella VRML (realtà virtuale o meglio Virtual Reality Modeling Language) e come ci si possa inserire tecnologicamente in una prospettiva di Netizen, cittadino della rete. Per un uso estensivo dei suggerimenti di Schmitt consiglio di sostituire i termini architettura, edifici e consimili con artefatto o tecnologico, perché dal punto di vista logico la sostituzione comunque funziona e consente di collocare il discorso sullo scenario ampio della Tecnologia e non solo dell’Architettura. 5 WRIGHT F.LL. 1963 Testamento Einaudi, Torino p. 20-21 6 DE FUSCO R. 2001 Trattato di architettura Laterza, Roma-Bari Con attenzione per il cap. Terzo ‘Il disegno’ p. 136- 193. 8
  • 9. p. 5 Non più matita elettronica L’espressione Computer Aieded Architectural Design (CAAD), [ è più usato CAD, Computer Aided Design) : la progettazione architettonica con l’ausilio del computer fonde i due mondi, mettendo a fuoco il fine primario dei computer in architettura: migliorare l’ambiente edificato, fornendo a chi opera metodi e strumenti di lavoro avanzati. Disegnare non è più il compito principale dei computer in architettura. Il ruolo e il modo in cui viene percepito l’uso dei computer cambiano in continuazione, in quanto quello che un tempo veniva denominato ‘calcolatore’ diventa di anno in anno sempre più veloce e potente nella sua funzione di supporto ai progettisti. Fino a poco tempo fa i computer venivano considerati alla stregua di una matita elettronica o di una sofisticata macchina per scrivere. Ma ora questo luogo comune sarebbe un grave abbaglio, in quanto le modalità di ausili alla progettazione sono sempre più innovative: il computer può fungere non solo da medium, ma anche da vero e proprio socio dello studio di architettura. … Per quanto riguarda la programmazione e la progettazione, può servire per documentare, organizzare e immagazzinare informazioni, mostrare sullo schermo alternative di progettazione e creare disegni esecutivi o modelli per i lavoratori sul cantiere L’edificio finito è sempre più dotato di sensori di sensori, controlli, monitor e computer di tutti i tipi. Quando il fabbricato è in funzione, il computer serve per ottimizzare la manutenzione, per calcolare il consumo energetico e gli affitti, per la rete di impianti di sicurezza e per individuare le possibili alternative d’uso nel caso di utilizzazione dei vari locali per scopi diversi da quelli prefissati. p. 10 Processo di informazione Nel 1941 Sigfried Giedion definì il tempo come la quarta dimensione dell’architettura. Ora l’informazione dovrebbe essere considerata come la quinta dimensione. Essa può essere diffusa in quattro categorie: 1- le informazioni presenti nella mente del progettista, che influenzano in partenza il disegno, 2- le informazioni provenienti dall’esterno, ossia i riferimenti formali esterni 3– le informazioni generatesi durante il processo di produzione e costruzione 4- informazioni che vengono alla luce nel corso della vita di un edificio. Le informazioni presenti nella memoria del progettista stanno alla base della sua cultura architettonica e vengono arricchite durante ogni processo di progettazione. 9
  • 10. p. 21 Disegno tradizionale e digitale I programmi di disegno per computer non costituiscono una minaccia per il disegno tradizionale, perché per lo più imitano mezzi convenzionali. Ma la prossima generazione di programmi di disegno e modellazione riuscirà a dimostrare i vantaggi del computer, perché saranno di supporto durante la fase di strutturazione del disegno, faciliteranno il salvataggio di diverse versioni, renderanno automatiche le operazioni ripetitive e semplificheranno la revisione dei progetti. … I modelli Un modello descrive la realtà secondo diversi livelli di astrazione. (..) Dal punto di vista spaziale, il modello è una parte fondamentale per la progettazione, perché composizioni complesse difficilmente possono essere comprese e riconosciute nella loro interezza tramite altri mezzi. La disposizione spaziale e la complessità del progetto sono riconosciute solo al momento della creazione di un modello. Quest’ultimo diventa uno strumento di disegno, grazie al quale possono essere valutate le caratteristiche del progetto, e infatti nei modelli reali il trattamento tattile dei materiali e il posizionamento degli elementi risultano cruciali. I modelli digitali danno vita a una situazione nuova, in quanto sono usati principalmente per la visualizzazione e la valutazione di insieme. .. Nella maggioranza dei casi, il modello digitale è derivato dai metodi tradizionali che sono poi simulati attraverso mezzi digitali. Per esempio, il livello di definizione visiva di un modello digitale può variare senza per questo distruggere il carattere e l’essenza di un modello. Semmai avviene il contrario: il contenuto di informazioni di un modello simile aumenta, perché fornisce tutti i dettagli solo per le aree che interessano per una determinata ragione. Questo cambiamento del livello di informazione di una struttura non può avere luogo nei modelli reali, e questo rappresenta perciò uno dei grandi vantaggi del modello digitale. p. 23 La simulazione La simulazione è la rappresentazione di un oggetto basata su un’astrazione appropriata e un modello. Le tecniche di simulazione ci aiutano a capire meglio i progetti e gli edifici. La simulazione ha una lunga storia, iniziata con modelli di legno, pietra, argilla e carta, usati come esempi. 10
  • 11. … 27 – Un po’ di premoderno Già nel Decimo secolo i disegni architettonici in Europa costituirono un primo tipo di astrazioni che apparivano come virtualmente reali a clienti e costruttori potenziali, o almeno abbastanza reali da fondare le decisioni da prendere su di loro. Con la scoperta delle tecniche prospettiche, i disegni diventarono più precisi e si svilupparono in una forma d’arte con numerose varianti, dai disegni tecnici ai disegni di presentazione. I modelli in legno fecero la loro apparizione già prima del Rinascimento e nell’Ottocento vennero integrati con modelli di carta e cartoncino. Ogni nuova invenzione aiutava a migliorare la comprensione dei progetti architettonici, riducendo lo sforzo di astrazione da parte dell’osservatore e aumentando la complessità della rappresentazione. … 27 – Caschi con display, lo strumento dopo tecnigrafo e monitor? Caschi dotati di display sembrano destinati a diventare lo strumento ideale per questo tipo di visualizzazioni, al posto del classico schermo. Tuttavia, la bassa qualità di definizione degli attuali display digitali e le limitazioni dei caschi mantengono la proiezione su schermo accompagnata dal suono stereo come il metodo più efficace. .. 31 – Lavorare in team on line lavorare in una squadra collegata elettronicamente è molto più stimolante del lavoro individuale su computer. Si possono utilizzare sinergie e raggiungere gli obiettivi in maniera più veloce, dato che le conoscenze dei vari collaboratori, unite, portano spesso a soluzioni estremamente efficaci. 33 – Sincronismo temporale o asincronismo Con la fine del ventesimo secolo il CSCW (Computer Supported Collaborative Work) ha cominciato a prendere piede come possibile metodo di istruzione scolastica. I primi esperimenti di CSCW in questo ambito risalgono al 1994 quando furono perfezionati gli studi di disegno virtuale fra il Mit e le università europee e asiatiche. L’insegnamento è un ideale campo di prova per l’ulteriore sviluppo del CSCW perché, durante gli esperimenti condotti, gli studenti e i programmatori, interagendo, imparano contemporaneamente. .. In teoria tutti possono lavorare insieme su un progetto restando in luoghi diversi, sia nello stesso momento (sincronismo temporale) che 11
  • 12. separatamente (asincronismo) con l’ultima versione del disegno sempre disponibile a tutti i membri del gruppo. 63 L’informazione come materia prima l’importanza di materie prime come acqua , legno, olio o ferro sta diminuendo nei paesi postindustriali, mentre il ruolo dell’informazione, considerata come vera e propria materia prima sta aumentando. Presa da sola, l’informazione è inutilizzabile come un minerale non lavorato, ma se è elaborata e posta all’interno del contesto più idoneo può avere effetti di lunga durata. …. Agli esordi degli scambi di dati elettronici ci si basava su un’infrastruttura comune, riportando i dati su un medium esterno, inviandolo poi per lettera e riportare il contenuto su un secondo computer, quando le reti sono configurate in modo tale da permettere il libero flusso di dati fra tutte le postazioni coinvolte. Gli industriali del Diciottesimo e Diciannovesimo secolo si erano arricchiti raffinando materie prime, e in seguito sono state accumulate immense future tramite la costruzione di strade e ferrovie, con l’obiettivo di sviluppare infrastrutture per il trasporto e la lavorazione di materie prime. La situazione si ripete oggi, con organizzazioni che forniscono infrastrutture per l’informazione. Nei paesi più industrializzati il trasporto delle informazioni è stato un monopolio statale molto proficuo fino all’apertura dei mercati delle telecomunicazioni. Con la scomparsa dei monopoli la competizione è aumentata, diminuendo i costi per i clienti, ma anche creando una certa confusione riguardo all’enorme numero di nuovi servizi. L’elemento comune di tutti questi processi di sviluppo è che viene data più importanza al modo con cui reperire e trovare informazioni, che all’accumulo di informazioni in una memoria o in una macchina informatica locale. Il luogo non fisico in cui la materia prima può essere estratta e lavorata è Internet, questo costituisce l’unico luogo percepibile ogni qualvolta è possibile ottenere un collegamento. p.66 Il territorio delle informazioni L’espressione “territorio delle informazioni” è in qualche modo un termine contraddittorio, in quanto nella sempre più emergente era dell’informazione la maggior parte dei territori conosciuti, ossia territori privati, militari o nazionali, hanno perso il loro significato originario. Tuttavia può essere utile per descrivere un territorio futuro per il progetto architettonico che possieda caratteristiche simili ai territori veri e propri. Il territorio delle informazioni è popolato da chi possiede accesso a un nodo della rete digitale. Forme di controllo dell’accesso, di privilegio e nuove regole stanno per essere messe a punto. Con la proliferazione di collegamenti attraverso 12
  • 13. cavi e satelliti, anche nelle aree più sperdute del globo, l’accesso diviene decisamente più facile. Ma l’accesso e la lunghezza d’onda possono essere ottenuti solo da chi se li può permettere a livello economico. Il raggio d’azione di Internet definisce i confini del territorio delle informazioni. Regolamenti vengono creati in continuazione. E nel giro di pochi mesi un’etichetta di accesso alla rete viene messa a punto. Gruppi politici e finanziari tentano di prendere in mano il controllo di questo nuovo territorio. Per un museo del disegno tecnico Il disegno e i sistemi di rappresentazione sono un universo in continua espansione e cambiamento, ma sono anche storia di una cultura. Un modo per cogliere la propensione al continuo cambiamento, ma anche a conoscere tecniche rappresentative che oggi non esistono più possono essere offerte da visite a musei, ricercando le testimonianze di disegno e processi di evoluzione di disegni. Ovviamente l’impresa diventa più facile se si diffondono particolari sezioni dentro i musei della scienza e della tecnica esistenti oppure, e meglio, si forma qualche museo specialistico del disegno tecnologico e delle rappresentazioni con mezzi tecnologici. Il problema è affrontato da Paolo Portoghesi in un articolo che tratta dei disegni tecnici come ‘ritratti di macchine’7: Pg.264 “Commentando alcuni bellissimi disegni industriali dell’800, ritrovati e pubblicati dall’archivio storico Ansaldo, Paolo Portoghesi li definisce ‘ritratti di macchine’. C’è tecnica, funzionalità e bellezza “dal ruolo di animale domestico, di rassicurante strumento, la macchina è passata a rivestire il ruolo dell’oggetto pensante di un sistema di forze che condiziona la nostra vita e mentre la rende più comoda, la allontana sempre più dal suo ritmo originario. Del disegno relativo alla locomotiva dell’Ansaldo: “nonostante si tratti di un prospetto-sezione, di un disegno analitico quindi, e non naturalistico, l’impressione a prima vista è quella di un vero e proprio ritratto. 7 Per un museo del disegno tecnico In CORTI B. (a cura di) 1991 Archeologia industriale ICMAI – Il coltello di Delfo, Brescia 13
  • 14. Come in certi disegni di epoca gotica si è adottato il sistema di rappresentare in trasparenza vari aspetti dell’oggetto non visibili contemporaneamente ma con gran cura – del tutto assente nei disegni gotici – di rendere sempre inequivoca la rappresentazione, tratteggiando le parti non visibili o introducendo piccoli stratagemmi visivi, come il finto squarcio della lamiera da cui si intravede il dispositivo di comando sul fondo della caldaia. Eliminando dal disegno alcune parti ripetitive, perché simmetriche, fingendone altre trasparenti, ma scendendo nel dettaglio fino a descrivere le specchiature decorative della carrozzeria, l’anonimo disegnatore è riuscito con un solo disegno a descrivere minutamente e in modo univoco un meccanismo complesso che oggi verrebbe probabilmente rappresentato per parti su molti fogli diversi. Tomas Maldonado in Reale e virtuale8 evidenzia che “alcuni studiosi intravedono in certe manifestazioni dell’arte contemporanea elementi, se non di iconoclastia, sicuramente di iconofobia. Cfr. J.J. Goux (1973) e K.Clark (1981)” Riferisco questo per far cenno ai problemi di ampio rapporto e vasto che poi esiste tra disegno tecnico e disegno, scultura e pittura in generale. Ma mi fermo qui perché la questione, data la natura di questo scritto, va solo accennata. PER UN REPERTORIO DI QUESTIONI Per sondare in modo mirato alcuni problemi centrali del rapporto tra tecnologia, disegno e senso culturale, indico ora di seguito una sorta di repertorio e glossario che contengono un’indicazione divisa per ambiti, nella speranza che possa servire come strumento di lavoro per quanti non già vogliano essere informati, quanto semmai pronti ad esercitare una didattica non ingabbiata in stereotipie, pur non sottovalutando il valore del patrimonio storico. Mi viene da rammentare il monito di Montaigne che invitava a considerare come coloro che hanno troppa attenzione e conoscenza riferite alle questioni del passato, spesso sono assai ignoranti sulle questioni presenti. 8 MALDONADO T. 1992 Reale e virtuale Feltrinelli, Torino p.23 nota 30 14
  • 15. Schizzo Il pensiero immaginario e rappresentativo emerge nella mente sotto forma quasi esclusivamente plastica, ossia le immagini mentali si configurano come appartenenti ad uno spazio e in quanto situate in uno spazio. E’ ben difficile avere un processo immaginario di tipo bidimensionale, a meno che non si pensi esplicitamente ad un disegno, allora però il disegno in sé appare bidimensionale, seppur inserito in un’ambientazione di contesto che è tridimensionale. Il disegno bidimensionale è un artificio, ma un artificio che sta in un luogo tridimensionale. Ogni aspetto reale che noi esperiamo si trova in uno scenario tridimensionale e l'immaginario e l'onirico si collocano in un ambiente mentale, ma non usano un linguaggio drasticamente diverso dalla tridimensionalità del reale, vengono infranti i parametri temporali, la composizione degli eventi con un tasso elevato di arbitrarietà, si deformano aspetti cromatici e formali, ma non cessa l’affiorare della dimensione tridimensionale, malgrado tutte le deformazioni possibili del mondo onirico. L’immaginario mentale non si sofferma ed emerge solo nell’onirico, ossia nella condizione di stato di non veglia, ma emerge ed è attivo anche in stato di veglia, quando si rallenta il processo di focalizzazione della percezione esterna e si insegue la focalizzazione della percezione interna e delle immagini che il pensiero figurativo fa emergere sullo scenario mentale. Alle immagini mentali non si assiste come spettatori passivi (come accade per lo più nelle immagini oniriche ), ma si orienta l’affiorare e la produzione delle immagini che affiorano con una certa arbitrarietà e le si fa scomparire per un atto volitivo che vuole ‘allontanare delle immagini’ e richiede l’esplorazione di altri tipi di immagini. Quando non c’è alcun tentativo esplicito per orientare, scegliere o negare alcune immagini, anche se si è in stato veglia, si è nella dimensione del fantasticare: le immagini scorrono per associazione libera o flusso non orientato. Se ciò avviene in stato di veglia, lo stato di coscienza attiva assiste all’emergere delle immagini e lascia che vadano senza che vi sia un perché dell’orientamento. E’ un lasciarsi andare e talvolta anche un lasciare andare. E’ uno stato onirico senza che vi sia lo stato di sonno, è un gioco mentale che comunque presenta delle condizioni pre-ipnotiche. Ai fini della produzione tecnologica e pratica tutto questo può apparire del tutto inutile. Può risultare anche solo mentalmente ludico. Il pensiero immaginativo comincia ad essere più esplicitamente produttivo e pre-tecnologico, quando lo stato di coscienza interviene introducendo meccanismi di selezione e di censura. La selezione più importante è determinata dalla constatazione che si sia in presenza di immagini possibili. Ossia immagini che non sono reali, ma che possono essere vissute come traducibili e trasferibili in contesto reale. Ossia appaiono immagini che la dimensione onirica emette e la dimensione della coscienza valuta come fattibili. 15
  • 16. In questo stadio vi è compresenza di veglia e pre-veglia o meglio una continuità tra mondo della veglia-coscienza e mondo dell’immaginario- onirico. La coscienza, in tale stadio intermedio, è in grado di stabilire che emergono anche immagini del tutto fantastiche, ossia che non sono supponibili in termini di fattibilità. In tal caso la coscienza è in grado di intervenire ed esprimere un giudizio cosciente di censura: interrompere il flusso di immagini e inseguire altre piste e flussi, finche non compare la percezione-intuizione di fattibilità. Tale percezione-intuizione non è oggettiva e varia da soggetto a soggetto. Se un soggetto è vissuto in un contesto fortemente normativo che ha sempre enfatizzato il valore dell’esistente e la persistenza del già dato ed ha punito, disprezzato o comunque non considerato la dimensione del possibile e del mutevole, allora è facile che la censura-selezione delle immagini mentali scatti quasi su tutto e tutto quello che non ha riscontro percettivo immediato ed non abbia consenso sociale potrà venire considerato subito fantastico, senza alcuna terra di transizione verso l’immaginario fattibile. L’immaginario di soggetti vissuti in un contesto del genere e che abbiano accettato acriticamente questo processo sociale, tendono ad avere un immaginario conformista, ossia riproduttivo di dati di fatto, esistenti, anche se non a loro disposizione. Per loro l’immaginario è un esistente non vissuto o disponibile, più che un vissuto del tutto nuovo ed inedito. Non esiste insomma, nei casi estremi, la dimensione dell’immaginario desiderativo, prevale la dimensione del reale mancante o irraggiungibile. L’educazione al disegno progettuale è innanzitutto educazione al pensiero immaginario aperto al possibile, orientato al possibile, ma non appiattito sul reale esistente. Il flusso dell’immaginario fattibile e possibile emerge nella mente pressoché informe e a basso tasso di determinazione. In questo senso è molto instabile, ma è pur sempre un processo mentale di cui si può avere coscienza. Questa esperienza mentale rimane incomunicabile se non si esternalizza e diviene un’esperienza retinica sia per chi la produce, sia per altri che possono vedere il prodotto che può avere effetti retinici. In questo senso allora deve diventare segno e disegno. Ma trattandosi di un immaginario ad alta precarietà non può che affidarsi ad uno strumento precario e congruente, ossia allo schizzo. Lo schizzo non è un segno definito di immagine, ma una traccia euristica alla ricerca e all’inseguimento di un’immagine mentale che si sta facendo e crescendo. L’attività dello schizzo testimonia l’attività del fiutare la pista e del processo di avvicinamento ad un incontro forse possibile e fattibile, sempre più possibile e sempre più fattibile. Lo schizzo non deve preoccuparsi di avere un’alta significatività tecnica, ma piuttosto un’alta plausibilità di sviluppo e di definizione futura. Lo schizzo è come un insieme di orme ed impronte che fanno supporre di poter inseguire un soggetto che si suppone esistere, ma ancora non si fa presenza. 16
  • 17. Poiché il processo è rapido e mutevole, anche il prodotto materiale che testimonia la volatilità delle orme ed impronte mentali deve essere rapido e mutevole, suggerire l’immagine, non riprodurla e fissarla, provocare con dei segni la nascita di immagini successive, sempre meno indistinte e sempre più rispondenti ad un bisogno o scopo. L’attività dello schizzare deve avere una notevole scioltezza e non deve porsi il problema e la pesantezza del giudizio del bel disegno, non deve avere remore di tipo estetico, ma solo di efficienza a trattenere e rilanciare una pista ideativa. Ma l’attività deve essere anche sostenuta e diretta da processi di censura: vanno abbandonate quelle immagini mentali e quegli abbozzi e schizzi che non appaiono orientati al raggiungimento di un prodotto di cui si avvertono alcuni caratteri imprecisati, ma di cui si avverte anche quello che è più scostante rispetto allo scopo. Esattamente come in analogia di una pista olfattiva nella fase in cui non si conosce la fonte del profumo, ma si è colta la scia. Se la scia si mantiene costante o si intensifica allora la direzione di esplorazione è plausibile, ma se l’intensità diminuisce o scompare, allora bisogna abbandonare la pista e girovagare anche a vuoto finché non si capta di nuovo una pista odorosa significativa e ci si trova ad immergersi sempre più nell’intensità odorosa. Gli schizzi sono quasi sempre al plurale, perché sono atti di ‘fiuto’ verso immagini di cui si coglie la scia, ma non la presenza. Eppure si ha un qualche sentore quando la scia è falsa o cessa. Gli schizzi non sono disegni selvaggi, proprio perché sono regolati da un interno processo di selezione – censura. Ma sono anche rappresentazioni colte, nel senso che devono rivelare comunque un metodo di base e un impianto orientato flessibilmente e non devono rivelare troppo una carica emotiva (anche se non possono non averla perché il tratto si accelera e diviene più dinamico e deciso quando si ha percezione di essere nella pista giusta ed invece diventa più incerto, tremolante, privo di contorno netto, si avviluppa in linee sovrabbondanti quando non sa da che parte andare) Il metodo sta prevalentemente nel pensiero plastico, ossia nel disegnare pensando alla spazialità. La spazialità non ha un unico modo di vedere le cose reali o immaginarie che essere siano. Esse offrono molti punti di vista, ma ve ne sono alcuni che hanno determinato i campi dell’emergenza delle grandi differenze nelle immagini e nello spazio. Esse emergono dalle dimensioni del vissuto spaziale. Un’immagine la si può vivere dall’alto, dal basso, di fronte o di lato oppure dall’esterno o dall’interno. Ovviamente vi sono molte situazioni intermedie, ma alto/basso, frontale /laterale, fuori/dentro sono condizioni strutturali di base e rivelano che usando questi approcci il pensiero che disegna è di fatto un pensiero che esplora e conosce. Il disegno è una forma di pensiero esplorativa e conoscitiva. 17
  • 18. Quindi un disegno, in termini più tecnici, può essere esplorativo e cognitivo almeno negli elementi strutturali se pensa la pianta, l’alzato frontale e laterale e le sezioni. E’ ancor più esplorativo se riesce in qualche modo a rappresentare unitariamente questi aspetti secondo un modello assonometrico ingenuo (non quindi subito rigorosamente mensurale), ma sempre dotato di sequenza esplorativa e cioè assonometria a schizzo che visualizza la pianta o il basamento (o l’area apicale) e visualizza assonometricamente il fronte o lo scorcio laterale. Ed ancora raggiunge maggiore esplorazione se è in grado di rappresentare l’interno con una sezione o più sezioni longitudinali, verticali e intermedie, con metodi ingenui di trasparenza o di spaccato. Lo schizzo colto esplora le immagini della mente, ma le esplora con metodo seguendo i sentieri della pianta, alzato frontale e laterale e la sezione. E se la mente non ha prodotto un’immagine di questi aspetti, la componente volitiva interroga la mente e la induce ad esplorare aspetti non immediatamente emersi, ma che il’metodo’ suggerisce e richiede. Lo schizzo non è dunque una semplice annotazione rapida, ma è una sistematica esplorazione alla ricerca di piste soddisfacenti e soluzioni immaginarie plausibili e fattibili. Solo allora si può osare di passare al disegno tecnico ed esecutivo, ossia al disegno che incorpora in sé la dimensione delle misure rigorose, della geometrizzazione e matematicizzazione convenzionale e che si pone non più la ricerca e l’esplorazione di una possibilità, ma si pone la ricerca della fattibilità reale e della costruttività. Il plastico in cartoncino o lo schizzo plastico Non va dimenticato che in tecnologia l’immaginario è orientato prevalentemente alla progettazione di oggetti ed artefatti tridimensionali e quindi la rappresentazione è bene abbia anche l’esperienza 3D ossia a tre dimensioni. Oggi questa prospettiva è enormemente facilitata dagli strumenti digitali. La computer grafica consente di disegnare e progettare avendo riscontri stereometrici immediati, verificando con il rendering il risultato di un pensiero plastico. Di questo parliamo in una sezione di questo scritto ed a questa rimandiamo. Talvolta però si può ricorrere ad un prodotto artigianale che usa materiali poveri e rappresentazioni abbozzate, ma tridimensionali. Si tratta dello schizzo plastico, esperienza rappresentativa interessante anche se oggi poco consueta, ma molto in auge nella tradizione ottocentesca dell’Ecole Polytecnique, propugnatrice dell’uso di modellini in cartoncino.. Un esempio molto interessante è offerto da Robert Venturi, Scott Brown and Associates in una sequenza di modellini dal cartaceo al ligneo pubblicata in 18
  • 19. un’illustrazione della National Gallery Sainsbury Wing, completamento e espansione della National Gallery di Londra9. In essa si mostrano alcuni passaggi dai cardboard models, (ossia modellini in cartoncino sostenuti da una strutturina in filo di ferro o bastoncini ) fino al modello plastico formalmente compiuto che simula la forma solida reale, ma con riduzione di scala. Nei modellini a cartoncino le parti non strutturali. (decori, aperture che possono essere più o meno ampie e non decisive per la struttura portante possono essere solo disegnate a matita o penna sulle superfici cartacee collocate sulla struttura di filo di ferro che invece sostiene elementi importanti e strutturali. Il pregio dei modellini a schizzo e che è possibile mutare velocemente ipotesi progettuale e farsi un’idea intuitiva degli effetti reali possibili, è una sorta di rendering impressivo adatto a procedere per prove ed errori e quindi per avvicinarsi sempre più ad un’idea compiuta e convincente sul piano progettuale. Il disegno digitale Ciò che connota il disegno tecnico è il carattere di precisione. Quando si tratta di schizzo tecnico ci si preoccupa di sondare alcune idee orientanti e la componente mensurale è relativamente poco importante, ma quando si vuole simulare il reale e il fattibile e ci si orienta a sondare la condizione effettiva di un artefatto che passa dall’immaginario al reale, allora lo strumento mediatore è il disegno tecnico. In esso la dimensione della precisione delle misure e delle quote non è rinunciabile. La precisione mensurale non è perseguibile se non c’è supporto di strumenti in grado di controllare la misurazione, in modo rigoroso e certo. Da questo punto di vista gli strumenti base che hanno verificato la precisione delle misure nel disegno sono stati, per secoli, le squadrette, i righelli graduati e il goniometro. In epoca industriale questi strumenti separati si sono congiunti in una sintesi rappresentata da una macchina per disegno e cioè il tecnigrafo. Per tutto il periodo industriale il tecnigrafo è stata la regina delle macchine da disegnare, assieme ai lucidi che consentivano di realizzare disegni per sovrapposizione e sintesi. Il tecnigrafo ha cominciato ad andare in pensione quando si è affacciato il mondo della computer grafica che da un lato ha standardizzato alcune operazioni di mensurazione ricorrenti e dall’altro ha condotto a programmi di disegno sempre più sintetici, con i quali, lavorando su un settore di grafica, in parallelo si ottengono risultati su altri settori. Ad esempio se si lavora su un piano bidimensionale per realizzare la pianta di un disegno di artefatto, si ottengono contemporaneamente gli alzati frontali e laterali, la 9 AMERY C. 1991 A celebration of art & architecture National Gallery , London 19
  • 20. rappresentazione strutturale o in filo di ferro simulato o iron wire, la renderizzazione che restituisce una rappresentazione realistica dell’oggetto progettato in forma tridimensionale, la possibilità di rotazione per esplorare l’oggetto digitale girandogli attorno, la promenade interna ed esterna e le esplosioni assonometriche di vario tipo per vedere la struttura compositiva dell’artefatto, inoltre si possono anche ipotizzare delle animazioni che rendono l’artefatto in un contesto ambientato e dinamico. Ovviamente tutto questo è più o meno possibile a seconda del tipo di programma informatico a cui si fa ricorso. Se un programma è molto sofisticato le possibilità rappresentative aumentano e viceversa. Questo oggi è l’orizzonte evoluto del disegno e una scuola che insista dando il primato alle squadrette, righelli e goniometri produce un falso culturale grave e fa perdere tempo agli allievi con operazioni di retroguardia che sviliscono le capacità elaborative degli allievi senza incentivare attività di profilo più alto. Non ha più che tanto senso perdere tempo a quadrare il foglio o impostare i piani ortogonali perché oggi queste sono banali operazioni meccaniche. Quello che conta è invece educare al rigore, alla creatività, alla produttività, alla rappresentatività. Una scuola che non insegni disegno digitale è una scuola che vende paccottiglia e residui da soffitta. Ciò non vuol dire che è tramontato il valore del disegno a mano libera e dello schizzo in modo specifico. Esso è il disegno generativo e nobile, la fonte diretta dove le immagini mentali si trasformano in immagini retiniche per volontà e capacità del produttore stesso delle immagini mentali. Il disegno a schizzo è garante che la parte libera, personale, generativa del pensiero plastico e immaginativo rimane nelle mani e nella responsabilità diretta delle persone. Pertanto in grande misura il tecnigrafo, le squadrette e il goniometro possono in parte andare in soffitta, sostituiti egregiamente dalle squadrette, righelli, goniometri, tecnigrafi digitali che fanno meglio e di più sul piano riproduttivo, mentre la dimensione produttiva del disegno deve rimanere ancorata al disegno a schizzo e ad un disegno a schizzo quanto meno ingenuo possibile. Antico e contemporaneo trovano così una loro forte sintesi migliorativa. Sono le forme mediane che devono essere considerate al tramonto, in quanto nulla aggiungono e semmai tolgono in termini di espressività. Il disegno a schizzo aiuta a pensare 3D, ossia tridimensionalmente. Il dialogo diretto con la mente genera originalmente immagini 3D, mentre la computer grafica deve sviluppare la capacità di rappresentare il pensiero plastico nei modi più rigorosi e plurimodali possibili. CAD/CAM I disegni digitali oggi hanno molte possibilità e versioni, ma quando sono pensati e orientati alla progettazione rientrano tutti nella categoria del CAD, ossia Computer Aieded Design. 20
  • 21. Assieme al CAD che è lo strumento operativo della produzione del disegno progettuale, può esserci anche uno strumento di controllo e valutazione del prodotto ‘disegno digitale’ e allora si tratta di CAE (Computer Aieded Engineering). Si tratta dell’analisi automatica dei progetti digitali per riscontrarvi eventuali errori e verificare l’adeguatezza della scelta dei materiali per gli artefatti reali, per controllare la resistenza degli spessori e, nel caso di progettazione di stampi, l’efficienza dei punti di alimentazione, dei valori di pressione da introdurre e della velocità del processo. Se ci fermassimo però al solo orizzonte (peraltro assai interessante) del CAD/CAE, resteremmo reclusi nel mondo immateriale o virtuale, mentre la Tecnologia non si esaurisce di certo, anche nella forma avanzata, solo nella dimensione della Trasformazione Virtuale, ma rimane ampiamente collegata alla Trasformazione reale, e cioè materiale fatta di atomi, materia, peso e volume. Questa dimensione riguarda lo stesso mondo digitale, ma quel mondo digitale che opera con la materia e la trasforma. E’ insomma il mondo della robotica e dell’automazione. Occorrono però delle forme mediative tra l’artefatto progettato digitalmente e l’artefatto reale. Molto spesso, per non dire sempre, è necessario fare una verifica su qualcosa che sta di mezzo tra il progetto e la realizzazione ossia i modelli e i prototipi. I modelli e stereolitografia - Esiste una lunga tradizione di modelli prodotti nel passato anche lontano e per lo più in legno. Oggi i modelli possono essere prodotti con l’intervento diretto del disegno informatico che interfaccia non solo il computer che lo fa e lo visualizza, ma anche gli strumenti digitali che trasformano il disegno in oggetto materiale, mediante la tecnica della stereolitografia. In questo caso interviene la dimensione del CAM (computer Aieded. Manifacturing) che può provvedere sia alla produzione del modello che all’artefatto in serie, mediante macchine controllate dal calcolatore. Oggi i modelli si realizzano per lo più non in legno, ma in fibra con supporto informatico ed è un processo piuttosto veloce, tanto che il metodo è chiamato RP (Rapid Prototyping). Il sistema RP legge i dati di un modello computerizzato e questo viene scomposto dall’elaboratore in una serie di strati molto sottili, da entità sensibilmente al di sotto del millimetro. Le immagini relative ad ogni strato vengono inviate ad una macchina robotica che realizza materialmente il modello utilizzando delle resine, policarbonati, cere o altre sostanze fluido-plastiche. Realizzato roboticamente il primo strato, si passa alla sovrapposizione di un secondo. La procedura continua fino alla riproduzione materica di tutte le sezioni. Con queste metodologie le modellizzazioni stereolitografate avvengono per lo più senza intervento manuale o di utensili né richiedono attrezzature di fissaggio. 21
  • 22. Con tali metodologie è possibile realizzare modelli ricchi di particolari interni ed esterni che le realizzazioni tradizionali non consentivano. Non richiedono competenze molto diverse da un normale operatore di macchine numeriche, al massimo occorre un’attenzione a problemi di sottosquadro per alcune posizioni dei supporti. Il polimero usato nella stereolitografia è in genere fotosensibile e si solidifica quando viene esposto alla luce. Un raggio laser, pilotato da un dispositivo a specchi, è orientato sulla superficie della resina e percorre la superficie solidificandola punto per punto e fetta per fetta. Una volta realizzato il modello esso viene estratto dal robot e solidificato definitivamente in un forno a luce ultravioletta.. Dopo di ciò può essere anche verniciato o sabbiato o ricevere altre finiture speciali. Le ricerche si stanno spostando sempre più per giungere alla stereolitografia con materiali anche più efficienti come i metalli e le polveri ceramiche10. Le quattro rappresentazioni del pensiero plastico Il pensiero plastico si esprime, ossia si rappresenta sia con disegni collocati su superfici bidimensionali che mediante la realizzazione di manufatti e artefatti materiali o immateriali (quindi digitalizzati) ma aventi o tre dimensioni reali o tre dimensioni simulate. Il pensiero plastico in ogni caso è sempre un pensiero 3D, pertanto un singolo disegno bidimensionale non può esprimere e realizzare pensiero plastico, ma solo, e al massimo, una visione parziale del pensiero plastico. Le assonometrie, ad esempio, sono le forme bidimensionali che meglio si avvicinano al pensiero plastico, ma anche una sola assonometria non può condurre alla rappresentazione del pensiero plastico. Perché non possono essere visti tutti i punti di vista dell’artefatto rappresentato. Quindi, anche nel caso delle assonometrie, occorre ricorrere a più punti di vista e almeno due con una visione dall’alto e dal basso e in controcampo. In realtà occorrono altre assonometrie con spaccato per valutare l’interno del manufatto. In tutto i casi possiamo dire che il pensiero plastico non può accontentarsi di un solo punto di vista, perché il bidimensionale lo tradisce sempre. Il pensiero plastico è sempre plurivisivo perché pensa girando attorno al manufatto esplorato o pensato e vi entra dentro esplorando con tante visioni quante sono quelle necessarie per cogliere tutte le differenze significative. 10 MACCHI CASSIA A. 1995 Dal progetto al modello alla produzione In Stileindustria anno 1 numero 2 – editoriale Domus 22
  • 23. Sul piano non logicotecnico, ma espressivo, il cubismo ha tentato di esprimere il tentativo di superare i limiti della monovisione che sembrava implicita nel supporto bidimensionale della rappresentazione. Il cubismo ha allora abbandonato il realismo retinico e si è collocato nella plurivisione per assemblaggio parziale di più punti di vista sintetizzati in una sola superficie rappresentativa bidimensionale. Pensiero plastico territoriale. – Comunque un artefatto non ha i confini solo interni a se stesso, appartiene ad un intorno, ad un contesto e ad un ambiente. Anche l’esplorazione di questi aspetti fondamentali richiede lo sviluppo di pensiero plastico e rappresentazione plastica. Ciò comporta lo sviluppo del pensiero plastico territoriale, di cui il vedutismo prospettico dall’alto a volo d’uccello, maturato in contesto illuministico e settecentesco, ha rappresentato uno straordinario avvio. I disegni tecnologici di reti, di impronta per lo più ingegneristica, come gli acquedotti, le reti elettriche, le reti telefoniche, le reti di telefonia mobile, le reti telematiche afferiscono alla tipologia del disegno plastico territoriale. Con l’evolversi del pensiero ecologico e della sostenibilità si è sviluppato anche un altro importante pensiero plastico territoriale, quello che considera tecnicamente ciò che Commoner chiama ‘la chiusura del cerchio’ ossia il fatto che ogni elemento di matrice naturale, dopo che è stato trasformato tecnologicamente e ha superato il ciclo di vita come artefatto, ritorna a stretto contatto con l’ecosfera e gli elementi naturali e allora deve essere compatibile durante il suo periodo di attività e dopo la dismissione. Ecco allora che, ad esempio, l’acqua naturale captata per gli acquedotti, diventa acqua tecnologica ed entra nel pensiero plastico delle condotte, degli impianti degli edifici e transita nelle reti fognarie e se si vuole che il cerchio si chiuda allora l’acqua tecnologica, specie se fortemente inquinata, deve ritornare nei corpi idrici naturali una volta depurata in modo adeguato e quindi dopo essere passata attraverso l’ecotecnologia degli impianti di depurazione. Solo allora correttamente potrebbe immettersi nei corpi idrici naturali chiudendo il cerchio del processo - acqua naturale – acqua tecnologica – acqua rinaturalizzata con processo tecnologico riconvertente – acqua naturale. Analogo discorso si dovrebbe fare - per i fumi (ossia aria tecnologica) prima di immetterli nell’atmosfera (ossia nell’aria naturale) - e per i suoli tecnologici (ossia contenenti additivi fisico-chimici sintetici, esito di attività tecnologiche) prima di essere immessi in connessione con il suolo naturale, capace di attività biotica. Esistono allora quattro modalità fondamentali di pensiero plastico: - il pensiero esplorativo dell’intorno esterno di un artefatto ( rappresentazione per piani ortogonali con le procedure primarie della pianta, alzato frontale e alzato laterale, sintetizzati nelle sequenze assonometriche che possono fare l’esplorazione dell’intorno mediante rappresentazioni in sequenza estesa 23
  • 24. fino a dare la visibilità a tutto il processo esplorativo che compie il giro attorno all’artefatto) - il pensiero esplorativo interno dell’artefatto, ossia presupponendo di poter andare dentro la ‘pelle dell’artefatto’ per coglierne gli elementi costitutivi che non sarebbero visibili e pensabili come costituenti strutturali al di sotto della superficie (i mezzi rappresentativi per fare tale esplorazione di pensiero plastico interno sono le sezioni, le assonometrie a spaccato, le assonometrie esplose e in campo digitale le promenades digitali) - il pensiero plastico territoriale che vede l’insieme di un artefatto esteso come un sito ad impiantistica complessa o con l’assetto di rete territoriale. Il pensiero plastico richiede la capacità di una visione ampia che quasi mai è data da situazioni e contesti normali. E’ più facile che sul piano percettivo si realizzi mediante voli d’aereo e si concretizzi in foto aeree oppure producendo panoramiche da alte torri, antenne o cime di montagne che consentano riprese estese. In realtà il pensiero plastico territoriale spesso deve integrare la non visibilità reale con una visibilità tecnica per essere in grado di sviluppare delle rappresentazioni di insieme vasto e consentire l’esplorazione di artefatti estesi sia nella tipologia dell’esplorazione esterna che nella esplorazione interna. Usando quindi le forme rappresentative a scala ampia che si sono ricordate per i due precedenti tipi di pensiero plastico riferiti ad artefatti piccoli o comunque circoscritti. - il pensiero plastico ecologico è un particolare tipo di pensiero territoriale. Dal punto di vista tecnico e delle modalità di rappresentazione non differisce da quello territoriale descritto in precedenza. Se ne differenzia fortemente per le finalità. Esso infatti è un pensiero plastico che pensa e rappresenta la sequenza operativa che non solo produce e fa funzionare un artefatto esteso su un territorio vasto, ma soprattutto indica, pensa, descrive, esplora, valuta i punti e contesti tecnologici in cui il ‘cerchio si chiude’, ossia dove l’ecotecnologia garantisce le situazioni in grado di esprimere la sostenibilità del ritorno alla rinaturalizzazione. Dei quattro tipi fondamentali di pensiero plastico - due sono mirati prevalentemente sull’artefatto due sono mirati sul territorio e il contesto ambientale in cui un - artefatto agisce e produce rapporti di interdipendenza, ossia dove da topico diventa sistemico. Il valore dei modelli Il pensiero plastico, pur esprimendosi prevalentemente con l’uso di artifici bidimensionali, diventa compiutamente plastico solo quando costruisce artefatti rappresentativi a tre dimensioni, ossia produce plastici. Il pensiero plastico ha allora bisogno di andare un po’ oltre la sola dimensione grafica per accedere ad un campo che è del pensiero scultoreo o modellistico. 24
  • 25. Abbiamo testimonianze che attestano che nell’antichità si faceva ampio uso di plastici, anche se non sono giunti a noi se non attraverso citazioni nella grafica e pittura di ceramiche o frammenti di affresco miracolosamente salvati. Sappiamo che anche il medioevo romanico faceva uso di modellini, ossia pensiero plastico materializzato, ma è con la cultura gotica che si diffonde un ampio uso di modellini, pur se di questi stessi non abbiamo documenti originali, ma rappresentazioni parallele presenti sotto forma di artefatti nell’oreficeria e nella scultura a tutto tondo o a basso rilievo. E’ il Rinascimento che consacra l’uso dei modelli plastici e pur avendo perso l’immensa produzione che vi fu di modelli lignei, comunque ci rimangono numerosi esemplari autentici che ci mostrano in modo plastico come questa pratica fosse molto in auge e come il Rinascimento abbia immesso nella cultura occidentale una procedura fondamentale che poi si sviluppò ulteriormente nel seicento, arrivò a forme artistiche e non solo tecniche con la scenografia e le macchine teatrali e ebbe il suo momento di consacrazione con la cultura illuminista fino a divenire patrimonio consueto della cultura ingegneristica consacrata dall’industrialismo che, essendo civiltà delle macchine, aveva più che mai bisogno di affidarsi alla transizione dal progettato al realizzato attraverso la conferma e il controllo dei prototipi e dei modelli plastici. Oggi sappiamo che l’ultimo fronte della produzione di modelli ha un’interfaccia digitale nella coppia CAD/CAM che consente di produrre modelli di grande precisione attraverso la procedura di stereolitografia e la prototipizzazione rapida. Dobbiamo anche ricordare un passaggio importante consacrato e diffuso anche con l’autorità di Galileo: gli esperimenti non sono più di tipo logico- formale ed argomentativo di tipo verbale, sono sperimentali non solo perché sottoposti al vaglio, ma perché verificati in applicazioni in contesti artificiali e materiali costituiti da modellini di strumentazioni: sono così indagate le leggi della caduta dei gravi con modelli di piani inclinati, del pendolo con ricostruzioni semplificate che consentano di avere modelli per verifica dell’isocronismo, ecc. Non è il caso di diffondersi a descrivere le procedure di realizzazione di modellini, perché occuperebbero troppo tempo, ma bisogna sottolineare l’irrinunciabile importanza di far fare agli allievi questa esperienza, senza la quale il pensiero plastico manca di una modalità di espressione fondamentale e non è dotato di uno strumento operativo concreto. Forse invece è opportuno spendere due brevi parole sulle tipologie principali di modelli o plastici: - modelli isomorfi: rappresentano in modo plastico un artefatto o un contesto artificiale in modo visibilmente imitativo delle forme dell’artefatto reale. I plastici degli architetti e degli ingegneri in genere sono di questo tipo. I modellini-giocattolo delle automobiline, moto, aerei e veicoli in genere, passione dei collezionisti, sono per lo più di questo tipo. 25
  • 26. I modelli isomorfi sono adatti a sviluppare il pensiero plastico mirato sulla comprensione della ‘forma’ dei manufatti - modelli analoghi: se io metto in piedi due grossi libri di altezza e volume eguali e sopra vi stendo orizzontalmente un foglio di cartone pari alla distanza esterna dei due libri-contrafforti, ottengo un modello analogico di ponte. Un modello analogico non somiglia in niente all’artefatto reale né per materiali usati né per funzionamento perché non opera nelle stesse condizioni dell’artefatto reale, ma serve per capire la struttura e le dinamiche fisiche dell’artefatto modellizzato. Serve per capire alcuni ‘comportamenti’ dell’artefatto nella sua versione simulata. Presenta una vaga forma che richiama ‘analogamente’ l’artefatto di riferimento, ma soprattutto serve ad evidenziare come si tengono insieme le parti costitutive dell’artefatto divenendo un insieme interagente in modo congruo (ossia si fa struttura) e come funziona rispetto alle sollecitazioni e dinamiche fisiche che agiscono su di lui. modelli omologhi: con questo tipo di modelli si vuol mettere in evidenza la logica di similarità tra modello e artefatto reale non tanto per forma e capacità di tenuta alle sollecitazioni, ma per le leggi scientifiche e logiche a cui fa riferimento. E’ il tipo di modello meno realistico in quanto si rifà alle categorie astratte e formali, logiche e matematiche dell’artefatto di riferimento. Un esempio significativo è dato dal tunnel del vento usato per studiare la forma aerodinamica dei veicolo, auto o aerei che siano. Nella realtà non esiste un tunnel del vento, ma esiste il vento reale e l’azione dinamica dell’aria sui corpi in movimento. Il tunnel del vento prende in considerazione la logica della dinamica dell’aria e la applica in un modello che non ha niente di realistico, ma evidenzia una similarità rispetto ad un aspetto funzionale e logico. I modelli scientifici in genere sono omologhi. Ad esempio quando Galileo volle modellizzare l’isocronismo del pendolo ricorse ad un modello. La realizzazione materiale di un artefatto materiale e strumentale di pendolo o, per citare un altro caso, di piano inclinato è il modello omologo dell’isocronismo e della caduta dei gravi. Il modello omologo non riproduce realisticamente una situazione di caduta o sollevamento, ma semplifica enormemente la rappresentazione della realtà, consentendone un’interpretazione rigorosamente logica e matematica. Poiché i modelli omologhi sono i più difficili, forse può essere utile fare un altro esempio. Se si volesse capire come agisce la forza di gravità in una struttura che abbia più livelli di altezza (es. un edificio a molti piani), si può fare una struttura deformabile composta da parti sovrapponibili e collegate. In concreto si possono prendere alcune lamine metalliche e saldarle in modo che formino un nastro a cerchio o ellissoide. Tre o quattro di questi nastri si sovrappongono uno all’altro saldandoli nella parte mediana e superiore. Il primo viene saldato al piano di appoggio e i successivi sono fissati fra loro nella zona mediana del sovrastante. 26
  • 27. In tal modo si ottiene una struttura composita, sviluppata in altezza. Essa é costituita da nastri metallici collegati e da vuoti. Se si mette un peso sulla parte superiore dell’ultimo nastro-anello, tutti i nastri si deformano e si schiacciano. Se il peso lo metto solo nella parte sottostante dell’ultimo anello più alto, tutti gli anelli si schiacciano, ma la parte superiore dell’ultimo anello si schiaccia meno, perché non sollecitata direttamente. Se il peso lo metto nell’ultimo anello più basso e nella parte sottostante a livello del piano di appoggio, l’intera struttura non subisce deformazioni, perché l’oggetto pesante agisce sulla superficie del piano di appoggio e non interessa la struttura superiore. Se il peso lo metto in un anello mediano, gli anelli sottostanti si deformano, ma la parte soprastante non presenta deformazione significativa. Un altro bell’esempio di modello omologo è la pila di Volta. Essa non è l’elettricità, ma è un modello in grado di produrla e dimostrarla esistente. I modelli omologhi servono pertanto a studiare un aspetto logico o scientifico o matematico, ma hanno ben poco di simile sia alla forma che alla struttura reale di un edificio o di un fenomeno, mentre la logica dell’azione della forza di gravità è ben rappresentata nell’esempio del modello a nastri metallici. I modelli omologhi sono i più difficili da spiegare e soprattutto inventare e quindi non vanno proposti senza un esercizio preparatorio alle capacità plastiche di tipo meno complesso (a meno che non emergano spontaneamente dagli allievi e allora bisogna accogliere con grande gratificazione l’evento e spiegare di quale natura plastica sia dotato). Comunque gli studenti vanno abituati a pensare plasticamente, - dapprima usando i modelli isomorfi (hanno la stessa forma del reale), - poi i modelli analoghi (hanno la struttura simile al reale per renderli sensibili, - appena sarà possibile, pensare plasticamente anche le leggi fisiche e di geodinamica applicata agli artefatti. Allora si introdurranno gradualmente i modelli omologhi. I modelli omologhi non somigliano minimamente alla forma dell’artefatto di riferimento, non ne esprimono neppure la funzione, sono piuttosto la rappresentazione concretizzata del concetto astratto che dà senso e logica ai vincoli e alle logiche rigorose di un artefatto, è una rappresentazione materiale o percepibile di concetti astratti, formali e scientifici. Il pensiero visivo-plastico del dettaglio: dal piccolo al nanotecnologico Il disegno è un processo di conoscenza del mondo mentale e del mondo reale. Fa da ponte conoscitivo fra le due modalità di produrre e utilizzare immagini ed è strumento per elaborare – trasformare le immagini retiniche, 27
  • 28. ma è anche mezzo per rettificare le immagini mentali e portarle a farsi dialoganti, compatibili e fattibili rispetto al mondo reale ed esterno. La capacità di analisi del mondo mentale e del mondo esterno certamente conduce alla condizione di produrre anche immagini integrate e unitarie, ma non poche volte il processo conoscitivo e progettuale ha bisogno di soffermarsi su aspetti parziali, settoriali e particolari. Esiste allora la necessità di pensare e rappresentare il dettaglio, sapendo che non poche volte il dettaglio è tutt’altro che un fenomeno marginale, piuttosto caratterizza l’insieme di un artefatto e gli attribuisce dotazioni fondamentali. Il dettaglio in questo caso diventa una sorta di artefatto dentro l’artefatto con una sua quasi autonomia forma e funzione. Saper pensare quali sono i contorni e le aree di pertinenza del dettaglio è un pensiero che giostra bene le capacità analitiche e sintetiche. Anche nella scelta del dettaglio la rappresentazione deve essere adeguata, ossia necessaria e sufficiente. La capacità di pensare al dettaglio oggi è molto facilitata in quanto tutti sono ‘istruiti’ dal linguaggio fotografico e filmico all’interno dei quali svolge un ruolo determinante la tecnica della zoomata. La zoomata è proprio la scelta della riduzione di campo visivo per mettere in evidenza un particolare e un dettaglio che cessano in quel momento di essere tali e diventano semmai oggetto in senso pieno e proprio. Il linguaggio filmico ha elaborato una articolazione sapiente dei rapporti tra intero e parte con le distinzioni in sequenza dove possono succedersi momenti di visione ampia e di visione ristrettissima, secondo il ben noto repertorio: campo lunghissimo, campo lungo, panoramica, campo americano, campo medio, primo piano, primissimo piano, dettaglio, zoomata in profondità e dissolvenza. Anche nel mondo premoderno i grandi progettisti ricorrevano al disegno di dettaglio per focalizzare momenti significativi dell’artefatto che volevano realizzare. Oggi, grazie alla consuetudine filmica, è possibile ricorrere maggiormente al pensiero plastico di dettaglio, ma non si tratta di operazione semplice. Occorre allora educare alla scelta pertinente ed utile e non favorire processi dispersivi di indagine grafica parcellizzata e frammentata. Occorre che il disegno e le rappresentazioni d’insieme e di dettaglio siano orientati a costruire un’organica sintassi della comunicazione rappresentativa, con le sue scansioni di paratassi, ipotassi, ossia di coordinazione delle parti o di distinzione gerarchica delle parti. Questa dimensione diventa ancor più importante in un contesto di società infoindustriale. Infatti la presenza massiccia di circuiti digitali e integrati in modo progressivo porta al fenomeno diffuso della miniaturizzazione spinta in forma incrementale. I manufatti contenenti microprocessori e circuiti integrati riguardano un mondo tecnologico reale, ma sempre più lontano dalla visione retinica umana. Si tratta di tecnologia esistente, ma non visiva, propriamente tecnologia avisiva, ma che proprio per questa sua caratteristica ha bisogno di una nuova visibilità. Essa può venire dal mondo della rappresentazione e del disegno, ovviamente con tutta prevalenza rispetto al disegno digitale. 28
  • 29. La miniaturizzazione digitale è comprensibile e comunicabile se si diffonde una pratica di disegno in grado di rappresentare il miniaturizzato e di far capire la natura sofisticata ed efficace digitalizato a scala ridotta e ridottissima. E’ soprattutto in questo campo che va applicata la metodologia dello zoom e delle procedure maturate in campo fotografico e filmico. Nella progettazione di artefatti con componentistica elettronica è impensabile la progettazione e la comprensione degli infoggetti, ciò implica la gestione di particolari e microdettagli. Il discorso sul disegno con orizzonte miniaturizzato si fa ancora più significativo quando si consideri che il mondo robotizzato costituisce il versante materiale della dimensione digitale e immateriale della tecnologia dell’infosocietà. Se i robot, soprattutto nella versione della fabbrica automatizzata e robotizzata, mantengono una volumetria notevole e cioè macroscopica, ora si affaccia un nuovo versante della tecnologia rappresentato da robot sempre più piccoli, piccoli al punto di entrare nella categoria della tecnologia avisiva. Si tratta, per usare una terminologia sintetica, delle nanotecnologie. Un campo di applicazione considerato subito di grande applicabilità e utilità è quello della microchirurgia e della microdiagnostica in grado di entrare nel corpo umano con nanomacchine poco invasive. Ma in realtà la nonotecnologia si annuncia come campo assai fertile in moltissimi settori e, se vogliamo educare le nuove generazioni al contesto di vita in cui effettivamente esprimeranno la loro esistenza, non possiamo eludere l’educazione al miniaturizzato e ancor più al nanotecnologico, con i corrispettivi apprendimenti in campo di disegno e rappresentazione. Gli artefatti ‘ufficiosi’ e strumentali In tecnologia il disegno è sempre in funzione degli artefatti, ma non sempre ciò che si progetta appare come artefatto finale, vi sono numerosi artefatti che precedono la realizzazione dell’artefatto o sono collaterali o complementari all’artefatto. Non mi riferisco tanto ai modelli e ai plastici che non confluiscono materialmente all’artefatto finale, ma pur sempre rivelano un riferimento per la progettazione o visualizzazione dell’artefatto in se stesso, ma mi riferisco - agli stampi, - alle casseforme, - ai calchi - alle gettate - ai casseri - alle matrici per la riproduzione in serie. Anche gli elementi elencati in precedenza sono artefatti, ma non appaiono quasi mai per i destinatari-utenti degli artefatti. Eppure sono indispensabili per realizzare quegli artefatti nel cui processo realizzativo siano richieste una fusione e una colata. Anche questi pre-artefatti o artefatti strumentali richiedono progettazione, quindi disegno e disegno in genere molto accurato, certamente non di livello inferiore all’artefatto finale. Anzi si deve dire che l’artefatto finale non poche volte viene progettato e disegnato in un certo modo proprio perché l’uso degli stampi impone alcune condizioni o vincoli come ad esempio il problema di non avere effetti da sottosquadro, ossia cavità o incisioni profonde che formino un angolo acuto con il piano da cui derivano e in cui affondano. 29
  • 30. Se si produce un sottosquadro il materiale fuso o colata non solo fatica ad andare in un anfratto così ramificato, ma una volta solidificato non consente di estrarre il manufatto dallo stampo stesso, in quanto si forma una parte rigida incistata e non estraibile se non rompendola.. Ecco allora che il disegno dell’artefatto progettato non deve considerare condizioni da sottosquadro oppure deve aggirare il problema del sottosquadro con una rotazione o frazionamento dello stampo tale da non impedire l’estrazione dell’artefatto solidificato dentro lo stampo ad operazioni concluse. di fusione o colata. E’ chiaro che la capacità di disegnare gli artefatti strumentali in funzione della corretta produzione non è una questione minore del disegno tecnico. Come pure non è questione minore quella di progettare e disporre in modo rigoroso i ponteggi, le centinature e le impalcature quando si deve produrre un artefatto architettonico o comunque di dimensioni medioestese ed estese.. Le foto e i filmati tecnici Un ultimo cenno, last but not least come si dice, va ai sistemi di rappresentazione legati alle procedure fotografiche e dei filmati. La questione diventa sempre più importante non solo perché è uno dei sistemi rappresentativi più ricorrenti nella nostra società, ma anche perché con la diffusione delle macchine fotografiche e videocamere digitali si rende possibile un’interfaccia friendly con i computer e quindi l’azione sul materiale digitalizzato pure in ottica progettuale. Va anche sottolineato che la modalità di rappresentare gli artefatti più antica e consolidata è quella della pianta, dell’alzato frontale e dell’alzato laterale. Bene: in molti casi è possibile realizzare rappresentazioni rigorose non mediante disegno e grafica, ma mediante foto e filmati, ovviamente con il vincolo che le riprese siano rigorosamente zenitali, isomorfe di scala (cioè con costanza di asse di focalizzazione) e con un’impostazione concettualmente impostata su una sequenza di piani ortogonali. Questo aspetto è importante anche perché sempre più gli artefatti possono stare sul mercato se vengono ben rappresentati e la buona rappresentazione è quella in grado di offrire una rigorosa illustrazione ed informazione. Le foto e i filmati di tipo tecnico sono molto adatti nella compitazione di cataloghi, dépliant o CD illustrativi dei prodotti soprattutto ad uso di operatori, tecnici, imprenditori e responsabili commerciali o clienti di livello culturale elevato. Non possiamo non fare cenno su un sistema di rappresentazione che oggi ha molta più diffusione in campo tecnico dopo lo sviluppo di forme semplificate di tipo digitalizzato e cioè l’animazione. L’animazione è una tecnica rappresentativa in grado di far descrivere, progettare e problematizzare un artefatto nella sua prospettiva dinamica. L’animazione è proprio un ottimo strumento per simulare il funzionamento, gli stadi e le fasi che un artefatto può avere quando l’artefatto vada considerato come processo e non come prodotto colto in un istante chiuso. Di fatto l’animazione consente di introdurre tecniche e linguaggi filmici nella gestione tecnica degli artefatti, senza ancora dover realizzare l’artefatto in senso proprio. Le animazioni consentono pertanto esperienze di prototipi simulati. 30
  • 31. Altro discorso è quello rivolto a foto e filmati di tipo emozionale o estetico come prevalentemente avviene in campo pubblicitario. Questo è un altro importante campo che interessa sempre la rappresentazione tecnica pur se non è direttamente rivolta alla produzione e informazione di artefatti. Semmai considera effetti alone sugli artefatti a scopi di marketing e di vendita. Tale settore della rappresentazione tecnica esula da quello che volevamo qui considerare, anche se costituisce un campo importantissimo dei sistemi di rappresentazione. CONCLUSIONI ? Il pensiero plastico, come si spera di aver evidenziato, è modalità importante dell’intelligenza umana. Esso richiede un articolato linguaggio specifico e questo riguarda il disegno e i sistemi di rappresentazione. La casistica dei sistemi di rappresentazione è assai vasta, ma alcune modalità di rappresentazione appaiono ineliminabili, per cui (in un sistema formativo che voglia dare rilevanza alla tecnologia), tali modalità di rappresentazione devono essere considerate e sviluppate. La natura ampia di tale forma di conoscenza ed elaborazione di conoscenza costituisce una cultura, ossia un sistema complesso mediante il quale le persone esplorano il mondo e le dinamiche della mente, codificano le conoscenze ed elaborano nuovi processi, introducendo nuovi comportamenti e confermando comportamenti già esistenti, in una visione ecosistemica in cui l’intero ambiente inteso come ecospazio, viene colto e vissuto in modo coordinato, pur avendo strumenti per indagare, progettare, gestire modificare i grandi campi ecosistemici del biospazio, tecnospazio e sociospazio. Che il disegno e i sistemi di rappresentazione possano costituire fattori significativi per promuovere un’ecologia della mente, credo che nelle cose qui dette possa essere stato se non descritto in modo esauriente, almeno colto in modo intuitivo. Ma per rendere più esplicito quest’ultima questione ovviamente occorrerebbe argomentare di più e più a fondo. Ma non è il caso. Ci basti un’idea primaria o abbozzata. O meglio uno schizzo. 5 dicembre 01 31
  • 32. Bibliografia AMERY C. 1991 A celebration of art & architecture National Gallery, London BASSIGNANA P.L. L’iconografia di Valturio in In ID Le macchine fantastiche di Valturio U. Allemandi 1988 ITALO CALVINO 1965 Un segno nello spazio In Le cosmicomiche Einaudi 1965 CORTI B. (a cura di) 1991 Archeologia industriale ICMAI – Il coltello di Delfo, Brescia DE FUSCO R. 2001 Trattato di architettura Laterza, Roma-Bari Con attenzione per il cap. Terzo ‘Il disegno’ p. 136- 193. LEMOINE B. 1993 Architettura e ingegneria come professioni Jaca Book, Milano MACCHI CASSIA A. 1995 Dal progetto al modello alla produzione In Stileindustria anno 1 numero 2 – editoriale Domus MAGNAGO LAMPUGNANI V. E MILLON H. 1994 Rinascimento. Da Brunelleschi a Michelangelo. Bompiani, Milano MALDONADO T. 1992 Reale e virtuale Feltrinelli, Torino G. SCHMITT 1998 Information architecture. Basi e futuro del CAAD Testo & Immagine, Torino. WRIGHT F.LL. 1963 Testamento Einaudi, Torino p. 20-21 32