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Nicola Procaccini : La Cina senza donne
1. Infanticidi. La Cina si scopre senza donne
di Nicola Procaccini
Le regole della pianificazione sociale in Cina sono chiarissime: una coppia, un figlio. Chi si rifiuta e
partorisce anche solo un figlio in più viene punito. Mao Hengfeng, madre di due bambini, è stata
condannata a diciotto mesi di lavori forzati, fatta oggetto di torture e soprusi, si trova in un campo di
rieducazione statale a Shangai, dopo esser passata per l’ospedale psichiatrico ed essere stata
sottoposta ad elettroshock. Di questa donna conosciamo il nome e la vicenda (è stata anche
licenziata dalla fabbrica di sapone dove lavorava…) perché Human Rights in Cina (HRIC) sta
conducendo una campagna in favore della sua liberazione, ma di quante altre cinesi non
conosciamo il dramma.
Ha fatto notizia in occidente l’allarme lanciato da Xie Zhenming, vice direttore della Commissione
Statale per la Pianificazione Familiare, ente nazionale che mette i brividi già dal nome. “Circa
trenta milioni di uomini cinesi rischiano di restare single – ha dichiarato Xie Zhenming – sono
troppo poche le donne in rapporto agli uomini: bisogna prendere provvedimenti prima che la
situazione ci sfugga di mano”. A molti è sembrata quasi una notizia di costume, a coloro che
osservano costantemente la realtà del continente asiatico è parsa soltanto la conferma di un
genocidio. L’infanticidio delle bambine cinesi, il loro abbandono, l’aborto selettivo dei feti di sesso
femminile sono tutti fenomeni generati dalla “politica del figlio unico” inaugurata da Deng
Xiaoping già nel 1978 e rigidamente applicata ancora oggi. In paesi dalle condizioni sanitarie
precarie come la Cina il numero delle donne dovrebbe essere molto superiore a quello riscontrato
ufficialmente, perché la bambine sono più robuste alla nascita rispetto ai maschi. Lo sbilanciamento
in favore dei maschi è determinato dal piano governativo di controllo delle nascite che spinge le
coppie ad eliminare le figlie femmine o a non registrarle alla nascita affinché sia maschio l’unico
figlio a loro consentito. Alla base di questo non ci sono tradizioni obsolete ma delle ragioni assai
pratiche. La femmina è meno utile alla famiglia, soprattutto nelle zone rurali, perché più fragile per
il duro lavoro nei campi e rappresenta un onere economico importante per i suoi genitori, tanto da
discriminare le bambine e privilegiare i maschi nell’alimentazione, nell’assistenza sanitaria e
nell’istruzione. Le bambine non registrate, semplicemente, non esistono, non hanno diritto ad
andare a scuola, ad una vita dignitosa, sono condannate alla subordinazione al marito, alla
mancanza di opportunità lavorative, allo sfruttamento e spesso alla prostituzione. Bambine, queste,
che almeno hanno avuto l’opportunità di sopravvivere, diversamente da quelle soppresse appena
nate. L’agenzia “Asia News” a questo quadro raccapricciante aggiunge il traffico di esseri umani.
La penuria di donne spinge sempre più gli uomini che non riescono a trovare moglie a ricorrere al
traffico delle donne (spesso minorenni) con nazioni altrettanto disastrate come la Corea del Nord.
Molti genitori, per ottenere i permessi di residenza, sono disposti ad abbandonare nelle strade i loro
piccoli creando così un grandissimo numero di bambini di strada privi di qualsiasi tipo di protezione
che vanno ad affollare gli orfanotrofi o finiscono in balia della criminalità, del lavoro minorile, del
mercato della prostituzione o della vendita degli organi.
I bambini che affollano gli orfanotrofi, per lo più, sono secondogeniti mai dichiarati ed abbandonati
o primogeniti portatori di handicap. Norma Mayer, una reporter americana, ha visto con i suoi occhi
in un orfanotrofio di Harbin, 170 bambini in condizioni terrificanti di denutrizione. Di questi, 120
erano bambine. Alcune vengono trovate dagli operatori della nettezza urbana nei depositi di
immondizia delle metropoli. Le più fortunate sono ancora vive. Dominique Musorrafiti su “Cina
2. Oggi” racconta di una coraggiosa spazzina di Pechino, Chen Rong, che ha trovato ben cinque
neonate abbandonate. “Le ha portate tutte nella sua piccola stanza e con suo marito ha cercato di
fare qualcosa di concreto per loro. Una delle bambine è morta – scrive la Musorrafiti - prima che
riuscisse ad arrivare a casa e così un suo collega ha preso i suoi abiti prima di lasciarla morire.
Chen in quel momento fu l'unica a voler portar via la bimba, poiché non sopportava di vederla
morire così”.
I demografi governativi raccomandano di stabilizzare la popolazione a quota un miliardo e trecento
milioni, un obiettivo che può essere raggiunto solo con l’adozione di misure severe ed inflessibili.
La sproporzione fra i sessi è un grave problema nazionale. Recentemente, il governo di Pechino ha
adottato delle misure incentivanti per i genitori di figlie femmine, ma non ha intaccato “la politica
del figlio unico”; pochissimi ottengono il permesso per un secondo figlio e sono sempre i funzionari
del Partito Comunista Cinese.
Ufficialmente la coercizione nella pianificazione delle nascite non è permessa, ma la realtà in Cina è
ben diversa. E’ la realtà documentata da Amnesty International: “Donne incinte “fuori quota” sono
state prelevate nelle loro abitazioni, costrette ad abortire e sterilizzate. Chi rifiuta di seguire le
raccomandazioni viene minacciato e perseguitato dalla polizia. Alcuni neonati “fuori quota” sono
stati uccisi dai medici in seguito a pressioni ufficiali. Le case delle coppie che non obbediscono alle
regole della pianificazione sono state demolite. I parenti di coloro che non possono pagare le multe
per chi ha troppi bambini sono stati trattenuti fino al pagamento della sanzione. Chi aiuta le
famiglie con i figli “fuori quota” viene severamente punito. Inoltre – conclude il documento di
Amnesty International - chi commette violazioni dei diritti umani, mentre applica la politica di
controllo delle nascite, non viene mai punito”. E’ un altro dramma nella brutale realtà della Cina di
oggi, è la questione dei diritti umani dimenticata dai Paesi occidentali. Non si tratta di dazi
doganali, di valute finanziarie e di scambi commerciali, non è una questione economica. Quindi, è
un dramma che non c’è.
Pubblicato dell’Indipendente del 26 maggio 2005