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L’attenzione al tema delle condotte persecutorie nei rapporti di lavoro – ovvero il c.d.
mobbing – sta crescendo in maniera geometrica. Come spesso avviene in questi casi,
da un lato si tratta dell’emersione, forse tardiva, di un problema sociale di grande
rilievo; dall’altro vi è il rischio che l’argomento sia trattato come fenomeno ‘alla moda’.
Note Informative sta cercando da tempo di dedicare al tema, e agli strumenti giuridici
di tutela dei lavoratori vittime di comportamenti vessatori, una riflessione seria (v. di
recente le schede pubblicate nel fasc. 34/2005, p. 42 e ss. e la scheda sui profili probatori
pubblicata nel fasc. 37/2006, p. 101). In questo fascicolo, l’avv. Laura De Cristofaro
approfondisce i profili di diritto penale, illustrando le condizioni alle quali la denuncia di
reato può essere strumento integrativo dell’azione di tutela della lavoratrice o del lavoratore ‘mobbizzati’. A parte, viene proposta dall’Autrice una valutazione sulle cautele
da osservare perché la denuncia di comportamenti vessatori non esponga il lavoratore, a sua volta, a conseguenze punitive (ad esempio in relazione al reato di diffamazione).

Mobbing: I profili di diritto penale

Quando il ‘mobbing’ è reato:
i maltrattamenti sul luogo di lavoro
L

a giurisprudenza di legittimità ha di recente confermato che la figura
maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti la condotta di mobbing
è il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.). La sentenza 9 luglio
2007 della sezione V penale della Corte di Cassazione1 - che ha avuto
un’eco ampia e distorta sui media, che si sono affrettati ad annunciare
che ‘il mobbing non è reato’ - non è isolata ma si inserisce in un orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità e di merito, secondo il quale la condotta di mobbing, in difetto di un’apposita previsione
delittuosa, è punita ai sensi dell’art. 572 c.p..
Con tale norma il legislatore ha inteso punire proprio la degenerazione di
rapporti qualificati, siano essi di famiglia, di affidamento o di
subordinazione gerarchica, che sfociano in comportamenti afflittivi per la
parte più debole. La struttura della fattispecie e in particolare la condotta,

di Laura De Cristofaro

nota
1
Con la pronuncia richiamata, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del Pubblico Ministero e della persona offesa avverso
la sentenza di non luogo a procedere del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere, per
l’inidoneità del capo d’imputazione, che era stato erroneamente formulato contestando il reato di lesioni volontarie gravi.

Note Informative n.40 - dicembre 2007

95
schede monografiche

che è a forma libera (per l’appunto il maltrattare) e connotata dalla
abitualità, consentono di contenere la pluralità e varietà di atti persecutori
che costituiscono il mobbing.
I comportamenti ricompresi nel maltrattare possono essere di natura violenta o meno, ma anche di carattere vessatorio e prevaricatorio sul piano
morale, umilianti, svilenti e lesivi della dignità personale e professionale
del lavoratore, come abituali rimproveri ingiustificati, insulti, insinuazioni,
emarginazione e progressivo impoverimento delle mansioni, sino a degradare nei reati di ingiuria, diffamazione, percosse, violenza privata, minaccia e molestie sessuali.
Va detto che, trattandosi di fenomeno emerso di recente, il mobbing non
è stato ancora sottoposto all’attenzione del giudice penale in modo assiduo: così, i precedenti della giurisprudenza di legittimità che saranno esaminati riguardano casi emblematici, di particolare gravità, mentre l’esperienza della giurisprudenza di merito è altrettanto episodica, ma più varia.
Assai ampia è l’elaborazione giurisprudenziale in materia di maltrattamenti nel contesto familiare, ambito naturale di applicazione del reato,
che nel corso del tempo ha definito e precisato gli elementi costitutivi
della fattispecie. Tali principi, anche se elaborati per le relazioni familiari,
sono applicabili a qualsiasi rapporto qualificato richiamato dalla norma e,
dunque, anche al rapporto di lavoro subordinato.

L’applicazione del reato di maltrattamenti
al rapporto di lavoro subordinato.
La Cassazione Penale ha sancito, senza tentennamenti, che il reato di
maltrattamenti è posto anche a tutela del bene giuridico della integrità
fisica e del patrimonio morale del lavoratore subordinato. La Suprema
Corte ha superato un primo orientamento, fortemente connotato dall’ideologia fascista del legislatore del 1930, secondo cui il bene tutelato era
riconosciuto esclusivamente nella famiglia, espandendo rapidamente l’oggetto di tutela ai rapporti qualificati indicati nella norma e dunque anche
al rapporto di lavoro2.
La fattispecie delittuosa ha trovato così applicazione anche ai rapporti fra
datore di lavoro e lavoratore subordinato in particolare, proprio perché
caratterizzati dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al
datore nei confronti del lavoratore dipendente e che pone quest’ultimo
nella condizione di persona sottoposta all’autorità, specificatamente prevista dall’art. 572 c.p..
Secondo la giurisprudenza di legittimità3 e di merito4, il reato di maltratta-

note
2
Cassazione Penale, sezione II, 6 aprile 1964 e Cassazione Penale, sezione II, 86/173385.
3
Per quanto riguarda la giurisprudenza di legittimità, si richiama la pronuncia n. 10090 del 2001, che ha ad oggetto un caso
assai grave di lavoratori irregolari, quotidianamente sottoposti a vessazioni, umiliazioni e percosse da parte del datore di
lavoro. La Cassazione ha ribadito con estrema chiarezza che: “ (...) E’ configurabile il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572
c.p. a carico del datore di lavoro il quale, ricorrendo a sistematiche vessazioni fisiche e morali, consistenti in percosse,
ingiurie, molestie sessuali ed anche nella minaccia di troncare il rapporto di lavoro con perdita delle retribuzioni già maturate, cosa possibile, nella specie, in quanto trattavasi di rapporto di lavoro ‘in nero’ e le retribuzioni erano depositate su libretti

96

Note Informative n.40 - dicembre 2007
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menti si perfeziona quando l’assidua comunanza di vita sul luogo di lavoro, connotata da sistematiche vessazioni, morali o fisiche, riducano il lavoratore in uno stato di penosa umiliazione e sottomissione.
Autori dei maltrattamenti possono essere sia il datore di lavoro che i suoi
preposti5, anche in concorso fra loro ex artt. 110 e ss. c.p..
Non è indispensabile che il rapporto di lavoro sia regolato da un contratto
di lavoro subordinato: la norma non richiama tale condizione e, dunque,
è sufficiente che il lavoratore sia di fatto sottoposto all’autorità del datore
di lavoro o dei suoi preposti. Così il reato si applica anche al lavoro irregolare, che, nell’esperienza pratica, espone maggiormente il lavoratore
ad abusi del potere direttivo del datore di lavoro, tanto che la pronuncia n.
10090 del 2001 della Cassazione, appena richiamata in nota, riguarda
proprio il caso di lavoratori in nero, vittime delle afflizioni fisiche e morali
del superiore gerarchico.

La condotta di mobbing punita dall’art. 572 c.p.
La condotta delittuosa punita dalla fattispecie dei maltrattamenti ha forma
libera, risultando così capace di contenere una varietà di atti che siano,
proprio in ragione della loro sistematicità, idonei a produrre uno stato di
abituale sofferenza fisica e morale, lesivo della dignità della persona sottoposta all’autorità. Il reato è perfezionato ogni volta che la serie di comportamenti è collegata dall’abitualità, ovvero dalla continuità e dalla
ripetitività nel tempo.
I singoli comportamenti possono variamente connotarsi come azioni o
omissioni, atti violenti e non, e possono costituire o meno, presi singolarmente, autonomi reati, che eventualmente concorrono con la condotta
del maltrattare.
Non è necessario che la condotta si qualifichi come un concatenarsi di
reati. La Suprema Corte di Cassazione ha espressamente inserito nello
schema del delitto di maltrattamenti, non soltanto gli atti che costituiscono specifiche fattispecie criminose, quali lesioni, ingiurie, minacce, ma
anche azioni o omissioni che costituiscono privazioni, umiliazioni, atti di
disprezzo o di offesa alla dignità e qualsiasi azione o omissione che si

di risparmio intestati ai prestatori d’opera ma conservati dal datore di lavoro, mantenga i propri dipendenti, da considerare
persone sottoposte ‘alla sua autorità’, giusta previsione contenuta nel citato art. 572 c.p., in uno stato di penosa sottomissione ed umiliazione, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro forsennati.” (Cassazione Penale, sezione VI, 22 gennaio
2001, n. 10090, Erba).
4
La riconducibilità del mobbing ai maltrattamenti in famiglia è stata affermata anche dalla giurisprudenza di merito, secondo
cui: “(...) ordinariamente s’individua il mobbing nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 572 c.p., che a sua volta si caratterizza da una serie di comportamenti abitudinari non solo e non necessariamente violenti, ma anche di carattere vessatorio
dal punto di vista morale, con continui rimproveri e insulti, con lo sfruttamento morale e fisico di altra persona sottoposta ad
autorità, con una varia gamma di condotte che siano legate in una sorta di sistema di vita, o comunque legate da dolo
unitario.”(Ufficio Indagini Preliminari di Trani, 27 ottobre 2005).
5
La norma non individua specificatamente gli autori dei maltrattamenti, che possono essere dunque anche i preposti. Tale
conclusione è stata espressamente sottolineata anche dalla giurisprudenza di merito:“Rispondono del reato di maltrattamenti punito dall’art. 572 c.p., i preposti del datore di lavoro, che assumano condotte ostili, umilianti e lesive della dignità
personale dei dipendenti.“ (Tribunale di Torino, 3 maggio 2005).

Note Informative n.40 - dicembre 2007

97
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risolva in vere e proprie sofferenze morali, anche qualora si tratti di atti leciti6.
La giurisprudenza ritiene altresì che la condotta possa variare nell’intensità
lesiva e che possa essere interrotta da intervalli, purché le interruzioni non
siano tanto prolungate da infrangere l’abitualità delle vessazioni7. Così, la condotta vessatoria non è interrotta nel caso del lavoratore che si allontana dall’ambiente di lavoro per ragioni di cura o per il godimento delle ferie, dunque
per un periodo di tempo anche apprezzabile, per poi rientrare nel medesimo
contesto lavorativo, venendo a patire ulteriori afflizioni.
E’ dunque indispensabile verificare l’idoneità lesiva della condotta di mobbing
nel suo complesso - e non riguardo ai singoli atti subiti dal lavoratore -. Per tale
valutazione, si ricorre a parametri obiettivi quali la gravità dei singoli comportamenti, la loro frequenza, ripetitività e durata nel tempo. Inoltre, occorre accertare l’esistenza del nesso causale fra maltrattamenti e lesioni psico-fisiche
patite dal lavoratore. Comportamenti che integrano singoli reati, quali ingiurie,
minacce, percosse, violenze, molestie sessuali costituiscono di certo un marcato indice di gravità e specificità delle condotte vessatorie. Tuttavia, anche le
singole condotte criminose devono essere collegate dall’abitualità. In mancanza di tale collegamento, i reati non perfezionano la fattispecie dei maltrattamenti, rimanendo punibili separatamente, quali autonome figure di reato.

L’elemento psicologico del reato
La giurisprudenza richiede che l’abitualità e l’unitarietà della condotta si riflettano anche nella componente soggettiva. La condotta materiale del reato deve
essere quindi sostenuta dal dolo generico, ovvero dalla coscienza e volontà di
affliggere la persona offesa con una pluralità di comportamenti di prevaricazione e persecuzione.
Non è invece indispensabile che l’autore abbia programmato interamente la
propria condotta sin dall’inizio, poiché è sufficiente che la coscienza e volontà
si rafforzino man mano, nella consapevolezza del loro ripetersi e protrarsi nel
tempo8.

Reati assorbiti nella condotta di maltrattamenti:
l’ipotesi aggravata dell’art. 572 c.p.
La giurisprudenza ha stabilito che, sussistendo il nesso della sistematicità fra
singoli reati, talune figure perdano la loro autonomia e rimangano assorbite
nella condotta punita dall’art. 572 c.p.. Così, i reati di percosse e minacce non
sono singolarmente punibili, perché lesivi dell’identico bene giuridico dell’inte-

note
6
Molte sono le pronunce al riguardo, fra le quali si segnala Cassazione Penale, sezione V, 92/189558 e Cassazione
Penale, sezione VI, 24 marzo 1987.
7
Si richiama la più recente pronuncia di una lunga serie di precedenti di identico contenuto, che ha affermato che il requisito
dell’abitualità non resta escluso:”(...) quando gli atti lesivi siano alternati con periodi di normalità.” (Cassazione Penale,
sezione VI, 8 ottobre 2002, n. 43673).
8
Sulla qualificazione e sulla connotazione dell’elemento psicologico del reato la giurisprudenza è unanime, ad eccezione di
una pronuncia assai datata e isolata. Per tutte: Cassazione Penale, sezione V, 11 aprile 1988 e Cassazione Penale, sezione
VI, 27 luglio 1987.

98

Note Informative n.40 - dicembre 2007
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grità psico-fisica del lavoratore, ma si ascrivono nei maltrattamenti in famiglia,
quali comportamenti gravi e specifici9.
Le lesioni colpose, essendo conseguenza del maltrattare, sono ricomprese
fra gli elementi costitutivi della fattispecie criminosa. Pertanto, anche tale figura di reato è attratta dalla condotta di maltrattamenti.
Quando dai maltrattamenti discendono, quali conseguenze non volute,
eziologicamente collegate alla condotta vessatoria sistematica, una lesione
colposa grave, gravissima o la morte della persona offesa, sono configurabili
le ipotesi aggravate previste dal secondo comma dell’art. 572 c.p.. All’aumentare della gravità delle lesioni colpose, corrisponde la maggiore e graduale
severità della sanzione prevista, nel minimo come nel massimo: la pena della
reclusione è estesa da quattro a otto anni quando le lesioni sono gravi, da
sette a quindici anni se le conseguenze sono gravissime e da dodici a venti
anni nel caso estremo della morte della vittima.

Reati che concorrono con i maltrattamenti: le lesioni
volontarie e i reati contro la libertà sessuale
Altre figure di reato rimangono separatamente punibili e, dunque, concorrono
con il reato di maltrattamenti.
La giurisprudenza ha escluso che il reato di lesioni volontarie possa rimanere
attratto dall’area della punibilità dell’art. 572 c.p., perché connotato, sul piano
dell’elemento psicologico, da una diversa volontà, quella del procurare lesioni,
per l’appunto, che trascende il dolo unitario del maltrattare10.
Conservano dignità di autonome figure di reato, concorrendo con i maltrattamenti, anche i delitti previsti dall’art. 609 bis e ss. c.p., posti a tutela del differente bene giuridico della libertà sessuale11.

Il ruolo del giudice penale di fronte al mobbing
In conclusione, pur in difetto di un’apposita figura di reato, l’ordinamento giuridico italiano appresta ugualmente tutela penale all’integrità psico-fisica del
lavoratore, punendo la condotta di mobbing quando è riconducibile allo schema dell’art. 572 c.p., sinteticamente esaminato.
Se i principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di maltrattamenti fra le
mura domestiche sono applicabili, come si è detto, anche ai rapporti di lavoro,
i comportamenti vessatori si manifestano con modalità peculiari nei due differenti contesti. L’emersione del fenomeno del mobbing in tutta la sua ampiezza
e il conseguente incremento delle istanze punitive da parte dei lavoratori richiedono con sempre maggior frequenza al giudice penale, chiamato fino ad
oggi episodicamente a giudicare soprattutto fatti emblematici e di particolare

note
9

Cassazione Penale, sezione I, 82/156506.

10

Per tutte, Cassazione Penale, sezione I, 87/176520.

In materia di concorso formale fra i delitti a sfondo sessuale e i maltrattamenti si veda Cassazione Penale, sezione III, 96/
204866. Identico principio era stato correttamente affermato in giurisprudenza anche prima della riforma dei reati a tutela
della libertà sessuale con L. 15 febbraio 1996, n. 66 (Cassazione Penale, sezione III, 29 novembre 1974).
11

Note Informative n.40 - dicembre 2007

99
schede monografiche

gravità, di calarsi nella realtà quotidiana del rapporto di lavoro, sino a comprenderne le degenerazioni patologiche. L’esperienza giudiziale dovrà quindi
progressivamente elaborare un ‘catalogo aperto’ di comportamenti vessatori,
tipici del rapporto di lavoro. Si pensi, ad esempio, all’isolamento quotidianamente inflitto al lavoratore, ai rimproveri ingiustificati, al progressivo immiserimento
delle proprie mansioni, alla costrizione a svolgere lavoro straordinario etc., tutti
comportamenti gravemente lesivi della integrità psico-fisica e della dignità della
persona, che possono essere a pieno titolo inclusi nella condotta a forma libera
dei maltrattamenti, severamente punita dall’art. 572 c.p..
■

Quando presentare la denuncia penale
L’ipotesi della denuncia deve essere considerata verificando accuratamente quali sono gli elementi a sostegno ed
esaminando i rischi collegati. Il difensore penale può ricorrere, a tale scopo, già nella fase che precede la presentazione della denuncia, allo strumento delle indagini difensive, previste dal codice di procedura penale agli artt.
391 bis e seguenti. In sintesi:
- La condotta vessatoria deve essere ricostruita in modo preciso. Dal resoconto scritto, richiesto inizialmente al lavoratore, e dai successivi colloqui di approfondimento, eventualmente condotti con il sostegno di uno
psicologo, devono emergere comportamenti persecutori abituali circostanziati, descritti e collocati nel tempo e nei
luoghi con la maggior precisione possibile. Una condotta generica non è idonea a sostenere la denuncia penale,
che sarebbe rapidamente archiviata e, ciò che è più grave, esporrebbe il lavoratore al rischio di una denuncia per
diffamazione o per calunnia.
- Occorre accertare in anticipo l’attendibilità del racconto del lavoratore. Nel nostro sistema processuale
penale, il denunciante è il testimone diretto più importante, la cui attendibilità è sottoposta ad un vaglio attento, sin
dalla fase delle indagini preliminari. E’ indispensabile quindi anticipare la valutazione dell’attendibilità al momento
che precede l’eventuale denuncia. La verifica è superata solo quando, all’esito dei colloqui, il resoconto è completo e non contraddittorio. Nel caso di racconti incerti ed incompiuti, che non possono essere descritti nemmeno
ricorrendo a colloqui con i familiari e con i medici curanti, l’ipotesi della denuncia deve essere abbandonata.
- È necessario verificare l’idoneità lesiva dei maltrattamenti. La consulenza medico legale pro veritate, da
allegare alla denuncia, deve verificare se il danno all’integrità psico-fisica sia l’effetto dei maltrattamenti patiti sul
luogo di lavoro e misurare la gravità della lesione. La certificazione dell’esistenza del nesso eziologico sostiene
adeguatamente la denuncia e, allo stesso tempo, mette al riparo il lavoratore-denunciante da eventuali controdenunce del datore di lavoro o del superiore gerarchico per diffamazione o per calunnia che, anche se presentate
strumentalmente, si riveleranno infondate. L’esistenza del collegamento causale tra i maltrattamenti e il danno è,
infatti, la prova che il lavoratore agisce per esercitare un proprio diritto e non allo scopo di diffamare o calunniare.
- Alla denuncia deve essere allegata la documentazione riguardante il rapporto di lavoro, dalla sua origine
alla degenerazione patologica (ad esempio il contratto di lavoro, le eventuali contestazioni e sanzioni disciplinari
comminate, la certificazione medica, le denunce all’Inail, fino alla lettera di licenziamento o di dimissioni per giusta
causa).
- Infine, devono essere indicate le persone informate sui fatti, e dunque colleghi di lavoro, familiari e medici
curanti. Ricordo che l’ordinamento processuale penale assegna ampi poteri istruttori al pubblico ministero, poteri
capaci anche di superare eventuali reticenze dei colleghi di lavoro: in particolare, le persone indicate come testimoni, una volta convocate, non possono esimersi dal presentarsi per rendere testimonianza secondo verità.

Un’ultima precisazione: quando le lesioni risultano gravi o gravissime deve essere denunciata la fattispecie aggravata prevista dal secondo comma dell’art. 572 c.p.. Devo ricordare che la denuncia per il reato di
lesioni volontarie conduce inesorabilmente, in mancanza di una modifica della contestazione da parte del
pubblico ministero nel corso delle indagini, ad un’archiviazione del procedimento penale, mancando
nell’autore dei maltrattamenti la volontà di procurare lesioni.
L. D. C.

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  • 1. schede monografichee L’attenzione al tema delle condotte persecutorie nei rapporti di lavoro – ovvero il c.d. mobbing – sta crescendo in maniera geometrica. Come spesso avviene in questi casi, da un lato si tratta dell’emersione, forse tardiva, di un problema sociale di grande rilievo; dall’altro vi è il rischio che l’argomento sia trattato come fenomeno ‘alla moda’. Note Informative sta cercando da tempo di dedicare al tema, e agli strumenti giuridici di tutela dei lavoratori vittime di comportamenti vessatori, una riflessione seria (v. di recente le schede pubblicate nel fasc. 34/2005, p. 42 e ss. e la scheda sui profili probatori pubblicata nel fasc. 37/2006, p. 101). In questo fascicolo, l’avv. Laura De Cristofaro approfondisce i profili di diritto penale, illustrando le condizioni alle quali la denuncia di reato può essere strumento integrativo dell’azione di tutela della lavoratrice o del lavoratore ‘mobbizzati’. A parte, viene proposta dall’Autrice una valutazione sulle cautele da osservare perché la denuncia di comportamenti vessatori non esponga il lavoratore, a sua volta, a conseguenze punitive (ad esempio in relazione al reato di diffamazione). Mobbing: I profili di diritto penale Quando il ‘mobbing’ è reato: i maltrattamenti sul luogo di lavoro L a giurisprudenza di legittimità ha di recente confermato che la figura maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti la condotta di mobbing è il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.). La sentenza 9 luglio 2007 della sezione V penale della Corte di Cassazione1 - che ha avuto un’eco ampia e distorta sui media, che si sono affrettati ad annunciare che ‘il mobbing non è reato’ - non è isolata ma si inserisce in un orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità e di merito, secondo il quale la condotta di mobbing, in difetto di un’apposita previsione delittuosa, è punita ai sensi dell’art. 572 c.p.. Con tale norma il legislatore ha inteso punire proprio la degenerazione di rapporti qualificati, siano essi di famiglia, di affidamento o di subordinazione gerarchica, che sfociano in comportamenti afflittivi per la parte più debole. La struttura della fattispecie e in particolare la condotta, di Laura De Cristofaro nota 1 Con la pronuncia richiamata, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del Pubblico Ministero e della persona offesa avverso la sentenza di non luogo a procedere del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere, per l’inidoneità del capo d’imputazione, che era stato erroneamente formulato contestando il reato di lesioni volontarie gravi. Note Informative n.40 - dicembre 2007 95
  • 2. schede monografiche che è a forma libera (per l’appunto il maltrattare) e connotata dalla abitualità, consentono di contenere la pluralità e varietà di atti persecutori che costituiscono il mobbing. I comportamenti ricompresi nel maltrattare possono essere di natura violenta o meno, ma anche di carattere vessatorio e prevaricatorio sul piano morale, umilianti, svilenti e lesivi della dignità personale e professionale del lavoratore, come abituali rimproveri ingiustificati, insulti, insinuazioni, emarginazione e progressivo impoverimento delle mansioni, sino a degradare nei reati di ingiuria, diffamazione, percosse, violenza privata, minaccia e molestie sessuali. Va detto che, trattandosi di fenomeno emerso di recente, il mobbing non è stato ancora sottoposto all’attenzione del giudice penale in modo assiduo: così, i precedenti della giurisprudenza di legittimità che saranno esaminati riguardano casi emblematici, di particolare gravità, mentre l’esperienza della giurisprudenza di merito è altrettanto episodica, ma più varia. Assai ampia è l’elaborazione giurisprudenziale in materia di maltrattamenti nel contesto familiare, ambito naturale di applicazione del reato, che nel corso del tempo ha definito e precisato gli elementi costitutivi della fattispecie. Tali principi, anche se elaborati per le relazioni familiari, sono applicabili a qualsiasi rapporto qualificato richiamato dalla norma e, dunque, anche al rapporto di lavoro subordinato. L’applicazione del reato di maltrattamenti al rapporto di lavoro subordinato. La Cassazione Penale ha sancito, senza tentennamenti, che il reato di maltrattamenti è posto anche a tutela del bene giuridico della integrità fisica e del patrimonio morale del lavoratore subordinato. La Suprema Corte ha superato un primo orientamento, fortemente connotato dall’ideologia fascista del legislatore del 1930, secondo cui il bene tutelato era riconosciuto esclusivamente nella famiglia, espandendo rapidamente l’oggetto di tutela ai rapporti qualificati indicati nella norma e dunque anche al rapporto di lavoro2. La fattispecie delittuosa ha trovato così applicazione anche ai rapporti fra datore di lavoro e lavoratore subordinato in particolare, proprio perché caratterizzati dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente e che pone quest’ultimo nella condizione di persona sottoposta all’autorità, specificatamente prevista dall’art. 572 c.p.. Secondo la giurisprudenza di legittimità3 e di merito4, il reato di maltratta- note 2 Cassazione Penale, sezione II, 6 aprile 1964 e Cassazione Penale, sezione II, 86/173385. 3 Per quanto riguarda la giurisprudenza di legittimità, si richiama la pronuncia n. 10090 del 2001, che ha ad oggetto un caso assai grave di lavoratori irregolari, quotidianamente sottoposti a vessazioni, umiliazioni e percosse da parte del datore di lavoro. La Cassazione ha ribadito con estrema chiarezza che: “ (...) E’ configurabile il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. a carico del datore di lavoro il quale, ricorrendo a sistematiche vessazioni fisiche e morali, consistenti in percosse, ingiurie, molestie sessuali ed anche nella minaccia di troncare il rapporto di lavoro con perdita delle retribuzioni già maturate, cosa possibile, nella specie, in quanto trattavasi di rapporto di lavoro ‘in nero’ e le retribuzioni erano depositate su libretti 96 Note Informative n.40 - dicembre 2007
  • 3. schede monografichee menti si perfeziona quando l’assidua comunanza di vita sul luogo di lavoro, connotata da sistematiche vessazioni, morali o fisiche, riducano il lavoratore in uno stato di penosa umiliazione e sottomissione. Autori dei maltrattamenti possono essere sia il datore di lavoro che i suoi preposti5, anche in concorso fra loro ex artt. 110 e ss. c.p.. Non è indispensabile che il rapporto di lavoro sia regolato da un contratto di lavoro subordinato: la norma non richiama tale condizione e, dunque, è sufficiente che il lavoratore sia di fatto sottoposto all’autorità del datore di lavoro o dei suoi preposti. Così il reato si applica anche al lavoro irregolare, che, nell’esperienza pratica, espone maggiormente il lavoratore ad abusi del potere direttivo del datore di lavoro, tanto che la pronuncia n. 10090 del 2001 della Cassazione, appena richiamata in nota, riguarda proprio il caso di lavoratori in nero, vittime delle afflizioni fisiche e morali del superiore gerarchico. La condotta di mobbing punita dall’art. 572 c.p. La condotta delittuosa punita dalla fattispecie dei maltrattamenti ha forma libera, risultando così capace di contenere una varietà di atti che siano, proprio in ragione della loro sistematicità, idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale, lesivo della dignità della persona sottoposta all’autorità. Il reato è perfezionato ogni volta che la serie di comportamenti è collegata dall’abitualità, ovvero dalla continuità e dalla ripetitività nel tempo. I singoli comportamenti possono variamente connotarsi come azioni o omissioni, atti violenti e non, e possono costituire o meno, presi singolarmente, autonomi reati, che eventualmente concorrono con la condotta del maltrattare. Non è necessario che la condotta si qualifichi come un concatenarsi di reati. La Suprema Corte di Cassazione ha espressamente inserito nello schema del delitto di maltrattamenti, non soltanto gli atti che costituiscono specifiche fattispecie criminose, quali lesioni, ingiurie, minacce, ma anche azioni o omissioni che costituiscono privazioni, umiliazioni, atti di disprezzo o di offesa alla dignità e qualsiasi azione o omissione che si di risparmio intestati ai prestatori d’opera ma conservati dal datore di lavoro, mantenga i propri dipendenti, da considerare persone sottoposte ‘alla sua autorità’, giusta previsione contenuta nel citato art. 572 c.p., in uno stato di penosa sottomissione ed umiliazione, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro forsennati.” (Cassazione Penale, sezione VI, 22 gennaio 2001, n. 10090, Erba). 4 La riconducibilità del mobbing ai maltrattamenti in famiglia è stata affermata anche dalla giurisprudenza di merito, secondo cui: “(...) ordinariamente s’individua il mobbing nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 572 c.p., che a sua volta si caratterizza da una serie di comportamenti abitudinari non solo e non necessariamente violenti, ma anche di carattere vessatorio dal punto di vista morale, con continui rimproveri e insulti, con lo sfruttamento morale e fisico di altra persona sottoposta ad autorità, con una varia gamma di condotte che siano legate in una sorta di sistema di vita, o comunque legate da dolo unitario.”(Ufficio Indagini Preliminari di Trani, 27 ottobre 2005). 5 La norma non individua specificatamente gli autori dei maltrattamenti, che possono essere dunque anche i preposti. Tale conclusione è stata espressamente sottolineata anche dalla giurisprudenza di merito:“Rispondono del reato di maltrattamenti punito dall’art. 572 c.p., i preposti del datore di lavoro, che assumano condotte ostili, umilianti e lesive della dignità personale dei dipendenti.“ (Tribunale di Torino, 3 maggio 2005). Note Informative n.40 - dicembre 2007 97
  • 4. schede monografiche risolva in vere e proprie sofferenze morali, anche qualora si tratti di atti leciti6. La giurisprudenza ritiene altresì che la condotta possa variare nell’intensità lesiva e che possa essere interrotta da intervalli, purché le interruzioni non siano tanto prolungate da infrangere l’abitualità delle vessazioni7. Così, la condotta vessatoria non è interrotta nel caso del lavoratore che si allontana dall’ambiente di lavoro per ragioni di cura o per il godimento delle ferie, dunque per un periodo di tempo anche apprezzabile, per poi rientrare nel medesimo contesto lavorativo, venendo a patire ulteriori afflizioni. E’ dunque indispensabile verificare l’idoneità lesiva della condotta di mobbing nel suo complesso - e non riguardo ai singoli atti subiti dal lavoratore -. Per tale valutazione, si ricorre a parametri obiettivi quali la gravità dei singoli comportamenti, la loro frequenza, ripetitività e durata nel tempo. Inoltre, occorre accertare l’esistenza del nesso causale fra maltrattamenti e lesioni psico-fisiche patite dal lavoratore. Comportamenti che integrano singoli reati, quali ingiurie, minacce, percosse, violenze, molestie sessuali costituiscono di certo un marcato indice di gravità e specificità delle condotte vessatorie. Tuttavia, anche le singole condotte criminose devono essere collegate dall’abitualità. In mancanza di tale collegamento, i reati non perfezionano la fattispecie dei maltrattamenti, rimanendo punibili separatamente, quali autonome figure di reato. L’elemento psicologico del reato La giurisprudenza richiede che l’abitualità e l’unitarietà della condotta si riflettano anche nella componente soggettiva. La condotta materiale del reato deve essere quindi sostenuta dal dolo generico, ovvero dalla coscienza e volontà di affliggere la persona offesa con una pluralità di comportamenti di prevaricazione e persecuzione. Non è invece indispensabile che l’autore abbia programmato interamente la propria condotta sin dall’inizio, poiché è sufficiente che la coscienza e volontà si rafforzino man mano, nella consapevolezza del loro ripetersi e protrarsi nel tempo8. Reati assorbiti nella condotta di maltrattamenti: l’ipotesi aggravata dell’art. 572 c.p. La giurisprudenza ha stabilito che, sussistendo il nesso della sistematicità fra singoli reati, talune figure perdano la loro autonomia e rimangano assorbite nella condotta punita dall’art. 572 c.p.. Così, i reati di percosse e minacce non sono singolarmente punibili, perché lesivi dell’identico bene giuridico dell’inte- note 6 Molte sono le pronunce al riguardo, fra le quali si segnala Cassazione Penale, sezione V, 92/189558 e Cassazione Penale, sezione VI, 24 marzo 1987. 7 Si richiama la più recente pronuncia di una lunga serie di precedenti di identico contenuto, che ha affermato che il requisito dell’abitualità non resta escluso:”(...) quando gli atti lesivi siano alternati con periodi di normalità.” (Cassazione Penale, sezione VI, 8 ottobre 2002, n. 43673). 8 Sulla qualificazione e sulla connotazione dell’elemento psicologico del reato la giurisprudenza è unanime, ad eccezione di una pronuncia assai datata e isolata. Per tutte: Cassazione Penale, sezione V, 11 aprile 1988 e Cassazione Penale, sezione VI, 27 luglio 1987. 98 Note Informative n.40 - dicembre 2007
  • 5. schede monografichee grità psico-fisica del lavoratore, ma si ascrivono nei maltrattamenti in famiglia, quali comportamenti gravi e specifici9. Le lesioni colpose, essendo conseguenza del maltrattare, sono ricomprese fra gli elementi costitutivi della fattispecie criminosa. Pertanto, anche tale figura di reato è attratta dalla condotta di maltrattamenti. Quando dai maltrattamenti discendono, quali conseguenze non volute, eziologicamente collegate alla condotta vessatoria sistematica, una lesione colposa grave, gravissima o la morte della persona offesa, sono configurabili le ipotesi aggravate previste dal secondo comma dell’art. 572 c.p.. All’aumentare della gravità delle lesioni colpose, corrisponde la maggiore e graduale severità della sanzione prevista, nel minimo come nel massimo: la pena della reclusione è estesa da quattro a otto anni quando le lesioni sono gravi, da sette a quindici anni se le conseguenze sono gravissime e da dodici a venti anni nel caso estremo della morte della vittima. Reati che concorrono con i maltrattamenti: le lesioni volontarie e i reati contro la libertà sessuale Altre figure di reato rimangono separatamente punibili e, dunque, concorrono con il reato di maltrattamenti. La giurisprudenza ha escluso che il reato di lesioni volontarie possa rimanere attratto dall’area della punibilità dell’art. 572 c.p., perché connotato, sul piano dell’elemento psicologico, da una diversa volontà, quella del procurare lesioni, per l’appunto, che trascende il dolo unitario del maltrattare10. Conservano dignità di autonome figure di reato, concorrendo con i maltrattamenti, anche i delitti previsti dall’art. 609 bis e ss. c.p., posti a tutela del differente bene giuridico della libertà sessuale11. Il ruolo del giudice penale di fronte al mobbing In conclusione, pur in difetto di un’apposita figura di reato, l’ordinamento giuridico italiano appresta ugualmente tutela penale all’integrità psico-fisica del lavoratore, punendo la condotta di mobbing quando è riconducibile allo schema dell’art. 572 c.p., sinteticamente esaminato. Se i principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di maltrattamenti fra le mura domestiche sono applicabili, come si è detto, anche ai rapporti di lavoro, i comportamenti vessatori si manifestano con modalità peculiari nei due differenti contesti. L’emersione del fenomeno del mobbing in tutta la sua ampiezza e il conseguente incremento delle istanze punitive da parte dei lavoratori richiedono con sempre maggior frequenza al giudice penale, chiamato fino ad oggi episodicamente a giudicare soprattutto fatti emblematici e di particolare note 9 Cassazione Penale, sezione I, 82/156506. 10 Per tutte, Cassazione Penale, sezione I, 87/176520. In materia di concorso formale fra i delitti a sfondo sessuale e i maltrattamenti si veda Cassazione Penale, sezione III, 96/ 204866. Identico principio era stato correttamente affermato in giurisprudenza anche prima della riforma dei reati a tutela della libertà sessuale con L. 15 febbraio 1996, n. 66 (Cassazione Penale, sezione III, 29 novembre 1974). 11 Note Informative n.40 - dicembre 2007 99
  • 6. schede monografiche gravità, di calarsi nella realtà quotidiana del rapporto di lavoro, sino a comprenderne le degenerazioni patologiche. L’esperienza giudiziale dovrà quindi progressivamente elaborare un ‘catalogo aperto’ di comportamenti vessatori, tipici del rapporto di lavoro. Si pensi, ad esempio, all’isolamento quotidianamente inflitto al lavoratore, ai rimproveri ingiustificati, al progressivo immiserimento delle proprie mansioni, alla costrizione a svolgere lavoro straordinario etc., tutti comportamenti gravemente lesivi della integrità psico-fisica e della dignità della persona, che possono essere a pieno titolo inclusi nella condotta a forma libera dei maltrattamenti, severamente punita dall’art. 572 c.p.. ■ Quando presentare la denuncia penale L’ipotesi della denuncia deve essere considerata verificando accuratamente quali sono gli elementi a sostegno ed esaminando i rischi collegati. Il difensore penale può ricorrere, a tale scopo, già nella fase che precede la presentazione della denuncia, allo strumento delle indagini difensive, previste dal codice di procedura penale agli artt. 391 bis e seguenti. In sintesi: - La condotta vessatoria deve essere ricostruita in modo preciso. Dal resoconto scritto, richiesto inizialmente al lavoratore, e dai successivi colloqui di approfondimento, eventualmente condotti con il sostegno di uno psicologo, devono emergere comportamenti persecutori abituali circostanziati, descritti e collocati nel tempo e nei luoghi con la maggior precisione possibile. Una condotta generica non è idonea a sostenere la denuncia penale, che sarebbe rapidamente archiviata e, ciò che è più grave, esporrebbe il lavoratore al rischio di una denuncia per diffamazione o per calunnia. - Occorre accertare in anticipo l’attendibilità del racconto del lavoratore. Nel nostro sistema processuale penale, il denunciante è il testimone diretto più importante, la cui attendibilità è sottoposta ad un vaglio attento, sin dalla fase delle indagini preliminari. E’ indispensabile quindi anticipare la valutazione dell’attendibilità al momento che precede l’eventuale denuncia. La verifica è superata solo quando, all’esito dei colloqui, il resoconto è completo e non contraddittorio. Nel caso di racconti incerti ed incompiuti, che non possono essere descritti nemmeno ricorrendo a colloqui con i familiari e con i medici curanti, l’ipotesi della denuncia deve essere abbandonata. - È necessario verificare l’idoneità lesiva dei maltrattamenti. La consulenza medico legale pro veritate, da allegare alla denuncia, deve verificare se il danno all’integrità psico-fisica sia l’effetto dei maltrattamenti patiti sul luogo di lavoro e misurare la gravità della lesione. La certificazione dell’esistenza del nesso eziologico sostiene adeguatamente la denuncia e, allo stesso tempo, mette al riparo il lavoratore-denunciante da eventuali controdenunce del datore di lavoro o del superiore gerarchico per diffamazione o per calunnia che, anche se presentate strumentalmente, si riveleranno infondate. L’esistenza del collegamento causale tra i maltrattamenti e il danno è, infatti, la prova che il lavoratore agisce per esercitare un proprio diritto e non allo scopo di diffamare o calunniare. - Alla denuncia deve essere allegata la documentazione riguardante il rapporto di lavoro, dalla sua origine alla degenerazione patologica (ad esempio il contratto di lavoro, le eventuali contestazioni e sanzioni disciplinari comminate, la certificazione medica, le denunce all’Inail, fino alla lettera di licenziamento o di dimissioni per giusta causa). - Infine, devono essere indicate le persone informate sui fatti, e dunque colleghi di lavoro, familiari e medici curanti. Ricordo che l’ordinamento processuale penale assegna ampi poteri istruttori al pubblico ministero, poteri capaci anche di superare eventuali reticenze dei colleghi di lavoro: in particolare, le persone indicate come testimoni, una volta convocate, non possono esimersi dal presentarsi per rendere testimonianza secondo verità. Un’ultima precisazione: quando le lesioni risultano gravi o gravissime deve essere denunciata la fattispecie aggravata prevista dal secondo comma dell’art. 572 c.p.. Devo ricordare che la denuncia per il reato di lesioni volontarie conduce inesorabilmente, in mancanza di una modifica della contestazione da parte del pubblico ministero nel corso delle indagini, ad un’archiviazione del procedimento penale, mancando nell’autore dei maltrattamenti la volontà di procurare lesioni. L. D. C. 100 Note Informative n.40 - dicembre 2007