É cominciato così un ampio progetto, denominato «Aree Metropolitane» e
sostenuto dalla Conferenza Episcopale Italiana con i fondi derivanti dall’otto per
mille. Si tratta principalmente di un’indagine vissuta sul campo dai ricercatori e
dagli operatori delle Caritas diocesane; un viaggio nella «città abbandonata» che
è dentro le nostre città, per progettare e cominciare ad agire percorsi di umanizzazione e cambiamento.»
http://www.caritas.it/Documents/39/2754.pdf
LA CITTÀ ABBANDONATA Dove sono e come cambiano le periferie italiane
1. 3
Indice
INTRODUZIONE di don Roberto Davanzo...........................................................................................5
QUADRO COMPLESSIVO DELLA RICERCA .......................................................................................7
1 SCELTA DEL QUARTIERE
1.1 Scelta del quartiere .............................................................................................................................37
1.2 Breve analisi storica e sua identità nella città......................................................................
1.2.1 Il quartiere Bonfadini-Taliedo...........................................................................................
1.2.2 Il quartiere Forlanini-Monluè............................................................................................
1.2.3 Il quartiere Ponte Lambro ...................................................................................................
1.2.4 Il quartiere Zama-Salomone ..............................................................................................
2 I FUTURI DEL QUARTIERE
2.1 Area dell’ex Caproni.................................................................................................................................
2.2 Area ex Montedison.................................................................................................................................
2.3 Il contratto di Quartiere II Ponte Lambro ...............................................................................
2.4 L’inserimento della popolazione immigrata .........................................................................
2.5 L’impatto delle novità sugli abitanti ...........................................................................................
3 STRUTTURA URBANISTICA E CONDIZIONI ABITATIVE
3.1 L’immagine del quartiere .....................................................................................................................
3.2 L’immagine del quartiere imposta dai mass-media.........................................................
3.2.1 Rassegna stampa sul quartiere Forlanini-Taliedo-Ponte Lambro
tratta dal Corriere della Sera – Cronaca Milano
nel periodo 1.7.2005-30.3.2006 .........................................................................................
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
2. Indice
4
4 STRUTTURA DELLA POPOLAZIONE E SOCIALITÀ INTERNA
4.1 Alcuni indicatori statistici .....................................................................................................................
4.1.1 La popolazione .............................................................................................................................
4.1.2 Gli immigrati ..................................................................................................................................
4.1.3 La scuola e gli adolescenti ...................................................................................................
5 PRINCIPALI PROBLEMATICHE
5.1 I bisogni ..............................................................................................................................................................
5.2 I dati dei Centri di ascolto Caritas .................................................................................................
6 LE RISORSE
6.1 Associazioni, cooperative, volontariato ....................................................................................
6.1.1 Risorse a Ponte Lambro .........................................................................................................
6.1.2 Risorse al Forlanini.....................................................................................................................
CONCLUSIONI .................................................................................................................................................................
BIBLIOGRAFIA ..............................................................................................................................................................
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
3. 5
Introduzione
Questa ricerca sulle periferie non ci ha trovato impreparati, nè sorpresi. Già da
tempo quanti hanno a cuore il volto e le sorti della nostra città avevano intuito
che il futuro di Milano doveva passare obbligatoriamente attraverso lo snodo di
quei quartieri che rappresentano il nervo scoperto di un abitare incapace di
generare appartenenza e sicurezza.
In questi anni in diversi hanno provato a “metterci la testa” per scoprire anzi-
tutto che il concetto di periferia non è più confinabile in termini geografici, ma
possono sussistere sacche di grave disagio anche a pochi minuti dal centro della
città. Si è poi scoperto che periferia non fa solo rima con esclusione e degrado,
ma che in diverse di queste aree difficili esistono realtà umane ricchissime capa-
ci di fare da collante in situazioni frantumate e disgregate. Ci siamo inoltre con-
frontati con la debolezza di progetti di riqualificazione che, malgrado la tanta
declamata “progettazione partecipata”, si sono rivelati come promesse non
mantenute. Infine – ma l’elenco potrebbe continuare – lo stesso Card.
Tettamanzi nel Discorso di sant’Ambrogio del 2006 ha voluto porre sotto i riflet-
tori il dramma di un degrado abitativo che è contemporaneamente radice e frut-
to di un uomo che, smarrendo il suo “centro”, diventa periferia a sè stesso.
Ecco perchè la proposta di Caritas Italiana ci ha trovati entusiasti sostenitori
della ricerca e di quello che portava con sè. La ricerca è stata infatti l’occasione
di incontrare un quartiere valorizzandone le risorse, ma anche l’opportunità per
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
4. Introduzione
6
una riflessione di più ampio respiro da riconsegnare a chi amministra questa
città. Desideriamo infatti auspicare che la politica non si accontenti di giocare un
ruolo solo passivo nei processi di trasformazione che riguardano le zone più pro-
blematiche di Milano, bensì che sappia e voglia governare in prima persona tali
processi rifiutando la logica della delega al privato che realizza le opere ed assu-
mendo il ruolo di coordinamento e di prevenzione del rischio di nuove disugua-
glianze sociali.
In tutto questo processo la comunità cristiana e, al suo interno, la Caritas
Ambrosiana è presente e coinvolta con passione e competenza. Lo è sempre
stata e non si tirerà indietro. Ma nel farlo non può venir meno alla sua funzione
di advocacy, di pungolo istituzionale, forte di una sapienza che le viene dall’e-
sperienza maturata sul campo e dall’idea di uomo che dalla Rivelazione riceve e
di cui è al servizio.
Don Roberto Davanzo
Direttore Caritas Ambrosiana
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
5. 7
LA CITTÀ ABBANDONATA
Dove sono e come cambiano le periferie italiane
Il quadro complessivo della ricerca
A cura di Caritas Italiana e dell’équipe di ricerca
del progetto “Aree Metropolitane”
PREMESSA
« Da tempo le Caritas diocesane
hanno posto a servizio della Chiesa
e della società luoghi particolari di
accoglienza e dialogo con i poveri: i
Centri di Ascolto. Progressivamente
diffusi su tutto il territorio naziona-
le –se ne contano oggi circa 3.000 –
i Centri di Ascolto rappresentano,
con gli Osservatori delle Povertà e
delle Risorse, uno dei più capillari e
dettagliati sistemi di osservazione e
monitoraggio delle dinamiche
sociali di povertà ed impoverimen-
to, e soprattutto un presidio di rela-
zione costante con le persone
costrette a vivere in tali condizioni.
È attraverso i Centri di Ascolto
che, negli ultimi anni, sono arrivati
dalle grandi città segnali inequivocabili di un mutamento sensibile e preoccu-
pante delle forme del disagio in aree della metropoli coincidenti in parte con le
tradizionali “periferie”, in parte con zone non ritenute periferiche ma sottopo-
ste comunque a forti transizioni.
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
6. Il quadro complessivo della ricerca
8
Donne e uomini, intere famiglie, anziani e giovani che sino a pochi anni fa non
erano considerati potenziali destinatari per i Centri di Ascolto ed i servizi delle
parrocchie hanno cominciato ad affacciarsi con le proprie storie, i bisogni,
domande sempre più complesse e incalzanti.
Per le Caritas delle aree metropolitane assumere la cura di queste persone ha
significato anche farsi carico del loro disorientamento dinanzi alla «città difficile»
- come l’ha definita il Card. Carlo Maria Martini - che è diventata la metropoli glo-
balizzata contemporanea.
Un disorientamento divenuto presto anche nostro, da cui è maturata l’esigen-
za di ricorrere alle scienze sociali per capire e discernere. Non è sufficiente, infat-
ti, abbandonarsi alle sole suggestioni. È necessario provare ad indagare i fenome-
ni e a strutturare con competenza e serietà percorsi e proposte che possano inci-
dere sul loro corso, specie se si tratta di contrastare povertà materiali ed esisten-
ziali che costringono le persone in situazioni di progressiva dis-umanizzazione.
La capacità di svelamento della sociologia, con l’affidabilità garantita
dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è parsa la chiave di lettura
migliore per affrontare la «questione delle periferie». Un problema non certo
recente, ma che assume forme e modi che richiedono approcci e risposte nuove.
Alla base, il radicamento in un’antropologia precisa, qual è il personalismo cristia-
no, e in un metodo di ricerca e azione che ha nel Magistero Sociale della Chiesa
Cattolica la sua guida fondamentale.
É cominciato così un ampio progetto, denominato «Aree Metropolitane» e
sostenuto dalla Conferenza Episcopale Italiana con i fondi derivanti dall’otto per
mille. Si tratta principalmente di un’indagine vissuta sul campo dai ricercatori e
dagli operatori delle Caritas diocesane; un viaggio nella «città abbandonata» che
è dentro le nostre città, per progettare e cominciare ad agire percorsi di umaniz-
zazione e cambiamento.»1
Come bene mette in evidenza Mons. Nozza, Direttore di Caritas Italiana, nella
sua postfazione al volume “La città abbandonata”, che raccoglie il frutto com-
plessivo del lavoro svolto, Un lungo viaggio ci ha portato dentro quartieri con-
trassegnati da molti problemi e molte assenze, posti sotto tensione dalle spinte
contraddittorie tra il globale e il locale. Si tratta di quartieri non omogenei, come
potrebbe sembrare a prima vista guardandoli dall’esterno: periferie geografiche
e sociali, collocate talvolta ai margini della città, talaltra prossime al suo centro,
eppure marginali rispetto a quest’ultimo.
Il lavoro sui quartieri di periferia ha preso le mosse dalla constatazione del con-
densarsi, nei contesti urbani, dei risvolti maggiormente problematici delle trasfor-
mazioni globali in atto, nei termini di una crescita delle forme di povertà, dell’a-
1 Vittorio Nozza, Dentro la città abbandonata, postfazione in “La città abbandonata”, Bologna, Il
Mulino 2007 pagg 503-504
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
7. Il quadro complessivo della ricerca
9
cutizzarsi del processo di frammentazione dei territori con spazi e popolazioni
sempre più eterogenee, dell’incrinarsi dei legami sociali, del rafforzarsi di margi-
nalità di vario tipo. Si tratta di processi che contrassegnano le periferie, ma che
riguardano, più in generale, la stessa città e che ritroviamo con sorpresa anche nei
quartieri più centrali.
Begato (Genova), Zen (Palermo), Scampia (Napoli), Librino (Catania), San
Paolo (Bari); e ancora, Barriera di Milano (Torino), Isolotto e le sue nuove zone di
espansione (Firenze), Esquilino (Roma), ex-zona 13 di Milano con le aree di
Forlanini-Taliedo-Ponte Lambro, Navile (Bologna): questi sono i nomi dei quartie-
ri oggetto di un impegnativo lavoro di ricerca che rappresenta il frutto di una feli-
ce collaborazione tra Caritas Italiana e Università Cattolica di Milano. L’intero per-
corso di ricerca – della durata di due anni - è stato messo a fuoco e condiviso, oltre
che da Caritas Italiana e dall’équipe dei ricercatori dell’Università Cattolica2, dalle
Caritas diocesane delle città interessate3 insieme ai ricercatori locali4.
L’équipe dell’Università Cattolica e i ricercatori locali hanno svolto insieme le
ripetute visite etnografiche in ogni periferia, utilizzando contemporaneamente
diverse tecniche di ricerca: lunghe osservazioni e interviste in profondità agli abi-
tanti dei quartieri e ai rappresentanti di enti, gruppi sociali e istituzioni locali;
innumerevoli dialoghi informali nei luoghi meno consueti e nei tempi più impen-
sati; interviste mobili per ascoltare la descrizione del quartiere da chi ci abita e
ricostruire il legame tra gli spazi del proprio contesto e le esperienze soggettive;
raccolta di materiale statistico e documentario su ogni area; focus group con
gruppi diversi; attraversamenti del territorio realizzati in orari diversi e in modi
diversi.
Per ogni realtà è stato successivamente redatto un Rapporto di Ricerca da
parte dei ricercatori locali.
Sulla base di questi elaborati e delle ricognizioni sul campo è stata inoltre ela-
borata una analisi comparativa da parte dell’èquipe di Milano5.
2 L’équipe dell’Università Cattolica è composta da Mauro Magatti, che ha diretto e coordinato il
lavoro scientifico della ricerca, Patrizia Cappelletti, Chiara Giaccardi, Monica Martinelli, Simone
Tosoni.
3 La ricerca è stata infatti accompagnata anche dai lavori interni a Caritas Italiana del “Tavolo Aree
Metropolitane” composto dai Direttori delle Caritas diocesane.
4 I ricercatori locali sono: Tiziana Ciampolini (Torino), Francesca Angelini e Lucia Foglino (Genova),
Meri Salati (Milano), Elena Rossini (Bologna), Annalisa Tonnarelli (Firenze), Fabio Vando (Roma),
Giuseppe Vanzanella (Napoli), Fausta Scardigno e Francesca Bottalico (Bari), Giuliana Gianino
(Catania), Giuseppe Mattina (Palermo).
5 Il volume che presenta l’analisi nazionale nel suo insieme è curato da Magatti M., La città abban-
donata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, Il Mulino, Bologna, 2007. Al volume è alle-
gato un Cd-Rom che contiene i testi dei dieci Rapporti di Ricerca locali completi di un’ampia selezio-
ne di grafici, tabelle e del materiale fotografico raccolto nei quartieri visitati.
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
8. Il quadro complessivo della ricerca
10
L’IMPORTANZA DI OCCUPARCI DELLA CITTÀ
Il lungo viaggio che abbiamo compiuto stimola alcune riflessioni che cerchia-
mo di sintetizzare in queste pagine ripercorrendo, a grandi linee, i temi di fondo
emersi dalla ricognizione sul campo. Si tratta di riflessioni che possono aiutare a
definire modi di presenza e linee di azione.
Anzitutto ci sembra utile sottolineare che guardare le periferie significa guar-
dare la città: la vita urbana sta subendo un profondo mutamento. La città – inte-
sa come luogo in cui si incontrano e si confrontano le macro trasformazioni con
la vita delle persone e dei gruppi – costituisce oggi la nuova questione sociale.
Se guardiamo poi a molti paesi del mondo, i processi di trasformazione delle
città appaiono così radicali da creare aggregazioni urbane, come le megalopoli,
che palesemente contraddicono l’idea stessa di città, almeno nel senso in cui è
stata pensata nella tradizione occidentale.
In Italia, la situazione rimane ben diversa. Nei centri storici delle città del
nostro paese sono ancora ben riconoscibili le tracce (anche materiali) di un pas-
sato nel quale la città è stata un luogo di incontro e di scambio, un grande labo-
ratorio nel quale si sono create condizioni favorevoli alla convivenza e alla con-
vivialità. Tracce che danno ancora oggi un contributo essenziale per sostenere
elevati livelli di socialità e qualità della vita.
Concentrandosi sulle dieci città più grandi del nostro paese, la ricerca ha preso
avvio proprio dalla preoccupazione circa il futuro di questa storia: il destino che
ci aspetta è quello di una radicalizzazione delle disuguaglianze e di una spacca-
tura sempre più profonda tra ricchi e poveri, tra aree residenziali e zone impe-
netrabili – come sta avvenendo in molte realtà urbane del pianeta - oppure pos-
siamo sperare in una evoluzione differente che fa leva sulla capacità integrativa
della città e sulla sua storia? Nel momento in cui si è andata concretizzando l’i-
potesi di un lavoro di ricerca nelle periferie di dieci grandi città italiane, non era
ancora scoppiata la nuova ondata di rivolte giovanili nelle banlieue parigine e,
di conseguenza, non si erano ancora accesi i riflettori sulle periferie italiane:
queste ultime, al pari del caso francese, possono divenire dei focolai di tensione
e conflitto al di fuori di ogni controllo?
Come ricercatori abbiamo cercato di prendere sul serio tali interrogativi, a
partire dall’ipotesi che se, da un lato, la situazione italiana è meno esplosiva di
quanto avviene altrove, dall’altro, essa non è certamente meno preoccupante: le
“città-mondo” del nostro tempo – città che riflettono cioè al loro interno le
caratteristiche di quanto avviene su scala più ampia - sembrano riprodurre con-
tinuamente al loro interno processi di periferizzazione che dividono i quartieri e
gli interi contesti urbani. Tali dinamiche ridisegnano disuguaglianze e divarica-
zioni sociali, formano nuove dipendenze, acuiscono l’incrinarsi della socialità,
rafforzano marginalizzazioni e impoverimento di pezzi di società.
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
9. Il quadro complessivo della ricerca
11
Certe tendenze interessano sia le periferie che il centro delle città, tanto che
il termine “periferia” è inadeguato per cogliere quanto sta accadendo. La ricer-
ca ha dimostrato che la scelta di non limitarsi a studiare le periferie in senso clas-
sico – ossia le aree che sono geograficamente distanti dal centro - si è rivelata
fertile: facendoci entrare nel corpo vivo della città contemporanea, questa scel-
ta ha consentito di confrontarsi con l’intensità e multidimensionalità dei muta-
menti in atto e, in alcuni casi, la loro drammaticità. Si tratta infatti di processi
trasversali alla città stessa, che si possono ritrovare un po’ ovunque. Tuttavia è
proprio nei quartieri che abbiamo definito “sensibili” – come diremo tra breve -
che quanto non riesce a salire sul treno veloce dei flussi globali viene raccolto ed
ammassato ed è qui, pertanto, che tutti gli effetti e le contraddizioni si fanno
più evidenti e leggibili.
DALLE “PERIFERIE” AI “QUARTIERI SENSIBILI”
Le trasformazioni che attraversano le città contemporanee possono essere,
più in particolare, sintetizzate con riferimento a due grandi processi: crescente
mobilità (di persone e di informazioni, di capitali e di merci) e crescente connes-
sione con l’esterno. Di conseguenza, alcune aree urbane che sono maggiormen-
te collegate con altre città e altri contesti si trovano ad essere giustapposte ad
altre zone che rimangono invece isolate. Alcune aree, cioè, vedono cambiare le
funzioni esercitate in passato: in certi casi, per esempio, le vecchie fabbriche,
ormai dismesse e collocate perlopiù nelle periferie, divengono oggetto di ingen-
ti investimenti che collocano all’interno dei vecchi capannoni nuove funzioni
(centri commerciali, show-room di moda, alberghi, centri congressi, ecc.) e atti-
rano nuove popolazioni che transitano nel quartiere senza tuttavia sostarvi.
Altre aree, magari attigue, subiscono al contrario un impoverimento e vengono
ancor più marginalizzate, finendo per essere dei concentrati di gruppi proble-
matici, di categorie che sono disfunzionali rispetto alla vita sociale contempora-
nea e come tali scarsamente o per nulla integrate.
Tutto ciò modifica, a poco a poco, il volto della città. L’aspetto forse più impor-
tante è, come abbiamo già evidenziato, la crisi del tradizionale schema “centro-
periferia”. Con tale affermazione non si vuole dire che non esistano più centri o
che le periferie non siano più ben riconoscibili. Basta fare un giro dentro una qua-
lunque realtà urbana per rendersi conto quanto sarebbe azzardato sostenere una
tale tesi. Ma il punto è che nei centri come nelle periferie si sperimentano le stes-
se patologie. Inoltre, l’idea di un centro socialmente integrato e di una periferia
pericolosa e disgregata coglie con sempre minore precisione la realtà contempo-
ranea. Quest’ultima è sempre più fatta di isole, disordinatamente messe una di
fianco all’altra a pochi metri di distanza, in una totale incomunicabilità.
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
10. Il quadro complessivo della ricerca
12
Per questo sarebbe sbagliato limitarsi a studiare “le periferie”, cioè quelle
zone costruite ai margini della città moderna sulla base di programmi di svilup-
po urbanistico più o meno viziati dalle proiezioni utopistiche dei decenni ’60-‘70.
Capire cosa accade in questi quartieri è senz’altro importante, soprattutto per
verificare se essi sono destinati ad essere soltanto dei contenitori di popolazioni
residuali e di problemi.
Ma, detto questo, occorre essere consapevoli che i processi di marginalizzazio-
ne, impoverimento, segregazione, disgregazione, si stanno verificando anche
altrove, in quartieri “più centrali”, dove non ci aspetteremmo di incontrare que-
sto tipo di dinamiche.
Nell’insieme, abbiamo quindi definito questi quartieri come “quartieri” o
“aree sensibili” che si caratterizzano, a prescindere dalla loro collocazione topo-
grafica sulla pianta della città di appartenenza, per la presenza simultanea,
anche se variabile, di una molteplicità di fattori di debolezza: dal punto di vista
abitativo, con quote elevate di edilizia popolare; da quello sociale, con un’alta
incidenza di gruppi deboli e collocati al margine per il grado di disagio esperito;
da quello culturale, con la concentrazione di popolazione a basso titolo di stu-
dio; da quello infrastrutturale, con una scarsa dotazione di strade, trasporti e
istituzioni pubbliche; da quello economico, con la diffusione di economia infor-
male e illegale.
Per condurre la ricerca sono stati quindi individuati dieci quartieri sensibili in
altrettante città italiane, a loro volta raggruppati in due sottoinsiemi: il primo
costituito da periferie in senso classico – aree situate lontane dal centro, svilup-
patesi tra gli anni ’60 e ’70 sulla base di un progetto insediativo unitario6; il
secondo costituito da aree più diversificate, meno caratterizzate dal punto di
vista spaziale, ma considerate particolarmente problematiche nella fase storica
contemporanea7.
Nello studiare queste realtà ci si è sforzati di non dimenticare l’importanza
della storia delle singole città, delle loro culture, delle politiche messe in atto
dalle istituzioni pubbliche, del contributo dei vari attori sociali. In particolare, si
è tenuto conto del fatto che sul campo le persone che vivono in questi quartie-
ri cercano di trovare delle strategie di mediazione tra le trasformazioni che acca-
dono intorno e la vita concreta, strategie che possono dar vita a forme di auto-
organizzazione sociale (come le forme associative, i comitati di quartiere, le
forme di auto-aiuto, la presenza delle comunità ecclesiali) oppure a momenti di
aggregazione (quali la festa o la protesta).
6 Si tratta dei quartieri di Begato, Genova; Scampia, Napoli; San Paolo, Bari; Librino, Catania; Zen,
Palermo.
7 Barriera di Milano, Torino; ex-zona 13, Milano; Navile, Bologna; Isolotto, Firenze; Esquilino, Roma.
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
11. Il quadro complessivo della ricerca
13
Obiettivo della ricerca è stato quello di verificare se, al di là delle tante diffe-
renze, siano riscontrabili delle tendenze generali che interessano tutte queste
aree e soprattutto se è possibile riscontrare una convergenza tra i vari quartieri
sensibili attorno ad un modello comune.
CENNI DI STORIA: DALL’UTOPIA RAZIONALISTA ALLA CITTÀ A PROGETTO
La costruzione delle nuove periferie in Italia, nei decenni del secondo dopo-
guerra, è stata influenzata da progetti che concepivano la pianificazione urba-
na sulla base di un’utopia, quella di realizzare nuovi quartieri modello, autosuf-
ficienti, simbolo di un progresso che avrebbe dovuto scalzare tutti i segni di arre-
tratezza economica e tutte le tracce di tradizionalismo culturale.
Lo stato nazionale, attraverso il suo potere di indirizzo e di azione, gestiva
questa pianificazione secondo una logica che dal governo centrale distribuiva
risorse e compiti agli enti locali e agli istituti delle case popolari allo scopo di rea-
lizzare i nuovi insediamenti urbani in tempi brevi e a costi il più possibile conte-
nuti. Ma un tale approccio ha progressivamente mostrato segnali di debolezza
a motivo di contraddizioni interne e trasformazioni esterne.
Internamente, la realizzazione dei grandi progetti degli anni ’60 e ’70 ha
infatti tradito le promesse: la pretesa utopica di plasmare la realtà a partire da
un modello ideale ha spesso prodotto dei mostri, con i quali peraltro si dovrà
fare i conti ancora per molti anni: le idee passano, i palazzi rimangono. Tanto
più che, in Italia in modo particolare, la regia istituzionale forte del governo cen-
trale è spesso rimasta poco più di una pia aspirazione; il che ha generato ampi
spazi vuoti divenuti campo di conquista per poteri illegali contrapposti allo
stato. Ma, al di là dei risvolti più deteriori, rimane il fatto che quel periodo lascia
una pesante eredità: quelli che avrebbero dovuto essere quartieri-modello, fun-
zionali e autosufficienti, pensati per popolazioni socialmente integrate, con il
tempo hanno visto invece concentrarsi popolazioni accomunate solo dal disagio.
Esternamente - anche in reazione a tali fallimenti - gli ultimi due decenni
hanno visto il ridimensionamento del ruolo della politica del governo centrale a
vantaggio di altri attori, soprattutto economici che hanno trovato, in diversi con-
testi periferici, interessi ad investire per trasformare vecchie aree industriali o
zone vuote in bacini per nuove forme di economia non legate al contesto ma a
reti globali. Ciò ha provocato, tra le altre, due conseguenze.
La prima è che l’indirizzo e il controllo di quanto avviene nella città non ven-
gono più dati dal governo centrale, ma passano nelle mani di una pluralità di
soggetti: si diffonde l’ipotesi che il sistema urbano possa funzionare meglio
superando le relazioni di tipo gerarchico e rendendo flessibili le collaborazioni
tra vari attori, stimolando così la diversità e la creatività. E, infatti, sono diversi
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
12. Il quadro complessivo della ricerca
14
gli attori che entrano in scena per governare la città: oltre ai comuni (che gua-
dagnano centralità, come diremo tra breve), vi sono imprese e multinazionali,
società private e singoli imprenditori, con il risultato che le decisioni sono spes-
so solo debolmente coordinate e non sempre prese da coloro che rappresenta-
no democraticamente i cittadini, ma appunto dislocate in altri contesti e sulla
base di calcoli e interessi di altro genere.
La seconda conseguenza è che le città vedono crescere i loro compiti e le loro
responsabilità: se prima era lo stato a dover mediare tra il livello sovralocale (glo-
bale o nazionale) e quello locale - soprattutto mediante la distribuzione delle
risorse dal centro alla periferia – sono ora i municipi a guadagnare autonomia.
In questo quadro, agli amministratori locali è chiesto di rilanciare la propria città
posizionandola dentro uno scacchiere internazionale e, per far ciò, di diventare
imprenditori capaci di stringere alleanze per attirare capitali pubblici, ma soprat-
tutto privati (collegandosi ad attori economici extralocali), di formare agenzie
per stimolare la riqualificazione delle aree dismesse, di costruire nuove infra-
strutture o ristrutturare il patrimonio immobiliare.
Dalla pianificazione razionalista e centralizzata, con pochi e ben definiti attori,
si è passati così ad una logica più fluida e negoziale. In questo nuovo scenario, le
istituzioni perdono il loro ruolo di guida per divenire meri facilitatori dell’intera-
zione flessibile e temporanea tra attori sovranazionali (in primis, l’Unione Europea
con i suoi programmi di sostegno allo sviluppo locale), governi nazionali, enti
regionali e locali, imprenditori tradizionali e nuovi attori economici flessibili (inse-
riti in reti internazionali), associazioni e organizzazioni non governative.
Finita l’epoca della pianificazione urbana e delle periferie immaginate come
città-satellite imponenti e autonome, la fase contemporanea si caratterizza per
insediamenti che divengono disorganici, pensati secondo la logica del progetto.
Questa logica immagina realizzazioni puntuali, diversificate e disorganiche, pen-
sate non tanto a partire dalle esigenze di una località ma con riferimento a col-
legamenti esterni (per esempio, i nodi globali del consumo o dell’economia, ecc.)
e a esigenze contingenti, legate agli interessi emergenti dell’uno o dell’altro
interlocutore che intende investire in una area urbana per riqualificarla.
Quello che accade all’interno della città oggi non è quindi né pianificato né
riconducibile ad una logica unitaria. Per definizione, la “città per progetti”
rinuncia ad ogni disegno integrato, divenendo la sommatoria di tante decisioni
plurali, orientate da scopi e interessi variegati. A diventare centrale per lo svilup-
po urbano è la sua capacità di connessione nei sistemi della produzione della ric-
chezza globale, cioè la capacità di un territorio di stabilire legami funzionali con
altri contesti.
Per i temi di cui ci siamo occupati nella ricerca, ci sono almeno due implicazio-
ni che meritano di essere sottolineate.
La prima è che l’idea stessa di connessione sposta il baricentro fuori dalla città
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
13. Il quadro complessivo della ricerca
15
e ne lega i destini ad attori e interessi che la trascendono. La seconda è che le
connessioni attuali, legate a funzioni particolari (es. produzione di servizi, con-
sumo, ecc.), prescindono da un luogo e quindi non favoriscono la costruzione di
legami sociali dentro una località, mentre tendono a mobilitare flussi di popola-
zione mobile e differenziata che transita senza radicarsi. Il che significa che tali
connessioni stabiliscono una scarsissima relazione con il territorio in cui sorgono.
Il risultato è – lo ribadiamo ancora - l’indebolimento del tradizionale schema
centro-periferia, che – per alcuni aspetti almeno – appare troppo rigido per dar
conto di quanto sta accadendo nelle città contemporanee. Ci sono pezzi di peri-
feria che diventano dei nuovi centri e ci sono aree centrali che rischiano la mar-
ginalizzazione. Per questa ragione, i quartieri studiati non hanno potuto essere
considerati territori semplicemente “satellitari” nei confronti del rispettivo cen-
tro-città. In qualche caso – come a Begato (Genova) – questo collegamento sem-
bra non esserci addirittura più, quasi che il quartiere sia lasciato andare alla deri-
va, senza legami né sociali né funzionali con il resto della città; in altri casi, il
punto di gravità rispetto al quale il quartiere ruota non è più il centro, ma realtà
geograficamente distanti, che stanno in altre parti del mondo: si pensi alla ex-
zona 13 di Milano, dove le trasformazioni di alcune porzioni del quartiere sono
il portato del loro collegamento con i circuiti dell’economia globale, o a
Scampia, la cui vita quotidiana è plasmata dalle reti criminali con alleanze e
scambi su scala internazionale.
E tutto ciò nel quadro di un più generale processo di disgregazione dei terri-
tori e delle loro comunità che, pur se in forma lieve rispetto ad altri contesti geo-
grafici, tende a manifestarsi anche in Italia.
TIPI E RAGGIO DELLE CONNESSIONI CON L’ESTERNO
Il bilancio di questa nuova fase, almeno per i territori che abbiamo preso in
considerazione, risulta essere problematico.
In termini generali, l’evoluzione recente si traduce per lo più in una semplice
dislocazione dei processi decisionali in sedi lontane dalla negoziazione pubblica:
come abbiamo già messo in luce, le decisioni sul destino di quei pezzi di città che
sono le periferie e i quartieri sensibili vengono prese spesso altrove rispetto al
contesto politico tradizionale. Di fatto, a guadagnare spazio d’azione sono
soprattutto gli attori economici, gli unici in grado di mettere in circolazione
quelle risorse di cui le amministrazioni locali vanno in cerca. Il che vuol dire che
diventa più difficile rappresentare gli interessi delle popolazioni e delle aree più
fragili e marginali. Peraltro, nei confronti di molti dei quartieri che abbiamo con-
siderato, rischia di non esserci mai un interlocutore interessato ad investire, per-
ché non esiste un interesse economico capace di sostenere la trasformazione. E
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
14. Il quadro complessivo della ricerca
16
d’altra parte, da sola, l’iniziativa pubblica rischia di non avere risorse sufficienti
per impostare programmi adeguati di riqualificazione urbana.
In questo modo, nella maggior parte dei casi, se da una parte ciò protegge
queste aree dalle spinte disgregative che attraversano le periferie ove tali inte-
ressi invece si condensano, dall’altra le condanna ad una marginalità sempre più
spinta. Questa tendenza si aggrava laddove molte zone dopo il declino dell’in-
dustria stanno subendo uno svuotamento delle funzioni svolte un tempo (quan-
do erano periferie operaie) e delle popolazioni che le abitavano, senza che, nella
maggior parte dei casi, si sviluppino nuove opportunità legate all’individuazio-
ne di una qualche nuova funzione che il territorio potrebbe svolgere.
In effetti, la ricerca mostra chiaramente che alcuni dei quartieri studiati – spe-
cie le periferie classiche – stanno perdendo progressivamente contatto rispetto
alle zone più dinamiche della città. Quanto più elevato è il grado di disconnes-
sione con la città, tanto più alto è il rischio di assumere le sembianze di quartie-
ri-ghetto. Forse il quartiere che più si avvicina a questa realtà è quello di Begato
dove la separazione dal resto del mondo produce una realtà totalmente disgre-
gata all’interno e dove persino la violenza è puramente casuale: non vi sono
motivi per andare a Begato e da Begato si esce poco, per cui questa intransiti-
vità interna ed esterna sembra determinare l’impoverimento di qualunque
forma di socialità.
Tuttavia, si deve sottolineare che, anche quando le cose vanno meglio e que-
sto effetto di esclusione non si produce – con l’integrazione, almeno parziale,
dei quartieri nei processi di mutamento – affiorano altri tipi di problemi.
Vi sono prima di tutto connessioni di segno negativo: un caso emblematico è
soprattutto quello di Scampia, al quale si possono aggiungere però anche il San
Paolo, lo Zen e il Librino, dove la connessione garantita dai gruppi criminali
all’interno dei circuiti internazionali della droga genera mondi illegali che ten-
dono a produrre una propria organizzazione autonoma e impenetrabile dall’e-
sterno.
Vi sono poi connessioni che non incidono sul territorio circostante. Non è raro
aver trovato nuovi insediamenti che non producono nulla sulla vita del quartie-
re, cattedrali nel deserto che potrebbero essere dislocate ovunque: come nel
caso degli studi (di moda, high tech, strutture convegnistiche) di via Mecenate a
Milano (nella ex-zona 13), che costituiscono un mondo a parte rispetto alla zona
di edilizia popolare della Trecca, situata a poche decine di metri, ove si concen-
trano i casi di marginalità e disagio. In situazioni di questo genere, la nascita di
nuove funzioni si limita a punteggiare il territorio di presenze estranee.
Le cose vanno peggio quando i quartieri sono investiti da ristrutturazioni che
hanno un effetto disgregativo sulle comunità abitative, con una sistematica sotto-
valutazione del loro impatto sociale. Il problema in questi casi è che gli abitanti
sono semplici recettori passivi, oltre che, in buona parte, impreparati a beneficia-
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
15. Il quadro complessivo della ricerca
17
re delle opportunità che si vengono a creare. Questo effetto è visibile soprattutto
nei cinque quartieri meno segregati, nei quali l’individuazione di nuove funzioni
tendono a determinare proprio una forte disgregazione culturale e sociale.
Abbiamo rilevato ciò a proposito delle trasformazioni indotte dall’esterno e che si
sono prodotte nelle varie parti della già richiamata ex-zona13 di Milano, trasfor-
mazioni che hanno determinato lo smembramento dell’identità del quartiere
senza alcun lavoro di ricucitura. O a quanto sta accadendo a Bologna, Firenze o
Torino, dove i quartieri studiati sono investiti dalla riorganizzazione urbana senza
un’adeguata mediazione tra le ragioni di tali decisioni e la vita delle comunità abi-
tative. Il che finisce col generare incertezza e perdita di identità.
Anche laddove le politiche urbane si sforzano di adottare un approccio inte-
grato, che espressamente coinvolge i gruppi della società civile locale e i singoli
cittadini nelle decisioni sul quartiere, si incontrano comunque molte difficoltà. E
ciò non solo perché le forme comunicative volte a collegare i vari settori interes-
sati risultano spesso inefficaci, ma anche perché le procedure di rappresentanza
vengono di solito avviate in ritardo rispetto agli interventi urbanistici, economi-
camente più allettanti (come è avvenuto nel caso dei diversi forum sociali o labo-
ratori di quartiere, costituiti dopo l’avvio di azioni di ristrutturazione su immo-
bili o di costruzione di nuove aree nel quartiere). Il che sfilaccia la già precaria
fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni.
Il quadro si complica ulteriormente tenendo conto che la disponibilità di una
determinata risorsa di connessione non si traduce immediatamente e automati-
camente in un coinvolgimento di tutte le popolazioni del quartiere. Si pensi, ad
esempio, a Palermo e a Catania. Il quartiere Zen, da un punto di vista logistico,
è oggi connesso al centro città attraverso un’ampia arteria stradale a scorrimen-
to veloce, ma al tempo stesso poveramente servito dal trasporto pubblico: in
questa situazione, la disponibilità di un’automobile di proprietà è l’elemento
che definisce concretamente il livello di connessione dei residenti rispetto alla
città, mentre la cattiva fama del quartiere deprime qualunque flusso dal centro
della città verso questa zona. Allo stesso modo, al Librino di Catania la disponi-
bilità di un lavoro fisso (che distingue gli occupanti di case di proprietà, localiz-
zate in aree riconoscibili del quartiere, rispetto agli inquilini delle case popolari
o agli abusivi) disloca in modo opposto queste due popolazioni: la prima proiet-
tata all’esterno del territorio (non solo per il lavoro o lo studio, ma anche per le
reti di socialità, tanto che il quartiere viene utilizzato solo come dormitorio); la
seconda popolazione segregata al suo interno, quasi incatenata ad un luogo
senza possibilità e prospettive di uscita.
Se vogliamo leggere i quartieri sensibili delle nostre città e le dinamiche che
si producono al loro interno è dunque necessario tenere presente il tipo e il rag-
gio delle connessioni che esistono tra il quartiere, il resto della città e altri cen-
tri dislocati nel mondo e la composizione interna tra le diverse popolazioni.
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
16. Il quadro complessivo della ricerca
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Nell’insieme, la ricerca giunge alla conclusione che i quartieri considerati sem-
brano soffrire di una deprivazione di spazialità (e relative opportunità): tanti gli
spazi vuoti e anonimi, senza verde o luoghi in cui incontrarsi; pochi gli spazi con
cui ci si riconosce e si possa identificarsi; allontanamento dai luoghi di origine;
scarse opportunità di mobilità fisica e sociale; confinamento nella località; senso
di segregazione.
L’ARRETRAMENTO DELLA MEDIAZIONE ISTITUZIONALE
E LA PERCEZIONE DELL’INSICUREZZA
Le deboli e incerte connessioni di cui dispongono i quartieri studiati non sono
l’unico fattore di debolezza. Il quadro infatti sarebbe incompleto se non si pren-
desse in considerazione anche l’arretramento della capacità di mediazione offer-
ta dalle istituzioni pubbliche.
Persino nelle periferie che presentano una storia di partecipazione e collabora-
zione tra cittadini e istituzioni politiche, lo spazio pubblico scarseggia e più che in
luoghi specifici (come la piazza ove ci si incontrava e si facevano le assemblee di
quartiere, le sedi del partito o del sindacato, i circoli del dopo-lavoro, i luoghi
aggregativi, ecc.) si colloca in alcune relazioni, ossia nella capacità di mediazione
politica di alcuni personaggi “storici” che hanno incarnato l’istituzione dentro il
quartiere. La loro uscita di scena, legata al ricambio generazionale, genera un
senso di incertezza e il timore di uno sgretolamento delle conquiste del passato.
Al di là di questi casi, la situazione è persino peggiore.
Su questo tema la ricerca ci dice che gran parte degli abitanti dei quartieri stu-
diati non ha l’idea di vivere in un contesto strutturato attorno a una rete di isti-
tuzioni presente nel territorio, bensì in un luogo in cui tutto viene invece desti-
tuito: persino quando viene nominato uno spazio (per esempio, un palazzo, eri-
gendolo a sede del comando delle forze dell’ordine, o a una piazza, destinando-
la al mercato settimanale) non sempre vi è la corrispondenza tra il nome dato a
quello spazio e la realtà, rafforzando quindi l’assenza delle istituzioni, del loro
ruolo di guida e orientamento alla vita collettiva, e la percezione, da parte degli
abitanti, della loro distanza.
In queste zone, la debolezza delle istituzioni pubbliche – a partire da quelle
deputate alla sicurezza - ha un’implicazione precisa, e cioè che la propria vita è
esposta all’ignoto, senza alcuna mediazione o protezione istituzionale.
L’indebolimento dell’intermediazione istituzionale ha diverse conseguenze
negative, tra cui il fatto che chi vive in questi quartieri ha la sensazione di esse-
re superfluo, cioè privo di interlocutori e quindi privo di voce.
La debolezza delle agenzie e dei soggetti di mediazione istituzionale compor-
ta inoltre una caduta di interesse per il bene comune e la vita pubblica, caduta
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
17. Il quadro complessivo della ricerca
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alimentata dalla assenza di luoghi pubblici dove ci si possa riconoscere come cit-
tadini. In questa situazione non stupisce che la partecipazione politica sia prati-
camente nulla, tenuto conto che tra la popolazione è molto forte la convinzio-
ne che i politici si occupino di periferie solo in campagna elettorale e che le loro
promesse siano regolarmente disattese. Ciò alimenta prima di tutto la disillusio-
ne, il che rende più difficile l’attuazione di qualunque azione positiva: prima
ancora di costruire la fiducia occorre, infatti, contrastare la diffidenza degli abi-
tanti, ormai abituati a essere illusi da promesse, annunci, operazioni di immagi-
ne e strumentalizzazioni elettoralistiche.
Inevitabilmente, questa crisi di fiducia alimenta un diffuso senso di insicurez-
za che costituisce uno degli aspetti più evidenti della vita nei quartieri studiati.
La paura degli altri si accentua in un contesto nel quale si ritiene che le istituzio-
ni non sappiano o non vogliano fare il loro dovere. Come dimostra l’ambivalen-
te atteggiamento verso le forze dell’ordine, viste come l’ultimo baluardo di fron-
te al degrado che avanza e insieme entità enigmatiche, di cui sfugge la logica
d’azione, alle quali quindi contrapporsi.
In questo panorama deprimente, merita di essere sottolineato il fatto che la
scuola venga in molti casi segnalata come una realtà positiva, che riesce ancora
a creare forme di aggregazione allargata e a promuovere iniziative che coinvol-
gono gli abitanti. Avvantaggiandosi del suo diffuso radicamento nel territorio,
la scuola è spesso l’unico punto di tenuta e l’unico anello di collegamento tra le
popolazioni rinchiuse nel quartiere e le istituzioni pubbliche. Anche se non sem-
pre riesce ad assolvere questo difficile compito, la ricerca mostra che, nelle aree
più diseredate del paese, proprio questa è considerata l’istituzione pubblica per
eccellenza. Da questo punto di vista, la scuola continua a costituire una risorsa
preziosa sulla quale occorre contare e dalla quale è comunque indispensabile
partire per qualunque progetto che voglia davvero prendere a cuore i destini di
chi vive nei quartieri sensibili.
In alcune aree, il ritiro dello stato è arrivato al punto da creare le condizioni
ideali per il rafforzamento di vere e proprie contro-istituzioni che si fondano sul
potere illegale e la violenza organizzata che si esprime in tante forme.
Soprattutto nelle periferie del Sud, segnate dalla grave questione della mancan-
za del lavoro, le reti dell’illegalità costituiscono un mondo istituzionalizzato
parallelo e sostitutivo rispetto a quello ufficiale, capace di fornire anche garan-
zie di sicurezza, opportunità di “carriera” e di miglioramento delle condizioni
esistenziali, e perfino una sorta di “welfare sociale alternativo” in grado di prov-
vedere, anche economicamente, al sostentamento degli orfani, delle vedove,
delle famiglie di chi è in carcere.
E’ triste dover riconoscere che nei quartieri dominati da organizzazioni mala-
vitose regna un certo ordine, per quanto criminoso, capace di assicurare qualche
tipo di garanzia a chi vi si sottomette.
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18. Il quadro complessivo della ricerca
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VERSO UN MODELLO COMUNE ALLE DIVERSE REALTÀ
La ricerca ha constatato che tra periferie tradizionali e quartieri storici c’è una
convergenza verso un modello che è caratterizzato dalla crescita dell’eteroge-
neità della popolazione e dell’illeggibilità del territorio.
Dentro qualunque realtà - tanto quelle dure di Genova, Palermo, Catania,
Napoli, Bari, quanto quelle dotate di maggiori risorse e per certi versi meno cri-
tiche come Torino, Milano, Firenze, Bologna, Roma - è possibile osservare
profonde differenziazioni interne. In quasi tutti i quartieri studiati, esistono dif-
ferenze legate al tipo di abitazione di cui si dispone (da un lato, vi sono gli abi-
tanti delle case popolari e, dall’altro, quelli delle case private o costruite dalle
cooperative), alla fascia generazionale (giovani, anziani, adulti), alla provenien-
za territoriale d’origine e alla appartenenza etnica.
Uno dei principali risultati della ricerca è la crisi dell’omogeneità interna ai
vari quartieri che, pur se in modo problematico, era stata storicamente un ele-
mento distintivo delle periferie del secondo dopoguerra. Al contrario, quello che
emerge è il dissolvimento delle culture omogenee e la giustapposizione delle
culture dei diversi gruppi che si spartiscono il territorio: anziani, giovani, comu-
nità etniche, zingari, gruppi criminali.
Gli effetti di questa eterogeneizzazione si vedono più chiaramente nei quar-
tieri che dispongono di una loro storia e di una loro identità, da sempre quartie-
ri “di passaggio” e quindi compositi e plurali (soprattutto il Navile e l’Isolotto),
ma non per questo incapaci di comporre questa pluralità attorno a centri di
aggregazione forti (la fabbrica e la chiesa). Oggi la caduta dei tradizionali fatto-
ri di integrazione, l’innesto di nuovi elementi funzionali (come ad esempio una
tangenziale, un centro commerciale, una stazione), l’ingresso di popolazioni
“estranee” (gli stranieri, chi viene da fuori solo perché i prezzi sono bassi, le
nuove generazioni che non sanno raccogliere l’eredità e l’identità storica), ren-
dono difficile la riproduzione del modello integrativo consolidato, facendo
esplodere l’eterogeneità.
Ciò spinge anche questi quartieri in spirali di degrado impressionantemente
simili a quelle registrate nelle periferie che hanno un retroterra storico molto più
debole: il venir meno dei luoghi e delle risorse per la produzione o riproduzio-
ne di un capitale culturale locale, i processi di disintegrazione delle culture, il
rapido mutamento e l’irriconoscibilità del quartiere sotto la spinta dell’arrivo di
popolazioni straniere insieme al senso di esproprio del territorio da parte dei
residenti storici, sono tutti fenomeni che fanno convergere le aree studiate verso
comuni processi di marginalizzazione e invisibilizzazione.
La seconda componente del modello emergente consiste nella crescente illeg-
gibilità interna dei quartieri. Da un lato, i quartieri studiati risultano poco leggi-
bili, perché totalmente immanenti a loro stessi, iperlocali: si sa muovere al loro
Milano, ex zona 13: il territorio come arcipelago
19. Il quadro complessivo della ricerca
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interno solo chi ci vive; difficile per chi viene da fuori capire il territorio, attra-
versarlo con disinvoltura (in alcuni casi non esistono nemmeno i nomi delle vie,
i numeri civici, una piazza di riferimento, ecc.). Questi territori sono come dei
testi che nascono già prevedendo di non avere lettori. Dall’altro lato, essi rap-
presentano “frammenti dispersi”, sempre più isolati e tendenzialmente alla deri-
va, o comunque disomogenei e disconnessi persino al proprio interno.
Tale mancanza di leggibilità e la deriva dell’autoreferenzialità sono visibili in
una serie di aspetti evidenti a chi percorre i quartieri (quando è possibile farlo).
Nelle aree osservate, lo spazio urbano è pieno di segni che ne scoraggiano la let-
tura o che la indirizzano verso significati negativi. Per esempio, in molti quartie-
ri, soprattutto quelli più connessi funzionalmente e storicamente meno proble-
matici, sono sempre più evidenti i segni della progressiva estraneità del quartie-
re a se stesso: lingue estranee e sconosciute, insegne rivolte solo a chi le sa legge-
re, comportamenti e usanze esotiche - tutti segni che accrescono la percezione di
una violazione del proprio spazio vitale da parte degli abitanti. In altri quartieri,
ossia nelle periferie classiche, i segni di una deriva crescente sono visibili nell’ab-
bandono di molte aree, utilizzate a discariche di oggetti di ogni tipo, assenza di
spazi in cui incontrarsi, impersonalità dei luoghi, difficoltà ad orientarsi.
LA QUESTIONE DELLA POVERTÀ: STRATI DI DEPRIVAZIONE
E SENSO DI INGABBIAMENTO
La ricerca ci ha consentito di approfondire l’analisi su un altro aspetto che viene
sempre enfatizzato quando si parla di periferie, e cioè la questione della depriva-
zione e della povertà. Essa ha mostrato il peso delle variabili di contesto, permet-
tendo in particolare di distinguere cinque diverse dimensioni della povertà, varia-
mente combinate nelle realtà indagate: povertà economica (scarsità di lavoro rego-
lare, di un reddito sicuro, ecc.), urbanistica (assenza di abitazioni adeguate o in
buono stato, assenza di spazi urbani comuni, ecc.), istituzionale (assenza o scarsa
presenza delle istituzioni sul territorio e/o una presenza invece di reti mafiose di
vario genere), socio-culturale (livelli di istruzione bassa, dispersione scolastica diffu-
sa, arretratezza culturale e riproduzione di schemi ormai superati), relazionale
(assenza di un capitale sociale fatto di relazioni di fiducia su cui poter contare, soli-
tudine esistenziale, disgregazione famigliare o legami famigliari opprimenti, ecc.).
Nascere e crescere in un contesto dove si concentrano tutti questi fattori pro-
blematici non è solo un obiettivo svantaggio dal punto di vista delle opportu-
nità, ma espone anche a conseguenze significative sul piano più personale, inci-
dendo sul sistema delle percezioni e delle aspettative.
Il riconoscimento dell’importanza del contesto presenta alcune implicazioni
che meritano di essere sottolineate.
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20. Il quadro complessivo della ricerca
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Un primo aspetto riguarda la dimensione economico-materiale che, per quan-
to rilevante, non può essere mai considerata isolatamente. L’analisi etnografica
ci ha condotto a vedere la presenza di situazioni gravissime di miseria e abban-
dono. Ma l’osservazione ha anche mostrato che ampie quote di queste popola-
zioni riescono, per una strada o per l’altra, ad avere accesso ai consumi. In tutti
i casi, l’aspetto economico non può essere considerato a prescindere dalle altre
dimensioni; e questo perché, nei quartieri studiati, la povertà assume la forma
del nodo: essa si presenta come una combinazione negativa che, per essere
affrontata, deve essere sciolta, cioè rimessa in movimento mediante un interven-
to che tocchi contemporaneamente diversi aspetti.
Questa affermazione trova conferma nella varietà delle condizioni di vita e
dei livelli di povertà che la ricerca ha rilevato, con la compresenza di strati di
povertà di diversa gravità che sembrano convivere anche a pochi metri di distan-
za senza nessuna relazione l’uno con l’altro. Tali strati sono:
• i “respinti”, ossia gruppi che occupano nicchie di povertà estrema, che assom-
mano un po’ tutte le dimensioni della deprivazione: da quella economica a
quella socio-culturale; da quella relazionale a quella abitativa sino a quella isti-
tuzionale, il tutto aggravato da un contesto ambientale debole e sfrangiato;
• i “viaggiatori di seconda classe”, quote di popolazione marginale che, da un
lato, dispongono di risorse economiche e relazionali tali da poter avere un
discreto accesso ai consumi, grazie soprattutto alla combinazione di opportu-
nità offerte dall’attività informale, precaria, irregolare e in qualche caso delin-
quenziale; e che, dall’altro, hanno un capitale culturale e istituzionale così
limitato da essere confinato all’interno di questi circuiti, con una crescente
separatezza dal contesto circostante;
• gli “eredi del welfare”, gruppi ad elevata vulnerabilità, costituiti da anziani, da
percettori di rimesse pubbliche (pensioni di anzianità o di invalidità, sussidi,
ecc.), adulti disoccupati. Si tratta di persone che dispongono di risorse limitate
dal punto di vista economico (di solito la combinazione famigliare di lavoro pre-
cario e pensioni pubbliche), abitativo (con disponibilità di casa popolare), socio-
culturale (con problemi di accesso all’istruzione) e una calante protezione istitu-
zionale. Questa condizione di precarietà non impedisce la ricerca di equilibri esi-
stenziali sensati, che però restano costitutivamente fragili, anche a causa di un
contesto ambientale negativo e della riduzione delle protezioni pubbliche;
• gli “alloggiati”, gruppi solo relativamente deboli dal punto di vista economi-
co e socio-culturale e che cercano di sfruttare la deprivazione del territorio –
come, ad esempio, i minori costi della casa - per seguire strategie individuali
o famigliari di benessere economico o mobilità sociale. Spesso questi gruppi
tendono a isolarsi dal contesto verso il quale si sentono solo debolmente
obbligati, utilizzando il quartiere perlopiù solo come dormitorio.
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21. Il quadro complessivo della ricerca
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La povertà di chi abita nei quartieri sensibili si acuisce per il fatto di essere
associata con l’immobilità, che costituisce un vero e proprio moltiplicatore di
deprivazione. In alcuni casi – si pensi agli anziani – si tratta di vera e propria
immobilità fisica; più spesso, di immobilità sociale, cioè dell’impossibilità di usci-
re dalla situazione nella quale ci si trova intrappolati. La concentrazione spazia-
le di tutta una serie di condizioni negative, unitamente alla modificazione di
tutta una serie di condizioni istituzionali intervenuta nella società nel suo insie-
me (si pensi prima di tutto alla flessibilizzazione del mercato del lavoro e alla pri-
vatizzazione del mercato della casa), fanno sì che il quartiere spesso si trasformi
in una sorta di prigione, un destino dal quale non si può scappare. L’ipotesi di
emigrare avrebbe bisogno di disporre di appoggi esterni – come, ad esempio, un
lavoro regolare e a tempo indeterminato - che sono sempre più difficili da tro-
vare soprattutto per una popolazione che soffre di una grave debolezza costitu-
tiva. Il risultato è il diffondersi di un cinismo adattivo, che esprime il senso di
imprigionamento che molti abitanti così fortemente avvertono.
LA VIA DI FUGA IMMAGINARIA: I CONSUMI E I MEDIA
E’ interessante osservare che, rispetto alla diffusa percezione di immobilità,
l’unica dimensione che sembra capace di attenuare – ancorché in modo solo
apparente e ambivalente – lo stato di disagio è quella dei media e dei consumi.
Si tratta di ambiti che più diffusamente consentono l’accesso al mondo ester-
no, con la definizione di un qualche tipo di legame e senso di appartenenza. A
chi vive in quartieri difficili, questi due canali danno inoltre la sensazione di
poter colmare la distanza che li separa dagli altri.
In effetti, nella vita quotidiana delle persone che abbiamo incontrato, il mer-
cato e (soprattutto) i centri commerciali sono due luoghi essenziali per la socia-
lità e la riproduzione culturale. Ma sono solo i secondi che riescono a infondere
in chi li frequenta un senso di sicurezza e a produrre, per il solo fatto di sentirsi
circondati da persone (per quanto sconosciute) con cui si condivide uno stesso
tipo di azione, una pur tenue idea di collettività e appartenenza. Per chi può
permetterselo, poi, l’atto del consumo contribuisce alla gratificante duplice sen-
sazione dell’azione individuale (l’acquisto è comunque una forma di azione) e
della partecipazione a un’attività collettiva, per quanto svolta individualmente,
favorita dalla simultaneità e dalla compresenza di altri consumatori.
In mancanza di spazi pubblici che favoriscano una partecipazione basata sul-
l’azione collettiva finalizzata a un bene comune, l’accesso ai luoghi di consumo
è un surrogato di un riconoscimento sociale che su altri piani è completamente
assente: come dire che è solo nel momento in cui si è consumatori che è davve-
ro possibile sentirsi uguali agli altri.
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22. Il quadro complessivo della ricerca
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Un analogo discorso può essere svolto per la televisione, uno spazio pubblico
virtuale che produce l’illusione di essere comunità. La televisione scandisce il
tempo vuoto delle periferie più deprivate e fornisce risorse simboliche accessibi-
li e in un certo senso consolatorie. I programmi più seguiti (come i reality show)
riproducono, su un palcoscenico più grande e in forma più accattivante, quelle
stesse condizioni di segregazione che gli abitanti dei quartieri più isolati vivono
quotidianamente sulla propria pelle: “pubblico” è, in questo caso, ciò che ampli-
fica i vissuti individuali (compreso il desiderio di diventare protagonisti di quegli
stessi programmi) e li rappresenta su un palcoscenico illuminato, facendoli usci-
re dall’invisibilità e, soprattutto, trasformando lo stigma del recluso in apprezza-
mento e in motivo di interesse per altri.
Nell’insieme, i consumi e i media offrono una via di fuga (virtuale più che
reale) dal quartiere. Via di fuga dalle sue brutture e dall’immobilità sociale che
produce. Il che, da un lato, permette di ridurre la tensione e creare una qualche
parvenza di integrazione e legame sociale con l’esterno. Al contempo, però,
questi stessi canali erodono le culture locali, che pure, in molti casi, hanno costi-
tuito e costituiscono ancora un fattore di integrazione.
Ma media e consumi hanno anche un altro effetto sui quartieri sensibili, a
causa della stigmatizzazione dei loro abitanti che di continuo riproducono. Nel
sistema dei media, i quartieri sensibili sono stati, in qualche caso, messi sotto i
riflettori con fine spregiativo: le parti negative e problematiche del quartiere
sono state presentate come il tutto, a discapito quindi di chi, al suo interno,
cerca di sollevare la testa. Nel regime dei consumi, invece, i quartieri appaiono
anche agli occhi dei propri abitanti come luoghi dell’assenza e dell’arretratezza,
perché mancanti appunto di possibilità in grado di mettere nelle condizione di
disporre di beni di consumo ad ampio raggio. Tutto ciò costringe gli abitanti a
doversi confrontare con un dilemma: o negare la propria identità (come, in
effetti, molti cercano di fare) oppure esagerarla e radicalizzarla, rendendola una
cattiva identità. Paradossalmente, il misurarsi con un tale dilemma rischia di
diventare l’unica risorsa culturale con cui confrontarsi.
GLI ESITI INTERNI: SOFFERENZA ANTROPOLOGICA
E ESILIO DELLA SOCIALITÀ
L’esclusione dai processi di connessione funzionale e strutturale, la crescente
debolezza delle istituzioni, la concentrazione di deprivazione e povertà, l’evasio-
ne surrogatoria attraverso i media e i consumi, contribuiscono a spiegare il col-
lasso della socialità, dei legami sociali, che la ricerca ha registrato in molte delle
realtà osservate.
Storicamente, la forza e la specificità della città europea sono derivate dalla sua
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23. Il quadro complessivo della ricerca
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capacità di articolare le diverse sfere della vita personale e collettiva – politica, reli-
giosa, economica, artistica, abitativa ricreativa – all’interno di un humus comune
che rendeva possibile la partecipazione e rafforzava la socialità. E’ per questa
ragione che i contesti urbani sono sempre stati un terreno particolarmente fertile
per la produzione e la riproduzione delle relazioni sociali, pubbliche oltre che pri-
vate: al di là dei tanti problemi, la città ha generato forme stabilizzate ed integra-
tive di prossimità e di solidarietà. Forme che divenivano poi riferimenti per la
costruzione dell’identità, nonché concreti sostegni nei momenti di fragilità e cana-
le di formazione dei gruppi sociali della società civile (di natura religiosa e laica) in
grado di raccogliere le esigenze individuali in una domanda collettiva.
All’interno dei quartieri studiati, la dinamica della frammentazione, di cui si è
detto nei paragrafi precedenti, erode questa tradizionale funzione di habitat
della socialità tipica della città.
La mobilità di beni, persone, capitali, idee, progetti, che transitano in alcune
aree osservate, senza tuttavia creare benefici per chi vive in quelle aree; la trasfor-
mazione, in altri quartieri, della sedentarietà in una chiusura che cerca riparo dal-
l’illeggibilità dell’ambiente esterno; gli effetti della globalizzazione che scaricano
proprio nei contesti urbani le contraddizioni sistemiche (ad esempio, migrazione
di popolazioni in eccesso, pluriuniversi culturali che si trovano semplicemente giu-
stapposti senza possibilità di comunicazione e comprensione reciproca, trasforma-
zioni del mondo del lavoro che concentrano nelle città gli eccessi di povertà e ric-
chezza), sono tutti fattori che concorrono ad ostacolare la possibilità dell’incontro
tra persone e a complicare la convivenza, soprattutto in assenza di una mediazio-
ne istituzionale in grado di costruire dei percorsi di integrazione per i gruppi che
vivono in un territorio. Il che si traduce in una sofferenza antropologica, di cui
molte delle persone che abbiamo incontrato portano evidenti segni.
Tutto ciò contribuisce a determinare una sorta di “collasso della socialità”. Di
fronte ad un contesto illeggibile e minaccioso, sul quale non si ha alcun potere
e verso il quale si è completamente esposti senza istituzioni in grado di offrire
qualche protezione, è forte la tentazione di sprofondarsi in un microcosmo
regolato da codici conosciuti, un universo ristretto dentro il quale ci si immerge,
accettandolo così com’è.
Traditi dalle istituzioni tradizionali che avevano garantito percorsi di vita pre-
vedibili, legge e ordine, coesione e solidarietà sociale; isolati in un contesto di
vita respingente, in un orizzonte di precarietà crescente e di dipendenza da
interventi assistenziali altrettanto precari; privati della prospettiva di una qua-
lunque mobilità sociale e in molti casi anche fisica, si sopravvive ricreando micro-
climi di socialità tra uguali, dove la complessità e l’eterogeneità del mondo ven-
gono escluse dalle proprie esperienze di vita. Quando ciò accade si assiste alla
nascita di vere e proprie isole ad alta densità simbolica e relazionale, incapaci,
tuttavia, di relazionarsi con l’esterno.
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Un tale adattamento nasce anche dal non riuscire più a condividere il proprio
mondo vitale con quello di coloro che vivono sullo stesso territorio, con i quali
ormai c’è ben poco in comune. Di fronte ad un contesto altamente problemati-
co, l’adattamento più diffuso è quello dell’estraneamento, che porta a evitare
qualunque coinvolgimento con l’ambiente circostante. L’obiettivo è quello di
non venire contaminati: quando si può, si lavora fuori, si mandano i figli a scuo-
la in un altro quartiere, ci si barrica nel proprio condominio recintato. Il che
porta fino a negare di abitare nel quartiere che ha uno stigma negativo – come
la ricerca ha documentato, è assai diffusa la tendenza a nascondere il proprio
domicilio o semplicemente a usare strategie comunicative volte alla dissimula-
zione – oppure a rifiutare di vedere i problemi presenti nella situazione in cui si
vive, come è capitato incontrando abitanti che si stupivano dell’immagine nega-
tiva del quartiere o della presenza di ingenti sacche di povertà nelle vie o nei
palazzi poco distanti da casa propria o dalla propria parrocchia.
La logica dell’estraneamento produce due possibili esiti che si ricollegano a
vere e proprie strategie di suddivisione in micro-zone del territorio, fino a che
quest’ultimo rischia di frammentarsi ancora di più e di spezzarsi su se stesso.
La prima strategia tende a creare una differenziazione interna per blocchi, per
aree di grande o medio taglio percepite come omogenee e i cui confini, rinforza-
ti simbolicamente dagli abitanti, sembrano separare i destini di chi è chiamato ad
abitarvi: tipicamente, si tratta del tentativo di definire “zone riconoscibili” che
possono essere tali per la diversa natura proprietaria degli immobili – ad esempio,
con la netta distinzione tra i blocchi ad edilizia privata o convenzionata, le aree
funzionalmente connesse con il mondo esterno, i nuclei insediativi originari (dove
esistenti), nettamente differenziati anche a livello architettonico rispetto al resto
del quartiere dove sono diffuse le abitazioni popolari o abusive – oppure per la
presenza di gruppi della criminalità organizzata in grado di controllare intere por-
zioni di territorio – con la netta distinzione, in questo caso, di zone non penetra-
bili, considerate come ricettacolo di tutti i mali del quartiere.
La costruzione di tali blocchi porta a tracciare una mappa cognitiva condivisa,
lungo confini invisibili ma perfettamente operanti, che segmenta il quartiere e
che arriva sino a definire percorsi personali – di vita quotidiana e di destino
sociale – del tutto separati e tra loro incompatibili: chi vive nelle case private o
a edilizia convenzionata prende le distanze da chi vive nelle case popolari; chi ha
la possibilità di connettersi con il mondo esterno (attraverso un lavoro, un impe-
gno, reti amicali, ecc.) non si identifica né con il quartiere né con il suo destino.
In alcuni casi, ciò dà luogo ad una “contiguità disconnessa”, con “isole” di dif-
ferenza (come gli spazi impenetrabili dei portici a Bari, per esempio) o di estra-
neità totale (come i campi Rom un po’ ovunque, con la parziale eccezione di
Firenze; la comunità cinese con le sue attività a Roma, Torino, Bologna; le ville
con piscina subito fuori lo Zen 2).
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La seconda strategia consiste, invece, in una vera e propria polverizzazione
che tende a spezzare il territorio in zone a grana ancora più fine, con tagli che
vanno dalla via ad un angolo di strada, da un palazzo alla presenza di particola-
ri luoghi di incontro sul territorio.
Il senso di isolamento, l’estraneità per ciò che sta intorno, la percezione di
un’insicurezza o, talvolta, il desiderio di sottrarre alla visibilità i propri traffici
(leciti o illeciti), producono molteplici segni di auto-segregazione e sfiducia:
inferriate, filo spinato, cancelli e lucchetti sui pianerottoli, citofoni dietro griglie
murate (in particolare a Bari, Palermo, Genova, Napoli).
In generale, si registra un progressivo ritrarsi della socialità, i cui spazi, quan-
do ci sono, appaiono come sprofondati in micro contesti locali, privi di legami sia
rispetto alla vita sociale (al lavoro, alla scuola, ecc.) sia rispetto al mondo più
ampio (tutto ciò che sta fuori dal quartiere). I rapporti tra le persone – comun-
que difficili e avvelenati dalla diffidenza - si riducono per lo più in spazi intersti-
ziali (il privato, l’informale) e tendono a diventare quasi superflui.
Così, contrariamente ad alcune fasi del passato, quando la solidarietà di vici-
nato e la cultura di quartiere erano in grado di rappresentare una scialuppa di
salvataggio nei momenti difficili dell’esistenza, oggi per gli individui che vivono
nei quartieri sensibili sembrano venire meno anche queste risorse: l’atomizzazio-
ne e la solitudine pervadono tutte le pieghe della vita quotidiana e in modo
macroscopico intaccano il benessere e la qualità della vita.
Nelle situazioni più gravi, l’esito è la completa residualità, con quartieri che
arrivano a diventare zone morte, di pura sopravvivenza, dove persino la socialità
quotidiana del faccia-a-faccia fatica a radicarsi e a riprodursi, tanto ostile è il
contesto in cui si dovrebbe sviluppare.
SULLA RELAZIONE DENTRO FUORI: SOSPENSIONE,
RISENTIMENTO, VIOLENZA
Allo stato attuale, i quartieri sensibili delle città italiane più che contenitori di
rabbia e disperazione – da cui possano emanare conflitti urbani violenti e orga-
nizzati – sembrano depositi di sfiducia e depressione, nei quali il rischio è quel-
lo di una deriva di microconflittualità interna e violenza diffusa. Il tessuto socia-
le appare così sfilacciato e i mondi di vita così poveri da rendere improbabile il
sorgere di qualche conflitto organizzato.
Lo sfaldamento dei territori e la loro disconnessione con l’esterno – costanti
dell’intera ricerca – espongono chi vive nei quartieri di periferia a una situazio-
ne di sospensione dove diventa difficile riuscire a disporre di qualche tipo di
ancoraggio o di riferimento. Questa condizione di sospensione significa stare
contemporaneamente in due regimi diversi: con un piede nel disagio del mondo
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26. Il quadro complessivo della ricerca
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reale nel quale si vive la propria vita quotidiana e con l’altro nello spazio esteti-
co dei media e dei consumi, i quali peraltro contribuiscono a ributtare addosso
un’immagine stigmatizzata del quartiere e dei suoi abitanti che imprigiona
ancora di più in una situazione senza via d’uscita.
La ricerca ha anche messo in luce la presenza di condizioni di vita che supera-
no l’immaginabile e, più in generale, un’evidente difficoltà di interi gruppi socia-
li a pensarsi dentro una comunità più ampia della quale sentirsi parte. Questa
condizione tende a creare una frattura che chiede di essere ricomposta se non si
vuole accettare di imboccare una strada che rinnega la nostra storia e che rischia
di essere senza ritorno.
Rispetto a queste contraddizioni, a prevalere è un diffuso risentimento nei
confronti sia di coloro con cui si condivide la sorte – specchio della condizione
precaria e impresentabile da cui si vorrebbe fuggire - sia della società nel suo
insieme – luogo di un desiderio che non potrà mai essere soddisfatto. Tale risen-
timento si manifesta sotto una duplice modalità.
La prima è quella protettiva e nostalgica: anche se deprivato, il quartiere diven-
ta un piccolo nido, il mondo accogliente nel quale si può sopravvivere, in contrap-
posizione al mondo esterno, verso il quale si sviluppa un atteggiamento di crescen-
te distanza e strumentalità. Quando ciò accade, nel quartiere sensibile si può svi-
luppare una cultura della marginalità che fa del localismo la sua bandiera.
La seconda assume invece i tratti dell’esibizione provocatoria di un’identità
negativa che, in mancanza di altre risorse, diventa un mezzo di auto-affermazio-
ne. E ciò sia all’interno del quartiere – con l’adozione di comportamenti provo-
catori che cercano di stabilire un ordine locale alla realtà – sia all’esterno – con
la contrapposizione tra gli abitanti del quartiere e il resto del mondo.
A partire da tutto ciò diventa poi possibile spiegare anche gli scenari della vio-
lenza che possono essere associati a tre dinamiche principali.
La prima ha a che fare con la chiusura del rapporto con l’esterno e la forma-
zione e il radicamento di poteri criminosi, di solito collegati a traffici internazio-
nali, in grado di controllare il territorio e di detenere una sorta di monopolio
della violenza. Quando ciò avviene – come nel caso esemplare di Scampia – il
quartiere tende a produrre un’organizzazione autonoma, con una propria cul-
tura, una propria economia, una propria protezione sociale. La violenza in que-
sto quadro è controllata e per lo più rivolta verso l’esterno (le organizzazioni cri-
minose hanno tutto l’interesse a tenere tranquillo il territorio dove comandano),
salvo nel momento in cui si scatena una lotta di potere.
La seconda dinamica è anch’essa segno di una distanza crescente tra il dentro
e il fuori, distanza che si traduce in una disgregazione del tessuto e dei suoi rap-
porti così radicale da generare una violenza casuale, priva di qualunque logica.
Quando ciò avviene, ci si ritrova di fronte a una situazione che genera un senso
di terrore, dato che si vive in un territorio dove non si sa che cosa ci si possa
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aspettare. Si esce di casa e si può incappare in una guerra tra bande, in un atto
di bullismo, in una rissa occasionale. Begato, a Genova, è l’esempio più impres-
sionante di questa situazione.
La terza dinamica ha a che fare con una improvvisa connessione con i flussi su
scala globale, siano essi di persone, di informazioni o di culture. Di fronte a ciò,
anche laddove vi è una storia alle spalle che è stata capace di integrare, a certe
condizioni, le popolazioni locali provenienti da contesti eterogenei, ci si trova
senza risorse sufficienti per affrontare la nuova condizione. Il più recente arrivo
di portatori di una storia diversa, di culture altre o di interessi che nulla hanno a
che fare con il quartiere genera pertanto disagio e smarrimento insieme alla sen-
sazione di una violazione del proprio territorio e della propria identità.
L’eterogeneizzazione culturale diviene un ingombro quotidiano impossibile da
ignorare, cosicché – come mostra il caso emblematico dell’Esquilino a Roma – al
sentimento di invasione segue quello della paura da cui un allarme, non sempre
realmente giustificato, per la sicurezza: se il conflitto non è palese, ciò non signi-
fica assenza di violenza, costellata da atteggiamenti e gesti di indifferenza,
costruzione di confini, non riconoscimento e negazione dell’altro che - occupan-
do vie, piazze, case e scuole - spinge alla periferia del proprio spazio vitale.
In tutte queste dinamiche, i punti spaziali e simbolici di contatto tra il dentro il
fuori producono specifiche forme di violenza. Tra questi punti di contatto che uni-
scono i quartieri sensibili al mondo circostante, vi sono soprattutto la scuola – che
mette in relazione i criteri di giudizio esterni con la realtà dei quartieri - e i mezzi
di trasporto - che fisicamente uniscono questi mondi a parte con il resto della città.
Questi punti hanno la caratteristica di essere confini, soglie che rendono visibili le
differenze, ma al tempo stesso ambienti che confermano la distanza tra il dentro
e il fuori: la scuola perché rende manifesta l’inadeguatezza dei ragazzi rispetto
alle richieste del mondo circostante; i mezzi di trasporto perché ricordano che, se
da un lato i media e i consumi sembrano abbattere la distanza con l’esterno, dal-
l’altro, la realtà concreta mostra invece che tale distanza è tutt’altro che inesisten-
te. In quanto soglie, questi luoghi permettono altresì di imporre, anche se solo per
un attimo, la propria esistenza al mondo circostante che sistematicamente ignora
gli abitanti delle periferie. Tutto ciò può spiegare perché la violenza che si concen-
tra in questi luoghi ha la caratteristica della rabbia e dell’esibizione. Il San Paolo di
Bari è il quartiere dove questa dinamica si manifesta più nitidamente.
LA SPIRALE DELL’ABBANDONO
Se la natura e l’impatto delle connessioni con l’esterno sono elementi centra-
li della vita urbana contemporanea, la ricerca ci dice che, nei quartieri sensibili,
quello che viene fatto in tale direzione è insufficiente.
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La gran parte dei quartieri studiati mostra, infatti, uno scarso livello di inte-
grazione nei circuiti funzionali sulle diverse scale spaziali (che sia quella cittadi-
na, quella nazionale o quella internazionale). Dagli aspetti infrastrutturali (stra-
de, metropolitane, ecc.) a quelli strutturali (lavoro e economia) siamo di fronte
a mondi che rimangono molto marginali, a volte esclusi. L’eredità del passato
pesa come un macigno, perché la lontananza dal centro e la povertà urbanistica
e sociale rendono queste aree scarsamente attrattive e precludono quella tran-
sitività e bidirezionalità – in uscita e in entrata - dei flussi di popolazione che è
uno dei principali indicatori della vitalità urbana.
Il fossato tra chi vive nelle zone più evolute e chi è bloccato nei contesti degra-
dati tende ad allargarsi. Ciò finisce con l’alimentare quella che possiamo definire
una spirale di abbandono. Per capire di cosa si tratta occorre andare per un atti-
mo alla radice di questo termine che, come ci ricorda Nancy, è contenuta anche
nella parola francese banlieue. Giocando sul fatto che in francese la radice del
termine banlieue è la stessa di banal (banale), il filosofo francese ci dice che la
disgregazione dei quartieri rimanda all’idea di banalizzazione del luogo che
diviene cioè luogo senza alcuna originalità, luogo della frammentazione, dell’in-
differenza, ove mettere al bando – abbandonare - intere categorie sociali.
La spirale dell’ab-ban-dono è quella in cui sono avvitate tante città nel mondo
e nella quale rischiano di avvitarsi le grandi città italiane.
Da una parte, l’ab-ban-dono è soggettivamente vissuto da chi vive in queste
enclave come il sentirsi prigionieri, nel non avere via di scampo, nel cogliere
dallo sguardo esterno l’idea che si è solo un problema, nel vedere concretamen-
te che le istituzioni hanno sempre minore interesse nei confronti di chi vive nei
quartieri difficili. Nell’indebolirsi dei legami istituzionali, nella immobilità fisica
e sociale degli abitanti, nell’irrilevanza dei propri mondi vitali rispetto ai con-
temporanei, diventa difficile conservare un minimo senso della propria vita oltre
che di appartenenza ad una comunità politica più grande; ma questo non può
non erodere il fondamento di qualunque senso di lealtà, di responsabilità, di
bene comune.
Dall’altra parte, per chi è esterno (sia dal punto di vista abitativo che dell’in-
vestimento soggettivo), l’ab-ban-dono significa la presa di distanza e la separa-
zione dei destini propri da quelli altrui. Un atteggiamento che alla fine determi-
na indifferenza e indisponibilità a farsi carico dei problemi della vita comune e
a porre le questioni sociali nell’unica chiave di lettura della sicurezza. Anche da
questo punto di vista si genera una crisi dell’idea di spazio pubblico e una sot-
trazione alla responsabilità del bene comune.
Quando queste due dinamiche si combinano l’una con l’altra, esse danno vita
ad una spirale negativa che fa sì che l’ab-ban-dono si traduca in una vera e pro-
pria “messa al bando” di questi quartieri e soprattutto dei gruppi che vi abita-
no, a prescindere dalla loro effettiva condizione.
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Ma ciò costituisce un boomerang, perché ban-dire interi gruppi e intere aree
urbane significa accettare di creare dei ban-diti, cioè persone che agiscono al di
fuori di un sistema di riconoscimento e di obbligazione reciproche. Assottigliare
il substrato di significati e valori comuni non può che peggiorare le condizioni di
vita di tutti. E’ proprio la distanza crescente tra chi sta dentro e chi sta fuori che
spiega l’ampliarsi del risentimento e il diffondersi della violenza. Il fatto che, in
questa situazione, venga messo sotto scacco l’idea di città come luogo della
socialità e della cittadinanza ha come conseguenza la messa in discussione anche
del senso di ciò che è o non è umano.
LEGATURE CHE TENGONO
Il grado di avvitamento nella spirale dell’abbandono dei vari quartieri è natu-
ralmente diverso. Ci sono differenze nei percorsi storici, nel patrimonio cultura-
le, nella capacità delle istituzioni di svolgere comunque una funzione, nella pre-
senza di connessioni funzionali con altri contesti esterni al quartiere.
Inoltre, ci sono risorse interne e esterne che concretamente contribuiscono a
“tenere” queste zone e, faticosamente, a ricostituire il senso di uno spazio pub-
blico e di bene comune. Ci sono ancora legature che contrastano la spirale del-
l’abbandono: pezzi di istituzione pubblica, come la scuola, che funzionano;
amministrazioni locali che attivamente combattono il degrado; gruppi sociali
che mantengono un forte radicamento nei territori e lavorano al suo interno per
un riscatto e una valorizzazione; segmenti dell’opinione pubblica che rimango-
no attenti ai problemi dei quartieri sensibili.
Sempre presente, anche se con forza e significati diversi, è la chiesa cattolica,
l’unica realtà che conserva un suo radicamento capillare e che, proprio per que-
sto, riesce a garantire una qualche forma di intervento significativa in tutti i
quartieri.
La ricerca mette in luce come la religione costituisce, in realtà, forse l’unico
linguaggio – insieme a quello dei media e dei consumi - ancora in grado di inter-
cettare le popolazioni che vivono in questi quartieri. Riproponendo le questioni
fondamentali dell’esistenza, ricollegando gli elementi della tradizione alla vita
quotidiana, indicando valori e norme di comportamento, offrendo la vicinanza
e la testimonianza di persone dedicate e disinteressate, la chiesa costituisce spes-
so l’unico concreto segno di speranza in una realtà disperata. Da questo punto
di vista, essa svolge un ruolo fondamentale perché garantisce una vicinanza che
spesso è l’unico elemento di aggancio con il mondo esterno.
E, tuttavia, anche questa preziosa presenza non è esente da debolezze.
In primo luogo, vi sono difficoltà di ordine organizzativo, a causa della fragi-
lità del tessuto parrocchiale e soprattutto della scarsa abitudine a lavorare in
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rete, sia a livello orizzontale – tra i vari operatori pastorali presenti sul territorio
– sia a livello verticale – con gli uffici e le risorse che la diocesi potrebbe mette-
re a disposizione. La valorizzazione di questi legami è essenziale per rafforzare
la capacità della chiesa di essere presente nei quartieri sensibili e di riuscire a
svolgere in modo adeguato la propria opera.
In secondo luogo, di fronte ad una realtà così disgregata, la stessa chiesa
incontra serie difficoltà a continuare ad essere un fattore universalistico capace
di ri-stabilire legami sociali al di là del microcosmo locale della parrocchia o del
singolo gruppo. L’isolamento nel quale talora si trovano le comunità religiose
attive sul territorio rischia di provocare il rifugio consolatorio nella dimensione
emozionale di uno spiritualismo e di un ritualismo disincarnati o il cedimento
alle strumentalizzazioni dei sistemi di potere radicati nei territori locali. Quando
ciò accade, la chiesa perde se stessa e rinuncia alla propria missione.
In terzo luogo, il discorso religioso deve misurarsi con la forza disgregatrice
dei media e dei consumi, forza che, da un lato, sgretola le tradizioni culturali e
che, dall’altro, le recupera in forma strumentale, considerandole come mera
risorsa per soddisfare un’ansia di identità che offre l’impressione di dare delle
risposte placando però solo momentaneamente quelli che sono in realtà bisogni
più radicali. Anche in questo caso, è difficile per la chiesa trovare una misura che
le permetta di difendersi dagli opposti estremismi di un relativismo radicale e di
un fondamentalismo reattivo.
Il discorso sulla chiesa introduce quello sugli altri soggetti della società civile
e del terzo settore, spesso emanazione proprio del mondo ecclesiale.
Una prima osservazione è che la debolezza delle istituzioni e la precarietà
delle condizioni di vita si traducono in una fragilità anche della società civile. In
effetti, la ricerca mostra che le forme di auto-organizzazione (che si esprimono
in associazioni, cooperative, gruppi di volontariato, movimenti, ecc.) sono in
genere fragili, eccezione fatta per i residui di precedenti forme sociali (come a
Firenze e Bologna, dove il tessuto associativo riflette la fase storica precedente)
o per le espressioni del mondo cattolico (Caritas parrocchiali o gruppi di volon-
tariato).
La ricerca mostra altresì che anche i soggetti del terzo settore riflettono la stes-
sa debolezza ed estemporaneità che caratterizza queste aree. Se è vero, infatti,
che il privato sociale riesce ancora a creare luoghi e iniziative vicine ai bisogni
sociali inascoltati o insoddisfatti, d’altro canto, la frammentazione diffusa depriva
queste risorse della potenziale forza delle reti collaborative e le trascina in azioni
contingenti e improvvisate. Risucchiate in forme di collaborazione prevalentemen-
te verticale - in cui il pubblico è il solo interlocutore per via dei finanziamenti –
queste realtà non sono sempre immuni da una logica di puro accomodamento che
consente al pubblico di giustificare il proprio arretramento dalle politiche di lotta
alle povertà e alle organizzazioni non-profit di operare in grande autonomia, fino
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31. Il quadro complessivo della ricerca
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- in qualche caso - alla completa discrezionalità nell’utilizzo delle risorse pubbliche
erogate. D’altro canto, le forme di collaborazione orizzontale tra gli stessi attori
della società civile sono ancora poche, il che riduce la capacità di trovare soluzioni
cooperative ai problemi comuni.
In questo modo, il potenziale interno alla stessa società civile diminuisce note-
volmente, disperdendo energie preziose dentro azioni particolaristiche e difensi-
ve, che rischiano di divenire non solo socialmente irrilevanti, ma anche poco civili.
Peraltro, la debolezza del lavoro di rete, che accomuna organizzazioni di
diversa ispirazione, impedisce alla società civile di avere una qualche influenza
sul sistema politico e quindi di contribuire a innescare percorsi duraturi di cam-
biamento sociale.
FERMARE LA SPIRALE DELL’AB-BAN-DONO
Se la situazione è quella che abbiamo cercato di delineare nel lavoro di ricer-
ca condotto, occorre allora un salto di qualità nell’impostare gli interventi e la
presenza nei quartieri sensibili.
Per affrontare i problemi che abbiamo riscontrato occorre ri-creare connessio-
ni e rifondare la socialità: per questo, il quadro che affiora ci porta a parlare del-
l’emergere di una questione antropologica. Non cambiano solo gli aspetti mate-
riali delle città e delle periferie, ma viene messo in discussione anche il senso
della vita personale e la natura dei rapporti sociali. C’è dunque bisogno di lavo-
rare per ricostruire quel tessuto relazionale, istituzionale e culturale che appare,
almeno in parte, compromesso dal processo di mutamento in atto. Inoltre, anche
se la trasformazione che abbiamo registrato è solo all’inizio, non è da sottovalu-
tare il fatto che, in quanto diretta espressione delle forze sistemiche che muovo-
no il nostro tempo, il suo impatto potenziale è molto grande.
Di fronte a realtà sociali già infragilite e con poche risorse, il processo di ricu-
citura dentro e fra i quartieri delle grandi città è un compito urgente che va però
realizzato con gradualità, costanza e attenzione. Tenendo conto che, come l’e-
sperienza del passato insegna, sarebbe sbagliato invocare interventi rigidi, impo-
sti dall’alto, debitori della pretesa di modellare il reale.
Concretamente, nel quadro storico in cui viviamo, occorre disporsi a utilizza-
re al meglio – in relazione alle questioni sollevate – la logica del progetto. E que-
sto perché, di fronte alla complessità e alla frammentazione, la ricomposizione
che il progetto è in grado di realizzare – temporanea e parziale - può rappresen-
tare una strada percorribile, forse l’unica, soprattutto se si intende mobilitare le
diffuse, anche se disperse, risorse esistenti. Tuttavia, come documenta la ricerca,
se lasciata a se stessa, la logica del progetto determina tutta una serie di conse-
guenze negative, soprattutto nelle aree più fragili.
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