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D’ARAGONA
           DIALOGHI D’ARAGONA
            “SALUTE E MALATTIA FRA STORIA E BIOLOGIA”




                                          Tremate più voi nel
                                          pronunciare questa
                                          sentenza che io
                                          nell’ascoltarla.

                                          Frate Giordano Bruno da Nola




              LOGOS
           NO LOGOS


MAURIZIO PARISI

                                                                         1
Il 27 settembre del 2012, Renata Polverini, Presidente
della Regione Lazio, una delle maggiori della Repubblica Italiana,
firmava a Roma la lettera di dimissioni anticipate, non senza
aver prima titubato e tergiversato per giorni. Festini grotteschi,
pagati con soldi pubblici destinati al "corretto funzionamento dei
gruppi consiliari e al rapporto tra elettore ed eletti”, il casus. E,
non a caso, dimissioni firmate nonostante i puntuali e pressanti
tentativi di dissuasione da parte dell’ex Presidente del Consiglio
italiano, cui la sindacalista romana faceva capo, al secolo
Berlusconi Silvio.
       Non a caso perché, com’è noto in tutto il globo,
quest’ultimo     risulta   sotto   processo        per   vicende    altrettanto
eclatanti, le serate del Bunga Bunga. Trattasi di balletti più o
meno spinti, dove s’indossavano maschere bizzarre, come quella
del giudice Ilda Boccassini o di Barack Obama e che si
svolgevano con sottofondo i discorsi degli avversari politici, quali
Nichi Vendola. Festini grotteschi, dove belle ragazze, alcune
minorenni, simulavano rapporti orali con la statua del dio Priapo,
il dio dal pene enorme, che non fu accettato nell’Olimpo perché
non riusciva a contenere i propri istinti sessuali e che costrinse al
sacrificio la ninfa Lotis la quale, piuttosto che cedere alle sue
insane voglie, preferì gettarsi nelle acque di un fiume, che si
cosparsero di petali di Loto.
       Non a caso pure perché le serate del Bunga Bunga erano
curiosamente simili ai party romani, non solo per la scabrosità,
ma pure per il tema: la gloriosa cultura greca. Quella in cui era
coinvolto il Presidente della Regione Lazio era stata intitolata
Olympus, con tanto di video di presentazione dei personaggi.
Escluso Priapo, emerge dalle immagini che c’erano fra gli altri
Zeus, Minosse, Eros, Afrodite, Circe e Medusa, dietro le cui
maschere    si    celavano    assessori,     consiglieri     di    ogni   livello
amministrativo,      segretari     di   partito,    imprenditori,    magnati,

                                                                                    2
principi e principesse. Oltre mille invitati, tutto a spese degli
italiani. Infine, a serata inoltrata e a soglia di gradazione alcolica
raggiunta, comparvero quelli finiti sui giornali accanto alla
Polverini a memoria dei posteri, quelli con la testa di maiale, che
cominciarono a palpeggiare le ragazze...
        Cosa c’entrano questi discorsi con la salute e con la
malattia?
        A parte le implicazioni psicologiche, dalle quali inizia ad
emergere come il narcisismo, su cui tornerò, costituisca la
grande malattia dell’occidente, va ricordato, prima di ogni altra
questione, che molti dei problemi del servizio sanitario nazionale,
fino a qualche decennio fa fra i migliori al mondo, sono
specificatamente ascrivibili alla politica dell’ultimo ventennio.
Basti pensare alla corruzione diffusa come un cancro, che non ha
esentato nemmeno la sanità, come dimostrano i ripetuti scandali
e i conseguenti costi sproporzionati rispetto ai servizi offerti, a
causa di problemi esterni al funzionamento del sistema in sé.
Impoverimento dello Stato, compreso il servizio sanitario, dovuto
alla   disonestà   dei   dirigenti   per   larghissima   parte,   che   è
un’anomalia rispetto ad altri paesi a capitalismo avanzato e che
avvicina la classe politica italiana a quella descritta da Thorstein
Veblen nella sua opera “Teoria della Classe Agiata”. Ossia, una
classe dirigente d’ispirazione aristocratica più che borghese,
predatoria e mossa dal desiderio di ostentare la propria forza con
il consumo vistoso, più che dalla produttività, dall’efficientismo e
dalla gestione del potere in sé.
        Le indagini della magistratura riguardano anche altre
feste, alcune delle quali, non a caso, partecipate direttamente
dall'allora premier Berlusconi, accolto come un riferimento. Ad
esempio, la festa della cacca, della quale, però, è indecoroso
elencare i dettagli, anche in chiave satirica. Si rinvia alle tv, ai
siti e ai giornali che sul gossip hanno costruito il proprio

                                                                            3
successo, la maggior parte dei quali non a caso, di proprietà
dello stesso Berlusconi. Ed è qui che, a mio modesto avviso,
vanno ricercate le cause dell’anomalia del nostro paese, unico al
mondo in cui l’industria culturale, di cui scrivevano Horkheimer e
Adorno, ha superato la dimensione funzionale al capitalismo ed è
giunta direttamente alla guida dello Stato. Industria culturale che
è fatta di grandi gruppi mediatici privati che, tramite l’overdose
di spot, gossip, veline e calciatori, promuovono un immaginario
collettivo sganciato dalla vita reale, specie dai problemi della
gente povera. Un immaginario dove tutto ciò che potrebbe
mettere in discussione la reality della classe agiata, è ridotto a
barzelletta, dolore compreso, facendo perdere consapevolezza,
prima che della dimensione politica, dei misteri fuori nell’universo
e dentro di noi. Un immaginario che stimolando il desiderio
continuo di beni, risponde ad un’istanza legata agli istinti, che
causa un profondo narcisismo. Una regressione a stadi di
sviluppo infantile, che limita l’empatia umana e che impedisce al
pensiero di andare oltre la ricerca del godimento immediato. E
ciò al fine di aumentare la produttività e le vendite oppure, come
accade in Italia, per ridurre il numero di voti da comprare per
vincere le elezioni.
       Alle feste romane, quella gente, per divertirsi, mimava
anche disperati operai in cassa integrazione, in palese spregio
della sofferenza altrui. Ma lo spregio per la sofferenza del
prossimo non riguarda solo la prepotenza della classe agiata e
improduttiva. Come preconizzava il Principe di Salina di Tomasi
di Lampedusa: “Ai gattopardi subentreranno le iene”, e dietro
l’efficientismo del tecno-capitalismo, si può annidare in maniera
ben più subdola, sotto forma d’indifferenza. Anche i medici, la cui
funzione dovrebbe spingere ad essere maggiormente empatici
rispetto al dolore altrui, hanno dato vita ad alcune vicende se
possibile ancor più ignominiose. Nel corso dei Dialoghi si è

                                                                       4
parlato di medico-nemico, a conferma, qui di seguito, si
riportano alcuni passaggi di una telefonata fra due medici della
clinica Santa Rita, divenuta famosa come “La clinica dell’orrore”
a causa delle operazioni inutili e dannose che venivano effettuate
al solo scopo di ottenere i rimborsi da parte del Servizio sanitario
nazionale. Chiamata intercettata, insieme a molte altre, il 16
febbraio 2008 (i nomi reali saranno omessi):
       SPECIALISTA 1: «Cioè tu pescavi dall'Oltre Po pavese?».
       SPECIALISTA 2: «Ma io pescavo dappertutto, da Lodi,
dove tiravo fuori le mammelle, poi ho cominciato a pescare
anche i polmoni... dall'Oltre Po pavese, da Pavia, da Milano
ormai perché comunque tutti i miei ex pazienti in istituto mi
seguono e ancora adesso... oggi ne sono venuti tre a Pavia di
pazienti che venivano lì a far le visite, continuano a telefonarmi e
mi dicono anche a pagamento noi veniamo da lei... quindi voglio
dire, cioè, io avevo ormai un giro che mi ero creato con il mio
modo di fare... essere disponibile a qualsiasi ora... ancora adesso
pensa che questi ultimi 15 giorni avrò fatto 35 - 40 visite gratis».
       SPECIALISTA 1: «Sì,sì».
       SPECIALISTA 2: «Di gente che mi chiama, viene, mi porta
le lastre. Stasera è venuta la mamma di quella paziente down,
poverina... Ma tu ricordati Volpato... il quale era un professore
universitario... Quanti cazzo di interventi faceva? Quattro al
mese... si ciucciava tutto lui, si faceva venire quei quattro sfigati,
con la storia che era dell'università, gratis, che lo portavano in
macchina avanti e indietro e si beccava lui alla fine il Drg e
faceva sei - sette massimo... gli ho visto fare sette pazienti ma
neanche tutti polmoni... sette, non so se tu prendi 800 euro per
polmone, sette per otto fa 5.600 euro».
       SPECIALISTA 1: «Uhm».
       SPECIALISTA 2: «No? Con cosa ci paghi? Con 5.000 euro
lordi che sono già 4.000 e di quei 4.000 metti cosa ne prendi,

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due tu e uno gli altri due? Ma gli altri due per uno ci sputano in
faccia... cioè non vengono a fare il giro, capito?».
        SPECIALISTA 1: «Certo».
        SPECIALISTA 2: «Ma sì, cioè i numeri sono questi! Cioè o
tu fai 15 polmoni, o altrimenti non puoi pagare un’equipe... e per
fare 15 polmoni... auguri... e no, dico, poi se sei fortunato che in
un mese ti arrivano quattro politraumi e non so dieci fratture
costali, ma cosa fai ti metti ad operare dieci fratture costali
perché non hai pazienti?».
        I nomi delle vittime sono invece reali, come Antonio,
paziente ad alto rischio operatorio, morto “sotto i ferri” per
lacerazione del cuore, non avendo retto l’intervento al polmone
per un tumore di cui non vi era traccia nella documentazione
clinica o Giuseppina, donna di 92 anni, malata terminale di
cancro, operata tre volte in sette mesi e morta in sala operatoria.
Alla Santa Rita accadeva di tutto, asportavano mammelle per
semplici cisti, curavano broncopolmoniti e tubercolosi togliendo
tutto il polmone, arrivarono ad impiantare un tendine tibiale
anteriore destro al posto di quello rotuleo sinistro sol perché il
paziente era ormai “aperto", cioè sotto i ferri in sala operatoria.
La clinica superava i 1.700 interventi annuali e aveva erogato 18
mila giornate in più rispetto a quelle che poteva accreditare nei
suoi posti letto. Dei 569 morti nei reparti di riabilitazione in tutta
la Lombardia nel 2005, il 13% erano deceduti in quello della
clinica dell’orrore.
        Eppure, questa vicenda è solo la più clamorosa. Recente,
ad esempio, è il caso dei premi in denaro, viaggi e vestiti offerti
dalla   multinazionale   farmaceutica    Sandoz    per   corrompere
centinaia di medici, al fine di somministrare dosi ormonali
massicce e non necessarie anche ai bambini. E tutto ciò in un
contesto in cui l’opinione pubblica sembra ormai considerare
“normale” che migliaia di persone debbano morire perché non è

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conveniente per le case farmaceutiche produrre certi tipi di
farmaci per malattie poco diffuse o diffuse solo in paesi non
abbastanza ricchi da permetterseli.
       Un polmone sotto i ferri è una persona che confida in
tutto e per tutto nel suo dottore, che quando chiude gli occhi per
l’anestesia prega di poterli riaprire e, dall’altro lato, delle persone
come dei medici non possono essere incapaci di comprenderlo.
Allora, come si può spiegare ai giorni nostri tanta crudeltà?
        Nella relazione ai Dialoghi 2010, prima dello svilupparsi
della crisi greca, intitolai il paragrafo iniziale la “Bankrazia e il
conflitto generazionale”. La parola Bankrazia fu coniata per
descrivere     la   macro   realizzazione   dell’Homo   Oeconomicus
predicato dall’economia neoclassica, cioè del paradigma che
ricostruisce   il   comportamento    umano    utilizzando   strumenti
geometrico-matematici e che muove dall’assunzione che l’essere
umano abbia le capacità di calcolo di un computer e sia
rapportato al mondo in maniera esclusivamente acquisitiva.
       I rapporti economici sono anche rapporti umani e basare
l’intera teoria economica sulla massimizzazione del profitto
significa disconoscere non solo che la razionalità umana è
limitata e l’uomo non è un computer, ma ancor prima che ciò che
caratterizza l’essere umano è l’emotività. Oltre alle previsioni
errate, succede allora che, quando dalle facoltà di economia,
passando per le banche, si giunge alla società, la competitività,
osannata nei manuali, si trasforma in odio.
        Nelle moderne società a capitalismo avanzato, il denaro
da mezzo è divenuto fine, colonizzando l’immaginario collettivo e
meccanizzando i rapporti sociali. L’aggressività è stata elevata a
sistema e le relazioni umane vengono dimensionate in funzione
della loro utilità, in modo da poter essere disfatte quando questa
cessa e prima di essere abbandonati. Non solo il valore di
scambio si è imposto sul valore d’uso di Marx, ma anche l’odio

                                                                          7
sull’amore cristiano e ciò non può non influire anche su uno dei
rapporti più sensibili, quello fra medico e paziente.
         Quando si vogliono descrivere gli effetti distorti del
tecnicismo, compresa la disumanizzazione dell’ospedalità, non si
può tralasciare di specificare che la tecno-scienza è guidata dal
capitalismo. La tecno-scienza può essere disumanizzante perché
dotata della potenza di modificare lo statuto antropologico
dell’essere umano. Si tratta di questioni che si porranno in
maniera esponenziale e che si stanno già ponendo, tuttavia
l’umanità va cercata prima che nella tecnica, nel rapporto con il
personale tecnico e quest’umanità oggi manca perché quella
particolare tecnica che è il capitalismo ha spinto persino i medici
a diventare prima di tutto specialisti nel far soldi.
         Per di più, anche dal punto di vista meramente economico
questo sistema è andato in crisi. Fino a qualche decennio fa la
produzione occidentale era crescente e il sistema sembrava
andare     verso     la    piena     occupazione.       Tuttavia,     con    la
globalizzazione, cadute gran parte delle barriere tecniche e
tecnologiche, la concorrenza di molti paesi che prima erano
mercati, soprattutto dell’Asia, ha determinano la caduta dei
profitti delle imprese occidentali, tanto che la produzione Cinese
si appresta a superare quella degli U.S.A, il cui livello di
disoccupazione       rasenta       ormai    le   due    cifre,      quanto   la
disoccupazione europea.
         La risposta delle imprese è stata delocalizzare o puntare
sulla finanza più che sull’economia reale, con ulteriore aumento
della disoccupazione. Mentre la terapia scelta dalla politica, ad
onta del fatto che il dogma dell’efficienza del profitto fosse stato
smentito    da     bolle   finanziarie     planetarie   e   dalla    necessità
dell’intervento pubblico per salvare grandi istituti di credito dalla
bancarotta, è stata continuare a privatizzare e a demolire lo
Stato e con esso le conquiste sociali dei secoli precedenti.

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Non è questa la sede per approfondire l’analisi politica,
piuttosto ciò che desidero rimarcare è che è inevitabile, anche
sotto quest’aspetto, che gli effetti si riverberino immediatamente
sulla sanità. In particolare, in Europa si sta verificando una
curiosa inversione di tendenza rispetto agli Stati Uniti. Mentre gli
U.S.A, nonostante la crisi, tendono a copiare il sistema europeo,
riducendo i costi per i cittadini, anche se lentamente, in Europa si
introducono i ticket e curarsi diventa sempre più dispendioso per
le fasce popolari meno abbienti. Contemporaneamente, invece di
migliorare la qualità del servizio pubblico, lo si grava di tagli che
ne peggiorano l’efficienza, sotto forma, ad esempio, di limitata
quantità e qualità dei posti letto, di turni estenuanti per l’esiguo
personale medico e paramedico o di carenza di assistenza extra-
ospedaliera. Ciò spinge i cittadini verso la sanità privata che
però, quando convenzionata dallo Stato, se non è diventata il
mezzo con il quale organizzazioni malavitose hanno drenato
denaro pubblico, ha generato un sistema poco trasparente, di cui
molti   medici      approfittano    quotidianamente.       Quando     non
convenzionata,      invece,   la    cura     viene    fornita   a   tariffe
elevatissime, sia perché il “mercato dei medici” è limitato dal
numero chiuso nelle facoltà di medicina, sia perché la salute non
ha prezzo. Così, oltre ad impedire a dei potenziali buoni medici di
realizzarsi perché sbagliano qualche crocetta in un test, anche la
malattia diventa un grande business e lo spettro delle cure solo
per i ricchi si aggira già per l’Europa.
        Come aveva preconizzato Naomi Klein, nella sua opera
Shock Economy, gli artefici dei tagli che stanno devastando il
servizio sanitario, sono gli stessi che hanno causato la crisi
economica e che, invece di pagarne le conseguenze, non solo le
scaricano   sulle     fasce   più   deboli    della   popolazione,     ma
approfittano dell’instabilità creatasi per assestare il colpo di
grazia allo stato sociale. Quando parlai di “bankrazia e conflitto

                                                                              9
generazionale”, lo feci per indicare come le teorie economiche
fondate sulla competizione fossero la base su cui si escludevano i
più deboli. Il modo con cui i ‘68ini diventati ’68enni, al fine di
difendere le posizioni acquisite, avevano delegittimato la politica,
dando luogo ad una sorta d’inversione conservatrice della lotta di
classe: lotta di classe contro i nuovi nati, dall’alto delle posizioni
di potere acquisite e dietro l’ombrello di una crisi che, prima di
essere economica, è la crisi psicologica di una classe dirigente
impreparata e dedita ai vizi, che non riesce ad affrontare il
cambiamento e tenta di esorcizzare la paura infierendo sulla vita.
         Sono convinto che la crisi di produttività dell’occidente
derivi   soprattutto   dall’incapacità   di   collaborare,   perché   la
competizione sfrenata ha reso difficile la cooperazione, anche a
fini meramente lavorativi. Cercando ancora nella sanità, ad
esempio, si può trovare che a Messina, in ripetute occasioni, a
causa di puerili liti fra medici sulla modalità di parto da praticare,
si ebbero delle complicazioni gravissime sia per le madri sia per i
neonati. E più in profondità, credo che prima che nella scarsa
produttività, la crisi stia nella mancanza di creatività, che si
traduce anche in carenza d’innovazione produttiva. Carenza di
creatività che riflette la crisi culturale dell’intero occidente,
laddove per contro l’oriente è stato in grado di innestare le altre
tradizioni di pensiero nel proprio, migliorandole con la creatività
tipica di questo, tecnologia compresa.
         Il titolo di questo elaborato, “No Logos”, è parafrasato dal
titolo del libro di Naomi Klein, “No Logo” perché credo che la
grande malattia dell’occidente, cioè il narcisismo che ho cercato
di tratteggiare negli esempi, affondi le radici nel sottofondo
filosofico occidentale nella misura in cui questo, situando il
fondamento della realtà in un ordine assoluto e/o assolutizzando
la mente, si pone oltre il divenire. Quella contro il divenire è la
sfida dell’uomo alla natura, cioè alla necessità e alla morte, sono

                                                                           10
convinto che l’omologazione di cui parla la giornalista canadese,
sia l’esito di questa partita.
       Ciò emerge bene se si compara la tradizione filosofica
occidentale con quella orientale. La filosofia mainstream in
occidente si fonda sulla riduzione della complessità tramite
categorie ideali e sull’assunzione che tali categorie di pensiero
combacino con la realtà. All’opposto, la filosofia orientale, ritiene
che tutto in natura sia interconnesso e che la forma non esista se
non in relazione con le altre forme. Se adottiamo quest’ultima
prospettiva, di fronte alla complessità e al divenire, qualsiasi
categoria di pensiero risulta una deformazione della realtà, che
può essere valutata solo in termini di utilità del paradigma.
Emerge, inoltre, come connessa al pensiero occidentale ci sia
un’idea di dominio sulla natura, tanto è vero che, assumendo che
l’ordine ideale possa corrispondere con l’ordine della natura, la
filosofia occidentale ha creato la scienza, che ne ha fatto proprio
il metodo, affinandolo tramite la matematizzazione e rendendolo
utilizzabile tramite la tecnologia.
       Anche quando rivolge lo sguardo verso l’interno, fino ad
oggettivare la stessa attività pensante, la filosofia occidentale
sgancia il pensiero dal corpo, cioè ancora dalla natura, perché
non riconosce alle sensazioni un ruolo attivo nella formazione del
pensiero.   All’opposto,    la   filosofia   orientale   ritiene    che    la
conoscenza si basi su un’intuizione preconscia, integralmente
radicata nel corpo e non priva di contenuti, essendo anzi il solco
nel quale s’inscrivono tutti i pensieri.
       Per filosofia orientale non s’intende qui genericamente la
tradizione religiosa dell’oriente, con tutta la sua ricchezza di
sfaccettature    ma,       precisamente,      una    scuola        filosofica
giapponese. Infatti, anche se l’espressione filosofia orientale non
sempre è accettata in occidente, quei pensatori accomunati sotto
il nome Scuola di Kyoto a cui, in questa sede, si farà cenno solo

                                                                                11
per sommi capi, si proponevano proprio di fare filosofia nel senso
occidentale del termine, sebbene coniugandola con la cultura
orientale e principalmente col Buddhismo.
       Le neuroscienze sembrano oggi avvicinarsi a questa
prospettiva. Il conoscere-diventando tramite l’azione-intuizione
di cui parla Nishida Kitaro, il precursore della scuola filosofica
giapponese, è suffragato da un gruppo di scienziati afferente
all’università di Parma. Gli scienziati italiani affermano, infatti, di
avere individuato nei neuroni specchio, situati in aree cerebrali
connesse al movimento, il luogo dell’empatia, poiché tali neuroni
si attivano non solo quando siamo noi a compiere un’azione, ma
anche quando osserviamo un nostro simile compiere una
medesima azione. Tuttavia, l’uso che si farà del termine empatia
in questa sede, muove in primo luogo dal termine greco
sympatheia,     utilizzato    ben       prima    dello    sviluppo     delle
neuroscienze da filosofi quali ad esempio Adam Smith e David
Hume, e prima ancora dai filosofi antichi onde designare
l’interconnessione che anima l’universo.
       L’empatia, dandoci la possibilità di sperimentare gli
opposti, svolge una prima funzione cognitiva. Nell’intuizione che
nasce dalla dialettica fra sensazioni ed empatia, le sensazioni
acquistano oggettività e ciò genera la consapevolezza, che
precede e rende possibile il pensiero. Comprendere significa che
nella consapevolezza conoscente e conosciuto sono uno. Di per
sé, il ragionamento attiene alla memoria, mentre qualsiasi
linguaggio, per quanto utile, è metaforico e storicamente
determinato nella semantica, cosi come nella grammatica e nella
sintassi. Questa funzione mediatrice corrisponde a quella che
Adam Smith denominava simpatia, ma che equivale alla pura e
semplice   capacità   di     mettersi    nei    panni    dell’altro,   senza
necessariamente condividerne le sensazioni e permettendoci
anche di godere sadicamente del dolore altrui.

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La natura umana non è fatta, tuttavia, solo d’istinti
aggressivi, anzi il successo dell’umanità è quello dello sviluppo
della socialità più di qualsiasi altra specie. L’empatia, oltre a
sviluppare la consapevolezza, possiede un contenuto affettivo
proprio   e   originario,   così   come   aveva   sostenuto   Hume,
utilizzando anch’egli, in maniera più appropriata, il termine
simpatia. Alla funzione conoscitiva si accompagna la capacità di
percepire le stesse sensazioni dell’altro, come se l’esperienza si
trasmettesse. Ciò determina lo svilupparsi della dialettica fra
istinti e simpatia ed è questa dialettica che costituisce lo spazio
della nostra libertà. La morale non si genera da precetti astratti,
ma come un allontanarsi dagli istinti per via della simpatia, senza
che questo distacco possa mai completarsi poiché la discontinuità
rispetto al mondo opera già a livello della volontà, tramite la
simpatia, cioè ancora volontà.
       Tuttavia, ciò che soprattutto interessa ai fini di questo
lavoro è che, per quanto spiacevole sia, rimuovendo il divenire
non si può sviluppare un pensiero realmente critico perché non si
mette radicalmente in discussione anche se stessi. Il prezzo da
pagare per pensarsi come liberi e per ridurre la realtà al fine di
poterla dominare è che il soggetto cessa di percepirsi come parte
della natura, dentro qualcosa che è più grande di sé e che
comprende il dolore come elemento della sua essenza. Ciò
conduce all’antropocentrismo e al narcisismo, dai quali consegue
un   pensiero    conservatore      e   incapace   di   affrontare   il
cambiamento, le cui conseguenze si manifestano, a mio avviso,
pure nel contenzioso eccessivo contro i medici.
       Anche i monoteismi, assumendo l’idea che esista un
ordine trascendente e trasformandolo nel luogo della salvezza,
ereditano la stessa impostazione e gli stessi problemi della
filosofia occidentale. Presentando la morte come un passaggio
che porta alla continuazione dell’io in eterno, forniscono un senso

                                                                         13
e un riparo dall’angoscia. Tuttavia, se la morte non ha un
significato intrinseco, allora nemmeno la vita ha una sacralità
propria e non c’è motivo di amarla nella sua differenziazione. Né
la fede in un’entità trascendente possiede più l’autorità per
legittimare l’amore per il prossimo, nemmeno in maniera
indiretta. Infatti, sostenendo che dio sia trascendente e che la
natura sia razionalmente comprensibile, da un lato s’indebolisce
dio, la cui forza si riduce a quella che gli uomini gli attribuiscono,
e dall’altro la religione diventa funzionale al tecno-capitalismo,
tanto è vero che questo ha sostituito Gesù nel cuore e nella
prassi delle persone, conservando però la dogmatica, al fine di
evitare, insieme all’angoscia, la riflessione sui misteri della vita.
Infine,    seppur   da   una   prospettiva   meramente    idealistica,
Parmenide a ragione sosteneva che le cose non vengono dal
nulla e non ritornano nel nulla, così come oggi confermato dagli
scienziati.
          Tuttavia, se ci atteniamo solo al piano concettuale,
nonostante quello che dichiarava Parmenide, il nulla è pensabile
come anti-essere, una categoria che permette di criticare
l’assolutezza dell’essere e con esso l’idea di soggetto e tutte le
specializzazioni. Inoltre, ciò non è privo di conseguenze pratiche,
perché se è vero che la filosofia del nulla non fa che riaffermare
l’esistenza, lo fa teorizzando l’assenza di senso.
          Infatti, l’affermazione della pura esistenza permette
all’essere umano di acquisire consapevolezza che nel divenire gli
uomini non sono altro che ombre, riconciliandosi con la morte.
Tuttavia, come su accennato, poiché la natura umana è
ambivalente, si aprono sia la via dell’empatia che quella degli
istinti. Se ci si limita ad una semplice anticipazione intellettuale
della morte, la dicotomia soggetto-oggetto, anche se colta nel
divenire, non viene eliminata e anzi gli istinti ne risultano



                                                                         14
esaltati. Per questa via l’uomo si pone in opposizione alla forza
della natura ed esalta la forza propria.
         All’opposto, Tanabe Hajme, il secondo grande esponente
della    scuola       di   Kyoto,    nella     sua   opera        “Filosofia     come
metanoetica”           afferma      che    accogliere      la     morte    significa
riconoscere l’impotenza della forza propria, sottomettendosi alla
forza altra tramite la fede-pratica-testimonianza nella forza altra,
fino alla morte-risurrezione del sé, che condurrebbe alla grande
negazione eppure grande compassione. In parole povere per
Tanabe, una volta compresa l’impossibilità di una filosofia che
non incorra in antinomie, occorre trasformare in filosofia la
propria      vita,     accettando     di   essere    nulla,      eliminando       ogni
narcisismo e così aprendosi all’amore per il prossimo.
         Tuttavia, credo che la solidarietà che possa nascere dalla
pena per la comune sorte di essere nulla, non sia in grado di
impegnare per se stessa la nostra vita e, infatti, il tentativo di
dare un fondamento filosofico al nulla, come fecero i filosofi
orientali, alcuni dei quali furono allievi di Heidegger, si è
tradotto, nella prassi dei nostri giorni, nel prevalere dell’altro tipo
di      nichilismo,        quello      della      forza         propria.       Inoltre,
dall’idealizzazione del nulla consegue una trascendenza senza
contenuto, che finisce per reggere ancor meno dell’idea di un
creatore alla critica di Parmenide che, come summenzionato,
affermava che il nulla non esiste in natura, così come oggi
confermato dagli scienziati.
         I   filosofi orientali      idealizzarono        il nulla    perché, nel
tentativo di fondare la loro dialettica della natura, portarono alle
estreme conseguenze la dimensione personale. Tuttavia, dalla
prospettiva          orientale   residua       un’obiezione       all’idealismo      di
Parmenide, perché il fatto che le cose non vengano dal nulla e
non ritornino nel nulla, non esclude che non si trasformino.
L’essere non può venir concepito come immobile, perché se si

                                                                                          15
nega dio, deve contenere in se stesso la propria negazione per
comprendere il divenire.
        Il cammino della contaminazione fra la tradizione di
pensiero orientale ed occidentale intrapreso dalla Scuola di Kyoto
poteva, dunque, essere continuato. Se per la forza altra di
Tanabe s’intende non il nulla bensì la natura stessa, su tale
posizione    è   possibile   innestare     una    teoria      generale   del
movimento, così come provò a fare Friedrich Engels nella sua
“Dialettica della Natura”, opera rimasta incompiuta e pubblicata
solo a partire dal 1924.
        I conflitti sono ovunque: la galassia più grande attrae e
ingloba quella minore e nel frattempo i buchi neri attraggono e
inglobano entrambe. L’energia solare permette la fotosintesi dei
vegetali, che costituiscono il nutrimento degli animali preda, che
sono uccisi dai predatori, mentre la tecnica umana distrugge gli
ecosistemi in cui entrambi, predatori e prede, vivono. Senza il
movimento di cui parlava Engels non si può spiegare nemmeno
la vita, perché pure i filosofi che negano il movimento sono il
prodotto dell’energia che muove le galassie e che fece sì che
della materia si concentrasse attorno ad una membrana per
esistere nell’ambiente.
       Tuttavia Engels si soffermò soprattutto sulla dialettica
come metodo d’indagine scientifica e anzi, probabilmente spinto
dal fervore suscitato dalla rivoluzione tecno-scientifica e dal fatto
che   gli   premeva   più    legittimare   la    dialettica    in   funzione
rivoluzionaria che filosofeggiare sul movimento in sé, provò
anche a matematizzarla. La dialettica non venne quindi del tutto
depurata degli aspetti idealistici, perché se si assume che la
natura operi dialetticamente, ogni termine in contrapposizione è
a sua volta oggetto di una contrapposizione, fino al punto in cui
gli opposti si confondono. La realtà può essere considerata come
una combinazione di cose che si negano reciprocamente, ma tale

                                                                               16
contrapposizione deve includere un medium, che in se stesso è
identità contraddittoria.
        La mutua determinazione dei due poli può essere
considerata risultato dell’auto-trasformazione di questa identità
contraddittoria, perciò i fenomeni fisici si possono considerare
come trasformazioni di un campo di forze. Dato che tutte le cose
sono collocate in tale universo, il fatto che non ci sia un senso
trascendente, non significa che le cose non abbiano senso,
perché il senso è quello insito nella natura stessa. A fondamento
dell’universo c’è l’universo infinito che autodeterminandosi dà
vita ad un eterno divenire in cui il ritorno è solo tendenziale.
L’essere è eppure non è perché è il movimento che media il
mescolarsi delle forme nell’universale dialettico, facendo si che la
dialettica della natura sia tanto creativa da creare un essere
creativo come l’uomo. Lo possiamo definire come energia o, se si
vuole Spirito della natura.
       Quando si considera l’ambiente, l’errore che spesso si fa è
vederlo esclusivamente come un oggetto. Ma la natura non è
solo ciò che utilizziamo per esistere, perché la materia che la
forma è la stessa che ci costituisce. Basti pensare ai disastri
nucleari, come quello di Fukushima, tristemente emblematici
perché evidenziano da un lato come la potenza della natura resti
superiore a qualsiasi tecnologia, e dall’altro come la natura sia la
nostra casa originaria. Fra quelle forze immani si annida un
fragile ecosistema, di cui noi stessi siamo espressione, pure se ce
ne accorgiamo solo quando siamo costretti ad evacuare le zone
contaminate, per non subire mutazioni genetiche. Il nostro corpo
è in relazione continua con l’ambiente, come confermano gli
studi di epigenetica, di cui si è parlato nei dialoghi, in base ai
quali l’ambiente può determinare una diversa espressione del
genoma, provocando l’attività di alcuni geni e la quiescenza di
altri, senza modificare la struttura del DNA. I cambiamenti

                                                                       17
epigenetici si conservano nella divisione cellulare, durante la vita
di un organismo e, come sosteneva Lamarck, potrebbe essere
possibile che qualora una mutazione epigenetica sia coinvolta
nella riproduzione, venga ereditata dalla generazione successiva.
        Forse mai come nella moderna società liquida occorre un
senso, ma se la scienza, in quanto tecnica, non può mettere in
discussione se stessa, come può questo compito essere svolto da
una filosofia ancora legata al principio di non contraddizione, che
della tecno-scienza costituisce la base e che è un conoscere
funzionale alla manipolazione del mondo e adatto alla brevità
della vita, ma non alle ambizioni che dovrebbero animare la
filosofia?
        Come scriveva Giacomo Leopardi, la natura, per quanto
possa essere crudele, è madre. Credo che solo se l’uomo si
accetterà né come figlio di un dio personale, né come mediatore
del nulla, ma come avvolto nella natura, insieme a tutti i mondi
che formano l’infinito universo, si può sperare in una sincera
responsabilità rispetto al prossimo. L’empatia si può trasformare
in simpatia solo se si acquisisce la consapevolezza che nello
spirito della natura l’io e l’altro sono uno, in quanto espressione
della stessa energia che costituisce l’universo. Se, all’opposto, la
consapevolezza servirà solo ad alimentare la volontà di potenza,
quale sembra essere la direzione intrapresa col dominio del
tecno-capitalismo, l’uomo regredirà agli istinti primordiali e a
morire non sarà solo la filosofia dello spirito, ma lo spirito stesso.




                                                                         18

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  • 1. D’ARAGONA DIALOGHI D’ARAGONA “SALUTE E MALATTIA FRA STORIA E BIOLOGIA” Tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla. Frate Giordano Bruno da Nola LOGOS NO LOGOS MAURIZIO PARISI 1
  • 2. Il 27 settembre del 2012, Renata Polverini, Presidente della Regione Lazio, una delle maggiori della Repubblica Italiana, firmava a Roma la lettera di dimissioni anticipate, non senza aver prima titubato e tergiversato per giorni. Festini grotteschi, pagati con soldi pubblici destinati al "corretto funzionamento dei gruppi consiliari e al rapporto tra elettore ed eletti”, il casus. E, non a caso, dimissioni firmate nonostante i puntuali e pressanti tentativi di dissuasione da parte dell’ex Presidente del Consiglio italiano, cui la sindacalista romana faceva capo, al secolo Berlusconi Silvio. Non a caso perché, com’è noto in tutto il globo, quest’ultimo risulta sotto processo per vicende altrettanto eclatanti, le serate del Bunga Bunga. Trattasi di balletti più o meno spinti, dove s’indossavano maschere bizzarre, come quella del giudice Ilda Boccassini o di Barack Obama e che si svolgevano con sottofondo i discorsi degli avversari politici, quali Nichi Vendola. Festini grotteschi, dove belle ragazze, alcune minorenni, simulavano rapporti orali con la statua del dio Priapo, il dio dal pene enorme, che non fu accettato nell’Olimpo perché non riusciva a contenere i propri istinti sessuali e che costrinse al sacrificio la ninfa Lotis la quale, piuttosto che cedere alle sue insane voglie, preferì gettarsi nelle acque di un fiume, che si cosparsero di petali di Loto. Non a caso pure perché le serate del Bunga Bunga erano curiosamente simili ai party romani, non solo per la scabrosità, ma pure per il tema: la gloriosa cultura greca. Quella in cui era coinvolto il Presidente della Regione Lazio era stata intitolata Olympus, con tanto di video di presentazione dei personaggi. Escluso Priapo, emerge dalle immagini che c’erano fra gli altri Zeus, Minosse, Eros, Afrodite, Circe e Medusa, dietro le cui maschere si celavano assessori, consiglieri di ogni livello amministrativo, segretari di partito, imprenditori, magnati, 2
  • 3. principi e principesse. Oltre mille invitati, tutto a spese degli italiani. Infine, a serata inoltrata e a soglia di gradazione alcolica raggiunta, comparvero quelli finiti sui giornali accanto alla Polverini a memoria dei posteri, quelli con la testa di maiale, che cominciarono a palpeggiare le ragazze... Cosa c’entrano questi discorsi con la salute e con la malattia? A parte le implicazioni psicologiche, dalle quali inizia ad emergere come il narcisismo, su cui tornerò, costituisca la grande malattia dell’occidente, va ricordato, prima di ogni altra questione, che molti dei problemi del servizio sanitario nazionale, fino a qualche decennio fa fra i migliori al mondo, sono specificatamente ascrivibili alla politica dell’ultimo ventennio. Basti pensare alla corruzione diffusa come un cancro, che non ha esentato nemmeno la sanità, come dimostrano i ripetuti scandali e i conseguenti costi sproporzionati rispetto ai servizi offerti, a causa di problemi esterni al funzionamento del sistema in sé. Impoverimento dello Stato, compreso il servizio sanitario, dovuto alla disonestà dei dirigenti per larghissima parte, che è un’anomalia rispetto ad altri paesi a capitalismo avanzato e che avvicina la classe politica italiana a quella descritta da Thorstein Veblen nella sua opera “Teoria della Classe Agiata”. Ossia, una classe dirigente d’ispirazione aristocratica più che borghese, predatoria e mossa dal desiderio di ostentare la propria forza con il consumo vistoso, più che dalla produttività, dall’efficientismo e dalla gestione del potere in sé. Le indagini della magistratura riguardano anche altre feste, alcune delle quali, non a caso, partecipate direttamente dall'allora premier Berlusconi, accolto come un riferimento. Ad esempio, la festa della cacca, della quale, però, è indecoroso elencare i dettagli, anche in chiave satirica. Si rinvia alle tv, ai siti e ai giornali che sul gossip hanno costruito il proprio 3
  • 4. successo, la maggior parte dei quali non a caso, di proprietà dello stesso Berlusconi. Ed è qui che, a mio modesto avviso, vanno ricercate le cause dell’anomalia del nostro paese, unico al mondo in cui l’industria culturale, di cui scrivevano Horkheimer e Adorno, ha superato la dimensione funzionale al capitalismo ed è giunta direttamente alla guida dello Stato. Industria culturale che è fatta di grandi gruppi mediatici privati che, tramite l’overdose di spot, gossip, veline e calciatori, promuovono un immaginario collettivo sganciato dalla vita reale, specie dai problemi della gente povera. Un immaginario dove tutto ciò che potrebbe mettere in discussione la reality della classe agiata, è ridotto a barzelletta, dolore compreso, facendo perdere consapevolezza, prima che della dimensione politica, dei misteri fuori nell’universo e dentro di noi. Un immaginario che stimolando il desiderio continuo di beni, risponde ad un’istanza legata agli istinti, che causa un profondo narcisismo. Una regressione a stadi di sviluppo infantile, che limita l’empatia umana e che impedisce al pensiero di andare oltre la ricerca del godimento immediato. E ciò al fine di aumentare la produttività e le vendite oppure, come accade in Italia, per ridurre il numero di voti da comprare per vincere le elezioni. Alle feste romane, quella gente, per divertirsi, mimava anche disperati operai in cassa integrazione, in palese spregio della sofferenza altrui. Ma lo spregio per la sofferenza del prossimo non riguarda solo la prepotenza della classe agiata e improduttiva. Come preconizzava il Principe di Salina di Tomasi di Lampedusa: “Ai gattopardi subentreranno le iene”, e dietro l’efficientismo del tecno-capitalismo, si può annidare in maniera ben più subdola, sotto forma d’indifferenza. Anche i medici, la cui funzione dovrebbe spingere ad essere maggiormente empatici rispetto al dolore altrui, hanno dato vita ad alcune vicende se possibile ancor più ignominiose. Nel corso dei Dialoghi si è 4
  • 5. parlato di medico-nemico, a conferma, qui di seguito, si riportano alcuni passaggi di una telefonata fra due medici della clinica Santa Rita, divenuta famosa come “La clinica dell’orrore” a causa delle operazioni inutili e dannose che venivano effettuate al solo scopo di ottenere i rimborsi da parte del Servizio sanitario nazionale. Chiamata intercettata, insieme a molte altre, il 16 febbraio 2008 (i nomi reali saranno omessi): SPECIALISTA 1: «Cioè tu pescavi dall'Oltre Po pavese?». SPECIALISTA 2: «Ma io pescavo dappertutto, da Lodi, dove tiravo fuori le mammelle, poi ho cominciato a pescare anche i polmoni... dall'Oltre Po pavese, da Pavia, da Milano ormai perché comunque tutti i miei ex pazienti in istituto mi seguono e ancora adesso... oggi ne sono venuti tre a Pavia di pazienti che venivano lì a far le visite, continuano a telefonarmi e mi dicono anche a pagamento noi veniamo da lei... quindi voglio dire, cioè, io avevo ormai un giro che mi ero creato con il mio modo di fare... essere disponibile a qualsiasi ora... ancora adesso pensa che questi ultimi 15 giorni avrò fatto 35 - 40 visite gratis». SPECIALISTA 1: «Sì,sì». SPECIALISTA 2: «Di gente che mi chiama, viene, mi porta le lastre. Stasera è venuta la mamma di quella paziente down, poverina... Ma tu ricordati Volpato... il quale era un professore universitario... Quanti cazzo di interventi faceva? Quattro al mese... si ciucciava tutto lui, si faceva venire quei quattro sfigati, con la storia che era dell'università, gratis, che lo portavano in macchina avanti e indietro e si beccava lui alla fine il Drg e faceva sei - sette massimo... gli ho visto fare sette pazienti ma neanche tutti polmoni... sette, non so se tu prendi 800 euro per polmone, sette per otto fa 5.600 euro». SPECIALISTA 1: «Uhm». SPECIALISTA 2: «No? Con cosa ci paghi? Con 5.000 euro lordi che sono già 4.000 e di quei 4.000 metti cosa ne prendi, 5
  • 6. due tu e uno gli altri due? Ma gli altri due per uno ci sputano in faccia... cioè non vengono a fare il giro, capito?». SPECIALISTA 1: «Certo». SPECIALISTA 2: «Ma sì, cioè i numeri sono questi! Cioè o tu fai 15 polmoni, o altrimenti non puoi pagare un’equipe... e per fare 15 polmoni... auguri... e no, dico, poi se sei fortunato che in un mese ti arrivano quattro politraumi e non so dieci fratture costali, ma cosa fai ti metti ad operare dieci fratture costali perché non hai pazienti?». I nomi delle vittime sono invece reali, come Antonio, paziente ad alto rischio operatorio, morto “sotto i ferri” per lacerazione del cuore, non avendo retto l’intervento al polmone per un tumore di cui non vi era traccia nella documentazione clinica o Giuseppina, donna di 92 anni, malata terminale di cancro, operata tre volte in sette mesi e morta in sala operatoria. Alla Santa Rita accadeva di tutto, asportavano mammelle per semplici cisti, curavano broncopolmoniti e tubercolosi togliendo tutto il polmone, arrivarono ad impiantare un tendine tibiale anteriore destro al posto di quello rotuleo sinistro sol perché il paziente era ormai “aperto", cioè sotto i ferri in sala operatoria. La clinica superava i 1.700 interventi annuali e aveva erogato 18 mila giornate in più rispetto a quelle che poteva accreditare nei suoi posti letto. Dei 569 morti nei reparti di riabilitazione in tutta la Lombardia nel 2005, il 13% erano deceduti in quello della clinica dell’orrore. Eppure, questa vicenda è solo la più clamorosa. Recente, ad esempio, è il caso dei premi in denaro, viaggi e vestiti offerti dalla multinazionale farmaceutica Sandoz per corrompere centinaia di medici, al fine di somministrare dosi ormonali massicce e non necessarie anche ai bambini. E tutto ciò in un contesto in cui l’opinione pubblica sembra ormai considerare “normale” che migliaia di persone debbano morire perché non è 6
  • 7. conveniente per le case farmaceutiche produrre certi tipi di farmaci per malattie poco diffuse o diffuse solo in paesi non abbastanza ricchi da permetterseli. Un polmone sotto i ferri è una persona che confida in tutto e per tutto nel suo dottore, che quando chiude gli occhi per l’anestesia prega di poterli riaprire e, dall’altro lato, delle persone come dei medici non possono essere incapaci di comprenderlo. Allora, come si può spiegare ai giorni nostri tanta crudeltà? Nella relazione ai Dialoghi 2010, prima dello svilupparsi della crisi greca, intitolai il paragrafo iniziale la “Bankrazia e il conflitto generazionale”. La parola Bankrazia fu coniata per descrivere la macro realizzazione dell’Homo Oeconomicus predicato dall’economia neoclassica, cioè del paradigma che ricostruisce il comportamento umano utilizzando strumenti geometrico-matematici e che muove dall’assunzione che l’essere umano abbia le capacità di calcolo di un computer e sia rapportato al mondo in maniera esclusivamente acquisitiva. I rapporti economici sono anche rapporti umani e basare l’intera teoria economica sulla massimizzazione del profitto significa disconoscere non solo che la razionalità umana è limitata e l’uomo non è un computer, ma ancor prima che ciò che caratterizza l’essere umano è l’emotività. Oltre alle previsioni errate, succede allora che, quando dalle facoltà di economia, passando per le banche, si giunge alla società, la competitività, osannata nei manuali, si trasforma in odio. Nelle moderne società a capitalismo avanzato, il denaro da mezzo è divenuto fine, colonizzando l’immaginario collettivo e meccanizzando i rapporti sociali. L’aggressività è stata elevata a sistema e le relazioni umane vengono dimensionate in funzione della loro utilità, in modo da poter essere disfatte quando questa cessa e prima di essere abbandonati. Non solo il valore di scambio si è imposto sul valore d’uso di Marx, ma anche l’odio 7
  • 8. sull’amore cristiano e ciò non può non influire anche su uno dei rapporti più sensibili, quello fra medico e paziente. Quando si vogliono descrivere gli effetti distorti del tecnicismo, compresa la disumanizzazione dell’ospedalità, non si può tralasciare di specificare che la tecno-scienza è guidata dal capitalismo. La tecno-scienza può essere disumanizzante perché dotata della potenza di modificare lo statuto antropologico dell’essere umano. Si tratta di questioni che si porranno in maniera esponenziale e che si stanno già ponendo, tuttavia l’umanità va cercata prima che nella tecnica, nel rapporto con il personale tecnico e quest’umanità oggi manca perché quella particolare tecnica che è il capitalismo ha spinto persino i medici a diventare prima di tutto specialisti nel far soldi. Per di più, anche dal punto di vista meramente economico questo sistema è andato in crisi. Fino a qualche decennio fa la produzione occidentale era crescente e il sistema sembrava andare verso la piena occupazione. Tuttavia, con la globalizzazione, cadute gran parte delle barriere tecniche e tecnologiche, la concorrenza di molti paesi che prima erano mercati, soprattutto dell’Asia, ha determinano la caduta dei profitti delle imprese occidentali, tanto che la produzione Cinese si appresta a superare quella degli U.S.A, il cui livello di disoccupazione rasenta ormai le due cifre, quanto la disoccupazione europea. La risposta delle imprese è stata delocalizzare o puntare sulla finanza più che sull’economia reale, con ulteriore aumento della disoccupazione. Mentre la terapia scelta dalla politica, ad onta del fatto che il dogma dell’efficienza del profitto fosse stato smentito da bolle finanziarie planetarie e dalla necessità dell’intervento pubblico per salvare grandi istituti di credito dalla bancarotta, è stata continuare a privatizzare e a demolire lo Stato e con esso le conquiste sociali dei secoli precedenti. 8
  • 9. Non è questa la sede per approfondire l’analisi politica, piuttosto ciò che desidero rimarcare è che è inevitabile, anche sotto quest’aspetto, che gli effetti si riverberino immediatamente sulla sanità. In particolare, in Europa si sta verificando una curiosa inversione di tendenza rispetto agli Stati Uniti. Mentre gli U.S.A, nonostante la crisi, tendono a copiare il sistema europeo, riducendo i costi per i cittadini, anche se lentamente, in Europa si introducono i ticket e curarsi diventa sempre più dispendioso per le fasce popolari meno abbienti. Contemporaneamente, invece di migliorare la qualità del servizio pubblico, lo si grava di tagli che ne peggiorano l’efficienza, sotto forma, ad esempio, di limitata quantità e qualità dei posti letto, di turni estenuanti per l’esiguo personale medico e paramedico o di carenza di assistenza extra- ospedaliera. Ciò spinge i cittadini verso la sanità privata che però, quando convenzionata dallo Stato, se non è diventata il mezzo con il quale organizzazioni malavitose hanno drenato denaro pubblico, ha generato un sistema poco trasparente, di cui molti medici approfittano quotidianamente. Quando non convenzionata, invece, la cura viene fornita a tariffe elevatissime, sia perché il “mercato dei medici” è limitato dal numero chiuso nelle facoltà di medicina, sia perché la salute non ha prezzo. Così, oltre ad impedire a dei potenziali buoni medici di realizzarsi perché sbagliano qualche crocetta in un test, anche la malattia diventa un grande business e lo spettro delle cure solo per i ricchi si aggira già per l’Europa. Come aveva preconizzato Naomi Klein, nella sua opera Shock Economy, gli artefici dei tagli che stanno devastando il servizio sanitario, sono gli stessi che hanno causato la crisi economica e che, invece di pagarne le conseguenze, non solo le scaricano sulle fasce più deboli della popolazione, ma approfittano dell’instabilità creatasi per assestare il colpo di grazia allo stato sociale. Quando parlai di “bankrazia e conflitto 9
  • 10. generazionale”, lo feci per indicare come le teorie economiche fondate sulla competizione fossero la base su cui si escludevano i più deboli. Il modo con cui i ‘68ini diventati ’68enni, al fine di difendere le posizioni acquisite, avevano delegittimato la politica, dando luogo ad una sorta d’inversione conservatrice della lotta di classe: lotta di classe contro i nuovi nati, dall’alto delle posizioni di potere acquisite e dietro l’ombrello di una crisi che, prima di essere economica, è la crisi psicologica di una classe dirigente impreparata e dedita ai vizi, che non riesce ad affrontare il cambiamento e tenta di esorcizzare la paura infierendo sulla vita. Sono convinto che la crisi di produttività dell’occidente derivi soprattutto dall’incapacità di collaborare, perché la competizione sfrenata ha reso difficile la cooperazione, anche a fini meramente lavorativi. Cercando ancora nella sanità, ad esempio, si può trovare che a Messina, in ripetute occasioni, a causa di puerili liti fra medici sulla modalità di parto da praticare, si ebbero delle complicazioni gravissime sia per le madri sia per i neonati. E più in profondità, credo che prima che nella scarsa produttività, la crisi stia nella mancanza di creatività, che si traduce anche in carenza d’innovazione produttiva. Carenza di creatività che riflette la crisi culturale dell’intero occidente, laddove per contro l’oriente è stato in grado di innestare le altre tradizioni di pensiero nel proprio, migliorandole con la creatività tipica di questo, tecnologia compresa. Il titolo di questo elaborato, “No Logos”, è parafrasato dal titolo del libro di Naomi Klein, “No Logo” perché credo che la grande malattia dell’occidente, cioè il narcisismo che ho cercato di tratteggiare negli esempi, affondi le radici nel sottofondo filosofico occidentale nella misura in cui questo, situando il fondamento della realtà in un ordine assoluto e/o assolutizzando la mente, si pone oltre il divenire. Quella contro il divenire è la sfida dell’uomo alla natura, cioè alla necessità e alla morte, sono 10
  • 11. convinto che l’omologazione di cui parla la giornalista canadese, sia l’esito di questa partita. Ciò emerge bene se si compara la tradizione filosofica occidentale con quella orientale. La filosofia mainstream in occidente si fonda sulla riduzione della complessità tramite categorie ideali e sull’assunzione che tali categorie di pensiero combacino con la realtà. All’opposto, la filosofia orientale, ritiene che tutto in natura sia interconnesso e che la forma non esista se non in relazione con le altre forme. Se adottiamo quest’ultima prospettiva, di fronte alla complessità e al divenire, qualsiasi categoria di pensiero risulta una deformazione della realtà, che può essere valutata solo in termini di utilità del paradigma. Emerge, inoltre, come connessa al pensiero occidentale ci sia un’idea di dominio sulla natura, tanto è vero che, assumendo che l’ordine ideale possa corrispondere con l’ordine della natura, la filosofia occidentale ha creato la scienza, che ne ha fatto proprio il metodo, affinandolo tramite la matematizzazione e rendendolo utilizzabile tramite la tecnologia. Anche quando rivolge lo sguardo verso l’interno, fino ad oggettivare la stessa attività pensante, la filosofia occidentale sgancia il pensiero dal corpo, cioè ancora dalla natura, perché non riconosce alle sensazioni un ruolo attivo nella formazione del pensiero. All’opposto, la filosofia orientale ritiene che la conoscenza si basi su un’intuizione preconscia, integralmente radicata nel corpo e non priva di contenuti, essendo anzi il solco nel quale s’inscrivono tutti i pensieri. Per filosofia orientale non s’intende qui genericamente la tradizione religiosa dell’oriente, con tutta la sua ricchezza di sfaccettature ma, precisamente, una scuola filosofica giapponese. Infatti, anche se l’espressione filosofia orientale non sempre è accettata in occidente, quei pensatori accomunati sotto il nome Scuola di Kyoto a cui, in questa sede, si farà cenno solo 11
  • 12. per sommi capi, si proponevano proprio di fare filosofia nel senso occidentale del termine, sebbene coniugandola con la cultura orientale e principalmente col Buddhismo. Le neuroscienze sembrano oggi avvicinarsi a questa prospettiva. Il conoscere-diventando tramite l’azione-intuizione di cui parla Nishida Kitaro, il precursore della scuola filosofica giapponese, è suffragato da un gruppo di scienziati afferente all’università di Parma. Gli scienziati italiani affermano, infatti, di avere individuato nei neuroni specchio, situati in aree cerebrali connesse al movimento, il luogo dell’empatia, poiché tali neuroni si attivano non solo quando siamo noi a compiere un’azione, ma anche quando osserviamo un nostro simile compiere una medesima azione. Tuttavia, l’uso che si farà del termine empatia in questa sede, muove in primo luogo dal termine greco sympatheia, utilizzato ben prima dello sviluppo delle neuroscienze da filosofi quali ad esempio Adam Smith e David Hume, e prima ancora dai filosofi antichi onde designare l’interconnessione che anima l’universo. L’empatia, dandoci la possibilità di sperimentare gli opposti, svolge una prima funzione cognitiva. Nell’intuizione che nasce dalla dialettica fra sensazioni ed empatia, le sensazioni acquistano oggettività e ciò genera la consapevolezza, che precede e rende possibile il pensiero. Comprendere significa che nella consapevolezza conoscente e conosciuto sono uno. Di per sé, il ragionamento attiene alla memoria, mentre qualsiasi linguaggio, per quanto utile, è metaforico e storicamente determinato nella semantica, cosi come nella grammatica e nella sintassi. Questa funzione mediatrice corrisponde a quella che Adam Smith denominava simpatia, ma che equivale alla pura e semplice capacità di mettersi nei panni dell’altro, senza necessariamente condividerne le sensazioni e permettendoci anche di godere sadicamente del dolore altrui. 12
  • 13. La natura umana non è fatta, tuttavia, solo d’istinti aggressivi, anzi il successo dell’umanità è quello dello sviluppo della socialità più di qualsiasi altra specie. L’empatia, oltre a sviluppare la consapevolezza, possiede un contenuto affettivo proprio e originario, così come aveva sostenuto Hume, utilizzando anch’egli, in maniera più appropriata, il termine simpatia. Alla funzione conoscitiva si accompagna la capacità di percepire le stesse sensazioni dell’altro, come se l’esperienza si trasmettesse. Ciò determina lo svilupparsi della dialettica fra istinti e simpatia ed è questa dialettica che costituisce lo spazio della nostra libertà. La morale non si genera da precetti astratti, ma come un allontanarsi dagli istinti per via della simpatia, senza che questo distacco possa mai completarsi poiché la discontinuità rispetto al mondo opera già a livello della volontà, tramite la simpatia, cioè ancora volontà. Tuttavia, ciò che soprattutto interessa ai fini di questo lavoro è che, per quanto spiacevole sia, rimuovendo il divenire non si può sviluppare un pensiero realmente critico perché non si mette radicalmente in discussione anche se stessi. Il prezzo da pagare per pensarsi come liberi e per ridurre la realtà al fine di poterla dominare è che il soggetto cessa di percepirsi come parte della natura, dentro qualcosa che è più grande di sé e che comprende il dolore come elemento della sua essenza. Ciò conduce all’antropocentrismo e al narcisismo, dai quali consegue un pensiero conservatore e incapace di affrontare il cambiamento, le cui conseguenze si manifestano, a mio avviso, pure nel contenzioso eccessivo contro i medici. Anche i monoteismi, assumendo l’idea che esista un ordine trascendente e trasformandolo nel luogo della salvezza, ereditano la stessa impostazione e gli stessi problemi della filosofia occidentale. Presentando la morte come un passaggio che porta alla continuazione dell’io in eterno, forniscono un senso 13
  • 14. e un riparo dall’angoscia. Tuttavia, se la morte non ha un significato intrinseco, allora nemmeno la vita ha una sacralità propria e non c’è motivo di amarla nella sua differenziazione. Né la fede in un’entità trascendente possiede più l’autorità per legittimare l’amore per il prossimo, nemmeno in maniera indiretta. Infatti, sostenendo che dio sia trascendente e che la natura sia razionalmente comprensibile, da un lato s’indebolisce dio, la cui forza si riduce a quella che gli uomini gli attribuiscono, e dall’altro la religione diventa funzionale al tecno-capitalismo, tanto è vero che questo ha sostituito Gesù nel cuore e nella prassi delle persone, conservando però la dogmatica, al fine di evitare, insieme all’angoscia, la riflessione sui misteri della vita. Infine, seppur da una prospettiva meramente idealistica, Parmenide a ragione sosteneva che le cose non vengono dal nulla e non ritornano nel nulla, così come oggi confermato dagli scienziati. Tuttavia, se ci atteniamo solo al piano concettuale, nonostante quello che dichiarava Parmenide, il nulla è pensabile come anti-essere, una categoria che permette di criticare l’assolutezza dell’essere e con esso l’idea di soggetto e tutte le specializzazioni. Inoltre, ciò non è privo di conseguenze pratiche, perché se è vero che la filosofia del nulla non fa che riaffermare l’esistenza, lo fa teorizzando l’assenza di senso. Infatti, l’affermazione della pura esistenza permette all’essere umano di acquisire consapevolezza che nel divenire gli uomini non sono altro che ombre, riconciliandosi con la morte. Tuttavia, come su accennato, poiché la natura umana è ambivalente, si aprono sia la via dell’empatia che quella degli istinti. Se ci si limita ad una semplice anticipazione intellettuale della morte, la dicotomia soggetto-oggetto, anche se colta nel divenire, non viene eliminata e anzi gli istinti ne risultano 14
  • 15. esaltati. Per questa via l’uomo si pone in opposizione alla forza della natura ed esalta la forza propria. All’opposto, Tanabe Hajme, il secondo grande esponente della scuola di Kyoto, nella sua opera “Filosofia come metanoetica” afferma che accogliere la morte significa riconoscere l’impotenza della forza propria, sottomettendosi alla forza altra tramite la fede-pratica-testimonianza nella forza altra, fino alla morte-risurrezione del sé, che condurrebbe alla grande negazione eppure grande compassione. In parole povere per Tanabe, una volta compresa l’impossibilità di una filosofia che non incorra in antinomie, occorre trasformare in filosofia la propria vita, accettando di essere nulla, eliminando ogni narcisismo e così aprendosi all’amore per il prossimo. Tuttavia, credo che la solidarietà che possa nascere dalla pena per la comune sorte di essere nulla, non sia in grado di impegnare per se stessa la nostra vita e, infatti, il tentativo di dare un fondamento filosofico al nulla, come fecero i filosofi orientali, alcuni dei quali furono allievi di Heidegger, si è tradotto, nella prassi dei nostri giorni, nel prevalere dell’altro tipo di nichilismo, quello della forza propria. Inoltre, dall’idealizzazione del nulla consegue una trascendenza senza contenuto, che finisce per reggere ancor meno dell’idea di un creatore alla critica di Parmenide che, come summenzionato, affermava che il nulla non esiste in natura, così come oggi confermato dagli scienziati. I filosofi orientali idealizzarono il nulla perché, nel tentativo di fondare la loro dialettica della natura, portarono alle estreme conseguenze la dimensione personale. Tuttavia, dalla prospettiva orientale residua un’obiezione all’idealismo di Parmenide, perché il fatto che le cose non vengano dal nulla e non ritornino nel nulla, non esclude che non si trasformino. L’essere non può venir concepito come immobile, perché se si 15
  • 16. nega dio, deve contenere in se stesso la propria negazione per comprendere il divenire. Il cammino della contaminazione fra la tradizione di pensiero orientale ed occidentale intrapreso dalla Scuola di Kyoto poteva, dunque, essere continuato. Se per la forza altra di Tanabe s’intende non il nulla bensì la natura stessa, su tale posizione è possibile innestare una teoria generale del movimento, così come provò a fare Friedrich Engels nella sua “Dialettica della Natura”, opera rimasta incompiuta e pubblicata solo a partire dal 1924. I conflitti sono ovunque: la galassia più grande attrae e ingloba quella minore e nel frattempo i buchi neri attraggono e inglobano entrambe. L’energia solare permette la fotosintesi dei vegetali, che costituiscono il nutrimento degli animali preda, che sono uccisi dai predatori, mentre la tecnica umana distrugge gli ecosistemi in cui entrambi, predatori e prede, vivono. Senza il movimento di cui parlava Engels non si può spiegare nemmeno la vita, perché pure i filosofi che negano il movimento sono il prodotto dell’energia che muove le galassie e che fece sì che della materia si concentrasse attorno ad una membrana per esistere nell’ambiente. Tuttavia Engels si soffermò soprattutto sulla dialettica come metodo d’indagine scientifica e anzi, probabilmente spinto dal fervore suscitato dalla rivoluzione tecno-scientifica e dal fatto che gli premeva più legittimare la dialettica in funzione rivoluzionaria che filosofeggiare sul movimento in sé, provò anche a matematizzarla. La dialettica non venne quindi del tutto depurata degli aspetti idealistici, perché se si assume che la natura operi dialetticamente, ogni termine in contrapposizione è a sua volta oggetto di una contrapposizione, fino al punto in cui gli opposti si confondono. La realtà può essere considerata come una combinazione di cose che si negano reciprocamente, ma tale 16
  • 17. contrapposizione deve includere un medium, che in se stesso è identità contraddittoria. La mutua determinazione dei due poli può essere considerata risultato dell’auto-trasformazione di questa identità contraddittoria, perciò i fenomeni fisici si possono considerare come trasformazioni di un campo di forze. Dato che tutte le cose sono collocate in tale universo, il fatto che non ci sia un senso trascendente, non significa che le cose non abbiano senso, perché il senso è quello insito nella natura stessa. A fondamento dell’universo c’è l’universo infinito che autodeterminandosi dà vita ad un eterno divenire in cui il ritorno è solo tendenziale. L’essere è eppure non è perché è il movimento che media il mescolarsi delle forme nell’universale dialettico, facendo si che la dialettica della natura sia tanto creativa da creare un essere creativo come l’uomo. Lo possiamo definire come energia o, se si vuole Spirito della natura. Quando si considera l’ambiente, l’errore che spesso si fa è vederlo esclusivamente come un oggetto. Ma la natura non è solo ciò che utilizziamo per esistere, perché la materia che la forma è la stessa che ci costituisce. Basti pensare ai disastri nucleari, come quello di Fukushima, tristemente emblematici perché evidenziano da un lato come la potenza della natura resti superiore a qualsiasi tecnologia, e dall’altro come la natura sia la nostra casa originaria. Fra quelle forze immani si annida un fragile ecosistema, di cui noi stessi siamo espressione, pure se ce ne accorgiamo solo quando siamo costretti ad evacuare le zone contaminate, per non subire mutazioni genetiche. Il nostro corpo è in relazione continua con l’ambiente, come confermano gli studi di epigenetica, di cui si è parlato nei dialoghi, in base ai quali l’ambiente può determinare una diversa espressione del genoma, provocando l’attività di alcuni geni e la quiescenza di altri, senza modificare la struttura del DNA. I cambiamenti 17
  • 18. epigenetici si conservano nella divisione cellulare, durante la vita di un organismo e, come sosteneva Lamarck, potrebbe essere possibile che qualora una mutazione epigenetica sia coinvolta nella riproduzione, venga ereditata dalla generazione successiva. Forse mai come nella moderna società liquida occorre un senso, ma se la scienza, in quanto tecnica, non può mettere in discussione se stessa, come può questo compito essere svolto da una filosofia ancora legata al principio di non contraddizione, che della tecno-scienza costituisce la base e che è un conoscere funzionale alla manipolazione del mondo e adatto alla brevità della vita, ma non alle ambizioni che dovrebbero animare la filosofia? Come scriveva Giacomo Leopardi, la natura, per quanto possa essere crudele, è madre. Credo che solo se l’uomo si accetterà né come figlio di un dio personale, né come mediatore del nulla, ma come avvolto nella natura, insieme a tutti i mondi che formano l’infinito universo, si può sperare in una sincera responsabilità rispetto al prossimo. L’empatia si può trasformare in simpatia solo se si acquisisce la consapevolezza che nello spirito della natura l’io e l’altro sono uno, in quanto espressione della stessa energia che costituisce l’universo. Se, all’opposto, la consapevolezza servirà solo ad alimentare la volontà di potenza, quale sembra essere la direzione intrapresa col dominio del tecno-capitalismo, l’uomo regredirà agli istinti primordiali e a morire non sarà solo la filosofia dello spirito, ma lo spirito stesso. 18