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Tecniche del colloquio e
dell’intervista
Dott.ssa Samanta Sagliaschi
IL COLLOQUIO CLINICO
NELL’INFANZIA
Il metodo clinico di Jean Piaget
 L’originalità del metodo piagetiano sta proprio
nell’aver fatto convergere l’osservazione diretta
del bambino con il metodo del colloquio clinico di
origine psicoanalitica, al fine di comprendere le
sottigliezze del pensiero infantile
 Per l’autore è necessario l’esame clinico,
consistente in un’interazione verbale a catena tra
bambino e sperimentatore, attraverso cui
quest’ultimo cerca di comprendere la linea di
ragionamento seguita dal bambino nelle sue
risposte (Piaget, 1926)
Piaget (1926) sottolinea alcune precauzioni che il
ricercatore dovrebbe prendere:
 fondare il colloquio sulla base delle domande
poste spontaneamente dai bambini e raccolte
in occasioni precedenti
 imparare il linguaggio dei bambini. Questo
punto è importante per due ragioni:
 in rapporto alla padronanza del linguaggio da
parte del bambino
 in rapporto alla formulazione verbale delle
domande da parte dello sperimentatore
La comunicazione con il bambino
 Nel colloquio tra adulto e bambino sono privilegiati
codici comunicativi e linguistici non verbali
 Il colloquio clinico con il bambino è soggetto a
dinamiche che si distaccano decisamente da quelle
delle varie forme di colloquio con l’adulto, anche
perché nel primo caso interagiscono nel rapporto
tra terapeuta e bambino le dinamiche psicologiche e
i comportamenti della famiglia del paziente dal
momento che, il più delle volte, il soggetto
manifesta il proprio disagio in riferimento a stimoli
che gli provengono dall’ambiente familiare
Un punto che differenzia
significativamente la terapia dell’adulto da
quella del bambino è il fatto che il piccolo
paziente non decide spontaneamente di
sottoporsi a questo tipo di cura ma vi è
“costretto” dai genitori che, in maniera del
tutto personale, stabiliscono il criterio di
normalità e/o di anormalità del proprio
figlio
Questo significa che l’approccio iniziale del
bambino al colloquio clinico è da principio
funzionale a quello che i genitori pensano di
questo tipo di terapia, ed evolve solo nel
momento in cui il giovane paziente riesce a
vivere in maniera “libera” (dalle influenze
dei genitori) il proprio rapporto con il
terapeuta
La differenza tra analisi dei bambini e
analisi dell’adulto concerne tutto lo
svolgimento della terapia e tutti gli
aspetti della relazione tra piccoli
pazienti e terapeuti
Il bambino, per la scarsa consistenza
della struttura linguistica e del
vocabolario, ha spesso difficoltà ad
esprimersi adeguatamente con le parole
 Il linguaggio non verbale è una forma
comunicativa particolarmente utilizzata dal
bambino nella dinamica interazionale, tanto in
generale, quanto nello specifico ambito del
colloquio
 Il linguaggio che si sviluppa da questo tipo di
comunicazione è soggettivo, dal momento che in
questa forma espressiva entrano in gioco non
solo una grande varietà di componenti istintive,
ma anche una serie di componenti imitative e
culturali che vengono apprese dal bambino nel
contesto familiare e sociale in cui vive
La personalizzazione del linguaggio non
verbale si sviluppa sin dai primi mesi di
vita del bambino, dando luogo ad una
serie di codici di comunicazione che,
dapprima decodificabili solo dalla madre,
successivamente divengono veicolo di
espressione per tutto il contesto sociale
nel quale il bambino si muove
 Il volto costituisce sin dai primi mesi di vita un
importante canale di interazione tra l’adulto e
il bambino: esso rappresenta l’area del corpo
più importante e specializzata sul piano
comunicativo, veicolando l’espressione delle
emozioni e manifestando gli atteggiamenti
interpersonali
 La rapidità e l’immediatezza espressiva
proprie del volto, infatti, rendono
particolarmente efficaci i messaggi non
verbali prodotti nel corso della comunicazione
interpersonale
Particolare rilevanza riveste la “ricerca
del volto dell’adulto” attraverso lo
sguardo. Si tratta della prima forma di
comunicazione intenzionale, che si
sviluppa sin dai primi giorni di vita, in
grado di stabilire precocemente – o di
rafforzare – la comunicazione reciproca
tra adulto e bambino
 Solo in una fase evolutiva successiva – cioè alla
comparsa della motricità volontaria, costituita
da mimica e gesto – il bambino ha la possibilità
di partecipare più attivamente alla
comunicazione con l’adulto, esprimendo i
propri bisogni e sentimenti attraverso il
linguaggio del corpo e del gesto
 In questa fase il bambino non solo utilizza il
linguaggio non verbale per scopi comunicativi,
ma se ne serve anche per soddisfare il proprio
bisogno di esplorazione del mondo, allo scopo
di conoscere l’ambiente che lo circonda
 La risposta dell’adulto all’espressione e alla
comunicazione non verbale del bambino è
fondamentale perché questo possa
sviluppare forme differenti e
progressivamente più evolute di
comunicazione; la possibilità che il bambino
comunichi fattivamente con l’adulto è
conseguenza del fatto che quest’ultimo
consideri il bambino come individuo a sé
stante, dotato di esigenze personali ed
autonome, in grado di esprimere bisogni
individuali e specifici
 Esiste poi come forma espressiva
caratteristica e privilegiata il “linguaggio del
gioco”, importantissimo ai fini terapeutici e
diagnostici, poiché il gioco si colloca tra la
realtà psichica interna e il mondo esterno,
consentendo al bambino di assorbire da
quest’ultimo una serie di informazioni e di
stimoli da utilizzare in base alle sue esigenze
e possibilità di apprendimento e di
assimilazione
È necessario che l’adulto si sforzi di
utilizzare i medesimi codici espressivi
del bambino, concedendogli quanto più
possibile attenzione e considerazione,
al fine di stimolarlo a sviluppare le sue
capacità espressive e comunicative
La relazione clinica con il bambino
L’utilizzo di forme di comunicazione non
verbali all’interno del colloquio clinico
non si ha solo nei casi nei quali il bambino
non ha ancora acquisito un’adeguata
padronanza del linguaggio verbale, ma
anche in tutti i casi di colloqui
terapeutici con bambini nei quali si
renda necessario concedere il massimo
spazio alla comunicazione istintiva e
“libera” del paziente (Petter, 1995)
Il limite di questo tipo di comunicazione
è dato dal fatto che il colloquio si può
sviluppare solo sulla base di domande
semplici riferibili ad oggetti o situazioni
presenti nel setting terapeutico, senza
che mai si renda possibile un progressivo
sviluppo delle domande e delle loro
conseguenti risposte
 Quando il colloquio con il bambino può svilupparsi
sulla base di una comunicazione verbale, sorgono
difficoltà in relazione a due ordini di motivi (Petter,
1995):
 i bambini piccoli sono coinvolti da interessi di tipo
ludico dai quali è di norma difficile distoglierli; la
comunicazione verbale resta circoscritta ad
argomenti che poco hanno a che vedere con il
colloquio e che riguardano invece oggetti o
argomenti specifici che catturano l’attenzione del
bambino in quel preciso momento
 la conversazione, nel corso del colloquio, rimane in
genere circoscritta al presente senza che il bambino
riesca a prestare attenzione a quanto da lui
espresso sino a quel momento o a quanto espresso in
precedenza dall’interlocutore
Il colloquio può svilupparsi in forma
coerente se anche il bambino è in
grado di parteciparvi prestando
sufficiente attenzione al dialogo e
dimenticando il presente nel quale è
totalmente immerso, per proiettarsi
in una dimensione più ampia
 Anche quando l’età del bambino – superati i 4 o 5
anni - consente l’instaurarsi di un colloquio
significativo con il terapeuta, restano problemi
relativi alla possibilità di ottenere risposte
attendibili (Diatkine, Simon, 1972)
 Il bambino sottoposto al colloquio clinico tende a
produrre risposte generiche, casuali o fabulate, non
fornendo un quadro reale di quanto gli viene chiesto,
ma proponendo al terapeuta una sorta di racconto
fantastico comprendente avvenimenti recenti o
passati, ai quali vengono aggiunti particolari non
reali che, nell’ottica del paziente, costituiscono un
sistema infallibile per catturare l’attenzione
dell’operatore
Vi è poi un’altra tipologia di risposte non
utilizzabili dall’operatore fornite dal
bambino in conseguenza di domande
suggestive
Occorre tenere presente che i bambini
sono tanto più facilmente esposti
all’azione suggestiva (spesso involontaria
e inconsapevole) di un adulto quanto più
sono giovani (Petter, 1995)
È fondamentale che il terapeuta
consideri il bambino come un individuo in
sé completo, non limitando il suo
comportamento o i suoi disturbi al
contesto familiare e sociale nel quale si
muove, ma sforzandosi di fargli
prendere coscienza dei suoi problemi e
della sua personalità, a prescindere dalle
difficoltà derivanti dai rapporti con gli
adulti che lo circondano (Klein, 1950)
È necessario che il terapeuta si metta
quanto più possibile al “livello” del
piccolo paziente, utilizzando codici di
comunicazione verbale e non verbale che
siano facilmente accessibili al bambino
È il comportamento del bambino verso i
genitori, verso gli oggetti, verso il
terapeuta che va analizzato e capito
Il colloquio deve concedere ampio spazio
al gioco
Nel gioco il bambino si presenta meno
controllato e difeso, poiché la situazione
di fantasia e non di realtà gli consente
di esprimere i propri impulsi e desideri
senza dover temere le reazioni
dell’adulto, i suoi giudizi
Freud (1908), parlando per la prima
volta del gioco del bambino e
paragonandolo alla creazione poetica,
afferma che attraverso il gioco il
bambino crea un proprio mondo,
riordinando le cose presenti e passate
secondo il suo volere e la sua idea
Melanie Klein ha teorizzato per prima
l’uso dei giocattoli nella terapia infantile
come qualcosa di esattamente analogo
all’utilizzo delle libere associazioni nella
terapia degli adulti
“Nel gioco i bambini riproducono
simbolicamente fantasie, desideri,
esperienze” (Klein, 1926, p. 156)
 Diversamente dalla Klein, Anna Freud ha
dedicato massima attenzione all’importanza
del sogno nella terapia infantile
 Oltre all’analisi del lavoro onirico, la Freud
teorizza l’utilizzo del disegno come ulteriore
sostituto delle libere associazioni:
elaborando dei disegni nell’ambito del
setting terapeutico il bambino ha la
possibilità di lasciare emergere i propri
contenuti profondi
Winnicott (1958) sottolinea come il
bambino osservato insieme alla madre
possa fornire importanti elementi sul
grado del suo sviluppo emozionale
L’autore (1971) privilegia l’attività del
gioco
 Winnicott (1971, 1989) utilizza la “tecnica
dello scarabocchio”: il terapeuta propone al
bambino un gioco consistente nel fatto che il
clinico traccerà sul foglio uno scarabocchio e
il piccolo lo completerà trasformandolo in un
disegno, tracciando poi a sua volta uno
scarabocchio libero su un nuovo foglio che il
terapeuta completerà
 In tal modo si instaura un gioco in cui i
giocatori attuano mosse interpretativorelazionali attraverso scarabocchi, disegni
ed eventuali commenti
Scale di valutazione del bambino

Test di valutazione dello sviluppo e test
di intelligenza (WISC-R, Bayley, etc.):
completano il colloquio di valutazione
psicologico-clinica
Test di personalità: permettono una
valutazione qualitativa dei processi
psichici che concorrono
all’organizzazione della personalità
Tra i test di personalità si possono
distinguere:
questionari: poco usati con il bambino
per la lunghezza dell’esecuzione
test proiettivi: forniscono uno stimolo
percettivo che facilita la proiezione dei
temi affettivi rilevanti
Tra i proiettivi distinguiamo:
gli strutturali, di cui il più rilevante è il
Rorschach, forniscono indicazioni su come
l’individuo coglie la realtà, come organizza
la propria personalità, vive le sue
esperienze
i tematici evidenziano alcuni contenuti
significativi della personalità (sentimenti,
bisogni, conflitti, aspirazioni, timori, etc.) e
tra questi vi sono ad esempio il TAT, il
CAT, le favole della Düss
Test grafici: test dell’albero, test
del disegno della famiglia, etc.
IL COLLOQUIO CLINICO
NELL’ADOLESCENZA
Il primo colloquio
 Il colloquio con l’adolescente ha luogo tra un
adulto e un soggetto che non lo è ancora e per il
quale non è facile “aprirsi” con un individuo adulto
e parlargli delle proprie difficoltà, dei propri
problemi o disagi
 I familiari che di solito accompagnano
l’adolescente rivestono il ruolo di “effettivi”
interlocutori del professionista
 In particolare nel primo colloquio, il rapporto
interpersonale tra professionista e adolescente è
influenzato dal legame che l’adulto ha con la
propria adolescenza (Telleschi, Torre, 1997)
Molti autori (ad esempio A. Freud, 1958;
Blos, 1962) hanno evidenziato le
difficoltà che si possono incontrare
nell’approccio all’adolescente, ai suoi
sintomi, al suo trattamento causa la
particolare fase di sviluppo che sta
varcando
L’assenza delle figure genitoriali durante la
consultazione è molto significativa ed è una
situazione degna di indagine
Quasi sempre sono i genitori a domandare
una consultazione per il figlio; quando al
contrario, il giovane si presenta da solo è
rilevante investigare quale sia
l’atteggiamento dei caregiver verso la
consultazione e la richiesta
dell’adolescente
 La finalità è di avere una visione degli
accadimenti relazionali nei quali egli è inserito,
individuare informazioni inerenti alle
inclinazioni relazionali della coppia genitoriale
e coniugale, osservare se il giovane
contribuisce all’unione o, viceversa, al distacco
dei caregiver, comprendere se la diade può
costituire un punto focale di alleanza con
l’operatore allo scopo di dare impulso ad
un’alleanza a favore dell’adolescente
Durante il primo colloquio con le figure parentali
possiamo avere tre diverse eventualità (Pandolfi,
1997):
 i genitori chiedono la consultazione in merito ai
loro disagi come individui o come coppia nella
gestione dell’adolescente. È auspicabile, in questa
circostanza, vedere inizialmente la coppia e solo
in un secondo momento il giovane autonomamente
o con loro
 i genitori domandano la consultazione per il
giovane causa le sue difficoltà ma palesano
estraneità a tali impedimenti, rivestendo così il
ruolo di invianti. Quando questo avviene, il
professionista tenterà di incontrare i tre attori
insieme
 l’adolescente chiede la consultazione da solo. È
consigliabile, in questo caso, svolgere il colloquio
con i caregiver successivamente
 Il fine del colloquio, quindi, può essere anche
quello di cercare di ripristinare la comunicazione
spezzata tra genitori e figli
 Se la segnalazione è stata fatta dai genitori è
necessario indagare se il giovane è stato avvertito
ed eventualmente secondo quale modalità
 Se l’adolescente si autosegnala occorrerà
prendere in esame i motivi della scelta (ad
esempio, per sganciarsi dalle relazioni infantili,
per conservarle senza accettare di proseguire
verso la separazione e l’individuazione) (Lis, 1993)
Proprio per la difficoltà di instaurare
un’alleanza terapeutica, sovente con gli
adolescenti il primo colloquio rischia di
rappresentare l’ultimo: l’adolescente non
è d’accordo sulla richiesta di
consultazione e i genitori possono
mostrare ambivalenza tra il volere
ricevere aiuto e il sentire le proprie
qualità genitoriali minacciate
dall’intervento del professionista
 Spesso la richiesta di valutazione di un disagio
adolescenziale deve essere considerata una
richiesta dell’intero nucleo familiare che
attraversa delle difficoltà di fronte al
cambiamento del ragazzo e abbisogna,
pertanto, di un supporto perché il processo
adolescenziale di maturazione verso
un’identità adulta avvenga di pari passo alla
trasformazione della relazione genitoribambino in una relazione adulto-adulto
(Telleschi, Torre, 1997)
 Tra i compiti dell’operatore spiccano il compito
di contenimento e il compito dell’ascolto
 L’adolescente che attende il primo colloquio
auspica di incontrare un adulto competente che
possa identificarsi con lui, instaurare una
relazione positiva in un’atmosfera
caratterizzata da correttezza, impegno e
discrezione. Il ragazzo intende trovare qualcuno
in grado di ascoltare per comprendere e far
comprendere alle figure significative del suo
ambiente ciò che sta accadendo (Pietropolli
Charmet, 1999)
 L’adolescente che giunge al colloquio può aver
voglia di parlare, può succedere che parli di sé
in termini astratti e intellettualizzanti come
una difficoltà da trattare senza farsi
coinvolgere direttamente (A. Freud, 1958; Lis,
1993), oppure può vivere l’operatore come una
figura intrusiva, minacciosa e analoga a quella
genitoriale dalla quale tenta di rendersi
autonomo, altrimenti può manifestare
disponibilità per il clinico come adulto distinto
dai caregiver
L’operatore dovrebbe mantenere un
atteggiamento di apertura rispetto ai
bisogni dell’adolescente
È possibile pregiudicare un’alleanza di
lavoro nel caso in cui con l’adolescente
avente una condotta ribelle il
professionista adotti un atteggiamento
reattivo punitivo, piuttosto che un
atteggiamento di comprensione
Obiettivi del colloquio
 Individuare il funzionamento intrapsichico
dell’adolescente
 Valutare la qualità delle interazioni familiari
 Aiutare il ragazzo a definirsi e individualizzarsi verso
l’identità adulta
 Esaminare con l’adolescente le aree della sua fase
evolutiva e verificare insieme il punto in cui si colloca
lo sviluppo di abilità evidenziando il vissuto soggettivo,
vale a dire la modalità in cui l’individuo rappresenti il
sé in quella specifica area e nei legami ad essa relativi
 Dopo aver accertato quali aree sono implicate nella
situazione di disagio, l’operatore dovrebbe rilevare il
tipo di angoscia conseguente e gli eventuali
meccanismi di difesa adottati per fronteggiare
l’angoscia
Ricostruire i fattori che possono aver
generato la situazione di stallo
Far acquisire all’adolescente una
rappresentazione coesa ed integrata di
sé
Fungere da strumento che il giovane
utilizza per i suoi processi di
individuazione
Individuare le finalità terapeutiche
 L’operatore dovrebbe giungere ad
individuare le caratteristiche
dell’adolescente, della famiglia e
dell’ambiente nel quale egli è inserito,
possibili fattori organici, durata e gravità
del problema, la struttura di personalità,
l’inclinazione comunicativa e riflessiva, i
meccanismi di difesa, i deficit, il
funzionamento intellettivo, le capacità in
ambito relazionale (Gislon, 1993)
 Prima di formulare delle proposte terapeutiche è
preferibile svolgere due o tre colloqui
 Le sequenza dei colloqui permette non solo una
valutazione dinamica dell’adolescente, ma anche
della sua famiglia (Marcelli, Braconnier, 1983)
 Quando il clinico avrà terminato le consultazioni
di valutazione comunicherà le sue opinioni, le sue
osservazioni e le proposte di intervento adeguate
all’adolescente e ai genitori. Le informazioni che
verranno date al giovane dovranno essere chiare e
precise, senza nascondere le problematiche
L’impiego dei test

Con gli adolescenti si impiegano
strumenti applicabili dalla media infanzia
per quanto concerne test proiettivi e
test psicometrici
I test proiettivi

Le problematiche che appaiono cruciali
nel corso dell’adolescenza possono
essere accertate ed esaminate
attraverso l’impiego dei test proiettivi,
quali il Rorschach e il TAT
I test psicometrici

I test maggiormente usati sono i test di
intelligenza di Wechsler: WAIS dai 13
anni, WISC-R fino ai 16 anni e mezzo
La restituzione

L’obiettivo è di giungere a restituire
un’immagine globale dell’identità che
venga interpretata dal ragazzo come una
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permetta di entrare in contatto con
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  • 1. Tecniche del colloquio e dell’intervista Dott.ssa Samanta Sagliaschi
  • 3. Il metodo clinico di Jean Piaget  L’originalità del metodo piagetiano sta proprio nell’aver fatto convergere l’osservazione diretta del bambino con il metodo del colloquio clinico di origine psicoanalitica, al fine di comprendere le sottigliezze del pensiero infantile  Per l’autore è necessario l’esame clinico, consistente in un’interazione verbale a catena tra bambino e sperimentatore, attraverso cui quest’ultimo cerca di comprendere la linea di ragionamento seguita dal bambino nelle sue risposte (Piaget, 1926)
  • 4. Piaget (1926) sottolinea alcune precauzioni che il ricercatore dovrebbe prendere:  fondare il colloquio sulla base delle domande poste spontaneamente dai bambini e raccolte in occasioni precedenti  imparare il linguaggio dei bambini. Questo punto è importante per due ragioni:  in rapporto alla padronanza del linguaggio da parte del bambino  in rapporto alla formulazione verbale delle domande da parte dello sperimentatore
  • 5. La comunicazione con il bambino  Nel colloquio tra adulto e bambino sono privilegiati codici comunicativi e linguistici non verbali  Il colloquio clinico con il bambino è soggetto a dinamiche che si distaccano decisamente da quelle delle varie forme di colloquio con l’adulto, anche perché nel primo caso interagiscono nel rapporto tra terapeuta e bambino le dinamiche psicologiche e i comportamenti della famiglia del paziente dal momento che, il più delle volte, il soggetto manifesta il proprio disagio in riferimento a stimoli che gli provengono dall’ambiente familiare
  • 6. Un punto che differenzia significativamente la terapia dell’adulto da quella del bambino è il fatto che il piccolo paziente non decide spontaneamente di sottoporsi a questo tipo di cura ma vi è “costretto” dai genitori che, in maniera del tutto personale, stabiliscono il criterio di normalità e/o di anormalità del proprio figlio
  • 7. Questo significa che l’approccio iniziale del bambino al colloquio clinico è da principio funzionale a quello che i genitori pensano di questo tipo di terapia, ed evolve solo nel momento in cui il giovane paziente riesce a vivere in maniera “libera” (dalle influenze dei genitori) il proprio rapporto con il terapeuta
  • 8. La differenza tra analisi dei bambini e analisi dell’adulto concerne tutto lo svolgimento della terapia e tutti gli aspetti della relazione tra piccoli pazienti e terapeuti Il bambino, per la scarsa consistenza della struttura linguistica e del vocabolario, ha spesso difficoltà ad esprimersi adeguatamente con le parole
  • 9.  Il linguaggio non verbale è una forma comunicativa particolarmente utilizzata dal bambino nella dinamica interazionale, tanto in generale, quanto nello specifico ambito del colloquio  Il linguaggio che si sviluppa da questo tipo di comunicazione è soggettivo, dal momento che in questa forma espressiva entrano in gioco non solo una grande varietà di componenti istintive, ma anche una serie di componenti imitative e culturali che vengono apprese dal bambino nel contesto familiare e sociale in cui vive
  • 10. La personalizzazione del linguaggio non verbale si sviluppa sin dai primi mesi di vita del bambino, dando luogo ad una serie di codici di comunicazione che, dapprima decodificabili solo dalla madre, successivamente divengono veicolo di espressione per tutto il contesto sociale nel quale il bambino si muove
  • 11.  Il volto costituisce sin dai primi mesi di vita un importante canale di interazione tra l’adulto e il bambino: esso rappresenta l’area del corpo più importante e specializzata sul piano comunicativo, veicolando l’espressione delle emozioni e manifestando gli atteggiamenti interpersonali  La rapidità e l’immediatezza espressiva proprie del volto, infatti, rendono particolarmente efficaci i messaggi non verbali prodotti nel corso della comunicazione interpersonale
  • 12. Particolare rilevanza riveste la “ricerca del volto dell’adulto” attraverso lo sguardo. Si tratta della prima forma di comunicazione intenzionale, che si sviluppa sin dai primi giorni di vita, in grado di stabilire precocemente – o di rafforzare – la comunicazione reciproca tra adulto e bambino
  • 13.  Solo in una fase evolutiva successiva – cioè alla comparsa della motricità volontaria, costituita da mimica e gesto – il bambino ha la possibilità di partecipare più attivamente alla comunicazione con l’adulto, esprimendo i propri bisogni e sentimenti attraverso il linguaggio del corpo e del gesto  In questa fase il bambino non solo utilizza il linguaggio non verbale per scopi comunicativi, ma se ne serve anche per soddisfare il proprio bisogno di esplorazione del mondo, allo scopo di conoscere l’ambiente che lo circonda
  • 14.  La risposta dell’adulto all’espressione e alla comunicazione non verbale del bambino è fondamentale perché questo possa sviluppare forme differenti e progressivamente più evolute di comunicazione; la possibilità che il bambino comunichi fattivamente con l’adulto è conseguenza del fatto che quest’ultimo consideri il bambino come individuo a sé stante, dotato di esigenze personali ed autonome, in grado di esprimere bisogni individuali e specifici
  • 15.  Esiste poi come forma espressiva caratteristica e privilegiata il “linguaggio del gioco”, importantissimo ai fini terapeutici e diagnostici, poiché il gioco si colloca tra la realtà psichica interna e il mondo esterno, consentendo al bambino di assorbire da quest’ultimo una serie di informazioni e di stimoli da utilizzare in base alle sue esigenze e possibilità di apprendimento e di assimilazione
  • 16. È necessario che l’adulto si sforzi di utilizzare i medesimi codici espressivi del bambino, concedendogli quanto più possibile attenzione e considerazione, al fine di stimolarlo a sviluppare le sue capacità espressive e comunicative
  • 17. La relazione clinica con il bambino L’utilizzo di forme di comunicazione non verbali all’interno del colloquio clinico non si ha solo nei casi nei quali il bambino non ha ancora acquisito un’adeguata padronanza del linguaggio verbale, ma anche in tutti i casi di colloqui terapeutici con bambini nei quali si renda necessario concedere il massimo spazio alla comunicazione istintiva e “libera” del paziente (Petter, 1995)
  • 18. Il limite di questo tipo di comunicazione è dato dal fatto che il colloquio si può sviluppare solo sulla base di domande semplici riferibili ad oggetti o situazioni presenti nel setting terapeutico, senza che mai si renda possibile un progressivo sviluppo delle domande e delle loro conseguenti risposte
  • 19.  Quando il colloquio con il bambino può svilupparsi sulla base di una comunicazione verbale, sorgono difficoltà in relazione a due ordini di motivi (Petter, 1995):  i bambini piccoli sono coinvolti da interessi di tipo ludico dai quali è di norma difficile distoglierli; la comunicazione verbale resta circoscritta ad argomenti che poco hanno a che vedere con il colloquio e che riguardano invece oggetti o argomenti specifici che catturano l’attenzione del bambino in quel preciso momento  la conversazione, nel corso del colloquio, rimane in genere circoscritta al presente senza che il bambino riesca a prestare attenzione a quanto da lui espresso sino a quel momento o a quanto espresso in precedenza dall’interlocutore
  • 20. Il colloquio può svilupparsi in forma coerente se anche il bambino è in grado di parteciparvi prestando sufficiente attenzione al dialogo e dimenticando il presente nel quale è totalmente immerso, per proiettarsi in una dimensione più ampia
  • 21.  Anche quando l’età del bambino – superati i 4 o 5 anni - consente l’instaurarsi di un colloquio significativo con il terapeuta, restano problemi relativi alla possibilità di ottenere risposte attendibili (Diatkine, Simon, 1972)  Il bambino sottoposto al colloquio clinico tende a produrre risposte generiche, casuali o fabulate, non fornendo un quadro reale di quanto gli viene chiesto, ma proponendo al terapeuta una sorta di racconto fantastico comprendente avvenimenti recenti o passati, ai quali vengono aggiunti particolari non reali che, nell’ottica del paziente, costituiscono un sistema infallibile per catturare l’attenzione dell’operatore
  • 22. Vi è poi un’altra tipologia di risposte non utilizzabili dall’operatore fornite dal bambino in conseguenza di domande suggestive Occorre tenere presente che i bambini sono tanto più facilmente esposti all’azione suggestiva (spesso involontaria e inconsapevole) di un adulto quanto più sono giovani (Petter, 1995)
  • 23. È fondamentale che il terapeuta consideri il bambino come un individuo in sé completo, non limitando il suo comportamento o i suoi disturbi al contesto familiare e sociale nel quale si muove, ma sforzandosi di fargli prendere coscienza dei suoi problemi e della sua personalità, a prescindere dalle difficoltà derivanti dai rapporti con gli adulti che lo circondano (Klein, 1950)
  • 24. È necessario che il terapeuta si metta quanto più possibile al “livello” del piccolo paziente, utilizzando codici di comunicazione verbale e non verbale che siano facilmente accessibili al bambino È il comportamento del bambino verso i genitori, verso gli oggetti, verso il terapeuta che va analizzato e capito
  • 25. Il colloquio deve concedere ampio spazio al gioco Nel gioco il bambino si presenta meno controllato e difeso, poiché la situazione di fantasia e non di realtà gli consente di esprimere i propri impulsi e desideri senza dover temere le reazioni dell’adulto, i suoi giudizi
  • 26. Freud (1908), parlando per la prima volta del gioco del bambino e paragonandolo alla creazione poetica, afferma che attraverso il gioco il bambino crea un proprio mondo, riordinando le cose presenti e passate secondo il suo volere e la sua idea
  • 27. Melanie Klein ha teorizzato per prima l’uso dei giocattoli nella terapia infantile come qualcosa di esattamente analogo all’utilizzo delle libere associazioni nella terapia degli adulti “Nel gioco i bambini riproducono simbolicamente fantasie, desideri, esperienze” (Klein, 1926, p. 156)
  • 28.  Diversamente dalla Klein, Anna Freud ha dedicato massima attenzione all’importanza del sogno nella terapia infantile  Oltre all’analisi del lavoro onirico, la Freud teorizza l’utilizzo del disegno come ulteriore sostituto delle libere associazioni: elaborando dei disegni nell’ambito del setting terapeutico il bambino ha la possibilità di lasciare emergere i propri contenuti profondi
  • 29. Winnicott (1958) sottolinea come il bambino osservato insieme alla madre possa fornire importanti elementi sul grado del suo sviluppo emozionale L’autore (1971) privilegia l’attività del gioco
  • 30.  Winnicott (1971, 1989) utilizza la “tecnica dello scarabocchio”: il terapeuta propone al bambino un gioco consistente nel fatto che il clinico traccerà sul foglio uno scarabocchio e il piccolo lo completerà trasformandolo in un disegno, tracciando poi a sua volta uno scarabocchio libero su un nuovo foglio che il terapeuta completerà  In tal modo si instaura un gioco in cui i giocatori attuano mosse interpretativorelazionali attraverso scarabocchi, disegni ed eventuali commenti
  • 31. Scale di valutazione del bambino Test di valutazione dello sviluppo e test di intelligenza (WISC-R, Bayley, etc.): completano il colloquio di valutazione psicologico-clinica Test di personalità: permettono una valutazione qualitativa dei processi psichici che concorrono all’organizzazione della personalità
  • 32. Tra i test di personalità si possono distinguere: questionari: poco usati con il bambino per la lunghezza dell’esecuzione test proiettivi: forniscono uno stimolo percettivo che facilita la proiezione dei temi affettivi rilevanti
  • 33. Tra i proiettivi distinguiamo: gli strutturali, di cui il più rilevante è il Rorschach, forniscono indicazioni su come l’individuo coglie la realtà, come organizza la propria personalità, vive le sue esperienze i tematici evidenziano alcuni contenuti significativi della personalità (sentimenti, bisogni, conflitti, aspirazioni, timori, etc.) e tra questi vi sono ad esempio il TAT, il CAT, le favole della Düss
  • 34. Test grafici: test dell’albero, test del disegno della famiglia, etc.
  • 36. Il primo colloquio  Il colloquio con l’adolescente ha luogo tra un adulto e un soggetto che non lo è ancora e per il quale non è facile “aprirsi” con un individuo adulto e parlargli delle proprie difficoltà, dei propri problemi o disagi  I familiari che di solito accompagnano l’adolescente rivestono il ruolo di “effettivi” interlocutori del professionista  In particolare nel primo colloquio, il rapporto interpersonale tra professionista e adolescente è influenzato dal legame che l’adulto ha con la propria adolescenza (Telleschi, Torre, 1997)
  • 37. Molti autori (ad esempio A. Freud, 1958; Blos, 1962) hanno evidenziato le difficoltà che si possono incontrare nell’approccio all’adolescente, ai suoi sintomi, al suo trattamento causa la particolare fase di sviluppo che sta varcando
  • 38. L’assenza delle figure genitoriali durante la consultazione è molto significativa ed è una situazione degna di indagine Quasi sempre sono i genitori a domandare una consultazione per il figlio; quando al contrario, il giovane si presenta da solo è rilevante investigare quale sia l’atteggiamento dei caregiver verso la consultazione e la richiesta dell’adolescente
  • 39.  La finalità è di avere una visione degli accadimenti relazionali nei quali egli è inserito, individuare informazioni inerenti alle inclinazioni relazionali della coppia genitoriale e coniugale, osservare se il giovane contribuisce all’unione o, viceversa, al distacco dei caregiver, comprendere se la diade può costituire un punto focale di alleanza con l’operatore allo scopo di dare impulso ad un’alleanza a favore dell’adolescente
  • 40. Durante il primo colloquio con le figure parentali possiamo avere tre diverse eventualità (Pandolfi, 1997):  i genitori chiedono la consultazione in merito ai loro disagi come individui o come coppia nella gestione dell’adolescente. È auspicabile, in questa circostanza, vedere inizialmente la coppia e solo in un secondo momento il giovane autonomamente o con loro  i genitori domandano la consultazione per il giovane causa le sue difficoltà ma palesano estraneità a tali impedimenti, rivestendo così il ruolo di invianti. Quando questo avviene, il professionista tenterà di incontrare i tre attori insieme  l’adolescente chiede la consultazione da solo. È consigliabile, in questo caso, svolgere il colloquio con i caregiver successivamente
  • 41.  Il fine del colloquio, quindi, può essere anche quello di cercare di ripristinare la comunicazione spezzata tra genitori e figli  Se la segnalazione è stata fatta dai genitori è necessario indagare se il giovane è stato avvertito ed eventualmente secondo quale modalità  Se l’adolescente si autosegnala occorrerà prendere in esame i motivi della scelta (ad esempio, per sganciarsi dalle relazioni infantili, per conservarle senza accettare di proseguire verso la separazione e l’individuazione) (Lis, 1993)
  • 42. Proprio per la difficoltà di instaurare un’alleanza terapeutica, sovente con gli adolescenti il primo colloquio rischia di rappresentare l’ultimo: l’adolescente non è d’accordo sulla richiesta di consultazione e i genitori possono mostrare ambivalenza tra il volere ricevere aiuto e il sentire le proprie qualità genitoriali minacciate dall’intervento del professionista
  • 43.  Spesso la richiesta di valutazione di un disagio adolescenziale deve essere considerata una richiesta dell’intero nucleo familiare che attraversa delle difficoltà di fronte al cambiamento del ragazzo e abbisogna, pertanto, di un supporto perché il processo adolescenziale di maturazione verso un’identità adulta avvenga di pari passo alla trasformazione della relazione genitoribambino in una relazione adulto-adulto (Telleschi, Torre, 1997)
  • 44.  Tra i compiti dell’operatore spiccano il compito di contenimento e il compito dell’ascolto  L’adolescente che attende il primo colloquio auspica di incontrare un adulto competente che possa identificarsi con lui, instaurare una relazione positiva in un’atmosfera caratterizzata da correttezza, impegno e discrezione. Il ragazzo intende trovare qualcuno in grado di ascoltare per comprendere e far comprendere alle figure significative del suo ambiente ciò che sta accadendo (Pietropolli Charmet, 1999)
  • 45.  L’adolescente che giunge al colloquio può aver voglia di parlare, può succedere che parli di sé in termini astratti e intellettualizzanti come una difficoltà da trattare senza farsi coinvolgere direttamente (A. Freud, 1958; Lis, 1993), oppure può vivere l’operatore come una figura intrusiva, minacciosa e analoga a quella genitoriale dalla quale tenta di rendersi autonomo, altrimenti può manifestare disponibilità per il clinico come adulto distinto dai caregiver
  • 46. L’operatore dovrebbe mantenere un atteggiamento di apertura rispetto ai bisogni dell’adolescente È possibile pregiudicare un’alleanza di lavoro nel caso in cui con l’adolescente avente una condotta ribelle il professionista adotti un atteggiamento reattivo punitivo, piuttosto che un atteggiamento di comprensione
  • 47. Obiettivi del colloquio  Individuare il funzionamento intrapsichico dell’adolescente  Valutare la qualità delle interazioni familiari  Aiutare il ragazzo a definirsi e individualizzarsi verso l’identità adulta  Esaminare con l’adolescente le aree della sua fase evolutiva e verificare insieme il punto in cui si colloca lo sviluppo di abilità evidenziando il vissuto soggettivo, vale a dire la modalità in cui l’individuo rappresenti il sé in quella specifica area e nei legami ad essa relativi  Dopo aver accertato quali aree sono implicate nella situazione di disagio, l’operatore dovrebbe rilevare il tipo di angoscia conseguente e gli eventuali meccanismi di difesa adottati per fronteggiare l’angoscia
  • 48. Ricostruire i fattori che possono aver generato la situazione di stallo Far acquisire all’adolescente una rappresentazione coesa ed integrata di sé Fungere da strumento che il giovane utilizza per i suoi processi di individuazione Individuare le finalità terapeutiche
  • 49.  L’operatore dovrebbe giungere ad individuare le caratteristiche dell’adolescente, della famiglia e dell’ambiente nel quale egli è inserito, possibili fattori organici, durata e gravità del problema, la struttura di personalità, l’inclinazione comunicativa e riflessiva, i meccanismi di difesa, i deficit, il funzionamento intellettivo, le capacità in ambito relazionale (Gislon, 1993)
  • 50.  Prima di formulare delle proposte terapeutiche è preferibile svolgere due o tre colloqui  Le sequenza dei colloqui permette non solo una valutazione dinamica dell’adolescente, ma anche della sua famiglia (Marcelli, Braconnier, 1983)  Quando il clinico avrà terminato le consultazioni di valutazione comunicherà le sue opinioni, le sue osservazioni e le proposte di intervento adeguate all’adolescente e ai genitori. Le informazioni che verranno date al giovane dovranno essere chiare e precise, senza nascondere le problematiche
  • 51. L’impiego dei test Con gli adolescenti si impiegano strumenti applicabili dalla media infanzia per quanto concerne test proiettivi e test psicometrici
  • 52. I test proiettivi Le problematiche che appaiono cruciali nel corso dell’adolescenza possono essere accertate ed esaminate attraverso l’impiego dei test proiettivi, quali il Rorschach e il TAT
  • 53. I test psicometrici I test maggiormente usati sono i test di intelligenza di Wechsler: WAIS dai 13 anni, WISC-R fino ai 16 anni e mezzo
  • 54. La restituzione L’obiettivo è di giungere a restituire un’immagine globale dell’identità che venga interpretata dal ragazzo come una storia delle proprie relazioni passate e presenti, come esito di un percorso che permetta di entrare in contatto con un’immagine di identificazione di sé