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CAPITOLO 2 – LE RIME
Si tratta di una raccolta di liriche che il grande poeta fiorentino via via compose a
partire dalla giovinezza sino agli anni maturi dell'esilio, fino a quando tutta la sua attività
creatrice si raccolse e si conchiuse nella stesura e nel compimento della Divina
Commedia. A fondamento di questa raccolta si pongono innanzi tutto le liriche giovanili
che Dante prescelse e ordinò, inserendole nello schema psicologico-narrativo della Vita
Nuova. Si aggiungono poi le tre canzoni morali del Convivio, tra le quattordici o già
composte o ancora da comporre che egli si proponeva di commentare. Le rime che
rimasero fuori da queste due raccolte parziali e sistematiche ci pervennero sparsamente
nei manoscritti di antiche poesie volgari.
Non tutte, però, perché risulta perduto il serventese in lode delle sessanta
gentildonne fiorentine, del quale si fa un chiaro cenno nella Vita Nuova (VI, 2) e perduta
la canzone "Traggemi de la ruente Amor la stiva", citata (II, 11, 5) nel trattato De vulgari
eloquentia. A partire dalle prime raccolte a stampa di rime antiche (Milano, 1518;
Venezia, 1518; Firenze, 1527) il numero delle "estravaganti" attribuite a Dante andò
aumentando progressivamente, fino a che non s'ebbe l'edizione critica curata da Michele
Barbi per il testo della Società Dantesca Italiana (Le opere di Dante, Firenze, 1921).
Distinte ora le genuine da quelle di dubbia attribuzione e dalle apocrife, le Rime,
considerate nel loro complesso e nella loro varietà, e nelle loro convergenze o
discordanze di tono e di modi poetici, restano un documento significativo dei tentativi
d'arte attraverso i quali Dante, con irrequietudine di ricerche letterarie e lungo travaglio di
lingua e di stile, giunse a conquistarsi la sua propria personalità di poeta. Autodidatta
nell'arte "di dire parole per rima", egli comincia come tutti i giovani facendo letteratura;
poiché letteratura, quella del suo tempo e del suo ambiente, ancora sotto l'impero della
tradizione lirica provenzaleggiante, siciliana e guittoniana, sono i sonetti da lui scambiati
con Dante da Maiano.
Rime 5
I temi di casistica amorosa che gli sono proposti o che egli stesso propone (primo
sonetto della Vita Nuova), Dante li svolge e li ragiona in un linguaggio impersonale,
intellettualmente sotteso, secondo le norme medievali dell'ornato retorico, tra giochi di
parole e allitterazioni e sottili richiami di rime equivoche e preziose. Ma già tra le prime
liriche del "libello" giovanile si affaccia il poeta, che nel duro esercizio di composizione
va affinando i modi della sua tecnica espressiva con un gusto sempre più vivo della
parola semplice e schietta, familiare e suggestiva.
Dante riprende i motivi dell'amore cortese, che giungevano a lui ormai stremati da
una lunga esperienza letteraria; li distende nelle ingegnose combinazioni metriche del
sonetto rinterzato e della stanza isolata di canzone; li svaria con serietà di intendimento e
sincero abbandono e li rinnova sul tono e sul ritmo del sentimento che canta. Il distacco
dal guittonianismo più palese e scoperto procede in lui dall'interno e matura in un clima
di giovinezza lirica, spensierata e galante. Nella canzone "La dispietata mente" il motivo
psicologico della lontananza, affermato energicamente in battuta inizia, si modula poi su
un parlare dimesso e smorzato e si disnoda in tono discorsivo, con franca spigliatezza di
modi e di accenti. Nel famoso sonetto "Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io" il tema lirico
del "plazer" provenzale, rifiorito sui ricordi letterari dei romanzi di re Artù, si rinnova con
una bella apertura fantastica, che nelle quartine si spalanca serenamente sull'illimitato.
L'ispirazione, non ancora capace di sostenersi a lungo, si frange e si puntualizza;
ma l'accento di una verità vissuta e conosciuta con gioia non tarda ad affermarsi al di
sopra del repertorio dei motivi tradizionali. Sulle tracce del Cavalcanti, il primo tra i suoi
amici, Dante viene atteggiando il suo sentimento e il suo pensiero in movenze stilistiche
di grazia morbida e delicata. La ballata "Per una ghirlandetta" è una fioritura di motivi
melodici, che esalano languidamente la loro lieve nota sentimentale in una atmosfera di
ammirante tenerezza e di ricordo sognante. L'altra ballata, "Deh, Violetta, che in ombra
d'Amore", traduce nell'abbandonata dolcezza della ripresa la musica interiore di un'anima
innamorata che desidera e spera, per quella bellezza che negli occhi della donna amata
riluce come bontà incapace di tradire se stessa. Motivi cortesi, ricantati con liquida levità
di parola: sentimento che si effonde e si comunica senza peso di passione, armonioso e
musicale.
Rime 6
L'amore, che nei cuori gentili si fa principio di ogni bene e di ogni gioia, Dante lo
sente, nel sonetto "Com più vi fere Amor co'suoi vincastri", come la ragione poetica della
sua vita profonda. Ottimismo fondamentale, che lo porta a esaltare l'Amore, alle cui
sollecitazioni, nei segreti colloqui con la sua anima, egli cede e s'abbandona con
sicurezza fidente ("Cavalcando l'altr'ier per un cammino"; "Deh, ragioniamo insieme un
poco, Amore"). Di qui il tono di giocondità, che informa il motivo del sonetto alla
Garisenda e che traluce nell'altro sonetto, "Sonar bracchetti e cacciatori aizzare", dove il
"plazer" dispersivo della caccia, contrapposto alla "leggiadria di gentil core", s'apre in
una visione lirica, tutta impeto e movimento, punteggiata dalla parola viva e calzante. Ma
da questa esperienza d'amore, serenante e contemplativa, Dante passa a liriche di fervore
appassionato, dove l'amore che la bellezza spirituale suscita, facendoci uscire da noi
stessi e quasi morire, è vissuto nella sua drammatica realtà, con un sentimento d'angoscia
e di pauroso sgomento.
Accanto ai sonetti del "gabbo", inclusi nella Vita Nuova (XIII-XVI), si collocano
qui le due canzoni estravaganti: "E'm'incresce di me" e "Lo doloroso amor", entrambe
per Beatrice, che ha negato a Dante il saluto. Il poeta si misura su materia nuova e la
domina intellettualmente con rigor scolastico. Stringendosi alle forme iperboliche del
linguaggio affettivo, Dante si fa presente il dramma della sua anima, legata fatalmente
dall'amore a quella bellezza che la faceva beata. La nuova esperienza, che si compie
artisticamente entro l'orbita delle influenze cavalcantiane, conferisce maggiore
concretezza e sostanza di verità alla poesia musicale e sognante del puro sentimento.
Lungo la linea di un'analisi psicologica, che discende in profondità, là dove la vita intima,
fuori dell'ordine dell'amore, si disgrega e si frange, balzano improvvise le immagini di
dolore e di morte, nelle quali il poeta si contempla con fantasia allucinata, e si
compiange. Nella salda quadratura delle due canzoni, dove il pensiero si svolge e si
organizza su se stesso con vigoria di stile e coerenza di immagini, Dante rivela un'arte
ormai sicura di sé e capace di più ampio respiro. Ma nella cerchia maliosa dell'amore
passione, la tensione lirica si viene presto rammorbidendo con note di languore e di
smarrimento accorato ("Ne le man vostre, gentil donna mia").
Dante non s'appaga dell'estetismo del Cavalcanti, dal quale ha tuttavia derivato
schemi logici e moduli fantastici, con il conseguente rinnovamento del suo vocabolario.
Rime 7
La moralità, come libera attività dello spirito che crea, nell'ordine del fare e nell'ordine
dell'agire, Dante l'ha posta fin da principio a fondamento del suo poetare; e alla moralità
egli ritorna, rinnovando con maggiore intimità l'esperienza poetica del Guinizelli. Con la
canzone “Donne ch'avete intelletto d'amore” egli prende più chiara coscienza di se
stesso e del mondo della sua ispirazione. Egli inizia le "nuove rime" celebrando in
Beatrice ciò che la carità degli angeli esalta presso Dio: il mistero operante di un'anima
buona, che discesa dal cielo "a miracol mostrare" è ridomandata dal cielo alla terra.
Sostenute dall'afflato lirico, le parole che lodano come dono provvidenziale la bellezza
della creatura, frangono il tono piano e didascalico della canzone e creano l'atmosfera
trepida e ammirante, che avvolgerà d'or innanzi la donna amata. In questa atmosfera
sbocciano i sonetti "Vede perfettamente onne salute", "Negli occhi porta la mia donna
Amore" e quel famosissimo "Tanto gentile e tanto onesta pare". Qui il motivo poetico,
chiuso in un'ansia repressa di slancio ammirativo e di cordiale tenerezza, di dolcezza
segreta e di velata malinconia, si conquista felicemente la sua forma. Con levità di tono e
chiarezza di accenti la poesia sgorga dalla sovrabbondanza della contemplazione: ed è la
voce di un'anima che nel silenzio si ascolta, e che nel canto della lode umilmente si
confessa, mentre dà testimonianza di sé come buona.
"Dolce stil novo" significa per Dante dapprima fioritura lirica della sua anima, in
uno stato di grazia ingenua e di felicità espressiva, poi vocazione etica in un mondo
ideale di bontà e di bellezza. In diretta relazione a Beatrice, egli vive e conosce realmente
ed esprime un solitario sogno di purezza spirituale, che lo ritrae alle sorgenti del suo
sentire, là dove la sete di bellezza è inseparabile dalla speranza di un bene infinito. Ma il
puro lirismo, che in notazioni aeree si effonde nei sonetti della "loda", non tarda a
modularsi su un ritmo di oscura angoscia e a sciogliersi in pianto.
Il pensiero che Beatrice dovrà un giorno morire s'affaccia all'animo di Dante, che
se ne sente sgomento. La sventura, nel rapido fuggire del tempo, egli la vede già
prossima; e la sogna, che già s'abbatte su di lui con impeto di rovina. Questo motivo
anima la canzone “Donna pietosa e di novella etate”, e si risolve in una serie di visioni,
che trascolorano entro la luce di una fede ingenua e pura: un "vano immaginare",
accompagnato da un affettuoso e tenero compianto di se stesso; un'invocazione
supplichevole alla "buona morte", che apre le vie del cielo. Riaffiora il sottile
Rime 8
psicologismo della scuola; ma una dolcezza intima e raccolta ne riempie gli schemi e li fa
capaci di accogliere la vita del sentimento che trepida e geme. Nelle rime posteriori alla
morte di Beatrice un orientamento nuovo dell'arte di Dante si delinea fuggevolmente
attraverso felici spunti di coraggiosa introspezione. Nella canzone "Li occhi dolenti per
pietà del core" e nel sonetto "Color d'amore e di pietà sembianti", che si riferisce
all'episodio della "donna gentile", il poeta sa cogliere, con semplicità e schiettezza di
modi, pur tra le grazie stilizzate della scuola, le contraddizioni intime del suo cuore
irrequieto e la nota profonda del suo umano dolore.
Dante è sul limitare di quell'esperienza poetica, puramente affettiva e sensibile, e
intimamente contraddittoria, che darà più tardi nel Petrarca i suoi frutti migliori. Ma
deliberatamente se ne ritrae. Confortato dalla fede e superato ogni dissidio, egli si
risolleva per virtù d'amore fino al cielo di Dio, "oltre la spera che più larga gira", per
contemplarvi la sua Beatrice beata. Ma il sogno di purezza e di bontà, che egli ha
conosciuto in vivente relazione a lei, resterà per sempre, a giovinezza conchiusa, un
soave ricordo nostalgico e una segreta aspirazione del cuore. E ciò che era stato allora la
sua prima vocazione etica si rivelerà capace di ulteriori sviluppi nel mondo
dell'esperienza, dinanzi a una più alta e complessa visione della vita, con i suoi doveri da
compiere e i suoi ideali da realizzare.
Nella canzone "Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete" l'amore per Beatrice non
è per niente negato, ma è sopraffatto e vinto dal nuovo amore, che la Filosofia morale ha
suscitato in lui, ordinandolo a sé nella misura stessa che egli le si abbandona e la fa vita
del suo pensiero e sostanza della sua anima. E’ un dissidio intimamente vissuto, che
Dante sa superare (e Petrarca no), celebrando nella canzone "Amor che nella mente mi
ragiona" la bellezza della Filosofia, considerata in se stessa, nella sua essenza, come
Saggezza creata, che s'identifica con Dio e ne è la prima creatura. Le due canzoni, la
seconda delle quali si riplasma schematicamente su quella in lode di Beatrice, si
muovono entro l'atmosfera sentimentale della Vita Nuova; ne serbano atteggiamenti e
movenze stilistiche, ne hanno il tono caldo e appassionato. Sono "dolci rime d'amore", il
cui stile è "dolce e soave". Ma il respiro lirico che le pervade, e che circola entro l'ampio
giro dei loro periodi ritmici e musicali, è più sostenuto e robusto, più vasto e costante. La
seconda canzone è l'espressione eloquente di un'anima, che nella gioia del travaglio
Rime 9
intellettuale prende coscienza di sé e della virtù che la muove. Con un passaggio ulteriore
Dante si ferma a considerare la Filosofia morale non più in se stessa, ma nel soggetto
umano, che ne è il portatore e che la esercita nel concreto; e ne tratta in composizioni il
cui carattere dottrinale, grave di distinzioni e di argomentazioni, esige "rima aspra e
sottile". Le canzoni sulla Gentilezza o nobiltà di natura metafisica ("Le dolci rime d'amor
ch'i'solia"), sulla Leggiadria, come virtù della vita cortese ("Poscia ch'Amor del tutto
m'ha lasciato") e sulla Liberalità ("Doglia mi reca ne lo core ardire") sono dei veri
trattati morali, il cui ornamento retorico riposa sulla complicata ingegnosità del metro,
sull'agevole scorrevolezza del verso e sul ricercato allettamento della rima. Muovono
tutti, questi trattati, da passione dimostrativa; la quale cede talvolta, con aspro vigore di
accenti, a vampate d'ira e di sdegno e a pungenti risa di sarcasmo: voci di un moralista,
che scruta l'uomo nell'interno dinamismo che lo anima e nell'uso che egli fa del libero
arbitrio, giudicandolo secondo un ideale concreto di perfezione, che risponda ai fini
particolari e universali inerenti alla natura umana.
Nel De vulgari eloquentia (II, 2, 9), proclamandosi il poeta della "rettitudine",
Dante ricorda l'ultima delle tre canzoni, nella quale presentiamo lontanamente il poeta
della Divina Commedia, che giudica e condanna, seguendo la voce della propria
coscienza (il suo Virgilio), e ispirandosi ai più nobili ideali umani di amore e valore e
cortesia. Connesso con lo svolgimento della personalità dantesca, rivelando quindi un
altro aspetto morale della sua poesia, è l'approfondimento del tema dell'amore in rapporto
a quella bellezza che vista piace (si pensi al sonetto "Due donne in cima della mente
mia"): quella bellezza che in donna leggiadra e gentile risplende come raggio della Prima
intelligenza creatrice. In tal modo tra le canzoni del "bello stile", insieme con quelle che
si materiano di virtù, che è poi la bellezza spirituale che traluce nell'azione umana, vanno
annoverate le altre che si materiano d'amore: attività che ci finalizza e ci perfeziona, nella
misura stessa che ci doniamo all'idea di bellezza, a cui tendiamo con desiderio infinito.
Nelle rime per la Pargoletta (due ballate e un sonetto) il tema dell'amore è colto
poeticamente in un'atmosfera rarefatta di dolce stil novo; ma nelle canzoni "Amor che
movi tua virtù da cielo" e "Io sento sì d'Amor la gran possanza", il motivo che le informa
si fa canto solenne ed eloquente, ragionato e commosso. L'amore, che procede da Dio, ed
è principio universale d'ogni perfezione, il poeta lo sperimenta in se stesso, come
Rime 10
incoercibile desiderio di quella bellezza analogica e trascendentale, che rifulge nella sua
donna, portandolo, con dolore e con gioia, sempre più al di là. Il contenuto dottrinale,
avvivato dal sentimento etico e religioso che ispira il poeta, ha una sua propria nobiltà di
forma, che ne illustra la bontà (o "gravità delle sentenze") e ne dichiara la bellezza.
Esperienza d'anima, viva e profonda, a cui la parola chiarificatrice è offerta
dall'attenzione stilistica attraverso la disciplina dell'arte.
Fra le rime occasionali ci trasporta la tenzone con Forese Donati, anteriore al
1296. Nata come invito allo scherzo, in un momento di giocondità spirituale, la tenzone
trasmoda in uno scambio di ingiurie e di accuse volgari. E tuttavia non può considerarsi
che un puro gioco letterario, di tono realistico, la cui vivacità di linguaggio popolare sarà
più tardi assunta ad arte nel diverbio tra Sinone e mastro Adamo nella bolgia dei falsari.
Più artista dell'avversario, Dante sa risollevarsi dalla violenza passionale del risentimento
e della ritorsione, piegando la parola o la frase ad allusioni ardite ed evocatrici.
Ma la ricerca di modi espressivi più segreti e penetranti, fondati sulla
illuminazione metaforica e sul richiamo imprevisto di immagini lontane, si fa proposito
deliberato e virtuosismo stilistico in un gruppo di rime cosiddette "petrose", la cui
composizione va collocata, probabilmente, prima dell'esilio. Dante vi celebra una donna
dura come pietra - onde il nome simbolico di donna Pietra - la cui singolare bellezza ha
suscitato e tien viva nel cuore di lui una passione invincibile, ma senza speranza. Il
motivo poetico - che ci richiama per analogia l'altro della Pargoletta - non ammette se
non variazioni sentimentali.
Nei suoi termini elementari Dante lo presenta nella bella canzone "Io son venuto
al punto della rota": la vita della sua anima innamorata, che internamente ferve, senza
potersi comunicare, è simile alla vita della natura, che si chiude in se stessa sotto la
pioggia, la neve, il ghiaccio e il gelo, impietrandosi in paesaggi di desolazione e di
tristezza. A tratti decisi e nelle loro note essenziali, Dante fissa una serie di quadretti
invernali e li prospetta entro un'atmosfera liricamente accesa, in virtù della parola allusiva
ed evocatrice. Il motivo viene ripreso nella sestina lirica, "Al poco giorno e al gran
cerchio d'ombra": la stanca tristezza del poeta innamorato si rispecchia nel passaggio
arido e scolorito; eppur vivo e fresco è il desiderio della donna insensibile, la cui bellezza
lo persegue dovunque.
Rime 11
Dante s'ispira all'arte di Arnaldo Daniello, riprendendo da lui lo schema metrico
della sestina, dove il pensiero, permanendo immobile su se stesso, svaria e trascolora
entro il cerchio fisso delle sei parole-rima, la cui accezione si risolve di volta in volta in
immagini nuove e diverse. Nell'artificiosa ricerca delle difficoltà formali, Dante si mette
in gara col trovatore, che fu "il miglior fabbro del parlar materno"; e, mirando a compiere
qualcosa di nuovo e d'intentato, si foggia la sestina rinterzata o doppia: "Amor tu vedi ben
che questa donna", con la gioia di documentare per essa una "novità..., che non fu mai
pensata in alcun tempo". Il motivo poetico, inserito in una visione cosmica dell'amore,
come vita dell'universo dove tutto è ordinato alla bellezza, si riaffaccia nei suoi termini
basilari, martellato con insistenza dalla rima equivoca: staticità di una passione
incoercibile e dominatrice, che non accetta resistenze o negazioni, e che nella sua
solitudine si tormenta, implorando, come giustizia che le è dovuta, un ricambio d'amore.
La situazione si esaspera e si scioglie nella canzone "Così nel mio parlar voglio esser
aspro", la più bella e artisticamente la meglio articolata delle "petrose", nelle cui strofe,
dense di immagini vigorose, si riversa, con asprezza verbale, l'impeto travolgente di una
passione torbida e procellosa.
Dominato tirannicamente dalla bellezza particolare a cui tende, il poeta sente
ingiuste le ferite d'amore e colpevole la donna che lo fugge e non gli si arrende; e con
desiderio tormentato e gioia folle e crudele sogna di vendicarsene il giorno che, per lui,
anch'essa soffrirà gli spasimi della stessa passione. Psicologicamente, nelle loro interne
determinazioni e nella loro logica rigorosa, Dante ha seguito nelle rime "petrose" le
imperiose esigenze dell'amore come passione naturale, armonizzando materia e forma in
indissolubile unità, con un virtuosismo tecnico e stilistico sempre estremamente teso e
con tale altezza di timbro, che segna un momento singolare della sua poesia e della sua
arte.
Le rime posteriori all'esilio respirano in un clima di serietà spirituale, che è quello
dell'anima di Dante portato a esprimere da sé, dopo tanta esperienza di vita e di dolore,
una più grave e pensosa intuizione dell'amore, fuori dalla sua sensibilità mobile e
ondeggiante, e in armonia con quella legge di giustizia inscritta al fondo della persona
umana. Sono gli anni travagliati in cui matura il Convivio; e Dante si ripiega sul proprio
passato, con un ritorno, di vita e di pensiero, sia alle "dolci rime d'amore" in esaltazione
Rime 12
della Filosofia morale, sia alle canzoni del "bello stile". Tempo di saggezza, quella che si
conquista attraverso all'esperienza, e che egli vive, solitario tra gli uomini, mentre per
essa si giudica e giudica con tono fermo e pacato. Ne sono prova i due sonetti a Cino da
Pistoia: "Io sono stato con Amore insieme" e "Io mi credea del tutto esser partito", ma
anche la canzone "Amor da che convien pur ch'io mi doglia", che, indirizzata a Moroello
Malaspina, segna un ritorno alla poetica e agli atteggiamenti retorici dello stil novo:
l'amore per una donna fredda e orgogliosa - un motivo analogo a quello delle "petrose" -
è sentito come dramma morale, privazione della nostra innata libertà; ed è virilmente
espresso, con consumata perizia stilistica e dentro gli schemi psicologici della scolastica,
nella sua angoscia folle e disperata.
La coscienza morale di Dante si è ormai fatta mediatrice tra le note appassionate e
calde del sentimento e la legge di giustizia che essa impone, perché la ragione non sia
violata né il cuore ingannato nelle sue ispirazioni profonde. E a questa legge di giustizia,
che in noi è natura, e che nelle cose è l'analogo creato della ragione eterna creatrice,
Dante consacra la più magnanima delle canzoni del "bello stile", “Tre donne intorno al
cor mi son venute”. Nella solitudine del suo esilio, il poeta vede vicino a sé, sconsolate e
dignitosamente in pianto, la Giustizia naturale ("Dirittura"), la Giustizia umana che in sé
la rispecchia e la Legge positiva, che in quella ha il suo fondamento: tre divine creature,
esuli come lui e come lui sbandite da un mondo dove la vita morale e politica è sconvolta
universalmente. Le tre donne piangono: ma l'amore, che nel cuore di Dante signoreggia la
sua volontà, le conforta con la certezza che la loro vita è eterna e immancabile sarà il loro
trionfo. Nella sua forma di visione e nella pura linea delle sue raffigurazioni ideali, la
canzone ci richiama a moduli dello stil novo, ma con tono diverso, più solenne e austero.
L'amore che qui parla nel cuore del poeta e che consola, è - per opera di Colui che
liberamente crea, con un atto effusivo della sua bontà infinita - ordinazione passiva della
volontà al bene morale, come fine necessario e obbligatorio d'ogni attività propriamente
umana. Ed è la stessa coscienza morale di Dante: il quale, ripiegandosi sulle certezze
interiori della propria anima, si esalta dell'esilio suo in compagnia delle tre donne divine
("l'esilio che m'è dato, onor mi tegno"), mentre vagheggia idealmente un mondo superiore
di giustizia, nel quale s'appaghi il volto segreto del suo cuore. La Divina Commedia è già
qui tutta in germe col suo contenuto di pensiero, col suo tono di profezia, con la sua
Rime 13
invitta fede nel futuro. Il mondo di perfezione spirituale che Dante ha conosciuto, sul
mattino della sua vita, in vivente relazione a Beatrice, si è riempito, attraverso
l'esperienza, di un contenuto razionale, che lo fa oggetto di una volontà consapevole di se
stessa e del suo fine.
L'ideale etico e politico di Dante sboccia nelle Rime come espressione del suo
anelito alla giustizia, il cui fondamento supremo riposa nel Sommo Bene. Ed è questo
anelito che, in tono di preghiera fervida e alata, informa il sonetto "Se vedi gli occhi miei
di pianger vaghi": invocazione a Dio, perché nella luce della sua gloria la giustizia
risorga, "chè sanza lei non è in terra pace". In tal modo, attraverso le Rime, il mondo
segreto di Dante, nell'unità della sua ispirazione e in sintesi di vita sempre nuove e più
vaste e complesse, s'è messo in luce progressivamente. Dante non ha mai tradito se
stesso. Egli è rimasto fedele a quell'Amore che l'ha variamente ispirato: sua prima e
spontanea vocazione etica nel periodo della Vita Nuova; aspirazione del cuore, assunta
più tardi, con la sua sete di bellezza e di bene e sotto la guida della ragione, a principio di
vita, non più volente e diretta, ma voluta e riflessa.
Così l'Amore, nella logica interna delle sue determinazioni concrete, Dante l'ha
vissuto e conosciuto, poeticamente, come esperienza intimamente personale ed
esperienza intima di ogni uomo. Universalità di causa: "materia", che variamente si
atteggiava in lui, esigendo e imponendo di volta in volta la sua propria forma. E per ciò
materia a cui Dante ha sempre cercato di conferire, stilisticamente, con parola serena e
chiarificatrice, e in armonia col proprio sentimento, la sua luce di particolare bellezza e
universalità di giustificazione. Coscienza d'artista, che in rapporto alle sue proprie
esigenze espressive è sempre vigile nelle Rime, scritte in momenti diversi e lontani, ma
connessi idealmente tra loro. Essa detterà a Dante le pagine teoretiche relative alla
Volgare eloquenza. Sul fondamento di questa piena esperienza, d'arte e di vita, si farà
strada il poeta della Divina Commedia, col sentimento della propria dignità di uomo e
con la certezza della sua missione provvidenziale per il bene degli uomini e a gloria di
Dio. A gloria del Primo Amore che crea e che ci invita a uscire di noi stessi, e ci chiama
tutti a sé, mediante la bellezza delle sue creature.
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CAPITOLO 2 – LE RIME

  • 1. CAPITOLO 2 – LE RIME Si tratta di una raccolta di liriche che il grande poeta fiorentino via via compose a partire dalla giovinezza sino agli anni maturi dell'esilio, fino a quando tutta la sua attività creatrice si raccolse e si conchiuse nella stesura e nel compimento della Divina Commedia. A fondamento di questa raccolta si pongono innanzi tutto le liriche giovanili che Dante prescelse e ordinò, inserendole nello schema psicologico-narrativo della Vita Nuova. Si aggiungono poi le tre canzoni morali del Convivio, tra le quattordici o già composte o ancora da comporre che egli si proponeva di commentare. Le rime che rimasero fuori da queste due raccolte parziali e sistematiche ci pervennero sparsamente nei manoscritti di antiche poesie volgari. Non tutte, però, perché risulta perduto il serventese in lode delle sessanta gentildonne fiorentine, del quale si fa un chiaro cenno nella Vita Nuova (VI, 2) e perduta la canzone "Traggemi de la ruente Amor la stiva", citata (II, 11, 5) nel trattato De vulgari eloquentia. A partire dalle prime raccolte a stampa di rime antiche (Milano, 1518; Venezia, 1518; Firenze, 1527) il numero delle "estravaganti" attribuite a Dante andò aumentando progressivamente, fino a che non s'ebbe l'edizione critica curata da Michele Barbi per il testo della Società Dantesca Italiana (Le opere di Dante, Firenze, 1921). Distinte ora le genuine da quelle di dubbia attribuzione e dalle apocrife, le Rime, considerate nel loro complesso e nella loro varietà, e nelle loro convergenze o discordanze di tono e di modi poetici, restano un documento significativo dei tentativi d'arte attraverso i quali Dante, con irrequietudine di ricerche letterarie e lungo travaglio di lingua e di stile, giunse a conquistarsi la sua propria personalità di poeta. Autodidatta nell'arte "di dire parole per rima", egli comincia come tutti i giovani facendo letteratura; poiché letteratura, quella del suo tempo e del suo ambiente, ancora sotto l'impero della tradizione lirica provenzaleggiante, siciliana e guittoniana, sono i sonetti da lui scambiati con Dante da Maiano. Rime 5
  • 2. I temi di casistica amorosa che gli sono proposti o che egli stesso propone (primo sonetto della Vita Nuova), Dante li svolge e li ragiona in un linguaggio impersonale, intellettualmente sotteso, secondo le norme medievali dell'ornato retorico, tra giochi di parole e allitterazioni e sottili richiami di rime equivoche e preziose. Ma già tra le prime liriche del "libello" giovanile si affaccia il poeta, che nel duro esercizio di composizione va affinando i modi della sua tecnica espressiva con un gusto sempre più vivo della parola semplice e schietta, familiare e suggestiva. Dante riprende i motivi dell'amore cortese, che giungevano a lui ormai stremati da una lunga esperienza letteraria; li distende nelle ingegnose combinazioni metriche del sonetto rinterzato e della stanza isolata di canzone; li svaria con serietà di intendimento e sincero abbandono e li rinnova sul tono e sul ritmo del sentimento che canta. Il distacco dal guittonianismo più palese e scoperto procede in lui dall'interno e matura in un clima di giovinezza lirica, spensierata e galante. Nella canzone "La dispietata mente" il motivo psicologico della lontananza, affermato energicamente in battuta inizia, si modula poi su un parlare dimesso e smorzato e si disnoda in tono discorsivo, con franca spigliatezza di modi e di accenti. Nel famoso sonetto "Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io" il tema lirico del "plazer" provenzale, rifiorito sui ricordi letterari dei romanzi di re Artù, si rinnova con una bella apertura fantastica, che nelle quartine si spalanca serenamente sull'illimitato. L'ispirazione, non ancora capace di sostenersi a lungo, si frange e si puntualizza; ma l'accento di una verità vissuta e conosciuta con gioia non tarda ad affermarsi al di sopra del repertorio dei motivi tradizionali. Sulle tracce del Cavalcanti, il primo tra i suoi amici, Dante viene atteggiando il suo sentimento e il suo pensiero in movenze stilistiche di grazia morbida e delicata. La ballata "Per una ghirlandetta" è una fioritura di motivi melodici, che esalano languidamente la loro lieve nota sentimentale in una atmosfera di ammirante tenerezza e di ricordo sognante. L'altra ballata, "Deh, Violetta, che in ombra d'Amore", traduce nell'abbandonata dolcezza della ripresa la musica interiore di un'anima innamorata che desidera e spera, per quella bellezza che negli occhi della donna amata riluce come bontà incapace di tradire se stessa. Motivi cortesi, ricantati con liquida levità di parola: sentimento che si effonde e si comunica senza peso di passione, armonioso e musicale. Rime 6
  • 3. L'amore, che nei cuori gentili si fa principio di ogni bene e di ogni gioia, Dante lo sente, nel sonetto "Com più vi fere Amor co'suoi vincastri", come la ragione poetica della sua vita profonda. Ottimismo fondamentale, che lo porta a esaltare l'Amore, alle cui sollecitazioni, nei segreti colloqui con la sua anima, egli cede e s'abbandona con sicurezza fidente ("Cavalcando l'altr'ier per un cammino"; "Deh, ragioniamo insieme un poco, Amore"). Di qui il tono di giocondità, che informa il motivo del sonetto alla Garisenda e che traluce nell'altro sonetto, "Sonar bracchetti e cacciatori aizzare", dove il "plazer" dispersivo della caccia, contrapposto alla "leggiadria di gentil core", s'apre in una visione lirica, tutta impeto e movimento, punteggiata dalla parola viva e calzante. Ma da questa esperienza d'amore, serenante e contemplativa, Dante passa a liriche di fervore appassionato, dove l'amore che la bellezza spirituale suscita, facendoci uscire da noi stessi e quasi morire, è vissuto nella sua drammatica realtà, con un sentimento d'angoscia e di pauroso sgomento. Accanto ai sonetti del "gabbo", inclusi nella Vita Nuova (XIII-XVI), si collocano qui le due canzoni estravaganti: "E'm'incresce di me" e "Lo doloroso amor", entrambe per Beatrice, che ha negato a Dante il saluto. Il poeta si misura su materia nuova e la domina intellettualmente con rigor scolastico. Stringendosi alle forme iperboliche del linguaggio affettivo, Dante si fa presente il dramma della sua anima, legata fatalmente dall'amore a quella bellezza che la faceva beata. La nuova esperienza, che si compie artisticamente entro l'orbita delle influenze cavalcantiane, conferisce maggiore concretezza e sostanza di verità alla poesia musicale e sognante del puro sentimento. Lungo la linea di un'analisi psicologica, che discende in profondità, là dove la vita intima, fuori dell'ordine dell'amore, si disgrega e si frange, balzano improvvise le immagini di dolore e di morte, nelle quali il poeta si contempla con fantasia allucinata, e si compiange. Nella salda quadratura delle due canzoni, dove il pensiero si svolge e si organizza su se stesso con vigoria di stile e coerenza di immagini, Dante rivela un'arte ormai sicura di sé e capace di più ampio respiro. Ma nella cerchia maliosa dell'amore passione, la tensione lirica si viene presto rammorbidendo con note di languore e di smarrimento accorato ("Ne le man vostre, gentil donna mia"). Dante non s'appaga dell'estetismo del Cavalcanti, dal quale ha tuttavia derivato schemi logici e moduli fantastici, con il conseguente rinnovamento del suo vocabolario. Rime 7
  • 4. La moralità, come libera attività dello spirito che crea, nell'ordine del fare e nell'ordine dell'agire, Dante l'ha posta fin da principio a fondamento del suo poetare; e alla moralità egli ritorna, rinnovando con maggiore intimità l'esperienza poetica del Guinizelli. Con la canzone “Donne ch'avete intelletto d'amore” egli prende più chiara coscienza di se stesso e del mondo della sua ispirazione. Egli inizia le "nuove rime" celebrando in Beatrice ciò che la carità degli angeli esalta presso Dio: il mistero operante di un'anima buona, che discesa dal cielo "a miracol mostrare" è ridomandata dal cielo alla terra. Sostenute dall'afflato lirico, le parole che lodano come dono provvidenziale la bellezza della creatura, frangono il tono piano e didascalico della canzone e creano l'atmosfera trepida e ammirante, che avvolgerà d'or innanzi la donna amata. In questa atmosfera sbocciano i sonetti "Vede perfettamente onne salute", "Negli occhi porta la mia donna Amore" e quel famosissimo "Tanto gentile e tanto onesta pare". Qui il motivo poetico, chiuso in un'ansia repressa di slancio ammirativo e di cordiale tenerezza, di dolcezza segreta e di velata malinconia, si conquista felicemente la sua forma. Con levità di tono e chiarezza di accenti la poesia sgorga dalla sovrabbondanza della contemplazione: ed è la voce di un'anima che nel silenzio si ascolta, e che nel canto della lode umilmente si confessa, mentre dà testimonianza di sé come buona. "Dolce stil novo" significa per Dante dapprima fioritura lirica della sua anima, in uno stato di grazia ingenua e di felicità espressiva, poi vocazione etica in un mondo ideale di bontà e di bellezza. In diretta relazione a Beatrice, egli vive e conosce realmente ed esprime un solitario sogno di purezza spirituale, che lo ritrae alle sorgenti del suo sentire, là dove la sete di bellezza è inseparabile dalla speranza di un bene infinito. Ma il puro lirismo, che in notazioni aeree si effonde nei sonetti della "loda", non tarda a modularsi su un ritmo di oscura angoscia e a sciogliersi in pianto. Il pensiero che Beatrice dovrà un giorno morire s'affaccia all'animo di Dante, che se ne sente sgomento. La sventura, nel rapido fuggire del tempo, egli la vede già prossima; e la sogna, che già s'abbatte su di lui con impeto di rovina. Questo motivo anima la canzone “Donna pietosa e di novella etate”, e si risolve in una serie di visioni, che trascolorano entro la luce di una fede ingenua e pura: un "vano immaginare", accompagnato da un affettuoso e tenero compianto di se stesso; un'invocazione supplichevole alla "buona morte", che apre le vie del cielo. Riaffiora il sottile Rime 8
  • 5. psicologismo della scuola; ma una dolcezza intima e raccolta ne riempie gli schemi e li fa capaci di accogliere la vita del sentimento che trepida e geme. Nelle rime posteriori alla morte di Beatrice un orientamento nuovo dell'arte di Dante si delinea fuggevolmente attraverso felici spunti di coraggiosa introspezione. Nella canzone "Li occhi dolenti per pietà del core" e nel sonetto "Color d'amore e di pietà sembianti", che si riferisce all'episodio della "donna gentile", il poeta sa cogliere, con semplicità e schiettezza di modi, pur tra le grazie stilizzate della scuola, le contraddizioni intime del suo cuore irrequieto e la nota profonda del suo umano dolore. Dante è sul limitare di quell'esperienza poetica, puramente affettiva e sensibile, e intimamente contraddittoria, che darà più tardi nel Petrarca i suoi frutti migliori. Ma deliberatamente se ne ritrae. Confortato dalla fede e superato ogni dissidio, egli si risolleva per virtù d'amore fino al cielo di Dio, "oltre la spera che più larga gira", per contemplarvi la sua Beatrice beata. Ma il sogno di purezza e di bontà, che egli ha conosciuto in vivente relazione a lei, resterà per sempre, a giovinezza conchiusa, un soave ricordo nostalgico e una segreta aspirazione del cuore. E ciò che era stato allora la sua prima vocazione etica si rivelerà capace di ulteriori sviluppi nel mondo dell'esperienza, dinanzi a una più alta e complessa visione della vita, con i suoi doveri da compiere e i suoi ideali da realizzare. Nella canzone "Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete" l'amore per Beatrice non è per niente negato, ma è sopraffatto e vinto dal nuovo amore, che la Filosofia morale ha suscitato in lui, ordinandolo a sé nella misura stessa che egli le si abbandona e la fa vita del suo pensiero e sostanza della sua anima. E’ un dissidio intimamente vissuto, che Dante sa superare (e Petrarca no), celebrando nella canzone "Amor che nella mente mi ragiona" la bellezza della Filosofia, considerata in se stessa, nella sua essenza, come Saggezza creata, che s'identifica con Dio e ne è la prima creatura. Le due canzoni, la seconda delle quali si riplasma schematicamente su quella in lode di Beatrice, si muovono entro l'atmosfera sentimentale della Vita Nuova; ne serbano atteggiamenti e movenze stilistiche, ne hanno il tono caldo e appassionato. Sono "dolci rime d'amore", il cui stile è "dolce e soave". Ma il respiro lirico che le pervade, e che circola entro l'ampio giro dei loro periodi ritmici e musicali, è più sostenuto e robusto, più vasto e costante. La seconda canzone è l'espressione eloquente di un'anima, che nella gioia del travaglio Rime 9
  • 6. intellettuale prende coscienza di sé e della virtù che la muove. Con un passaggio ulteriore Dante si ferma a considerare la Filosofia morale non più in se stessa, ma nel soggetto umano, che ne è il portatore e che la esercita nel concreto; e ne tratta in composizioni il cui carattere dottrinale, grave di distinzioni e di argomentazioni, esige "rima aspra e sottile". Le canzoni sulla Gentilezza o nobiltà di natura metafisica ("Le dolci rime d'amor ch'i'solia"), sulla Leggiadria, come virtù della vita cortese ("Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato") e sulla Liberalità ("Doglia mi reca ne lo core ardire") sono dei veri trattati morali, il cui ornamento retorico riposa sulla complicata ingegnosità del metro, sull'agevole scorrevolezza del verso e sul ricercato allettamento della rima. Muovono tutti, questi trattati, da passione dimostrativa; la quale cede talvolta, con aspro vigore di accenti, a vampate d'ira e di sdegno e a pungenti risa di sarcasmo: voci di un moralista, che scruta l'uomo nell'interno dinamismo che lo anima e nell'uso che egli fa del libero arbitrio, giudicandolo secondo un ideale concreto di perfezione, che risponda ai fini particolari e universali inerenti alla natura umana. Nel De vulgari eloquentia (II, 2, 9), proclamandosi il poeta della "rettitudine", Dante ricorda l'ultima delle tre canzoni, nella quale presentiamo lontanamente il poeta della Divina Commedia, che giudica e condanna, seguendo la voce della propria coscienza (il suo Virgilio), e ispirandosi ai più nobili ideali umani di amore e valore e cortesia. Connesso con lo svolgimento della personalità dantesca, rivelando quindi un altro aspetto morale della sua poesia, è l'approfondimento del tema dell'amore in rapporto a quella bellezza che vista piace (si pensi al sonetto "Due donne in cima della mente mia"): quella bellezza che in donna leggiadra e gentile risplende come raggio della Prima intelligenza creatrice. In tal modo tra le canzoni del "bello stile", insieme con quelle che si materiano di virtù, che è poi la bellezza spirituale che traluce nell'azione umana, vanno annoverate le altre che si materiano d'amore: attività che ci finalizza e ci perfeziona, nella misura stessa che ci doniamo all'idea di bellezza, a cui tendiamo con desiderio infinito. Nelle rime per la Pargoletta (due ballate e un sonetto) il tema dell'amore è colto poeticamente in un'atmosfera rarefatta di dolce stil novo; ma nelle canzoni "Amor che movi tua virtù da cielo" e "Io sento sì d'Amor la gran possanza", il motivo che le informa si fa canto solenne ed eloquente, ragionato e commosso. L'amore, che procede da Dio, ed è principio universale d'ogni perfezione, il poeta lo sperimenta in se stesso, come Rime 10
  • 7. incoercibile desiderio di quella bellezza analogica e trascendentale, che rifulge nella sua donna, portandolo, con dolore e con gioia, sempre più al di là. Il contenuto dottrinale, avvivato dal sentimento etico e religioso che ispira il poeta, ha una sua propria nobiltà di forma, che ne illustra la bontà (o "gravità delle sentenze") e ne dichiara la bellezza. Esperienza d'anima, viva e profonda, a cui la parola chiarificatrice è offerta dall'attenzione stilistica attraverso la disciplina dell'arte. Fra le rime occasionali ci trasporta la tenzone con Forese Donati, anteriore al 1296. Nata come invito allo scherzo, in un momento di giocondità spirituale, la tenzone trasmoda in uno scambio di ingiurie e di accuse volgari. E tuttavia non può considerarsi che un puro gioco letterario, di tono realistico, la cui vivacità di linguaggio popolare sarà più tardi assunta ad arte nel diverbio tra Sinone e mastro Adamo nella bolgia dei falsari. Più artista dell'avversario, Dante sa risollevarsi dalla violenza passionale del risentimento e della ritorsione, piegando la parola o la frase ad allusioni ardite ed evocatrici. Ma la ricerca di modi espressivi più segreti e penetranti, fondati sulla illuminazione metaforica e sul richiamo imprevisto di immagini lontane, si fa proposito deliberato e virtuosismo stilistico in un gruppo di rime cosiddette "petrose", la cui composizione va collocata, probabilmente, prima dell'esilio. Dante vi celebra una donna dura come pietra - onde il nome simbolico di donna Pietra - la cui singolare bellezza ha suscitato e tien viva nel cuore di lui una passione invincibile, ma senza speranza. Il motivo poetico - che ci richiama per analogia l'altro della Pargoletta - non ammette se non variazioni sentimentali. Nei suoi termini elementari Dante lo presenta nella bella canzone "Io son venuto al punto della rota": la vita della sua anima innamorata, che internamente ferve, senza potersi comunicare, è simile alla vita della natura, che si chiude in se stessa sotto la pioggia, la neve, il ghiaccio e il gelo, impietrandosi in paesaggi di desolazione e di tristezza. A tratti decisi e nelle loro note essenziali, Dante fissa una serie di quadretti invernali e li prospetta entro un'atmosfera liricamente accesa, in virtù della parola allusiva ed evocatrice. Il motivo viene ripreso nella sestina lirica, "Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra": la stanca tristezza del poeta innamorato si rispecchia nel passaggio arido e scolorito; eppur vivo e fresco è il desiderio della donna insensibile, la cui bellezza lo persegue dovunque. Rime 11
  • 8. Dante s'ispira all'arte di Arnaldo Daniello, riprendendo da lui lo schema metrico della sestina, dove il pensiero, permanendo immobile su se stesso, svaria e trascolora entro il cerchio fisso delle sei parole-rima, la cui accezione si risolve di volta in volta in immagini nuove e diverse. Nell'artificiosa ricerca delle difficoltà formali, Dante si mette in gara col trovatore, che fu "il miglior fabbro del parlar materno"; e, mirando a compiere qualcosa di nuovo e d'intentato, si foggia la sestina rinterzata o doppia: "Amor tu vedi ben che questa donna", con la gioia di documentare per essa una "novità..., che non fu mai pensata in alcun tempo". Il motivo poetico, inserito in una visione cosmica dell'amore, come vita dell'universo dove tutto è ordinato alla bellezza, si riaffaccia nei suoi termini basilari, martellato con insistenza dalla rima equivoca: staticità di una passione incoercibile e dominatrice, che non accetta resistenze o negazioni, e che nella sua solitudine si tormenta, implorando, come giustizia che le è dovuta, un ricambio d'amore. La situazione si esaspera e si scioglie nella canzone "Così nel mio parlar voglio esser aspro", la più bella e artisticamente la meglio articolata delle "petrose", nelle cui strofe, dense di immagini vigorose, si riversa, con asprezza verbale, l'impeto travolgente di una passione torbida e procellosa. Dominato tirannicamente dalla bellezza particolare a cui tende, il poeta sente ingiuste le ferite d'amore e colpevole la donna che lo fugge e non gli si arrende; e con desiderio tormentato e gioia folle e crudele sogna di vendicarsene il giorno che, per lui, anch'essa soffrirà gli spasimi della stessa passione. Psicologicamente, nelle loro interne determinazioni e nella loro logica rigorosa, Dante ha seguito nelle rime "petrose" le imperiose esigenze dell'amore come passione naturale, armonizzando materia e forma in indissolubile unità, con un virtuosismo tecnico e stilistico sempre estremamente teso e con tale altezza di timbro, che segna un momento singolare della sua poesia e della sua arte. Le rime posteriori all'esilio respirano in un clima di serietà spirituale, che è quello dell'anima di Dante portato a esprimere da sé, dopo tanta esperienza di vita e di dolore, una più grave e pensosa intuizione dell'amore, fuori dalla sua sensibilità mobile e ondeggiante, e in armonia con quella legge di giustizia inscritta al fondo della persona umana. Sono gli anni travagliati in cui matura il Convivio; e Dante si ripiega sul proprio passato, con un ritorno, di vita e di pensiero, sia alle "dolci rime d'amore" in esaltazione Rime 12
  • 9. della Filosofia morale, sia alle canzoni del "bello stile". Tempo di saggezza, quella che si conquista attraverso all'esperienza, e che egli vive, solitario tra gli uomini, mentre per essa si giudica e giudica con tono fermo e pacato. Ne sono prova i due sonetti a Cino da Pistoia: "Io sono stato con Amore insieme" e "Io mi credea del tutto esser partito", ma anche la canzone "Amor da che convien pur ch'io mi doglia", che, indirizzata a Moroello Malaspina, segna un ritorno alla poetica e agli atteggiamenti retorici dello stil novo: l'amore per una donna fredda e orgogliosa - un motivo analogo a quello delle "petrose" - è sentito come dramma morale, privazione della nostra innata libertà; ed è virilmente espresso, con consumata perizia stilistica e dentro gli schemi psicologici della scolastica, nella sua angoscia folle e disperata. La coscienza morale di Dante si è ormai fatta mediatrice tra le note appassionate e calde del sentimento e la legge di giustizia che essa impone, perché la ragione non sia violata né il cuore ingannato nelle sue ispirazioni profonde. E a questa legge di giustizia, che in noi è natura, e che nelle cose è l'analogo creato della ragione eterna creatrice, Dante consacra la più magnanima delle canzoni del "bello stile", “Tre donne intorno al cor mi son venute”. Nella solitudine del suo esilio, il poeta vede vicino a sé, sconsolate e dignitosamente in pianto, la Giustizia naturale ("Dirittura"), la Giustizia umana che in sé la rispecchia e la Legge positiva, che in quella ha il suo fondamento: tre divine creature, esuli come lui e come lui sbandite da un mondo dove la vita morale e politica è sconvolta universalmente. Le tre donne piangono: ma l'amore, che nel cuore di Dante signoreggia la sua volontà, le conforta con la certezza che la loro vita è eterna e immancabile sarà il loro trionfo. Nella sua forma di visione e nella pura linea delle sue raffigurazioni ideali, la canzone ci richiama a moduli dello stil novo, ma con tono diverso, più solenne e austero. L'amore che qui parla nel cuore del poeta e che consola, è - per opera di Colui che liberamente crea, con un atto effusivo della sua bontà infinita - ordinazione passiva della volontà al bene morale, come fine necessario e obbligatorio d'ogni attività propriamente umana. Ed è la stessa coscienza morale di Dante: il quale, ripiegandosi sulle certezze interiori della propria anima, si esalta dell'esilio suo in compagnia delle tre donne divine ("l'esilio che m'è dato, onor mi tegno"), mentre vagheggia idealmente un mondo superiore di giustizia, nel quale s'appaghi il volto segreto del suo cuore. La Divina Commedia è già qui tutta in germe col suo contenuto di pensiero, col suo tono di profezia, con la sua Rime 13
  • 10. invitta fede nel futuro. Il mondo di perfezione spirituale che Dante ha conosciuto, sul mattino della sua vita, in vivente relazione a Beatrice, si è riempito, attraverso l'esperienza, di un contenuto razionale, che lo fa oggetto di una volontà consapevole di se stessa e del suo fine. L'ideale etico e politico di Dante sboccia nelle Rime come espressione del suo anelito alla giustizia, il cui fondamento supremo riposa nel Sommo Bene. Ed è questo anelito che, in tono di preghiera fervida e alata, informa il sonetto "Se vedi gli occhi miei di pianger vaghi": invocazione a Dio, perché nella luce della sua gloria la giustizia risorga, "chè sanza lei non è in terra pace". In tal modo, attraverso le Rime, il mondo segreto di Dante, nell'unità della sua ispirazione e in sintesi di vita sempre nuove e più vaste e complesse, s'è messo in luce progressivamente. Dante non ha mai tradito se stesso. Egli è rimasto fedele a quell'Amore che l'ha variamente ispirato: sua prima e spontanea vocazione etica nel periodo della Vita Nuova; aspirazione del cuore, assunta più tardi, con la sua sete di bellezza e di bene e sotto la guida della ragione, a principio di vita, non più volente e diretta, ma voluta e riflessa. Così l'Amore, nella logica interna delle sue determinazioni concrete, Dante l'ha vissuto e conosciuto, poeticamente, come esperienza intimamente personale ed esperienza intima di ogni uomo. Universalità di causa: "materia", che variamente si atteggiava in lui, esigendo e imponendo di volta in volta la sua propria forma. E per ciò materia a cui Dante ha sempre cercato di conferire, stilisticamente, con parola serena e chiarificatrice, e in armonia col proprio sentimento, la sua luce di particolare bellezza e universalità di giustificazione. Coscienza d'artista, che in rapporto alle sue proprie esigenze espressive è sempre vigile nelle Rime, scritte in momenti diversi e lontani, ma connessi idealmente tra loro. Essa detterà a Dante le pagine teoretiche relative alla Volgare eloquenza. Sul fondamento di questa piena esperienza, d'arte e di vita, si farà strada il poeta della Divina Commedia, col sentimento della propria dignità di uomo e con la certezza della sua missione provvidenziale per il bene degli uomini e a gloria di Dio. A gloria del Primo Amore che crea e che ci invita a uscire di noi stessi, e ci chiama tutti a sé, mediante la bellezza delle sue creature. Rime 14