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Giuseppe Bonaccorso

Il guardamorte
Il supermercato avrebbe chiuso in anticipo quel giorno e non le era rimasto molto tempo prima che
le insegne luminose dei negozi si spegnessero una a una per essere sostituite dagli avvisi dei pub e
dei locali notturni.
Inoltre doveva ancora andare a prendere Antonio e Camilla in piscina, ma i negozi avrebbero
chiuso dopo la lezione di nuoto. Un pensiero incoraggiante nello sconforto che davano le sue
preoccupazioni.
Doveva essersi addormentata sul divano. Non le era mai successo prima: in più di trent’anni di
vita non aveva mai chiuso occhio nemmeno un minuto tra le sette di mattina e le undici di sera. Si
dava della sciocca incosciente, la sua dottoressa l’aveva avvisata di probabili effetti collaterali, tra
questi proprio la sonnolenza. Se a questo si aggiungevano gli alti ritmi della sua vita, i famarci
avevano avuto ragione facile sulle sue abitudini.
Ti stai facendo vecchia. Ultimamente se lo ripeteva spesso, dove la parola “ultimamente”
copriva l’arco dei cinque anni appena trascorsi, quelli seguiti alla nascita di Camilla, la più piccola
delle “pesti”.
Da meno di un lustro i due pargoli la sfiancavano, prendendola letteralmente per stanchezza in
ogni loro capriccio. Per ogni patatina, per ogni giocattolo anche solo intravisto su una bancarella,
per ogni caramella colorata e anche per ogni mimo fermo agli angoli dei marciapiedi, le due pesti
assaltavano la pazienza della loro madre con l’arma della lamentela fiancheggiata da lacrime e
strilli. Con un marito sempre in viaggio per lavoro, le sue difese avevano visto una continua e
inesorabile erosione, culminata con un crollo di nervi tale da essere stata necessaria la visita medica.
“Ti stanchi troppo. Sei nervosa e sotto stress.” Le aveva sentenziato la sua amica, la dottoressa
Loredana, pronunciando il verdetto come se fosse stata la Verità di un profeta.
E sai che novità.
Voleva bene a Loredana. Avevano fatto il liceo insieme, erano compagne da una vita, ma quella
volta avrebbe voluto farle mangiare il ricettario.
Purtroppo il ricettario era servito per prescriverle dei tranquillanti e altri medicinali dai nomi
impronunciabili che la donna aveva subito bollato, in via del tutto precauzionale, come “leggeri
psicofarmaci”, ma questo non l’aiutò nell’evitare di considerarsi all’ingresso sul lungo viale della
pazzia.
Fortunatamente sentì lontana la reclusione in qualche manicomio quando i medicinali avevano
iniziato a funzionare. Recuperò un po’ di ordine mentale e riuscì a rilassarsi più facilmente la sera
oltre che a dormire profondamente durante la notte, tanto da sentirsi molto più riposata quando
l’allarme della sveglia le penetrava nel cervello poco dopo l’alba.
I medicinali avevano funzionato fin troppo bene.
Le sue energie sembravano triplicate. Preparare la colazione si due figli, prepararli per la scuola
e l’asilo, andare a fare la spesa e altri servizi domestici, pulire casa, preparare il pranzo per poi
uscire e andare a prendere i due “portatori di caos” erano diventate impresa ora alla sua portata.
Purtroppo questo era soltanto ciò che accadeva la mattina e forse Loredana non considerò che la
giornata fosse composta da due parti, mattina e pomeriggio – la sera non era contemplata nelle sue
ripartizioni – e che quest’ultima fosse non meno impegnativa della prima.
Andare un’altra volta dalla sua amica dottoressa per farsi prescrivere un raddoppiamento delle
dosi era fuori discussione, troppo stress, e le faceva male lo stress.
Il ragionamento fu semplice. Se la dose bastava per metà giornata, bastava prenderla due volte
per essere coperti fino all’appuntamento televisivo con i suoi programmi serali preferiti.
Ancora una volta, bingo. La terapia funzionò e i suoi figli non rappresentarono più una minaccia
alla stabilità fisica e mentale.
	
  

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Il pomeriggio tra compiti, merende, passeggiate, incontri con gli amichetti, piscina,
appuntamenti a scuola, era diventato più leggero di una lezione di origami e le sue “pesti”
nient’altro che degli impegni di routine.
Si accorse che qualcosa non andava più per il verso giusto quando rischiò di addormentarsi sul
volante mentre attendeva che scattasse il verde. La giornata non era stata particolarmente pesante,
soltanto il corso scolastico pomeridiano per Antonio e Camilla e visita agli zii per consegnare, in
ritardo, i regali di Natale. Stava tornando verso casa per concludere lo smantellamento del presepe
lasciato a metà, quando a quell’incrocio i suoi occhi si chiusero di loro iniziativa, mossi da una
volontà ribelle a quella della loro proprietaria.
Fu la strombazzata delle macchine in coda a non permetterle di schiacciare il pisolino e a farla
saltare sul posto e spingerla ad ingranare la marcia di tutta fretta.
Per quanto la paura del momento le fece immaginare la sua auto deragliare dall’autostrada a tutta
velocità con a bordo i suoi figli sballottati da una parte all’altra dell’abitacolo mentre lei si era
accasciata ad abbracciare l’airbag scambiato per un cuscino, si rese conto che adesso non riusciva a
smettere di prendere quelle medicine.
La prima controindicazione degli psicofarmaci, anche quelli “leggeri”, era sempre stata la
dipendenza. Avrebbe dovuto pensarci prima.
Adesso si trovava in ritardo per andare a fare la spesa, con dei figli da prendere in piscina e un
marito che sarebbe tornato a casa dalla Francia in poco più di un’ora. La cosa peggiore che avrebbe
potuto fare era addormentarsi davanti alla televisione mentre dalla segreteria telefonica gracchiava
preoccupata la voce di Loredana che le intimava di farsi sentire.
Infatti, la prima cosa che fece fu di allungare la mano per spegnere la tv, ma quando la ritirò si
accorse di avere in mano una rosa bianca. Il suo fiore preferito, certo, ma il cui ultimo esemplare di
casa aveva gettato, rinsecchito, nella spazzatura almeno tre giorni prima.
E poi quelle rose non mi piacevano nemmeno tanto.
Rimase a fissare il fiore, mettendone a fuoco i petali piatti e larghi, le spine appena pronunciate –
era una rosa giovane – mentre il suo tipico odore pungente le penetrava le narici avendo come unico
effetto quello di velocizzare la sua ripresa di conoscenza.
Tutto intorno alla rosa era sfocato proprio come gli oggetti di casa che ritraeva quando giocava
con la macchina fotografica per poterne pubblicare le foto sui profili del social network.
Continuò a fissare la rosa per lungo tempo, nemmeno fosse stata una bomboniera appoggiata su
un televisore gettato in una discarica. Non doveva tenere in mano un fiore, non aveva senso. Aveva
usurpato il posto al telecomando.
Solo in quel momento, anche se non seppe dire quale momento fosse, si accorse della feroce fitta
di dolore che le attraversò la testa. Una nera sensazione di nausea le salì su per la gola, e dal suo
stomaco si agitavano irrequieti e famelici i succhi gastrici. Una parte del suo cervello pensò che
avesse dormito più del necessario e che adesso il suo corpo si risvegliava affamato e le presentava il
conto per l’eccessivo tempo passato sul divano. Senza considerare il fatto che la televisione le
infastidiva le orecchie con un continuo ronzio.
Dove diavolo è il telecomando?
Non lo aveva a portata di mano. In pugno stringeva una rosa bianca. Tutt’intorno sembrava non
ci fosse niente.
Vedeva solo una grande luce oltre petali, una luce che rendeva tutto bianco, surreale. E quelle
luci al neon assomigliavano affatto ai nuovi lumi color avorio che aveva comprato prima di Natale e
che erano stati l’invidia di tutte le sue amiche, soprattutto delle più spocchiose e tirchie. La faccia
che aveva fatto Marilena, infatti, sarebbe stata da fotografare.
Chissà dove sarà andata a finire la macchina fotografica. Non c’è nemmeno il telecomando.
Decise di prendere una decisione radicale per smuovere la situazione di stallo in cui si trovava.

	
  

2	
  
Doveva fare qualcosa, agire, spostarsi, non solo per trovare il telecomando e zittire quel
fastidiosissimo ronzio, ma anche perché non sentiva più le gambe, e la cosa era inconcepibile.
Lasciò perdere per il momento la rosa bianca e si concentrò sul cercare di mettersi in piedi.
Impresa titanica. Le faceva male tutto, sentiva il sangue pulsarle nella testa con il ritmo di un
martello pneumatico e dal collo in giù, tutto il suo corpo era attraversato da un feroce formicolio.
La testa le pesava, ma forse era la parte del corpo che poteva muovere più liberamente. Infatti,
cercò di sollevarla e ci riuscì, ma lo sforzo fu eccessivo e ricadde con la nuca sul…cuscino.
Cuscino?
A meno che suo marito non l’avesse portata a letto – ma non si spiegava l’assenza dei lumi
coloro avorio – o a meno che non l’avesse lasciata sul divano infilandole un guanciale dietro la testa
– comportamento comunque preoccupante – non aveva senso il sentire un cuscino.
Anche perché sotto le mani non sentiva certo il materasso. Il freddo di un materiale duro e
asettico le fece capire di trovarsi su un tavolo.
Questo sentì con la mano destra dopo che ebbe lasciato cadere la rosa bianca sul petto. La mano
sinistra era scivolata lungo il fianco, passando sull’orlo di una giacca.
Ma non dormo vestita.
Aveva toccato altri petali, alcune spine, un lungo gambo di una rosa, un’altra.
Era uno scherzo, chiaro.
O una romanticheria un po’ perversa di mio marito.
I fiori erano due, se li guardò, li mise davanti agli occhi che si stavano abituando al forte lucore
della stanza.
E non sono in camera da letto.
Passò del tempo prima che riuscisse a torcere il collo lungo i muscoli anchilosati delle spalle, e
quel che vide rischiò di farla impazzire.
Altre rose.
Sì, mio marito ha esagerato.
Oltre ad esse c’era un tavolo, ma non quello della cucina, né tantomeno quello del soggiorno. In
realtà non era un tavolo suo perché lei non aveva mai usato il marmo per arredare casa.
Sul quel ripiano freddo e bianco dormiva un uomo. Indossava un abito con giacca e camicia,
aveva un ventre gonfio e tondeggiante. Le ricordò la testa di una medusa spiaggiata soprattutto
perché non respirava. La pancia prominente e flaccida di quell’uomo, barbuto e incanutito, non si
muoveva e quella mole di grasso avrebbe dovuto provocare un sordo e fragoroso russare, invece era
lì, immobile, simile ad un cadavere.
Decise di urlare quando vide sagomare il paffuto dormiente una schiera di tulipani rossi, accesi,
e le sue mani gonfie e violacee congiungersi in cima al suo petto immobile. Volle gridare, ma la
bocca non rispondeva.
Ecco, sto sognando, idiota che sono.
Il cervello cercava di dare impulsi al suo diaframma ma sbagliò indirizzo e la mano si mosse con
uno scatto rapido e andò ad urtare qualcosa che cadde a terra in un atroce fracasso metallico. Non
sapeva perché, era convinta di aver fatto cadere un candelabro che reggeva un cero.
Strano, proprio ciò che mi aspetterei di trovare in un obitorio. Ci manca soltanto la mia bara.
Si accorse che quella bara c’era e che lei vi era sdraiata dentro.
Il suo respiro esplose. Partì dai polmoni, risalì per la trachea e, quando urtò le corde vocali, dalla
bocca uscì un urlo. Le membra del corpo vennero attraversate da scariche di paura, non quella paura
dettata dall’angoscia di un’attesa, la paura capace di inchiodare qualcuno sul posto di farlo sudare e
piangere. La sua era la paura disgustata, alimentata dalla minaccia mai considerata che ti spinge a
fuggire lontano, a scappare con gli occhi chiusi.
Infatti scappò.
Saltò giù dal suo sepolcro, schiacciando rose, fotografie, lettere e poesie di commiato. Gettò le
gambe oltre il bordo della bara e urtò un tavolo di metallo vuoto.
	
  

3	
  
Non fece bene i calcoli della distanza che la separava dal pavimento, mise male il piede e
inciampò. Riuscì ad aggrapparsi ad una delle gambe del tavolo che le stava di fronte, ma le ruote su
cui si reggeva scivolarono, ben oliate, sotto sul suo peso e lei dovette sforzarsi il doppio per evitare
di cadere distesa sul pavimento di linoleum. A volte l’efficienza può essere un serio ostacolo alla
creatività.
Si resse e lentamente assunse una posizione abbastanza eretta da permettergli di camminare. Le
gambe erano intorpidite e il formicolio che adesso le tormentava era accompagnato da fitte di
fastidioso dolore. Lentamente utilizzò il tavolo mobile per spostarsi.
Intorno non c’era nulla a parte il cadavere dell’uomo grasso e due porte, una chiusa, quella che
dava all’esterno.
I piedi strisciavano sul pavimento e quell’appoggio improvvisato rischiava di andarsene per
conto suo con la conseguenza di farle mancare la presa e l’equilibrio. Evitò di cadere per due volte,
alla terza si trovò abbastanza vicina alla porta d’ingresso da decidere di gettarsi sulla maniglia.
Chiusa.
Adesso sentiva crescere il panico. L’altra porta era aperta, anzi non aveva usci, soltanto una
sottile tenda viola le impediva di vedere cosa ci fosse aldilà della soglia, ma non credeva si trattasse
di un’uscita. Da lì non proveniva alcun rumore, l’unico suono che la accompagnava era lo stridio
degli animali notturni che giungeva ovattato dall’esterno.
All’esterno, in un cimitero.
Non aveva altra scelta che dirigersi dove poteva, verso la tenda viola non apprezzando
quell’infelice scelta di tinta.
Resistette alla tentazione di utilizzare il tavolo mobile come slitta, mettercisi sopra e andare. Le
sue gambe non rispondevano ancora bene. La sua ultima dormita era stata davvero pesante: così
pesante che i suoi parenti - Mio marito! - avevano pensato che fosse morta.
Decise di procedere camminando confidando su tutta la forza che poteva mettere nei suoi piedi.
Il tragitto sembrò interminabile e ogni movimento le costava fatica e qualche punta di dolore tra
il tallone e il polpaccio.
I crampi della morte!
Quando arrivò alla triste tendina fermò i suoi passi. Un odore strano proveniva da là dentro, un
dentro fiocamente illuminato che sapeva di chiuso e di candeggina.
Che schifo! Sarà il magazzino delle scope.
Scostò il tavolo, adesso riusciva a stare in piedi senza correre il rischio di ruzzolare tra i cadaveri
e le bare. Mosse sempre più sicura i piedi ed entrò.
Dalla luce al neon negli occhi e il linoleum sotto i piedi al tenue bagliore di lampade da studio e
ad un pavimento caldo tipo parquet, un cambiamento che le suggerì credibili ipotesi sulla natura
onirica della sua esperienza.
E desiderò con tutto il suo cuore di trovarsi in un sogno quando vide tre corpi umani appesi a
testa in giù in quella che sembrava una grande doccia da spogliatoio che riversavano a terra liquami
brunastri. Sarebbe difficile descrivere gli odori che le inondarono le narici, perché non aveva mai
sentito nulla di simile prima. Anche ciò che vide fece fatica a ricevere una catalogazione nel suo
cervello, sebbene la parte più fredda della sua mente riconobbe le braccia, le gambe, le natiche, le
teste, i capelli, le lingue, tutte le parti anatomiche dei cadaveri. E la restante parte del suo cervello
non volle accettare che quei corpi fossero appese al soffitto a testa in giù.
Fu allora che la investì l’odore della formaldeide e il puzzo della carne morta coperta dagli
imbarazzanti profumi per l’inumazione.
Sarebbe toccato a me.
Era entrata nel laboratorio del becchino, e questa volta la paura le giocò il brutto tiro di lasciarla
pietrificata lì sul posto tanto da non accorgersi che, oltre ai cadaveri sgocciolanti, c’era qualcun
altro insieme a lei.

	
  

4	
  
Fu un colpo di tosse a farle mancare un battito. Alla sua sinistra una piccola tenda di plastica
segnava l’ingresso di un altro ambiente. Oltre poteva scorgere una sagoma scura muoversi,
interrotta soltanto da leggeri accessi di tosse. Era un uomo, alto, lo capì subito e ringraziò il suo
santo protettore quando si rese conto di poter di nuovo camminare senza dover fare affidamento al
porta-bara.
Scattò via così velocemente che non seppe distinguere la successione degli attimi impiegati a
raggiungere la porta chiusa dell’obitorio. I tentacoli neri del panico avevano avvolto la sua mente
senza permetterle di riflettere sul fatto che battendo e urlando contro la porta chiusa non avrebbe
attirato che l’attenzione dell’uomo sul retro.
Non sono morta! Non sono morta! Non sono morta!
Tra un urlo e l’altro sentii dei passi farsi sempre più vicini. Corse verso il lato opposto della
stanza, arrivò dietro il feretro dell’uomo grasso.
Sembra un ippopotamo a pancia in su.
Si rannicchiò dietro il tavolo e trattenne il fiato. Non sentiva più il suono delle scarpe dalla suola
rigida che battevano il tacco sul pavimento di linoleum. Nel silenzio crescente poteva sentire il
respiro dell’uomo e il suo cuore che batteva all’impazzata – se avesse potuto sarebbe schizzato fuori
dal petto.
Chiuse il busto tra le braccia e piegò la testa in avanti. Solo allora tra silenti lacrime nervose si
rese conto che indossava il suo abito preferito. Glielo aveva regalato sua madre una sera di
novembre di qualche anno prima tra le foglie rosse che decoravano il corso principale della città.
Una vetrina decorata con semplici manichini vestiti e luci argentate le avevano attirate e invitate ad
entrare nella boutique. Passarono quasi un’ora nel negozio, provando, cambiando, rifiutando fino ad
accettare l’idea di comprare quel vestito per entrambe, come due amiche uscite da scuola spinte a
fare la follia del fine settimana. Quando sua madre morì volle farle indossare quel vestito. Suo
fratello aveva acconsentito senza riserve e guardandolo adesso indosso mentre si trovava
nell’anticamera dell’oltre tomba pensò alle lacrime e al dolore che lui, suo marito e i suoi figli
stavano ancora provando. Ripensò a sua figlia. Aveva rischiato di non vederla mai più. Il suo pianto
esplose in un singhiozzo angosciato e lacrime e lamenti non si fermarono nemmeno quando vide,
oltre l’incavo del suo braccio dove aveva nascosto il volto, due scarpe nere, lucide e con dei corti
tacchi maschili color cuoio.
Alzò lo sguardo di scatto, riportata violentemente alla realtà. Una realtà che le stava urlando di
calmarsi, di non preoccuparsi. Davanti a sé poteva trovarsi il becchino o il custode o l’addetto delle
pompe funebri. Non era morta, quindi quell’uomo che aveva potere unicamente su ciò che era
freddo e morto, non poteva nuocerle in alcun modo.
Continuò a piangere provando un misto di sentimenti tra la gioia, la tristezza e la compassione
per i suoi cari angustiati dalla sua morte.
Infine sorrise e rise, piangendo, celebrando così il suo senso di liberazione dall’ombra cupa della
fine.
«Non sono morta!» disse all’uomo alto, magro, con pochi capelli, dagli occhi placidi e infossati,
dagli zigomi sporgenti come se gli avessero tirato la pelle che scavava le guance e permetteva con
troppa facilità di snudare i denti, i lunghi incisivi, a stento coperti da labbra quasi inesistenti. Le
aveva teso delle mani sottili con delle dita lunghe –molto lunghe – per aiutarla ad alzarsi. Indossava
una divisa di qualche onoranza funebre riconoscibile dallo stemma che campeggiava sul taschino
della giacca. Al collo portava una cravatta nera lunga e sottile come le dita di chi la indossava.
L’uomo sorrise e la sincerità di quel gesto spazzò via gli ultimi scetticismi e le ultime paure della
donna.
«No, signora. Lei non è morta.» le disse e la sua voce era leggera, quasi flebile, con un accento
perfetto e asciutto.
Gli si gettò tra le braccia ringraziando lui, il cielo, Dio e, silenziosamente, sua madre. L’uomo
cercò di non scomporsi troppo mentre allontanava con delicatezza e decisione la donna di nuovo in
lacrime.
	
  

5	
  
Con un colpo secco tirò le maniche della giacca verso il basso. «Ho abbastanza esperienza da
saper distinguere un morto da un vivo, e lei non è sicuramente un morto.» Sorrise di nuovo. «Non
posso nascondere la mia perplessità riguardo quanto è accaduto. Lei si è rialzata dal suo feretro e
adesso cammina sulle sue gambe in un luogo che non dovrebbe ospitare qualcuno nella sua
condizione.»
Si guardò intorno come se fosse stata consapevole in quel momento del luogo. «Devo
andarmene» disse rivolta al suo pallido interlocutore.
Lui aveva raggiunto il tavolo vuoto e iniziò a raccogliere le rose cadute sul pavimento.
«Da quel che vedo, in effetti, lei adesso non avrebbe più motivo di rimanere qui.»
«Coma faccio ad uscire? Perché sono qui?»
L’uomo si bloccò, perplesso. I suoi occhi diventarono due fessure e lentamente portò una mano
al mento accarezzandolo.
«Purtroppo è una domanda a cui non so rispondere.»
«Quale…Oh, cristo! Devo chiamare mio marito!»
L’altro continuò a fissarla, senza dire una parola mentre lei sentiva la rabbia prendere il posto
della paura.
«Devo uscire di qui. Apra la porta!» aveva alzato il tono della voce e il suono delle sue parole
entrò in contrasto con l’obitorio stesso. L’eco di quanto pronunciato assunse un che di estraneo. Le
spalle dell’uomo furono scosse da un quasi impercettibile brivido di tensione. Tornò a stendere le
braccia lungo i fianchi.
«Purtroppo è qualcosa che non posso fare.»
Ecco che alla rabbia fece compagnia un’isterica e montante disperazione.
«Anche lei non ha le chiavi?»
Prigioniera…
«Devo uscire!»
Sono prigioniera…
«Ci sarà un’altra porta, no?»
Il volto del “becchino” assunse un’espressione che lei non sapeva distinguere se fosse perplessa
o imbarazzata, forse entrambe.
Annuì.
«Mi segua.»
Si diresse sicuro verso il retro, e il solo pensiero di tornare nella stessa stanza dove tre cadaveri
erano appesi a testa in giù come in uno dei più classici film splatter non le dava alcuna sicurezza. La
sua parte razionale combatteva con le unghie e con i denti contro ogni fibra del suo corpo. “Non
c’era niente di strano, dai.” Diceva a se stessa. “È il suo lavoro: deve essere fatto così”. Tutto
razionalmente valido per lei, ma quando dovette decidersi di varcare di nuovo quella soglia, le si
irrigidirono i muscoli. L’uomo non si voltò a controllare se lo stesse seguendo e tirò dritto
immergendosi nel buio.
«Aspetti!» sentire la propria voce le dava sicurezza e continuò a parlare anche quando decise di
proseguire. «Ma lei lavora qui? È il becchino?»
Nella stanza era tutto come prima, cadaveri, pulegge, attrezzi indistinti e puzza, molta puzza.
Corse dietro l’uomo e lo raggiunse poco prima che alzasse la tenda di plastica.
«Il becchino?» ripeté sempre senza alcuna inflessione nel tono, nessuna emozione. «No, il
becchino dorme a casa sua, poco più avanti. Io lavoro qui quando serve per conto delle onoranze
funebri che mi hanno assunto. Mi prendo cura dei corpi dei morti, li preparo al loro giusto sonno
eterno.»
La tenda fu aperta e lei fu già dentro la stanza, piccola, umida e fredda, prima ancora di
accorgersi degli strumenti chirurgici, dei vasi pieni di formaldeide e di organi umani, del fastidioso
ronzio di quella che poteva essere una macchina per l’imbalsamazione e del tavolo di ferro, vuoto…
e pronto.
Sei prigioniera, idiota….
	
  

6	
  
«Non si esce da qui!» gridò. «Non si esce!»
Spettrale, l’uomo non mosse un muscolo del viso, ma una delle sue mani impugnò una siringa
presa da un ripiano davanti a lui. «No, mi dispiace. Non si esce da vivi dall’obitorio.»
Tornò a urlare sputando sconcezze e parolacce. Tese le braccia per cercare di tenere distante
l’ago della siringa, adesso pericolosamente vicino al suo collo. Non aveva impressione che il suo
assalitore ci mettesse forza, immaginò di poter resistere, ma la siringa invece di allontanarsi era
sempre più vicina.
Non sono morta. Non sono morta.
«NON SONO MORTA!!!»
«No, purtroppo non lo è. È stato commesso un grande errore e devo porre rimedio.» rispose
impassibile e inesorabile come il tramonto ormai passato.
Le braccia non la sorreggevano più e si piegavano come colonne erose dal tempo sotto il peso
del cemento armato. Le fu addossò. Una tarantola sulla sua preda prigioniera e l’ago attraverso la
pelle, scendendo verso la giugulare, mentre con la mano libera le tappava la bocca bagnandosela
delle lacrime che scendevano dagli occhi della sua vittima, la cui coscienza svanì insieme agli
ultimi pensieri sui suoi figli.
Nemmeno una telefonata…
Sognò e le sembrò una cosa stupida. Non aveva mai sognato durante la sua finta morte, quando
forse avrebbe voluto avere qualcosa da vivere anche solo nella sua mente. Adesso invece si trovava
in un mondo opaco, ovattato, pieno di immagini sconnesse e balzi temporali e spaziali improbabili.
Era il sogno febbrile, un delirio. Però anche nel suo viaggio onirico non riusciva a capacitarsi del
perché si trovasse in un cimitero, in pieno giorno: non era morta. Lo continuava a ripetere nel sogno
ad una figura indistinta dietro di lei che la seguiva, nera e calma. Non riusciva a vederne il volto,
non riusciva a focalizzarlo, il suo sguardo scivolava via da lui, sempre avvolto da aria opaca e
spessa. Eppure la seguiva e la voleva. E lei sapeva che aveva dita lunghe che stringevano un
pugnale di argento. Sapeva che aveva i denti aguzzi da piranha. Sapeva che se l’avesse presa lei non
sarebbe tornata mai più a casa. allora correva, correva per fuggirgli. Lo sapeva, alla fine l’avrebbe
presa. Voleva gridare e non poteva. Voleva correre più veloce, ma le era impossibile. Voleva non
guardarsi indietro, non ne aveva bisogno: lo sentiva dietro di lei. Più vicino. Sempre più vicino…
Era convita di risvegliarsi a casa con la tiepida luce del mattino che cercava di infilarsi tra le
fessure della finestra chiusa per la notte. Cercava la sveglia da spegnere. Voleva preoccuparsi di
preparare la colazione ai figli o magari di trovare suo marito accanto a lei, ritornato da un altro
viaggio notturno.
La fredda luce al neon le violò gli occhi semichiusi e pesanti. Dentro quella luce bianca
distingueva la sagoma di una testa ossuta e tagliente. Attraverso l’ovatta che le ottundeva l’udito
sentiva lontani e brevi rintocchi metallici.
Lo farà con le sue mani, non devo essere qui, non posso. La colazione…
Si accorse di raccogliere solo pensieri sconnessi e ordinarli a caso. Forse era diventata pazza.
Sapeva soltanto che il suo cuore batteva e che la sua mente andava sempre verso casa.
Sperò fino all’ultimo che il sogno conquistasse i confini della realtà, relegando l’immagine di
quell’uomo alto e magro, dal volto inespressivo, nei fondali dei suoi incubi.
Quando percepì distintamente il tocco delle sue mani fredde sul braccio volle piangere, e forse lo
fece.
Cercò di muoversi, ma qualcosa la tratteneva, la costringeva a rimanere sdraiata.
Decise di aprire gli occhi. L’uomo la stava guardando mentre muoveva le mani su di lei o su un
tavolo lì accanto. La osservava come se si aspettasse una qualche risposta, era in attesa.
La bocca si mosse a fatica e la lingua si mosse pesante sotto il palato. Parlare non le era stato mai
così difficile e le sembrò lontanissimo e desiderabile il tempo in cui scandiva perfettamente le
parole.
	
  

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«Cosa?» forse avrebbe voluto dire qualcosa di più, ma non ci riuscì.
L’uomo per un attimo forse manifestò una risposta tra le sopracciglia.
«Perché…?» un forte sapore metallico le invase la bocca.
Le parve di scorgere negli occhi dell’altro la consapevolezza degli sforzi che lei stava
compiendo.
Mise con flemma e delicatezza una mano sotto la sua nuca e le alzò la testa quel tanto che
bastava per poi risistemarla su qualcosa di morbido.
«Non dovrebbe affaticarsi troppo nel suo stato.» la voce di lui sempre atona, quasi monotona.
Aveva un nonsoché di vecchio, di stanco. «Se i tessuti del suo corpo si tendono troppo al momento
sbagliato, le storture nella postura permarranno.»
«Ti prego, non lo fare…» poteva muovere solo gli occhi e a ridosso delle palpebre inferiori
vedeva come ad un orizzonte ben misero, l’uomo che era tornato ad armeggiare con i suoi strumenti
di metallo.
Quando tornò a guardarla l’unica espressione che percepì fu quella di una profonda
concentrazione.
«Lei ha commesso un grave reato, signora», disse solenne. «Ha violato la regola più importante
di tutte. È sopravvissuta alla morte.»
«NO! NO! Ti prego!» la paura e tutte le reazioni chimiche che questa scatenava stavano
formicolando sulle braccia e sulle gambe, giù fino ai piedi.
«Forse non le è chiaro.» riprese l’uomo serafico, alzando con una mano guantata di lattice, un
sottile becco simile a quello che si utilizza per gonfiare le gomme alle auto, ma molto più sottile.
…come un ago.
«Le regole sono scritte così da sempre. Nessun uomo o donna o bambino che entra qui sdraiato
nei feretri può tornare indietro verso la vita.»
«Ma io sono viva! VIVA!» scuoteva la testa sperando di scacciare quello strumento, che ne era
certa, le avrebbe infilato dentro.
«Esatto. E i miei padroni non possono permettere che accada una cosa simile. Non sarebbe
vantaggioso per loro, per nessuno, se lei tornasse indietro.»
«Ti prego! Voglio tornare a casa!» sentì il freddo metallo scorrere sul suo braccio. Capì che la
mano le si apriva e chiudeva da sola.
«Il mondo ha accettato la sua dipartita, è giusto che lei stessa rispetti il dolore dei suoi cari e non
infranga la loro funerea certezza della sua morte. Questo è il mio compito, assicurarmi che le leggi
siano rispettate.»
Con violenti colpi del collo e del bacino vedeva la stanza spostarsi insieme a lei. Cercava di
guardare verso i suoi piedi, piegando il mento sul petto e lamentandosi, e piangendo. Da oltre l’orlo
della gonna del suo vestito poteva vedere solo il ginocchio destro alzarsi e abbassarsi nel tentativo
di colpire il suo boia da obitorio.
Si ricordò di sua madre e dei racconti che le avevano fatto di gente, sopravvissuta alla prima
morte, solo per poi essere uccisa nell’obitorio per proteggere i profitti delle imprese di pompe
funebri della città. Suo marito non avrebbe mai permesso che simili criminali avessero potuto
prendersi cura del suo cadavere.
Solo il meglio per me.
Gliel’aveva sempre detto.
«NOOO!» con un colpo di reni riuscì a spostare il peso del suo corpo sul fianco lungo il quale
scendeva il braccio preso di mira da quel fanatico becchino che aveva appena infilato l’ago della
formaldeide.
In quell’istante, forse nel vedere le sue mani particolarmente lunghe e scheletriche o i bulbi
infossati con le orbite decorate da cerchi rossi e due occhi neri come la notte, le tornò alla mente un
altro racconto di sua madre. Un racconto meno prosaico e ugualmente terrificante.
Gli cadde addosso, rovesciando ferri, bottiglie e garze con un urlo da bestia ferita.
Guardamorte…
	
  

8	
  
L’uomo allungò tutte e due le mani verso il collo di lei, sibilando e tossendo schizzi di saliva
nera.
«Tuuu…devi andareee…», gracchiò. «Alla mooorte non si sfuggeee!»
Si sentì sollevata in aria dagli artigli adunchi del suo aggressore ora in piedi, forse anche sospesa
in aria, perché le sembrò che il soffitto fosse più vicino. La fissava, rigido, dal basso con sguardo
inumano, la lingua nera e biforcuta che schioccava tra i denti aguzzi e grigi. Gli occhi ormai
inesistenti.
Le sue mani stringevano.
Le mancava l’aria, e la paura per l’aspetto mostruoso del becchino era nulla in confronto al
pensiero di morire.
Figli miei…
Il mondo intorno a lei si colorò di macchie rosse, gialle, viola e blu e nell’ultimo disperato
tentativo di utilizzare la mani nel cercare di fare qualunque cosa per salvarsi, afferrò una tanica
metallica piena di chissà cosa e riuscì a spingerla verso la faccia del mostro. Non sapeva cosa c’era
dentro, ma l’effetto fu rapido e doloroso, almeno a giudicare dai grugniti del “guardamorte”.
Non cercò di capire. Tossiva violentemente mentre afferrava bisturi e forbici chirurgiche.
L’uomo si copriva il volto con le mani. A terra del liquido maleodorante fumava e corrodeva il
pavimento.
Lo infilzò con tutto quello che aveva in mano, più e più volte, fino a ricoprirsi di un icore nera e
catramosa che andò ad unirsi all’acido cosparso sul pavimento.
Forse sarebbe morta soffocata se la sua paura trasformata ora in furia cieca non l’avesse spinta
ad infierire sul mostruoso “guardamorte”.
Non possono morire…
L’aveva messa in guardia la madre nel raccontare la storia di questi guardiani dell’oltretomba
che si assicuravano come gli uomini non deviassero i loro passi mentre raggiungevano le lande
dell’aldilà.
Hanno potere solo sui morti…
Evidentemente le storie non erano complete e in preda al panico si rese conto che in nessuna di
esse si parlava di sistemi per contrastarli.
Non puoi fermare la morte…
Le energie vennero meno e le braccia diventarono pesanti e rigide come tronchi di legno. Tutto
intorno a sé un mare di liquido oleoso e un fetore di tomba. Il guardamorte era rimasto a terra
rannicchiato su un fianco con le mani sulla faccia e respirava a fatica, rantolando ad ogni
movimento della schiena.
Ne approfittò per fuggire. Il sangue nero e l’acido a terra non resero l’impresa facile. Scivolò e i
vestiti presero a friggere, anche le mani e sotto il mento. Vicino a lei, la pompa ad ago sputava
liquido per l’imbalsamazione
Non riusciva nemmeno più a urlare.
Delle mani artigliate stavano risalendo lungo le sue gambe. Il rauco respiro d’oltretomba si
faceva più vicino.
Alla morte non si sfugge…
Si voltò appena in tempo per vedere il volto sfigurato del guardamorte avvicinarsi alla sua faccia
poco prima che lei riuscisse a infilargli nell’occhio destro lago della pompa di formaldeide.
Ci fu un ululato di dolore che squarciò il manto del silenzio notturno e il mostruoso becchino
inarcò la schiena cercando di sfilarsi l’oggetto dal bulbo oculare.
Non fece in tempo. Il liquido gli inondò il cranio e il suo corpo fu attraversato da uno sciame di
spasimi violenti e gorgoglianti.
La morte non fa sconti a nessuno…
Il becchino si gonfiò come un pallone pompato d’aria più del necessario.
Sarebbe esploso. Meglio stare a guardare ed essere certi che questo accada, pensò. E così fece.
Il becchino eruttò sangue nero e formaldeide. Tutta la stanza cambiò colore.
	
  

9	
  
…ma la morte a volte sbaglia.
La trovarono il giorno dopo, durante il turno di pulizia della mattina. In realtà trovarono prima la
bara vuota e temettero il peggio: il furto di cadavere era una pratica assai diffusa.
Era ancora lì nel laboratorio di inumazione, a terra, svenuta.
Quando riprese i sensi e vide un altro volto estraneo mancò poco che si mise ad urlare per
l’angoscia, ma l’inserviente tunisino capì soltanto che doveva chiamare il prete della cappella del
cimitero. Se un morto era resuscitato, soltanto un uomo di chiesa poteva fare qualcosa.
Nemmeno il prete ci capì molto ed esitò nel gridare al miracolo davanti alla famiglia della donna
accorsa circa un’ora più tardi. Però comprese perfettamente il motivo per cui la donna precipitatasi
tra le braccia del marito e dei figli si fece promettere come prima cosa che in caso di morte (vera o
finta che fosse) l’avrebbero fatta cremare.

Giuseppe Bonaccorso
via Saseo, 58 - 71121 Foggia
giuseppe.bonaccorso83@gmail.com
3209793774
nickname: G.Bonaccorso
link incipit http://scrittevolmente.forumfree.it/?t=66982629
Classe 1983. Attualmente sono ricercatore universitario in Lettere classiche, lavoro come
docente e giornalista. Ho pubblicato un libro di racconti di genere fantastico. Vivo a Foggia
in una stanza ricoperta di libri e i miei autori preferiti sono così tanti che potrei dilungarmi
troppo. Sicuramente penne come quella di Lovecraft, KIng, Dickens e Poe mi hanno
spronato a dedicarmi alla scrittura.
Autorizzo il trattamento dei miei dati personali in base art. 13 del D. Lgs. 196/2003.

	
  

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Il guardamorte

  • 1. Giuseppe Bonaccorso Il guardamorte Il supermercato avrebbe chiuso in anticipo quel giorno e non le era rimasto molto tempo prima che le insegne luminose dei negozi si spegnessero una a una per essere sostituite dagli avvisi dei pub e dei locali notturni. Inoltre doveva ancora andare a prendere Antonio e Camilla in piscina, ma i negozi avrebbero chiuso dopo la lezione di nuoto. Un pensiero incoraggiante nello sconforto che davano le sue preoccupazioni. Doveva essersi addormentata sul divano. Non le era mai successo prima: in più di trent’anni di vita non aveva mai chiuso occhio nemmeno un minuto tra le sette di mattina e le undici di sera. Si dava della sciocca incosciente, la sua dottoressa l’aveva avvisata di probabili effetti collaterali, tra questi proprio la sonnolenza. Se a questo si aggiungevano gli alti ritmi della sua vita, i famarci avevano avuto ragione facile sulle sue abitudini. Ti stai facendo vecchia. Ultimamente se lo ripeteva spesso, dove la parola “ultimamente” copriva l’arco dei cinque anni appena trascorsi, quelli seguiti alla nascita di Camilla, la più piccola delle “pesti”. Da meno di un lustro i due pargoli la sfiancavano, prendendola letteralmente per stanchezza in ogni loro capriccio. Per ogni patatina, per ogni giocattolo anche solo intravisto su una bancarella, per ogni caramella colorata e anche per ogni mimo fermo agli angoli dei marciapiedi, le due pesti assaltavano la pazienza della loro madre con l’arma della lamentela fiancheggiata da lacrime e strilli. Con un marito sempre in viaggio per lavoro, le sue difese avevano visto una continua e inesorabile erosione, culminata con un crollo di nervi tale da essere stata necessaria la visita medica. “Ti stanchi troppo. Sei nervosa e sotto stress.” Le aveva sentenziato la sua amica, la dottoressa Loredana, pronunciando il verdetto come se fosse stata la Verità di un profeta. E sai che novità. Voleva bene a Loredana. Avevano fatto il liceo insieme, erano compagne da una vita, ma quella volta avrebbe voluto farle mangiare il ricettario. Purtroppo il ricettario era servito per prescriverle dei tranquillanti e altri medicinali dai nomi impronunciabili che la donna aveva subito bollato, in via del tutto precauzionale, come “leggeri psicofarmaci”, ma questo non l’aiutò nell’evitare di considerarsi all’ingresso sul lungo viale della pazzia. Fortunatamente sentì lontana la reclusione in qualche manicomio quando i medicinali avevano iniziato a funzionare. Recuperò un po’ di ordine mentale e riuscì a rilassarsi più facilmente la sera oltre che a dormire profondamente durante la notte, tanto da sentirsi molto più riposata quando l’allarme della sveglia le penetrava nel cervello poco dopo l’alba. I medicinali avevano funzionato fin troppo bene. Le sue energie sembravano triplicate. Preparare la colazione si due figli, prepararli per la scuola e l’asilo, andare a fare la spesa e altri servizi domestici, pulire casa, preparare il pranzo per poi uscire e andare a prendere i due “portatori di caos” erano diventate impresa ora alla sua portata. Purtroppo questo era soltanto ciò che accadeva la mattina e forse Loredana non considerò che la giornata fosse composta da due parti, mattina e pomeriggio – la sera non era contemplata nelle sue ripartizioni – e che quest’ultima fosse non meno impegnativa della prima. Andare un’altra volta dalla sua amica dottoressa per farsi prescrivere un raddoppiamento delle dosi era fuori discussione, troppo stress, e le faceva male lo stress. Il ragionamento fu semplice. Se la dose bastava per metà giornata, bastava prenderla due volte per essere coperti fino all’appuntamento televisivo con i suoi programmi serali preferiti. Ancora una volta, bingo. La terapia funzionò e i suoi figli non rappresentarono più una minaccia alla stabilità fisica e mentale.   1  
  • 2. Il pomeriggio tra compiti, merende, passeggiate, incontri con gli amichetti, piscina, appuntamenti a scuola, era diventato più leggero di una lezione di origami e le sue “pesti” nient’altro che degli impegni di routine. Si accorse che qualcosa non andava più per il verso giusto quando rischiò di addormentarsi sul volante mentre attendeva che scattasse il verde. La giornata non era stata particolarmente pesante, soltanto il corso scolastico pomeridiano per Antonio e Camilla e visita agli zii per consegnare, in ritardo, i regali di Natale. Stava tornando verso casa per concludere lo smantellamento del presepe lasciato a metà, quando a quell’incrocio i suoi occhi si chiusero di loro iniziativa, mossi da una volontà ribelle a quella della loro proprietaria. Fu la strombazzata delle macchine in coda a non permetterle di schiacciare il pisolino e a farla saltare sul posto e spingerla ad ingranare la marcia di tutta fretta. Per quanto la paura del momento le fece immaginare la sua auto deragliare dall’autostrada a tutta velocità con a bordo i suoi figli sballottati da una parte all’altra dell’abitacolo mentre lei si era accasciata ad abbracciare l’airbag scambiato per un cuscino, si rese conto che adesso non riusciva a smettere di prendere quelle medicine. La prima controindicazione degli psicofarmaci, anche quelli “leggeri”, era sempre stata la dipendenza. Avrebbe dovuto pensarci prima. Adesso si trovava in ritardo per andare a fare la spesa, con dei figli da prendere in piscina e un marito che sarebbe tornato a casa dalla Francia in poco più di un’ora. La cosa peggiore che avrebbe potuto fare era addormentarsi davanti alla televisione mentre dalla segreteria telefonica gracchiava preoccupata la voce di Loredana che le intimava di farsi sentire. Infatti, la prima cosa che fece fu di allungare la mano per spegnere la tv, ma quando la ritirò si accorse di avere in mano una rosa bianca. Il suo fiore preferito, certo, ma il cui ultimo esemplare di casa aveva gettato, rinsecchito, nella spazzatura almeno tre giorni prima. E poi quelle rose non mi piacevano nemmeno tanto. Rimase a fissare il fiore, mettendone a fuoco i petali piatti e larghi, le spine appena pronunciate – era una rosa giovane – mentre il suo tipico odore pungente le penetrava le narici avendo come unico effetto quello di velocizzare la sua ripresa di conoscenza. Tutto intorno alla rosa era sfocato proprio come gli oggetti di casa che ritraeva quando giocava con la macchina fotografica per poterne pubblicare le foto sui profili del social network. Continuò a fissare la rosa per lungo tempo, nemmeno fosse stata una bomboniera appoggiata su un televisore gettato in una discarica. Non doveva tenere in mano un fiore, non aveva senso. Aveva usurpato il posto al telecomando. Solo in quel momento, anche se non seppe dire quale momento fosse, si accorse della feroce fitta di dolore che le attraversò la testa. Una nera sensazione di nausea le salì su per la gola, e dal suo stomaco si agitavano irrequieti e famelici i succhi gastrici. Una parte del suo cervello pensò che avesse dormito più del necessario e che adesso il suo corpo si risvegliava affamato e le presentava il conto per l’eccessivo tempo passato sul divano. Senza considerare il fatto che la televisione le infastidiva le orecchie con un continuo ronzio. Dove diavolo è il telecomando? Non lo aveva a portata di mano. In pugno stringeva una rosa bianca. Tutt’intorno sembrava non ci fosse niente. Vedeva solo una grande luce oltre petali, una luce che rendeva tutto bianco, surreale. E quelle luci al neon assomigliavano affatto ai nuovi lumi color avorio che aveva comprato prima di Natale e che erano stati l’invidia di tutte le sue amiche, soprattutto delle più spocchiose e tirchie. La faccia che aveva fatto Marilena, infatti, sarebbe stata da fotografare. Chissà dove sarà andata a finire la macchina fotografica. Non c’è nemmeno il telecomando. Decise di prendere una decisione radicale per smuovere la situazione di stallo in cui si trovava.   2  
  • 3. Doveva fare qualcosa, agire, spostarsi, non solo per trovare il telecomando e zittire quel fastidiosissimo ronzio, ma anche perché non sentiva più le gambe, e la cosa era inconcepibile. Lasciò perdere per il momento la rosa bianca e si concentrò sul cercare di mettersi in piedi. Impresa titanica. Le faceva male tutto, sentiva il sangue pulsarle nella testa con il ritmo di un martello pneumatico e dal collo in giù, tutto il suo corpo era attraversato da un feroce formicolio. La testa le pesava, ma forse era la parte del corpo che poteva muovere più liberamente. Infatti, cercò di sollevarla e ci riuscì, ma lo sforzo fu eccessivo e ricadde con la nuca sul…cuscino. Cuscino? A meno che suo marito non l’avesse portata a letto – ma non si spiegava l’assenza dei lumi coloro avorio – o a meno che non l’avesse lasciata sul divano infilandole un guanciale dietro la testa – comportamento comunque preoccupante – non aveva senso il sentire un cuscino. Anche perché sotto le mani non sentiva certo il materasso. Il freddo di un materiale duro e asettico le fece capire di trovarsi su un tavolo. Questo sentì con la mano destra dopo che ebbe lasciato cadere la rosa bianca sul petto. La mano sinistra era scivolata lungo il fianco, passando sull’orlo di una giacca. Ma non dormo vestita. Aveva toccato altri petali, alcune spine, un lungo gambo di una rosa, un’altra. Era uno scherzo, chiaro. O una romanticheria un po’ perversa di mio marito. I fiori erano due, se li guardò, li mise davanti agli occhi che si stavano abituando al forte lucore della stanza. E non sono in camera da letto. Passò del tempo prima che riuscisse a torcere il collo lungo i muscoli anchilosati delle spalle, e quel che vide rischiò di farla impazzire. Altre rose. Sì, mio marito ha esagerato. Oltre ad esse c’era un tavolo, ma non quello della cucina, né tantomeno quello del soggiorno. In realtà non era un tavolo suo perché lei non aveva mai usato il marmo per arredare casa. Sul quel ripiano freddo e bianco dormiva un uomo. Indossava un abito con giacca e camicia, aveva un ventre gonfio e tondeggiante. Le ricordò la testa di una medusa spiaggiata soprattutto perché non respirava. La pancia prominente e flaccida di quell’uomo, barbuto e incanutito, non si muoveva e quella mole di grasso avrebbe dovuto provocare un sordo e fragoroso russare, invece era lì, immobile, simile ad un cadavere. Decise di urlare quando vide sagomare il paffuto dormiente una schiera di tulipani rossi, accesi, e le sue mani gonfie e violacee congiungersi in cima al suo petto immobile. Volle gridare, ma la bocca non rispondeva. Ecco, sto sognando, idiota che sono. Il cervello cercava di dare impulsi al suo diaframma ma sbagliò indirizzo e la mano si mosse con uno scatto rapido e andò ad urtare qualcosa che cadde a terra in un atroce fracasso metallico. Non sapeva perché, era convinta di aver fatto cadere un candelabro che reggeva un cero. Strano, proprio ciò che mi aspetterei di trovare in un obitorio. Ci manca soltanto la mia bara. Si accorse che quella bara c’era e che lei vi era sdraiata dentro. Il suo respiro esplose. Partì dai polmoni, risalì per la trachea e, quando urtò le corde vocali, dalla bocca uscì un urlo. Le membra del corpo vennero attraversate da scariche di paura, non quella paura dettata dall’angoscia di un’attesa, la paura capace di inchiodare qualcuno sul posto di farlo sudare e piangere. La sua era la paura disgustata, alimentata dalla minaccia mai considerata che ti spinge a fuggire lontano, a scappare con gli occhi chiusi. Infatti scappò. Saltò giù dal suo sepolcro, schiacciando rose, fotografie, lettere e poesie di commiato. Gettò le gambe oltre il bordo della bara e urtò un tavolo di metallo vuoto.   3  
  • 4. Non fece bene i calcoli della distanza che la separava dal pavimento, mise male il piede e inciampò. Riuscì ad aggrapparsi ad una delle gambe del tavolo che le stava di fronte, ma le ruote su cui si reggeva scivolarono, ben oliate, sotto sul suo peso e lei dovette sforzarsi il doppio per evitare di cadere distesa sul pavimento di linoleum. A volte l’efficienza può essere un serio ostacolo alla creatività. Si resse e lentamente assunse una posizione abbastanza eretta da permettergli di camminare. Le gambe erano intorpidite e il formicolio che adesso le tormentava era accompagnato da fitte di fastidioso dolore. Lentamente utilizzò il tavolo mobile per spostarsi. Intorno non c’era nulla a parte il cadavere dell’uomo grasso e due porte, una chiusa, quella che dava all’esterno. I piedi strisciavano sul pavimento e quell’appoggio improvvisato rischiava di andarsene per conto suo con la conseguenza di farle mancare la presa e l’equilibrio. Evitò di cadere per due volte, alla terza si trovò abbastanza vicina alla porta d’ingresso da decidere di gettarsi sulla maniglia. Chiusa. Adesso sentiva crescere il panico. L’altra porta era aperta, anzi non aveva usci, soltanto una sottile tenda viola le impediva di vedere cosa ci fosse aldilà della soglia, ma non credeva si trattasse di un’uscita. Da lì non proveniva alcun rumore, l’unico suono che la accompagnava era lo stridio degli animali notturni che giungeva ovattato dall’esterno. All’esterno, in un cimitero. Non aveva altra scelta che dirigersi dove poteva, verso la tenda viola non apprezzando quell’infelice scelta di tinta. Resistette alla tentazione di utilizzare il tavolo mobile come slitta, mettercisi sopra e andare. Le sue gambe non rispondevano ancora bene. La sua ultima dormita era stata davvero pesante: così pesante che i suoi parenti - Mio marito! - avevano pensato che fosse morta. Decise di procedere camminando confidando su tutta la forza che poteva mettere nei suoi piedi. Il tragitto sembrò interminabile e ogni movimento le costava fatica e qualche punta di dolore tra il tallone e il polpaccio. I crampi della morte! Quando arrivò alla triste tendina fermò i suoi passi. Un odore strano proveniva da là dentro, un dentro fiocamente illuminato che sapeva di chiuso e di candeggina. Che schifo! Sarà il magazzino delle scope. Scostò il tavolo, adesso riusciva a stare in piedi senza correre il rischio di ruzzolare tra i cadaveri e le bare. Mosse sempre più sicura i piedi ed entrò. Dalla luce al neon negli occhi e il linoleum sotto i piedi al tenue bagliore di lampade da studio e ad un pavimento caldo tipo parquet, un cambiamento che le suggerì credibili ipotesi sulla natura onirica della sua esperienza. E desiderò con tutto il suo cuore di trovarsi in un sogno quando vide tre corpi umani appesi a testa in giù in quella che sembrava una grande doccia da spogliatoio che riversavano a terra liquami brunastri. Sarebbe difficile descrivere gli odori che le inondarono le narici, perché non aveva mai sentito nulla di simile prima. Anche ciò che vide fece fatica a ricevere una catalogazione nel suo cervello, sebbene la parte più fredda della sua mente riconobbe le braccia, le gambe, le natiche, le teste, i capelli, le lingue, tutte le parti anatomiche dei cadaveri. E la restante parte del suo cervello non volle accettare che quei corpi fossero appese al soffitto a testa in giù. Fu allora che la investì l’odore della formaldeide e il puzzo della carne morta coperta dagli imbarazzanti profumi per l’inumazione. Sarebbe toccato a me. Era entrata nel laboratorio del becchino, e questa volta la paura le giocò il brutto tiro di lasciarla pietrificata lì sul posto tanto da non accorgersi che, oltre ai cadaveri sgocciolanti, c’era qualcun altro insieme a lei.   4  
  • 5. Fu un colpo di tosse a farle mancare un battito. Alla sua sinistra una piccola tenda di plastica segnava l’ingresso di un altro ambiente. Oltre poteva scorgere una sagoma scura muoversi, interrotta soltanto da leggeri accessi di tosse. Era un uomo, alto, lo capì subito e ringraziò il suo santo protettore quando si rese conto di poter di nuovo camminare senza dover fare affidamento al porta-bara. Scattò via così velocemente che non seppe distinguere la successione degli attimi impiegati a raggiungere la porta chiusa dell’obitorio. I tentacoli neri del panico avevano avvolto la sua mente senza permetterle di riflettere sul fatto che battendo e urlando contro la porta chiusa non avrebbe attirato che l’attenzione dell’uomo sul retro. Non sono morta! Non sono morta! Non sono morta! Tra un urlo e l’altro sentii dei passi farsi sempre più vicini. Corse verso il lato opposto della stanza, arrivò dietro il feretro dell’uomo grasso. Sembra un ippopotamo a pancia in su. Si rannicchiò dietro il tavolo e trattenne il fiato. Non sentiva più il suono delle scarpe dalla suola rigida che battevano il tacco sul pavimento di linoleum. Nel silenzio crescente poteva sentire il respiro dell’uomo e il suo cuore che batteva all’impazzata – se avesse potuto sarebbe schizzato fuori dal petto. Chiuse il busto tra le braccia e piegò la testa in avanti. Solo allora tra silenti lacrime nervose si rese conto che indossava il suo abito preferito. Glielo aveva regalato sua madre una sera di novembre di qualche anno prima tra le foglie rosse che decoravano il corso principale della città. Una vetrina decorata con semplici manichini vestiti e luci argentate le avevano attirate e invitate ad entrare nella boutique. Passarono quasi un’ora nel negozio, provando, cambiando, rifiutando fino ad accettare l’idea di comprare quel vestito per entrambe, come due amiche uscite da scuola spinte a fare la follia del fine settimana. Quando sua madre morì volle farle indossare quel vestito. Suo fratello aveva acconsentito senza riserve e guardandolo adesso indosso mentre si trovava nell’anticamera dell’oltre tomba pensò alle lacrime e al dolore che lui, suo marito e i suoi figli stavano ancora provando. Ripensò a sua figlia. Aveva rischiato di non vederla mai più. Il suo pianto esplose in un singhiozzo angosciato e lacrime e lamenti non si fermarono nemmeno quando vide, oltre l’incavo del suo braccio dove aveva nascosto il volto, due scarpe nere, lucide e con dei corti tacchi maschili color cuoio. Alzò lo sguardo di scatto, riportata violentemente alla realtà. Una realtà che le stava urlando di calmarsi, di non preoccuparsi. Davanti a sé poteva trovarsi il becchino o il custode o l’addetto delle pompe funebri. Non era morta, quindi quell’uomo che aveva potere unicamente su ciò che era freddo e morto, non poteva nuocerle in alcun modo. Continuò a piangere provando un misto di sentimenti tra la gioia, la tristezza e la compassione per i suoi cari angustiati dalla sua morte. Infine sorrise e rise, piangendo, celebrando così il suo senso di liberazione dall’ombra cupa della fine. «Non sono morta!» disse all’uomo alto, magro, con pochi capelli, dagli occhi placidi e infossati, dagli zigomi sporgenti come se gli avessero tirato la pelle che scavava le guance e permetteva con troppa facilità di snudare i denti, i lunghi incisivi, a stento coperti da labbra quasi inesistenti. Le aveva teso delle mani sottili con delle dita lunghe –molto lunghe – per aiutarla ad alzarsi. Indossava una divisa di qualche onoranza funebre riconoscibile dallo stemma che campeggiava sul taschino della giacca. Al collo portava una cravatta nera lunga e sottile come le dita di chi la indossava. L’uomo sorrise e la sincerità di quel gesto spazzò via gli ultimi scetticismi e le ultime paure della donna. «No, signora. Lei non è morta.» le disse e la sua voce era leggera, quasi flebile, con un accento perfetto e asciutto. Gli si gettò tra le braccia ringraziando lui, il cielo, Dio e, silenziosamente, sua madre. L’uomo cercò di non scomporsi troppo mentre allontanava con delicatezza e decisione la donna di nuovo in lacrime.   5  
  • 6. Con un colpo secco tirò le maniche della giacca verso il basso. «Ho abbastanza esperienza da saper distinguere un morto da un vivo, e lei non è sicuramente un morto.» Sorrise di nuovo. «Non posso nascondere la mia perplessità riguardo quanto è accaduto. Lei si è rialzata dal suo feretro e adesso cammina sulle sue gambe in un luogo che non dovrebbe ospitare qualcuno nella sua condizione.» Si guardò intorno come se fosse stata consapevole in quel momento del luogo. «Devo andarmene» disse rivolta al suo pallido interlocutore. Lui aveva raggiunto il tavolo vuoto e iniziò a raccogliere le rose cadute sul pavimento. «Da quel che vedo, in effetti, lei adesso non avrebbe più motivo di rimanere qui.» «Coma faccio ad uscire? Perché sono qui?» L’uomo si bloccò, perplesso. I suoi occhi diventarono due fessure e lentamente portò una mano al mento accarezzandolo. «Purtroppo è una domanda a cui non so rispondere.» «Quale…Oh, cristo! Devo chiamare mio marito!» L’altro continuò a fissarla, senza dire una parola mentre lei sentiva la rabbia prendere il posto della paura. «Devo uscire di qui. Apra la porta!» aveva alzato il tono della voce e il suono delle sue parole entrò in contrasto con l’obitorio stesso. L’eco di quanto pronunciato assunse un che di estraneo. Le spalle dell’uomo furono scosse da un quasi impercettibile brivido di tensione. Tornò a stendere le braccia lungo i fianchi. «Purtroppo è qualcosa che non posso fare.» Ecco che alla rabbia fece compagnia un’isterica e montante disperazione. «Anche lei non ha le chiavi?» Prigioniera… «Devo uscire!» Sono prigioniera… «Ci sarà un’altra porta, no?» Il volto del “becchino” assunse un’espressione che lei non sapeva distinguere se fosse perplessa o imbarazzata, forse entrambe. Annuì. «Mi segua.» Si diresse sicuro verso il retro, e il solo pensiero di tornare nella stessa stanza dove tre cadaveri erano appesi a testa in giù come in uno dei più classici film splatter non le dava alcuna sicurezza. La sua parte razionale combatteva con le unghie e con i denti contro ogni fibra del suo corpo. “Non c’era niente di strano, dai.” Diceva a se stessa. “È il suo lavoro: deve essere fatto così”. Tutto razionalmente valido per lei, ma quando dovette decidersi di varcare di nuovo quella soglia, le si irrigidirono i muscoli. L’uomo non si voltò a controllare se lo stesse seguendo e tirò dritto immergendosi nel buio. «Aspetti!» sentire la propria voce le dava sicurezza e continuò a parlare anche quando decise di proseguire. «Ma lei lavora qui? È il becchino?» Nella stanza era tutto come prima, cadaveri, pulegge, attrezzi indistinti e puzza, molta puzza. Corse dietro l’uomo e lo raggiunse poco prima che alzasse la tenda di plastica. «Il becchino?» ripeté sempre senza alcuna inflessione nel tono, nessuna emozione. «No, il becchino dorme a casa sua, poco più avanti. Io lavoro qui quando serve per conto delle onoranze funebri che mi hanno assunto. Mi prendo cura dei corpi dei morti, li preparo al loro giusto sonno eterno.» La tenda fu aperta e lei fu già dentro la stanza, piccola, umida e fredda, prima ancora di accorgersi degli strumenti chirurgici, dei vasi pieni di formaldeide e di organi umani, del fastidioso ronzio di quella che poteva essere una macchina per l’imbalsamazione e del tavolo di ferro, vuoto… e pronto. Sei prigioniera, idiota….   6  
  • 7. «Non si esce da qui!» gridò. «Non si esce!» Spettrale, l’uomo non mosse un muscolo del viso, ma una delle sue mani impugnò una siringa presa da un ripiano davanti a lui. «No, mi dispiace. Non si esce da vivi dall’obitorio.» Tornò a urlare sputando sconcezze e parolacce. Tese le braccia per cercare di tenere distante l’ago della siringa, adesso pericolosamente vicino al suo collo. Non aveva impressione che il suo assalitore ci mettesse forza, immaginò di poter resistere, ma la siringa invece di allontanarsi era sempre più vicina. Non sono morta. Non sono morta. «NON SONO MORTA!!!» «No, purtroppo non lo è. È stato commesso un grande errore e devo porre rimedio.» rispose impassibile e inesorabile come il tramonto ormai passato. Le braccia non la sorreggevano più e si piegavano come colonne erose dal tempo sotto il peso del cemento armato. Le fu addossò. Una tarantola sulla sua preda prigioniera e l’ago attraverso la pelle, scendendo verso la giugulare, mentre con la mano libera le tappava la bocca bagnandosela delle lacrime che scendevano dagli occhi della sua vittima, la cui coscienza svanì insieme agli ultimi pensieri sui suoi figli. Nemmeno una telefonata… Sognò e le sembrò una cosa stupida. Non aveva mai sognato durante la sua finta morte, quando forse avrebbe voluto avere qualcosa da vivere anche solo nella sua mente. Adesso invece si trovava in un mondo opaco, ovattato, pieno di immagini sconnesse e balzi temporali e spaziali improbabili. Era il sogno febbrile, un delirio. Però anche nel suo viaggio onirico non riusciva a capacitarsi del perché si trovasse in un cimitero, in pieno giorno: non era morta. Lo continuava a ripetere nel sogno ad una figura indistinta dietro di lei che la seguiva, nera e calma. Non riusciva a vederne il volto, non riusciva a focalizzarlo, il suo sguardo scivolava via da lui, sempre avvolto da aria opaca e spessa. Eppure la seguiva e la voleva. E lei sapeva che aveva dita lunghe che stringevano un pugnale di argento. Sapeva che aveva i denti aguzzi da piranha. Sapeva che se l’avesse presa lei non sarebbe tornata mai più a casa. allora correva, correva per fuggirgli. Lo sapeva, alla fine l’avrebbe presa. Voleva gridare e non poteva. Voleva correre più veloce, ma le era impossibile. Voleva non guardarsi indietro, non ne aveva bisogno: lo sentiva dietro di lei. Più vicino. Sempre più vicino… Era convita di risvegliarsi a casa con la tiepida luce del mattino che cercava di infilarsi tra le fessure della finestra chiusa per la notte. Cercava la sveglia da spegnere. Voleva preoccuparsi di preparare la colazione ai figli o magari di trovare suo marito accanto a lei, ritornato da un altro viaggio notturno. La fredda luce al neon le violò gli occhi semichiusi e pesanti. Dentro quella luce bianca distingueva la sagoma di una testa ossuta e tagliente. Attraverso l’ovatta che le ottundeva l’udito sentiva lontani e brevi rintocchi metallici. Lo farà con le sue mani, non devo essere qui, non posso. La colazione… Si accorse di raccogliere solo pensieri sconnessi e ordinarli a caso. Forse era diventata pazza. Sapeva soltanto che il suo cuore batteva e che la sua mente andava sempre verso casa. Sperò fino all’ultimo che il sogno conquistasse i confini della realtà, relegando l’immagine di quell’uomo alto e magro, dal volto inespressivo, nei fondali dei suoi incubi. Quando percepì distintamente il tocco delle sue mani fredde sul braccio volle piangere, e forse lo fece. Cercò di muoversi, ma qualcosa la tratteneva, la costringeva a rimanere sdraiata. Decise di aprire gli occhi. L’uomo la stava guardando mentre muoveva le mani su di lei o su un tavolo lì accanto. La osservava come se si aspettasse una qualche risposta, era in attesa. La bocca si mosse a fatica e la lingua si mosse pesante sotto il palato. Parlare non le era stato mai così difficile e le sembrò lontanissimo e desiderabile il tempo in cui scandiva perfettamente le parole.   7  
  • 8. «Cosa?» forse avrebbe voluto dire qualcosa di più, ma non ci riuscì. L’uomo per un attimo forse manifestò una risposta tra le sopracciglia. «Perché…?» un forte sapore metallico le invase la bocca. Le parve di scorgere negli occhi dell’altro la consapevolezza degli sforzi che lei stava compiendo. Mise con flemma e delicatezza una mano sotto la sua nuca e le alzò la testa quel tanto che bastava per poi risistemarla su qualcosa di morbido. «Non dovrebbe affaticarsi troppo nel suo stato.» la voce di lui sempre atona, quasi monotona. Aveva un nonsoché di vecchio, di stanco. «Se i tessuti del suo corpo si tendono troppo al momento sbagliato, le storture nella postura permarranno.» «Ti prego, non lo fare…» poteva muovere solo gli occhi e a ridosso delle palpebre inferiori vedeva come ad un orizzonte ben misero, l’uomo che era tornato ad armeggiare con i suoi strumenti di metallo. Quando tornò a guardarla l’unica espressione che percepì fu quella di una profonda concentrazione. «Lei ha commesso un grave reato, signora», disse solenne. «Ha violato la regola più importante di tutte. È sopravvissuta alla morte.» «NO! NO! Ti prego!» la paura e tutte le reazioni chimiche che questa scatenava stavano formicolando sulle braccia e sulle gambe, giù fino ai piedi. «Forse non le è chiaro.» riprese l’uomo serafico, alzando con una mano guantata di lattice, un sottile becco simile a quello che si utilizza per gonfiare le gomme alle auto, ma molto più sottile. …come un ago. «Le regole sono scritte così da sempre. Nessun uomo o donna o bambino che entra qui sdraiato nei feretri può tornare indietro verso la vita.» «Ma io sono viva! VIVA!» scuoteva la testa sperando di scacciare quello strumento, che ne era certa, le avrebbe infilato dentro. «Esatto. E i miei padroni non possono permettere che accada una cosa simile. Non sarebbe vantaggioso per loro, per nessuno, se lei tornasse indietro.» «Ti prego! Voglio tornare a casa!» sentì il freddo metallo scorrere sul suo braccio. Capì che la mano le si apriva e chiudeva da sola. «Il mondo ha accettato la sua dipartita, è giusto che lei stessa rispetti il dolore dei suoi cari e non infranga la loro funerea certezza della sua morte. Questo è il mio compito, assicurarmi che le leggi siano rispettate.» Con violenti colpi del collo e del bacino vedeva la stanza spostarsi insieme a lei. Cercava di guardare verso i suoi piedi, piegando il mento sul petto e lamentandosi, e piangendo. Da oltre l’orlo della gonna del suo vestito poteva vedere solo il ginocchio destro alzarsi e abbassarsi nel tentativo di colpire il suo boia da obitorio. Si ricordò di sua madre e dei racconti che le avevano fatto di gente, sopravvissuta alla prima morte, solo per poi essere uccisa nell’obitorio per proteggere i profitti delle imprese di pompe funebri della città. Suo marito non avrebbe mai permesso che simili criminali avessero potuto prendersi cura del suo cadavere. Solo il meglio per me. Gliel’aveva sempre detto. «NOOO!» con un colpo di reni riuscì a spostare il peso del suo corpo sul fianco lungo il quale scendeva il braccio preso di mira da quel fanatico becchino che aveva appena infilato l’ago della formaldeide. In quell’istante, forse nel vedere le sue mani particolarmente lunghe e scheletriche o i bulbi infossati con le orbite decorate da cerchi rossi e due occhi neri come la notte, le tornò alla mente un altro racconto di sua madre. Un racconto meno prosaico e ugualmente terrificante. Gli cadde addosso, rovesciando ferri, bottiglie e garze con un urlo da bestia ferita. Guardamorte…   8  
  • 9. L’uomo allungò tutte e due le mani verso il collo di lei, sibilando e tossendo schizzi di saliva nera. «Tuuu…devi andareee…», gracchiò. «Alla mooorte non si sfuggeee!» Si sentì sollevata in aria dagli artigli adunchi del suo aggressore ora in piedi, forse anche sospesa in aria, perché le sembrò che il soffitto fosse più vicino. La fissava, rigido, dal basso con sguardo inumano, la lingua nera e biforcuta che schioccava tra i denti aguzzi e grigi. Gli occhi ormai inesistenti. Le sue mani stringevano. Le mancava l’aria, e la paura per l’aspetto mostruoso del becchino era nulla in confronto al pensiero di morire. Figli miei… Il mondo intorno a lei si colorò di macchie rosse, gialle, viola e blu e nell’ultimo disperato tentativo di utilizzare la mani nel cercare di fare qualunque cosa per salvarsi, afferrò una tanica metallica piena di chissà cosa e riuscì a spingerla verso la faccia del mostro. Non sapeva cosa c’era dentro, ma l’effetto fu rapido e doloroso, almeno a giudicare dai grugniti del “guardamorte”. Non cercò di capire. Tossiva violentemente mentre afferrava bisturi e forbici chirurgiche. L’uomo si copriva il volto con le mani. A terra del liquido maleodorante fumava e corrodeva il pavimento. Lo infilzò con tutto quello che aveva in mano, più e più volte, fino a ricoprirsi di un icore nera e catramosa che andò ad unirsi all’acido cosparso sul pavimento. Forse sarebbe morta soffocata se la sua paura trasformata ora in furia cieca non l’avesse spinta ad infierire sul mostruoso “guardamorte”. Non possono morire… L’aveva messa in guardia la madre nel raccontare la storia di questi guardiani dell’oltretomba che si assicuravano come gli uomini non deviassero i loro passi mentre raggiungevano le lande dell’aldilà. Hanno potere solo sui morti… Evidentemente le storie non erano complete e in preda al panico si rese conto che in nessuna di esse si parlava di sistemi per contrastarli. Non puoi fermare la morte… Le energie vennero meno e le braccia diventarono pesanti e rigide come tronchi di legno. Tutto intorno a sé un mare di liquido oleoso e un fetore di tomba. Il guardamorte era rimasto a terra rannicchiato su un fianco con le mani sulla faccia e respirava a fatica, rantolando ad ogni movimento della schiena. Ne approfittò per fuggire. Il sangue nero e l’acido a terra non resero l’impresa facile. Scivolò e i vestiti presero a friggere, anche le mani e sotto il mento. Vicino a lei, la pompa ad ago sputava liquido per l’imbalsamazione Non riusciva nemmeno più a urlare. Delle mani artigliate stavano risalendo lungo le sue gambe. Il rauco respiro d’oltretomba si faceva più vicino. Alla morte non si sfugge… Si voltò appena in tempo per vedere il volto sfigurato del guardamorte avvicinarsi alla sua faccia poco prima che lei riuscisse a infilargli nell’occhio destro lago della pompa di formaldeide. Ci fu un ululato di dolore che squarciò il manto del silenzio notturno e il mostruoso becchino inarcò la schiena cercando di sfilarsi l’oggetto dal bulbo oculare. Non fece in tempo. Il liquido gli inondò il cranio e il suo corpo fu attraversato da uno sciame di spasimi violenti e gorgoglianti. La morte non fa sconti a nessuno… Il becchino si gonfiò come un pallone pompato d’aria più del necessario. Sarebbe esploso. Meglio stare a guardare ed essere certi che questo accada, pensò. E così fece. Il becchino eruttò sangue nero e formaldeide. Tutta la stanza cambiò colore.   9  
  • 10. …ma la morte a volte sbaglia. La trovarono il giorno dopo, durante il turno di pulizia della mattina. In realtà trovarono prima la bara vuota e temettero il peggio: il furto di cadavere era una pratica assai diffusa. Era ancora lì nel laboratorio di inumazione, a terra, svenuta. Quando riprese i sensi e vide un altro volto estraneo mancò poco che si mise ad urlare per l’angoscia, ma l’inserviente tunisino capì soltanto che doveva chiamare il prete della cappella del cimitero. Se un morto era resuscitato, soltanto un uomo di chiesa poteva fare qualcosa. Nemmeno il prete ci capì molto ed esitò nel gridare al miracolo davanti alla famiglia della donna accorsa circa un’ora più tardi. Però comprese perfettamente il motivo per cui la donna precipitatasi tra le braccia del marito e dei figli si fece promettere come prima cosa che in caso di morte (vera o finta che fosse) l’avrebbero fatta cremare. Giuseppe Bonaccorso via Saseo, 58 - 71121 Foggia giuseppe.bonaccorso83@gmail.com 3209793774 nickname: G.Bonaccorso link incipit http://scrittevolmente.forumfree.it/?t=66982629 Classe 1983. Attualmente sono ricercatore universitario in Lettere classiche, lavoro come docente e giornalista. Ho pubblicato un libro di racconti di genere fantastico. Vivo a Foggia in una stanza ricoperta di libri e i miei autori preferiti sono così tanti che potrei dilungarmi troppo. Sicuramente penne come quella di Lovecraft, KIng, Dickens e Poe mi hanno spronato a dedicarmi alla scrittura. Autorizzo il trattamento dei miei dati personali in base art. 13 del D. Lgs. 196/2003.   10