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Alef Lam Mim. C’era una volta una casa,
una casa antica, che si chiamava “la casa
della moschea”.
Era una grande casa, con trentacinque
stanze. Lì, per secoli, famiglie dello stesso
sangue avevano vissuto al servizio della
moschea.
Ogni stanza aveva una funzione e un nome
corrispondente a quella funzione, come la
stanza della cupola, la stanza dell’oppio, la
stanza dei racconti, la stanza dei tappeti, la
stanza dei malati, la stanza delle nonne, la
biblioteca e la stanza del corvo.
Dalle vecchie mura era sbucato un gran numero
di formiche che coprivano il marciapiede davanti
al vecchio cedro, come un tappeto marrone
ondeggiante.
Migliaia di giovani formiche che non avevano
mai visto il sole e sentivano per la prima volta il
suo calore sulla schiena, si accalcavano una
all’altra.
I gatti di casa, stesi accanto alla howz,
osservavano stupiti da lontano quella massa
ambulante. I bambini smisero di giocare per
guardare incantati quel prodigio semovente che
si spostava sul marciapiede. Anche gli uccelli
non cantavano più e dai rami del melograno
allungavano il collo per seguire le formiche. […]
La massa di formiche aumentava di secondo in
secondo e aveva invaso tutto il marciapiede.
Il bazar è una città nella città; un’area chiusa
cui si può accedere da diverse porte. Un dedalo
di strade coperte da tetti a forma di cupola.
Centinaia di piccoli negozi addossati l’uno
all’altro.
Nel corso dei secoli i bazar erano diventati il
fulcro economico del paese. I loro negozi
ospitavano migliaia di commercianti, che
vendevano per lo più stoffe, oro, granaglie,
tappeti e metalli lavorati. Erano soprattutto i
mercanti di tappeti ad aver sempre svolto un
ruolo cruciale nella storia del paese.
“Questa sera l’uomo sbarcherà sulla luna e voi
non sapete niente. Forse per voi non è
importante, e nemmeno per Alsaberi. Ma gli
americani vogliono piantare la loro bandiera sul
suolo della luna e l’imam della città non lo sa.
Non ne ha parlato nella sua predica. Avrebbe
dovuto dire qualcosa stasera, e invece non ne sa
niente. E questo non è un bene per la nostra
moschea. In moschea bisogna parlare delle cose
che succedono al mondo.”
Lo scià, era tutta colpa dello scià e degli
americani. La cultura americana invadeva le
case attraverso la radio, la televisione e il
cinema. Il regime faceva di tutto per
allontanare i giovani dalle moschee e
trasformarli in sostenitori dello scià e delle
sue idee.
Lo scià aveva proclamato una “Rivoluzione
bianca”. Aveva fatto pubblicare un libricino in
cui parlava dei suoi ideali per la patria.
Voleva combattere l’analfabetismo e quindi
mandava giovani donne a lavorare come
insegnanti nei villaggi. Donne che si
toglievano il chador, mettevano un berretto e
si arrampicavano sulle montagne come
soldati dello scià, per costruire scuole anche
nei villaggi più isolati.
Il giorno della tammuz era un giorno importante
per la famiglia. Era anche un giorno importante
per il bazar e il commercio nazionale dei tappeti.
Quel giorno Faqri Sadat e le nonne restavano a
casa a catturare gli uccelli.
La casa traeva ispirazione dalle penne degli
uccelli migratori per i colori e i disegni dei
tappeti. Nessuno sapeva dove Aga Jan trovasse
gli impareggiabili motivi dei suoi tappeti e come
inventasse quel meraviglioso miscuglio di colori.
Era il segreto della casa.
L’imam estrasse una busta
aperta dalla tasca della sua
veste, tirò fuori un foglio, lo
spiegò con cura e cominciò a
leggere: “Nel nome di Allah, che
punisce senza misericordia i
peccatori che non ascoltano la
Sua parola.
Nel nome dell’ayatollah supremo
Khomeini.
Il tribunale islamico ha stabilito
che a partire da questo momento
la famiglia Ghaemmaghani
Farahani si privata a tempo
indeterminato di qualsiasi
autorità sulla moschea Jom’e
della città di Senjan!”
Da quando le nonne erano
partite, era iniziata una nuova
fase nella vita della casa. Il
ritmo che loro avevano
impresso alla casa non
esisteva più.
Lo si capiva dalla vecchia
pendola, che all’improvviso si
era fermata. Finché c’erano
loro, la cucina era piena di
vita, il corvo della moschea
gracchiava ogni volta che
arrivava qualcuno e la
biblioteca era sempre in
ordine, ma quell’epoca era
chiaramente passata.
Aga Jan era andato a prendere la salma di Javad,
che adesso era nel furgoncino davanti al portone.
Faqri Sadat era alla finestra e guardava in cortile,
dove Muezzin camminava nervosamente avanti e
indietro. Immobile, nella cornice della finestra,
sembrava una foto in bianco e nero, la foto di una
mater dolorosa.
Secondo l’usanza persiana avrebbe dovuto piangere
e urlare, battersi la testa e strapparsi i capelli. Le
donne sarebbero accorse, le avrebbero preso le
mani e avrebbero pianto insieme a lei. Ma tutto
questo era proibito adesso. Non potevano mostrare
a nessuno il loro dolore.
Alef Lam Mim Ra. Trascorsero gli anni e il dolore della casa cresceva come un
albero nel giardino. Da tempo gli ostaggi americani dormivano di nuovo nei loro
letti, nelle loro case. Khomeini era morto.
La guerra era finita e l’America, che nonostante l’aiuto di Saddam non era
riuscita a raggiungere i suoi obiettivi, aveva riportato a terra i suoi aerei spia.
Gli uccelli migratori continuavano ad arrivare in città e a volare sopra la casa
della moschea. Ma non trovando più alcun cibo, proseguivano il loro volo.
La storia della casa della moschea è lungi
dall’essere conclusa, ma è come la vita: ognuno
deve pur scendere da qualche parte.
C’è una frase che ritorna sempre alla fine degli
antichi racconti persiani. “La nostra storia è finita,
ma il corvo è lungi dall’aver raggiunto il suo nido”.

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  • 1. Alef Lam Mim. C’era una volta una casa, una casa antica, che si chiamava “la casa della moschea”. Era una grande casa, con trentacinque stanze. Lì, per secoli, famiglie dello stesso sangue avevano vissuto al servizio della moschea. Ogni stanza aveva una funzione e un nome corrispondente a quella funzione, come la stanza della cupola, la stanza dell’oppio, la stanza dei racconti, la stanza dei tappeti, la stanza dei malati, la stanza delle nonne, la biblioteca e la stanza del corvo.
  • 2. Dalle vecchie mura era sbucato un gran numero di formiche che coprivano il marciapiede davanti al vecchio cedro, come un tappeto marrone ondeggiante. Migliaia di giovani formiche che non avevano mai visto il sole e sentivano per la prima volta il suo calore sulla schiena, si accalcavano una all’altra. I gatti di casa, stesi accanto alla howz, osservavano stupiti da lontano quella massa ambulante. I bambini smisero di giocare per guardare incantati quel prodigio semovente che si spostava sul marciapiede. Anche gli uccelli non cantavano più e dai rami del melograno allungavano il collo per seguire le formiche. […] La massa di formiche aumentava di secondo in secondo e aveva invaso tutto il marciapiede.
  • 3. Il bazar è una città nella città; un’area chiusa cui si può accedere da diverse porte. Un dedalo di strade coperte da tetti a forma di cupola. Centinaia di piccoli negozi addossati l’uno all’altro. Nel corso dei secoli i bazar erano diventati il fulcro economico del paese. I loro negozi ospitavano migliaia di commercianti, che vendevano per lo più stoffe, oro, granaglie, tappeti e metalli lavorati. Erano soprattutto i mercanti di tappeti ad aver sempre svolto un ruolo cruciale nella storia del paese. “Questa sera l’uomo sbarcherà sulla luna e voi non sapete niente. Forse per voi non è importante, e nemmeno per Alsaberi. Ma gli americani vogliono piantare la loro bandiera sul suolo della luna e l’imam della città non lo sa. Non ne ha parlato nella sua predica. Avrebbe dovuto dire qualcosa stasera, e invece non ne sa niente. E questo non è un bene per la nostra moschea. In moschea bisogna parlare delle cose che succedono al mondo.”
  • 4. Lo scià, era tutta colpa dello scià e degli americani. La cultura americana invadeva le case attraverso la radio, la televisione e il cinema. Il regime faceva di tutto per allontanare i giovani dalle moschee e trasformarli in sostenitori dello scià e delle sue idee. Lo scià aveva proclamato una “Rivoluzione bianca”. Aveva fatto pubblicare un libricino in cui parlava dei suoi ideali per la patria. Voleva combattere l’analfabetismo e quindi mandava giovani donne a lavorare come insegnanti nei villaggi. Donne che si toglievano il chador, mettevano un berretto e si arrampicavano sulle montagne come soldati dello scià, per costruire scuole anche nei villaggi più isolati.
  • 5. Il giorno della tammuz era un giorno importante per la famiglia. Era anche un giorno importante per il bazar e il commercio nazionale dei tappeti. Quel giorno Faqri Sadat e le nonne restavano a casa a catturare gli uccelli. La casa traeva ispirazione dalle penne degli uccelli migratori per i colori e i disegni dei tappeti. Nessuno sapeva dove Aga Jan trovasse gli impareggiabili motivi dei suoi tappeti e come inventasse quel meraviglioso miscuglio di colori. Era il segreto della casa.
  • 6. L’imam estrasse una busta aperta dalla tasca della sua veste, tirò fuori un foglio, lo spiegò con cura e cominciò a leggere: “Nel nome di Allah, che punisce senza misericordia i peccatori che non ascoltano la Sua parola. Nel nome dell’ayatollah supremo Khomeini. Il tribunale islamico ha stabilito che a partire da questo momento la famiglia Ghaemmaghani Farahani si privata a tempo indeterminato di qualsiasi autorità sulla moschea Jom’e della città di Senjan!” Da quando le nonne erano partite, era iniziata una nuova fase nella vita della casa. Il ritmo che loro avevano impresso alla casa non esisteva più. Lo si capiva dalla vecchia pendola, che all’improvviso si era fermata. Finché c’erano loro, la cucina era piena di vita, il corvo della moschea gracchiava ogni volta che arrivava qualcuno e la biblioteca era sempre in ordine, ma quell’epoca era chiaramente passata.
  • 7. Aga Jan era andato a prendere la salma di Javad, che adesso era nel furgoncino davanti al portone. Faqri Sadat era alla finestra e guardava in cortile, dove Muezzin camminava nervosamente avanti e indietro. Immobile, nella cornice della finestra, sembrava una foto in bianco e nero, la foto di una mater dolorosa. Secondo l’usanza persiana avrebbe dovuto piangere e urlare, battersi la testa e strapparsi i capelli. Le donne sarebbero accorse, le avrebbero preso le mani e avrebbero pianto insieme a lei. Ma tutto questo era proibito adesso. Non potevano mostrare a nessuno il loro dolore.
  • 8. Alef Lam Mim Ra. Trascorsero gli anni e il dolore della casa cresceva come un albero nel giardino. Da tempo gli ostaggi americani dormivano di nuovo nei loro letti, nelle loro case. Khomeini era morto. La guerra era finita e l’America, che nonostante l’aiuto di Saddam non era riuscita a raggiungere i suoi obiettivi, aveva riportato a terra i suoi aerei spia. Gli uccelli migratori continuavano ad arrivare in città e a volare sopra la casa della moschea. Ma non trovando più alcun cibo, proseguivano il loro volo. La storia della casa della moschea è lungi dall’essere conclusa, ma è come la vita: ognuno deve pur scendere da qualche parte. C’è una frase che ritorna sempre alla fine degli antichi racconti persiani. “La nostra storia è finita, ma il corvo è lungi dall’aver raggiunto il suo nido”.