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UNA LETTURA SINOTTICA DELLA MORTE: DAL RITO ALLA BIOLOGIA
Quando i morto piange è segno che è in via di
guarigione - disse solennemente il Corvo.
- Mi duole di contraddire il mio illustre amico e
collega,- soggiunse la Civetta,- ma per me, quando il
morto piange, è segno che gli dispiace a morire.
Carlo Collodi. Pinocchio.
GRAMMATICA E SINTASSI
Morire è facilissimo: basta intraprendere una ricerca tra i filmati di Youtube che riprendono incidenti e
omicidi, tuttavia morire è arduo: per accorgersene basta seguire un malato fino alla fine.
La morte fa parte di quei tre tipici argomenti tabù di cui nel costume occidentale non si dovrebbe trattare:
sesso, soldi e morte. Dei primi due argomenti si chiacchiera a dismisura e li si espone senza discrezione,
mentre del terzo si tace. La gente comune della morte non parla, preferisce osservarla con atteggiamento
voyeuristico quando viene mostrata dai media, come una curiosità proibita e un po’ indecente che riguarda
altri. E’ qualcosa di misterioso e sconosciuto che si osserva dal buco della serratura con curiosità morbosa,
celata da un velo di interdetto, il cui significato simbolico, sacro e pericoloso non è del tutto tramontato.
I morti devono stare lontani, non vanno toccati, portano sfortuna, quando passano nel carro funebre vanno
scacciati con gesti apotropaici, i bambini non devono sapere, i moribondi tantomeno. Si preferisce parlare
della morte degli altri, dei vicini di casa, di quei conoscenti di cui non si sentiva parlare da tanto, dei
personaggi dello spettacolo, dei morti che compaiono sui giornali a causa di disgrazie o guerre.
E ancora, quando si tenta di affrontare l’argomento in un consesso o in una riunione, si preferisce usare il
linguaggio poetico, letterario, artistico, la mitografia o qualunque altro modo di espressione che non
presupponga una logica rigorosa. Nascita e morte sono state colmate di retorica e di pomposità nel tentativo
di esprimere ed affrontare le difficoltà emotive insite nell’inizio e nella fine dell’esistenza. La prosa non
basta, si deve trovare ogni volta qualcosa di evocativo e un po’ misterioso per ridurre l’impatto di trattare un
soggetto che non piace né a chi ne parla né a chi ascolta. D’altra parte è pur vero che le emozioni che spesso
vengono evitate o rifiutate, segnalano ciò che è emotivamente più importante vivere fruttuosamente (Cataldi).
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La morte è senza sintassi e senza grammatica, le espressioni verbali non possono descriverla in prima
persona di essa si corre il rischio di discettare esclusivamente attraverso la retorica, la subcultura delle frasi
fatte, un tono dimesso, dolce e paternalistico, ispirato, che preveda qualche forma di spiritualismo.
Quando si parla di sonno eterno, ogni frase rischia di diventare magniloquente e stucchevole con uno scopo
esclusivamente difensivo, per non sentire la paura e l’estraneità con cui lo si vuole trattare. La morte fa
soffrire chi muore e chi resta, spezza i legami che hanno la funzione biologica di proteggere dai predatori.
Uno degli anatemi degli antichi era augurare al proprio nemico di morire ultimo di tutti coloro che amava
come la peggiore delle torture per un essere umano.
Parlo quindi con sguardo analitico non della morte in sé, ma degli effetti biologici che essa ha sui vivi. La
cura del morire necessita di conoscere gli effetti biologici ed emotivi su paziente, familiari e medico
Disquisire della morte è un nonsenso: significa conversare, sviluppando congetture, di qualcosa che non si
conosce.
Questi sono i motivi per cui qui si esaminerà non la morte in sè, quanto i suoi effetti: la perdita e il processo
del lutto.
UNA COLLOCAZIONE
La propria morte è irrappresentabile: ogni volta che qualcuno immagina il proprio decesso o il
proprio funerale, è spettatore di un evento che viene considerato da una persona viva. In fondo
nessuno crede veramente alla propria fine; nell’inconscio si è convinti di essere immortali e si tende
ad abbassare il trapasso da fatto inevitabile a pura accidentalità. Perfino il risultato emotivo del
cosiddetto sillogismo elementare si modifica in relazione a chi ne sia il soggetto: una cosa è recitare “ Socrate
è un uomo, gli uomini sono mortali, Socrate è mortale”, altra è affermare “Io sono un uomo. Gli uomini sono
mortali, io sono mortale”. Costringersi ad affermare la consapevolezza della propria morte dà sensazioni
viscerali sgradevoli anche se appena percettibili. Damasio le definirebbe “marcatori somatici”.
Epicuro affermava che quando c’è vita non c’è morte e viceversa, invitando i suoi ascoltatori a non
temerne l’arrivo.
Xavier Bichat alla fine del ‘700 definiva la vita come ciò che lotta per non morire dandone quindi una
definizione in negativo. La vita – affermava - è l’insieme delle funzioni che resistono alla morte.
Darwin ha mostrato che la vita è un processo evolutivo, non una condizione assoluta, mentre Claude Bernard
ha documentato l’esistenza di un «ambiente interno» in equilibrio dinamico con l’esterno , e che vita e morte
non sono sempre in opposizione, sostenendo che «La vita è morte, la vita è creazione».
Virchow nel 1858 distingueva una differenza tra «morte generale» dell'organismo e «morte elementare»
delle sue unità fondamentali.
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Una definizione in negativo più moderna recita così: “La vita è una struttura dissipativa che ha raggiunto una
soglia di complessità tale da renderla un sistema autopoietico. Lo scopo della vita è quello di obbedire
strettamente alla seconda legge della termodinamica per accrescere l’entropia”. Sembra che per definire la
morte sia impossibile non parlare della vita, come se non fosse concepibile darne una definizione precisa se
non in negativo, in rapporto a quello che sembra il suo contrario.
Le enunciazioni odierne che definiscono il decesso sono quasi sempre di ordine scientifico con un risvolto
medico legale, legate alla difficoltà di stabilire quando si è davvero morti, spesso dovuta a controversie
ideologiche più che biologiche. Ma una definizione univoca non può servire come criterio, tant’è vero che
non ci può accontentare di un’unica dichiarazione che metta tutti d’accordo: esiste la morte biologica di un
corpo e la morte cerebrale di un individuo. Di lei si può dare una definizione biologica prestando attenzione
alla cessazione in ogni tessuto delle funzioni vitali, ossia dei processi metabolici.
Si può fornirne una definizione clinica, considerando che un essere umano sia clinicamente morto se la sua
condizione fisiologica, caratterizzata dalla cessazione delle funzioni vitali in un particolare tessuto/organo, è
irreversibilmente seguita dalla completa morte biologica.
Entrambe le descrizioni precedenti sembrano ritenere che il decesso sia costituito da un momento, ma
sarebbe più appropriato considerarlo – come suggerisce Satolli- Un processo, con un inizio e una fine e con
punti di non ritorno (diversi secondo gli organi vitali che cedono prima), che però possono essere modificati
dalle tecnologie.
Una definizione soddisfacente da tutti i punti di vista dovrebbe quindi individuare criteri espliciti per tutti i
punti del processo, ciascuno dei quali potrebbe essere considerato necessario e sufficiente per decisioni
pratiche (sospensione delle cure, espianto eccetera), mentre la morte potrebbe essere dichiarata avvenuta
solo al termine del processo.
CAUSE
Alcuni cicli in natura sembrano ripetersi all’infinito, non toccati dall’evento terminale: i fenomeni
astronomici, i cicli delle stagioni sembrano eterni. Anche oggi i fenomeni ciclici della natura non hanno
cessato di sembrarci infiniti come deve essere accaduto ai nostri antenati che ne hanno probabilmente
desunto l’illusione di immortalità di tutti i viventi. L’evoluzione non ha previsto l’immortalità (Troisi) ;
nonostante essa abbia compiuto un grande lavoro, gli organismi non risultano progettati in maniera ottimale
(Mayr). Le caratteristiche non adattive sono state eliminate, ma quelle adattive non sono perfette; esse
servono ad aumentare le probabilità di sopravvivenza genica. Le risposte funzionali hanno assunto un valore
adattivo in rapporto alle predisposizioni e alle aspettative individuali ed anche la morte costituisce un
fenomeno adatto all’evoluzione (che non è mai compiuta); l’invecchiamento ha lo scopo di ridurre l’utilizzo
di risorse da parte dei soggetti anziani per risparmiarle a vantaggio dei più giovani.
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La salute come valore non è un fine biologico, anche se è un mezzo per perseguire un vantaggio riproduttivo,
inoltre oggigiorno la capacità di procreare è sempre meno collegata alla salute. Agiatezza, lusso, stato fisico,
sono diventati obiettivi da perseguire ad ogni costo a prescindere dal loro fine riproduttivo. e non più mezzi
direttamente collegati a un fine riproduttivo (Corbellini). Il livello di evoluzione tecnologica (rapidissima)
non è andato di pari passo con l’evoluzione delle strutture cerebrali ed emotive. L’uomo moderno è un frutto
senza nocciolo nel senso che si preoccupa solo del presente, della realizzazione del suo desiderio immediato,
come se non esistesse futuro e non dovesse seminare il suo nocciolo genetico e culturale alla discendenza.
Eppure, sotto altri profili, l’uomo moderno è tremendamente simile al primitivo; che piaccia o no, una volta
che il materiale genetico sia stato trasmesso, il ciclo vitale è compiuto a dispetto delle innovazioni
tecnologiche che pur avendo favorito il prolungamento della vita media, la sopravvivenza a molte malattie,
migliorato le condizioni di vita e nutrizione nel pianeta, non hanno ancora raggiunto l’obbiettivo di rendere i
viventi immortali.
Dal punto di vista evoluzionistico la vicinanza e la protezione dell’altro hanno lo scopo di regolare i sistemi
fisiologici e comportamentali; ciò di cui si resta privi nella perdita non è solo il legame, ma l’opportunità di
generare un meccanismo di regolazione di ordine superiore che valuti e riorganizzi i contenuti mentali per
consentire di cogliere il punto di vista dell’altro e a fare previsioni sul suo comportamento (Fonagy).
La morte spezza i legami che hanno la funzione biologica di proteggere dai predatori.
Per secoli ci si è chiesti quel fosse il meccanismo che rende inevitabile la morte e quali fossero i dispositivi
biologici che hanno portato alla necessità del morire. Con semplicismo si potrebbe affermare che si muore
perchè gli esseri viventi hanno ereditato attraverso l’evoluzione geni della morte dai protisti nostri antenati.
Per migliorare le loro strategie evolutive essi sono passati in una certa fase ad una riproduzione sessuata che
ha sancito la morte come una inevitabile conseguenza di quel disegno di trasformazione. Le cellule
procariote sarebbero virtualmente immortali, si perpetuerebbero duplicandosi in continuazione anche se,
naturalmente, possono essere distrutte da agenti esterni. Il loro genoma viene trasmesso immutato alle cellule
figlie, identiche a quelle genitoriali. La morte sembra dunque una condizione degli organismi maggiormente
progrediti, è stata «progettata» tardi nel corso dell' evoluzione ed è molto probabile che proprio
l'«invenzione» della morte abbia avvantaggiato la sopravvivenza degli organismi complessi. E’ infatti la
morte che permette che il patrimonio genetico si sviluppi modificandosi e consenta l’infinita unicità degli
individui, frutto della mescolanza di genomi sempre diversi.
Richard Dawkins ha scritto semiserio, che la morte è la prima malattia sessualmente trasmessa: i viventi
hanno barattato l’immortalità per il piacere sessuale.
Per farsi una ragione degli aspetti distruttivi della mente, Freud aveva ipotizzato che esistesse in ogni essere
vivente una pulsione di morte. Una proprietà universale, una spinta dei viventi a ripristinare uno stato
precedente al quale l’organismo aveva dovuto rinunciare sotto l’influsso di forze provenienti dall’esterno.
Se è vero che tutto ciò che vive muore, torna allo stato inorganico per una misteriosa forza interna, si può
ritenere che lo scopo dei viventi sia quello di ritornare ad uno stato anteriore alla vita. Tuttavia, affermava il
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padre della psicoanalisi, gli organismi vogliono cessare di vivere alla loro maniera e quindi si oppongono a
tutti quegli eventi che potrebbero ricacciarli nello stato inorganico troppo in fretta. La teorizzazione,
considerata indimostrabile, ha subito strenue opposizioni nell’ambiente psicoanalitico, poi curiosamente
negli anni ‘70 si è scoperto che a livello biologico, esiste nella cellula una morte programmata. L’esistenza
degli oncogeni e dell’apoptosi era apparsa di primo acchito inconcepibile, tuttavia il fenomeno curiosamente
sembrerebbe aver lasciato spazio in campo biologico, alle astrazioni freudiane. Per quanto ne sappiamo, il
primo a paragonare la vita umana alla foglia che in autunno si stacca dal ramo dell’albero (Apoptosi), era
stato il poeta elegiaco arcaico del IV secolo A.C. Mimnermo.
La morte cellulare programmata fornisce una visione concettualmente inedita: la vita starebbe tutta
nel riuscire a reprimere una costante pulsione a morire, e la morte sarebbe l’interruzione di ogni
resistenza che avverrebbe con la comunicazione e l’assistenza delle cellule vicine. La vita diventa
così l'assenza temporanea della morte, perché la morte per suicidio è una tensione naturale delle cellule, e la
vita è la capacità che, in certe precise condizioni, hanno le cellule di reprimere quella tensione. In realtà
l’apoptosi ha numerose funzioni e non tutte collegate alla cessazione della vita: sono esemplari il caso dei
neuroni che retraggono le loro sinapsi non utilizzate e muoiono, i linfociti T che si autodistruggono nel
corso del riconoscimento del self, le cellule embrionali che vanno incontro ad apoptosi per modellare la
forma del corpo.
Ad oggi si è riusciti a stabilire quali siano i modi e gli agenti dell’apoptosi, ma non ancora le cause. Non si
tratterebbe di una semplice istruzione genetica, ma di un processo casuale che si attua sulla base di una
potenzialità costantemente presente. Le cellule producono, dietro istruzione genica, esecutori o protettori
capaci di reprimere o stimolare l’autodistruzione: la loro longevità e il loro invecchiamento sarebbe correlato
alla funzione dei telomeri e degli enzimi che li degradano.
EFFETTI
Come si vede le definizioni non sono né univoche né agevoli. Se è vero che è impossibile parlare di morte da
vivi, se è vero che si tratta solo di una parola di cui nessuno può dire il profondo significato, ci si può
tuttavia riferire alla Perdita come all’effetto provocato dalla morte. Solo attraverso il vissuto di perdita si può
immaginare quale sia la portata della morte per chi si spegne, perdendo la vita e i contatti con gli altri, gli
affetti, l’identità, i vincoli. Il processo emozionale della perdita riproduce nel superstite le sensazioni
dolorose che sperimenta il morente. Di fronte a una persona che sta per morire, sosteneva Freud, si assume
un particolare atteggiamento, gli si manifesta una specie di ammirazione, come uno che stia compiendo o
abbia compiuto qualcosa di assai difficile.
L’unico modo di conoscere qualcosa che assomigli alla morte è l’esperienza della perdita, dell’ interruzione
del legame affettivo, quella sorta di collasso delle capacità vitali legato alla scomparsa che viene esperito da
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chi rimane.
Ogni separazione consiste nell’abbandono della sponda conosciuta per quella inesplorata, per ciascuna di
esse si attraversa un piccolo Stige pagando un pedaggio a qualche Caronte.
La prima prefigurazione della morte è la nascita: la prima delle separazioni che verrà rievocata da ciascuna
delle separazioni successive che avverranno nel corso della vita.
Da bambini si attraversa una serie molteplice di esperienze di separazione: lo svezzamento, l’acquisizione del
controllo degli sfinteri, l’ingresso alla scuola materna, l’autonomia dell’adolescente e i suoi giochi pericolosi,
le separazioni affettive e infine i lutti. La morte è il prototipo delle separazioni, è perdita della vita per chi
muore e scomparsa dell’oggetto d’amore per chi resta. Perfino a livello neurologico esistono correlati precisi:
le aree cerebrali che si attivano durante il cordoglio causato dalla mancanza, sono le stesse attivate durante il
dolore fisico. Si ha così una spiegazione biologica sul motivo per cui il dolore della perdita o della
separazione viene percepito anche come un dolore fisico (Panksepp).
Dal punto di vista neurobiologico i fenomeni neurotrasmettitoriali correlati con la tristezza subiscono i
seguenti cambiamenti: 1) il sistema degli oppioidi endogeni si riduce 2) La trasmissione di ossitocina si
riduce. 3) il rilascio di dopamina varia in risposta a stimoli visivi che rinnovino il ricordo dello scomparso.
Si fa l’ipotesi che il dolore del lutto sia mediato dallo stesso sistema neurale che media il bisogno impellente
di una droga (Craving).
Con il pessimo termine di Rilevanza Incentivante Robinson e Berridge, hanno definito il substrato biologico
su cui si fonda il concetto psicologico di volontà. Il cervello riconosce continuamente ciò che è rilevante per
le sue funzioni e per la sopravvivenza ed incentiva la ripetizione di quegli eventi, stati d’animo o
comportamenti attraverso un meccanismo di regolazione neuronale.
Questo meccanismo darebbe conto della ricerca affannosa e illogica del defunto, che spesso fa seguito alla
scomparsa o all’abbandono di una persona cara. Quando la separazione ha carattere temporaneo, la rilevanza
incentivante favorisce la prosecuzione della ricerca, se invece la perdita è definitiva, quella si riduce al fine di
favorire il processo di elaborazione luttuosa. La figura persa viene interiorizzata e conservata nella memoria
attraverso stati d’animo malinconici ma sopportabili. Dal punto di vista biologico la rilevanza incentivante
coinvolge le regioni cerebrali connesse con il sistema della gratificazione dopaminergico mesolimbico
(corteccia cingolata anteriore, corteccia orbito frontale, amigdala).
Sono ben undici le regioni encefaliche che nel 30% degli studi mostrano una attivazione nel corso degli stati
luttuosi in maniera analoga a quanto accade nel corso di una depressione.
Come la depressione, il processo del lutto avrebbe una funzione adattiva attraverso un aumento della capacità
analitica della mente, che aiuterebbe ad affrontare i dolorosi stati d’animo vissuti. Forse nel processo di lutto
o di adattamento a una perdita, la tristezza, l’ansia o la rabbia favoriscono un beneficio adattivo. Si indica
l’esistenza di un circuito in cui il tratto discendente dalla corteccia cingolata anteriore e attraverso il controllo
cerebellare, il grigio periacqueduttale e i nuclei dei nervi cranici (in particolare il VII), favorisce la
produzione delle vocalizzazioni, dei ritmi respiratori, delle espressioni facciali e della lacrimazione tipiche
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della tristezza.
Molte delle caratteristiche del processo del lutto e del vissuto della perdita sono comuni ad altre specie. A
questo proposito sono fondamentali le osservazioni compiute da Bowlby e collaboratori sullo scimpanzé che
perde la sua compagna: è la dimostrazione di quanta analogia vi sia tra lutto e angoscia di separazione in
tutti i primati. Sulla base di osservazioni prolungate a livello animale e infantile, gli stadi del lutto sono stati
suddivisi da Bowlby in questo modo:
1. Torpore: si tratta di una fase di disperazione caratterizzata da quiescenza, anergia, riduzione della
comunicazione verbale, incredulità, introversione. Secondo alcuni si tratterebbe di uno squilibrio omeostatico
nei sistemi regolatori causato dalla perdita, mentre per altri rappresenterebbe un meccanismo di adattamento
per facilitare il distacco.
Secondo Panksepp la reazione depressiva alle separazioni è un meccanismo selezionato dall’evoluzione nel
cervello dei mammiferi per interrompere il dolore di una separazione protratta o definitiva. Se di lunga
durata, le separazioni sarebbero pericolose per i piccoli mammiferi (come dimostrato dai filmati e dalle
pubblicazioni di James Robertson negli anni ‘60). I cambiamenti in numerosi sistemi di amine, neuropeptidi,
funzioni neuroendocrine e immunitarie, metterebbero a repentaglio la sopravvivenza stessa dei soggetti.
Questo meccanismo depressivo di spegnimento dell’angoscia rimane disponibile anche nell’età matura sia
per i mammiferi che per i primati in particolare.
2. Struggimento: Bramosia, ricerca , collera. Si tratta di un tentativo in termini evoluzionistici, di recuperare
chi si è perso. Le espressioni facciali e il pianto della persona abbandonata sono il risultato del primigenio
tentativo di gridare nella speranza di risvegliare l’attenzione di un agente delle cure materne distratto o
incosciente. Le espressioni mimiche di dolore sarebbero il risultato della successiva inibizione sociale
all’urlo di dolore. In questa fase la presa di coscienza che la perdita sia irreversibile è insopportabile, quindi
si reagisce con rabbia anche chi cerca di mostrare la realtà.
Dal punto di vista evoluzionistico, istintivamente ogni perdita viene considerata recuperabile. Quando la
prova di realtà dimostra che il ritrovamento non è possibile, si sviluppano trasformazioni dello stato d’animo
volte a ricuperare l’equilibrio scosso dal dolore. Questa paradossale fase di protesta è caratterizzata da una
attivazione autonomica, iperattività, alterazioni dell’espressione vocale, rabbia, aggressività.
Tale comportamento riveste un ruolo nel tentativo atavico di mantenere i legami affettivi; innanzitutto
costituisce un tentativo di attaccare e mettere in fuga il nemico colpevole di aver provocato la perdita, in
secondo luogo ha lo scopo di punire la persona cara che si è sottratta all’amore. Essa viene inconsciamente
accusata di essersene andata abbandonando coloro che sono rimasti in vita. Durante questa fase del lutto si
insiste irragionevolmente a ricercare la persona perduta e ad interpretare stimoli visivi o uditivi come segno
della sua presenza.
Dai dati disponibili pare che la reazione fisiologica ad una separazione sia un caso particolare di angoscia
programmata biologicamente, proprio come il processo dell’infiammazione: una conseguenza ordinata di
risposte fisiologiche al trauma. La psichiatria biologica tradizionale nega totalmente che vi possano essere
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analogie tra la depressione e lo stress sociale, mentre mettere in relazione lo stress della separazione e il
lavoro del lutto, permette una potenziale integrazione di dati tra l’approccio psicodinamico e quello
neuroscientifico.
3. Depressione e disperazione.
4. Fase di graduale ricostruzione dell’immagine interna dello scomparso
5. Riorganizzazione. Ripresa graduale dei contatti con la vita.
La persona a cui si vorrebbe fare ricorso per ottenere protezione e conforto è proprio quella che è scomparsa
a causa del decesso, così la perdita sottrae non solo la persona amata, ma anche la base sicura a cui ci si
sarebbe affidati in caso di bisogno. La persona che subisce una perdita viene anche esposta a un pericolo
reale: si veda in proposito l’aumento di rischio di morte e malattia entro un anno dalla perdita del coniuge.
Dopo il decesso del coniuge il rischio di morte o di malattia nei 30 giorni successivi al decesso aumenta del
61% nella donna e del 53 % nel maschio. La salute di una persona è correlata in qualche modo a quella
dell’altra (Sharon O’ Brien).
Diventa quindi imperativo ricostituire un supporto stabile tramite qualcun altro o tramite il lavoro del lutto
che serve a ripristinare dentro di sè una figura protettiva e generosa.
La perdita di una persona cara mette in discussione anche i ruoli familiari che vanno rimescolati e ridefiniti.
Autostima e identità di ruolo se ne vanno con il defunto al punto che quando muore un membro influente
della famiglia, avvengono trasformazioni importanti nell’ assetto dinamico del gruppo. Vedovi e vedove in
un primo tempo fanno riferimento ai membri della famiglia del coniuge scomparso, ma con il tempo
diventano più autonomi, ritrovano un punto di riferimento o dentro di sé o al di fuori dell’ambiente familiare
(Bowlby ).
STORIA E GEOGRAFIA
Culture e periodi storici diversi hanno considerato l’evento morte in termini estremamente eterogenei.
Di fronte alla morte i greci hanno sostituito il concetto di destino (Moira) con la coppia divina λογος και
αναγκη (ragione e necessità).
La morte è Sonno o catalessi nelle società primitive
Passaggio o liberazione in Oriente
Attesa o redenzione verso una vita eterna per il cristianesimo e l’ islamismo
Momento del ciclo della vita (eterno ritorno) per gli Stoici Caldei e gli Indiani d’America
Riposo riparatore o accesso al mondo degli antenati nelle società negro africane.
Luogo di trasferimento dello spirito da un corpo all’altro (Metempsicosi, reincarnazione brahmanica) per
alcune religioni dell’India.
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Momento supremo di integrazione nell’Io divino per il Buddismo.
Nella mentalità collettiva le credenze a proposito della fine, non sono altro che una somma di immagini
necessarie a mettere distanza con la realtà biologica e sociale del cessare di vivere.
L’immaginazione umana tenta in ogni modo di modificare e allontanare la sensazione di irreversibilità e della
violenza dell’evento. In particolare la decomposizione del corpo rappresenta la perdita definitiva
dell’individualità e dell’identità che iniziano a smarrirsi attraverso la malattia e la riduzione delle capacità
decisionali, fino alla definitiva scomparsa .
Distruggere, dissimulare o conservare il cadavere sono stati, nel corso del tempo, modi di evitare la
decomposizione.
La distruzione del cadavere è avvenuta (per esempio) tramite la cremazione, l’endocannibalismo o
l’abbandono dei cadaveri agli avvoltoi.
La Dissimulazione si è praticata attraverso lì immersione, il seppellimento, l’inumazione.
La conservazione è andata dall’ imbalsamazione e mummificazione fino all’avveniristico Mantenimento
criogenico.
Ma la morte non è mai un fatto solo individuale, è sempre un fatto sociale in cui la comunità è chiamata a
presentarsi, a fare da spettatore o a intervenire. Per De Martino la rappresentazione enfatica del dolore del
lutto tipica di alcune popolazioni, ha il significato di esprimere la vitalità di chi resta attraverso un’
affermazione di sé. I canti delle prefiche sono testimonianze di identità e presenza rispetto a chi non c’è più.
L’offesa incontrastabile rappresentata dalla perdita di una persona cara, mette in crisi la precaria presenza e la
fuggevole esistenza umana, mette in dubbio la coscienza di sé e consente l’ingresso di una forza distruttiva
che rischia di portare al delirio. I vivi conservano il timore atavico di venire trascinati nella morte da un
defunto che presenta tratti aggressivi e invidiosi verso chi resta.
La direzione ritualizzata e collettiva del dolore, diventa così un sistema di difesa controllato e accettato dalla
comunità. Il rito funebre caratterizzato da urla e disperazione spettacolarizzate, raffigura la dissoluzione
mortale senza realizzarla, permettendo alla comunità di rimanere immune dal delirio distruttivo che la morte
ha prodotto e rimarcando nei superstiti la coscienza di esserci. Il defunto viene così trasformato in una
presenza protettrice e non aggressiva.
Philippe Ariès ha classificato la trasformazione del concetto di morte nei differenti periodi storici nel modo
seguente:
a) la morte addomesticata. E’ quella naturale, che tutti si attendono con rassegnazione, che permette la
coesistenza di vivi e morti, si organizza come cerimonia pubblica e sociale con riti semplici.
b) Dalla metà del Medio Evo in poi si ha la morte di sé che implica la scoperta della morte individuale e
della sua drammaticità. La figura della morte viene personalizzata e le raffigurazioni del trionfo della
morte ne sottolineano la drammaticità. Dall’Umanesimo, si sottolinea la buona vita e non si insiste
sulla morte.
c) La morte dell’altro parte dal XVIII secolo con una morte drammatizzata dal Romanticismo: si piange
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la morte dell’altro, dell’amico o dell’amata perduta. In questo periodo c’è una laicizzazione della
morte che viene inclusa in una sorta di religione civile. Sorge il culto delle tombe, dei sepolcri, dei
monumenti come testimonianza e rappresentazione della memoria. Ma i cimiteri servono anche a
separare i morti dai vivi per nasconderli.
d) La tappa che comprende l’attualità è quella della morte proibita dal secondo dopoguerra. Scompare
dal panorama sociale, la si occulta, è vergogna. I riti sono formalmente uguali ma vengono svuotati
del loro significato simbolico, vengono ridotti all’osso, si muore in ambienti esterni alla casa,
l’orizzonte sociale si riduce, il morente non può più parlare. La morte viene negata.
Dopo le leggi Napoleoniche bisogna erigere una barriera tra il corpo dei morti e i vivi: mura, bastioni. Se ne
prova orrore e disgusto, si cerca di nascondere il cadavere o di trasformarlo fino a renderlo accettabile
attraverso un’operazione di “tanatologia estetica” che riduca il più possibile la bruttura del cadavere.
Nonostante l’apparente cambiamento, non c’è molta differenza tra il modo di concepire la morte da parte del
primitivo e quella dell’uomo moderno e civilizzato (Schur). È probabile che la paura della morte
dell’ominide non fosse molto diversa da quella vissuta oggigiorno ed è raro trovare un settore in cui il modo
di sentire umano sia cambiato così poco dai tempi primordiali, in cui l’elemento antico si sia conservato così
bene sotto una scorza sottile.
Resta il fatto che la morte rientra in uno spettacolo proibito e morboso che si guarda di nascosto nello stesso
modo in cui si guardano i film dell’orrore: la consapevolezza di essere al di qua dell’evento rappresentato,
conferma il fatto di essere vivi e rassicura.
RESTA POSTO PER LA MORTE? TOPOLOGIA DELLA MORTE NELL’ERA POST
MODERNA.
Ionesco scrive ironico: “Facendo molta attenzione a non ammalarsi, essendo molto prudenti, mettendo
sempre una sciarpa, prendendo tutte le medicine previste, stando molto attenti alle automobili, non si
morirebbe mai”.
Ho affermato più sopra che la gente non parla della morte, ma la realtà è che disserta della morte degli altri a
confermare che qualcuno muore, e chi ne parla è vivo. Si parla molto delle malattie considerate ormai tutte
guaribili - se prese in tempo, se trattate da luminari, se controllate assiduamente (Cataldi). Una società
ossessivo-compulsiva non può tollerare né il Caso né la Morte: entrambi vanno tenuti sotto controllo, o
meglio, eliminati come intollerabili intralci.
Il concetto di caducità nella società moderna è inammissibile anche se il valore della finitudine del tempo
dovrebbe aumentarne la preziosità anzichè sminuirne il rilievo. La caducità viene respinta: ogni singolo
momento ha valore per sé senza che il futuro in termini di speranza o il passato in termini di memoria,
risultino capaci di modificare la portata emotiva del presente.
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Si può negare la scomparsa e la mancanza attraverso l’illusione di riempire il vuoto tramite qualcosa di
concreto ed eccitante da consumare nell’immediato. La scienza, la psicologia, perfino la psicoanalisi,
possono essere utilizzati come mezzucci per negare la separazione, occultarla, avere l’illusione di vincerla
senza viverla attraverso il processo del lutto. La morte odierna rischia questa fine attraverso la tendenza ad
eliminarlo dal vissuto e dal rito; la sua elaborazione implica mangiare la morte, masticarla, assaporarla,
digerirla ed eliminarla un po’ per volta.
Ai piccoli non si offre più il valore positivo della capacità di stare da soli e di vivere le piccole separazioni
quotidiane, esercizio per imparare a tollerare le perdite più importanti. Si tratta di sapere rimanere con le
persone assenti attraverso un processo di assimilazione, che fa ritrovare nella dimensione interiore ciò che si
è perso in quella esterna (Widlocher).
A loro si nasconde la realtà della morte con disagio; spesso i genitori si chiedono se sia opportuno che
partecipino ai riti funebri, sono imbarazzati nel rispondere alle loro domande sulla morte più di quanto non lo
siano verso domande di carattere sessuale.
Come è stato per il sesso nel secolo scorso, la morte è un soggetto osceno di cui si deve negare la realtà: tutti
sanno che esiste, ma bisogna allontanarla. Chi non ne ha esperienza diretta la vede come curiosità un po’
morbosa. Il cinema e la TV la mostrano come un fatto privo di sentimento, i videogiochi come qualcosa di
indolore e automatico che non implica alcuna partecipazione emotiva. Le morti violente si ripetono talmente
tanto frequentemente sul piccolo schermo da aver creato l’abitudine, da aver condotto a considerare
indifferentemente le uccisioni posticce dei telefilm e quelle reali dei telegiornali. La confusione tra realtà e
finzione è tale da provocare minori emozioni di fronte alle immagini di violenza iperreale del telegiornale o
di Youtube. La partecipazione all’evento morte è andato via via scemando; alla condivisione appassionata è
subentrata una passiva presenza da spettatori; La maggioranza vuole dimenticare l’inevitabilità della morte
senza rinunciare ad assistere allo show. Soltanto in occasione della morte di qualche personaggio famoso si
dà fiato ad un rito collettivo di identificazione che vede la massa, la folla, confondersi un in indistinto
sentimento luttuoso che non ha né confini precisi né possibilità di essere percepito distintamente. Si partecipa
ad un altro rito orgiastico collettivo in cui l’individualità è perduta e confusa nel cordoglio della folla. Il rito
si è modificato diventando spettacolo. Sparisce la morte vera e invade la scena la morte rappresentata.
La modernità ignora la morte perché le si allontana in ogni modo impedendo perfino al morente di prendere
coscienza della fine che si avvicina. Le tradizioni che precedevano il trapasso implicavano le
raccomandazioni delle ultime volontà e il congedo dai propri cari. Oggi ci si ferma spesso allo stadio della
menzogna o a quello della dissimulazione. Tradizionalmente i vivi assistevano i moribondi, della fine si
faceva carico la comunità, assieme si piangeva il defunto rendendo la perdita meno gravosa. La morte era un
fatto naturale; ci sono posti in cui l’assistenza a chi sta per morire fa ancora parte dell’equilibrio sociale e dei
doveri verso gli anziani. Oggi i moribondi li si evita, sono fonti di tristezza per i familiari e di guai per i
curanti: meglio lasciarli nei luoghi istituzionali deputati a curarli in solitudine. Da parte sua, il morente
spesso accetta di subire menzogne, sta al gioco per non incrinare un sistema che prevede un ordine costituito
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in cui nessuno si debba far carico del dolore dell’altro e nessuno debba condividere o sopportare il dolore con
l’altro.
L’agonia avviene clandestinamente e priva di significato emotivo, dietro un paravento, fuori casa, in ospizio
o in ospedale, nascosti. Il dolore non è più condiviso, ma solitario come una masturbazione.
Bisogna morire nella discrezione e nel silenzio, possibilmente soli per non disturbare nessuno. Chi sta fuori
dall’ospedale ha il dovere di evitare il pensiero della morte o di prolungare riti che favoriscano il ricordo, la
mancanza del defunto o la consapevolezza della finitezza. Nei luoghi di ricovero il morente subisce un
triplice isolamento: spaziale (sta dietro un paravento), temporale (si risponde meno in fretta alle sue
chiamate) e relazionale (negli ospedali a mano a mano che si scende nella scala del vivere, il personale
dedicato appartiene ad una gerarchia sempre più bassa. Il medico non si scomoda più perché non c’è più
niente da fare. Si mandano in avanscoperta il personale infermieristico o gli studenti ancora pieni di buone
intenzioni.
La società attuale sopporta sempre meno l’invecchiamento, la malattia, la morte come manifestazione
massima del tempo che passa. Il tempo va fermato per mantenere una gioventù perenne in cui la fine debba
essere allontanata a tutti i costi. Non si trova nessuna ragione per morire, ci sono solo ragioni per vivere
dissimulando e rendendo invisibili i segni del tempo attraverso la cura, la chirurgia plastica o la rimozione
della morte. La scelta di Achille (meglio vivere una vita breve, ricca d’azione e di splendore piuttosto che
un’esistenza lunga ma vuota) è tramontata.
Evidentemente c'e' stato un cedimento dell'antico senso della finitudine; risulta ormai incredibile
conciliarvisi. "Morirai, è stolto temere ciò che non puoi evitare" (Seneca): forse ancora lo si capisce ma poi i
comportamenti vengono determinati da altre forze, coartati da insopprimibili incubi.
La vita non è una lotta contro la morte, alla quale con ostinazione ci si opponga; in questo senso, il vitalismo
giovanilistico esasperato di alcuni anziani rappresenta un patetico sforzo antistorico e anti biologico. Si
devono cancellare le tracce del logoramento finchè si è vivi e le tracce del morente o del cadavere subito
dopo la morte.
Con la medicalizzazione della morte, essa non è più stata considerata un fatto naturale, ma sempre solo un
fatto traumatico che ha finito per rafforzare i suoi effetti angosciosi. E’ entrata nella sfera degli infortuni e
delle catastrofi, è uno spaventoso errore, una imperdonabile trascuratezza o un’insopportabile aggressione
anche quando è prevedibile e annunciata da lunghe malattie. L’exitus è considerato un incidente, una
disgrazia, qualcosa di non previsto, una responsabilità da addossare a qualcun altro, un evento che la Scienza
dovrebbe giungere a controllare e vincere per sempre.
I parenti dei pazienti sono sempre più stupiti che possa essere accaduto, che la scienza non abbia potuto
impedire l’evento, di chi sia la colpa. Oppure il caregiver si tormenta con sensi di colpa irrealistici, come se
fosse normale vivere per sempre e un incomprensibile imprevisto il morire. La morte nella post modernità è
diventato un fenomeno, impenetrabile, mai completamente assimilato alla coscienza, alla quale è impossibile
conformarsi: per la maggioranza bisogna contrastarla ad ogni costo, sperimentando tutte le possibilità di
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abolirla attraverso la sua rimozione, senza dover soffrire attraverso il faticoso lavoro del lutto. Non rimane
che affidarsi alle promesse di immortalità che arrivano dalla medicina attraverso la perseverazione in un
massiccio processo di rimozione sociale del sonno eterno.
IL MEDICO E LA MORTE
Quanti compiti e quante forme verbali per un curante di fronte alla morte! Governare, preparare, curare,
guarire, sopportare, attendere, accelerare, impedire, contrastare…
Per quanto sia legittimo e doveroso contrastare attraverso l’esercizio della medicina le piaghe che affliggono
l’umanità, una resistenza non ragionevole al destino ultimo dei viventi, risulta patetica cocciutaggine. Curare
le malattie curabili, rendere meno pesanti quelle non curabili appare doveroso. Resistere fino all’ultimo
implica la capacità di distinguere da parte dei malati e dei curanti, ciò che è ragionevole fare e ciò che va al di
là del sensato. Naturalmente non ci può essere una scelta che non sia soggettiva e questa scelta dipende dal
modo in cui convinzioni/credenze/orientamenti permettono di considerare la vita.
Emozioni
Nel corso del tempo la figura del medico ha prima affiancato e poi sostituito il prete al fianco del moribondo,
esercitando senza accorgersene la sua funzione apostolica attraverso un’idea “Vaga ma quasi irremovibile” di
come si dovrebbe morire e di come ci si dovrebbe atteggiare di fronte al termine della vita. Quasi tutti in
questa circostanza si è impauriti e imbarazzati, ci si sente chiamati ad affrontare un enigma che non si
conosce e non si riesce nemmeno ad immaginare, di fronte al quale le parole appaiono piccoli espedienti per
trarsi d’impaccio.
Solo il personale sanitario assiste da vicino alla morte e al suo progressivo attuarsi; il medico di famiglia che
vede la vita vera, vede anche la morte vera, fuori dall’atmosfera ospedaliera e fuori dalla strada a differenza
del medico legale che raccoglie cadaveri di traumatizzati e a differenza del medico d’ospedale che non ha
conosciuto il paziente quando ancora era sano. Da questo punto di vista il egli può decidere di essere il
custode di una tradizione in cui il rito venga mantenuto, e la vicinanza dei membri della famiglia al
moribondo venga incoraggiata e incentivata. Ma qual è il costo emotivo di assistere uno o due o dieci o mille
morenti nel corso di una intera vita professionale? Molti colleghi percepiscono la morte del paziente come
una disfatta, una scorrettezza, un modo sleale di sottrarsi al potere della scienza. Il costo di questa operazione
è elevatissimo, il prezzo è la solitudine in cui il morente viene cacciato da chi, attorno a lui, si ostina a negare
che la fine gli sia vicina. Spesso i malati terminali chiedono soltanto la presenza di qualcuno che stia loro
accanto, senza velleità di guarigioni o promesse di immortalità. Per poter riuscire a prestare un’assistenza
adeguata a un paziente in fase terminale è necessario sottoporre il concetto di morte a un esauriente processo
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di analisi e ricodificazione (Ancona) che implichi un attento insight. Più è lunga la relazione con il paziente,
maggiore il coinvolgimento del medico alla sua scomparsa.
Il moribondo rimanda al curante un’immagine ferita e degradata che gli diventa insopportabile, egli non fa
domande per non ricevere bugie da una medicina dalle facoltà illimitate, ultimo baluardo contro la morte
(Mannoni).
Il medico risponde attraverso emozioni ai bisogni delle persone seriamente ammalate (che sono
emozionalmente vulnerabili): le vuole salvare, ma quando non vi si riesce compare un senso di umiliazione e
disfatta, una sensazione di impotenza o il desiderio di prendere le distanze dal malato come unica via di
salvezza.
Se non vengono esaminate e conosciute, queste emozioni confuse possono influire pesantemente sia sulla
qualità del lavoro, sia sull’equilibrio del medico; c’è il rischio che agiscano provocando distacco,
indifferenza e riduzione delle capacità di giudizio. Come tutti gli strumenti delicati, anche i medici avrebbero
bisogno di una manutenzione che favorisca la conoscenza e il controllo delle ansie.
L’ identificazione con il paziente, da strumento di comprensione, può trasformarsi in una fonte di angosce di
morte: si immagina di ammalarsi della stessa patologia del paziente, di morire, ci si rende conto
dolorosamente di non poter salvare il malato, si provano nei suoi confronti rabbia e risentimento
rimproverandogli scarsa collaborazione, avidità o ingratitudine. Tutto ciò amplifica le ansie e provoca una
ferita narcisistica non indifferente alle capacità professionali (Perini).
Un uso eccessivo di difese regressive di fronte alla morte, l’intolleranza all’ incertezza e al dubbio, le intense
angosce, sono scatenate dalla prossimità delle persone malate, ferite, morenti, morte.
Lo stereotipo popolare e televisivo pretende che chi cura sappia tenere a bada e anzi sia a suo agio nell’
ignorare le proprie emozioni; una specie di superuomo che sfida la morte senza paura per salvare vite umane.
In realtà l’incontro con decessi di ogni genere mette a dura prova l’equilibrio emozionale del medico, che
non viene affatto sostenuto dalla cultura professionale al fine di tollerare perdite e lutti. Il paziente che sta per
morire è sempre un fattore di fondamentale importanza nel generare ansia.
La preoccupazione dell’errore è sempre in agguato e le reazioni sono legate al timore di conseguenze, alla
perdita della persona spesso curata per anni. Altre volte la morte del paziente è invece vissuta come una
liberazione, come la fine di una oppressione insostenibile.
È sempre difficile distinguere di chi è la morte: ogni volta che muore un paziente, muore una parte del
curante. È inevitabile che vi sia identificazione, che si senta la presenza della morte e che vi sia la paura del
fallimento professionale soprattutto quando l’obbiettivo è la guarigione piuttosto che la cura. La difficoltà
dipende dalla fatica profonda di pensare la propria morte, impossibile da concepire dagli inguaribili narcisisti
umani.
Meccanismi di difesa
Alcuni dottori dedicano molto tempo al paziente in una sorta di missionarismo che può indicare onnipotenza,
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negazione della morte, incapacità a percepirla oppure può essere una manifestazione di grandiosità quasi
maniacale.
E’ pieno di medici che diventano rigidi e scorbutici con i morenti e i loro familiari; alcuni di loro diventano
freddi perfino con i propri familiari e amici per evitare qualunque contatto con emozioni incomode. Alla
lunga, la censura delle emozioni negative riduce o annulla la possibilità di provare anche le emozioni
positive.
Ci si costruisce una specie di conchiglia che protegga dalla debolezza e dall’ansia: alla fine se non si è in
grado di affrontare, riconoscere e modificare le proprie emozioni, si fallisce perfino nell’efficienza
lavorativa. L’educazione disciplinare spinge ad affrontare in termini scarsamente emotivi la morte; la cultura
medica dovrebbe modificarsi in modo da fornire supporto a chi si trova ad affrontare lutto, depressione,
disperazione e tristezza. I medici giovani parlano poco delle loro impressioni e ricercano al massimo un
confronto superficiale con i colleghi anziani che accampano il pretesto di doversi occupare del paziente
successivo e non hanno tempo per riflettere o rimuginare sulle emozioni provate.
Il dottore erige confini tra l’aspetto professionale e quello emozionale per non venirne travolto, oscilla tra i
due estremi della vulnerabilità e dell’onnipotenza con lo stesso automatismo utilizzato quando ad essere
malato è egli stesso o qualcuno dei suoi familiari. Passa dalla sottovalutazione all’allarmismo, usa processi
emotivi (l’empatia) e cognitivi per analizzare e tenere a bada l’ansia. Dopo l’identificazione con l’altro è
necessario fare un passo indietro verso la consapevolezza di sè stessi e di ciò che si sta provando, altrimenti
la paura della morte può paralizzare l’auto analisi e la capacità di decidere, di tollerare l’incertezza e di vivere
tranquillamente con la coscienza della finitezza del tutto.
E’ anche per sfuggire alle angosce che si tratta il malato come un bambino: si da per scontato che non sappia,
che non si renda conto, che non conosca la realtà della sua fine tanto quanto il bambino si suppone non
conosca la realtà e il significato della morte. Si desidera che egli non si renda conto pur sapendo che egli sa: è
la stessa strategia utilizzata per secoli riguardo la sessualità nel mondo occidentale.
Con i morenti si rischia di essere troppo aggressivi o nichilisti: da un lato la malattia e la morte vengono
antropomorfizzate, diventano il nemico da battere e combattere, oppure si passa dal ruolo di eroi a quello di
pulcini nella stoppa, quando le terapie falliscono. La morte del paziente riecheggia la paura di perdita (di
familiari, finanziaria) o della perdita della capacità di salvare vite.
Il malcelato risentimento verso il paziente e verso la sua mancata guarigione è manifestazione di paura, di
repulsione verso la possibilità di diventare come i pazienti: invalidi, incapaci, dipendenti dagli altri, deturpati
dal male e dalla solitudine. Paziente e medico mettono in atto meccanismi di difesa analoghi: il curante che
non ce la fa si isola, abusa di sostanze, prende le distanze dai bisogni del paziente, oppure al contrario assume
il ruolo eroico di chi è infallibile e onnisciente.
I sistemi istituzionali e i gruppi servono (Menzies Lyth) a controllare e modificare le esperienze di ansia,
senso di colpa, dubbio e incertezza, tuttavia questo genere di evasione dell’ansia ne provoca quasi sempre il
ritorno sotto forma di ansie secondarie (Stoccoro).
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Si può anche far fronte a queste ansie attraverso difese personali: si può odiare, proiettare la colpa sul malato
(sei tu il colpevole della tua malattia), tentare di controllare tutte le variabili in maniera ossessiva (se sto
attento non succede nulla), allontanare il paziente (stammi lontano, non mi contagiare con il tuo malanno)
rinunciare alla cura (ciò che faccio non serve a niente), occuparsi solo degli aspetti settoriali (non voglio
sapere niente delle tue emozioni, io sono un tecnico), trattare il paziente come fosse un bambino
completamente dipendente, attivarsi allo spasimo sperando che l’azione cancelli i pensieri angosciosi (faccio
tutto io). Sarcasmo e freddezza, autoritarismo o paternalismo, vergogna o imbarazzo, intellettualizzazione,
religiosità, humor, distrazione, fatalismo, sono tutti meccanismi di difesa frequentemente utilizzati.
Quando il precario equilibrio tra ansie e difese viene meno, lo stato di affaticamento si propaga dal curante al
sistema familiare fino a coinvolgere l’organizzazione del lavoro, che si fa sempre più pesante e sfiancante
fino al tracollo personale (Perini).
Soluzioni
Il MMG deve restare presente e in contatto con l’esperienza della morte senza scappare, deve imparare a
proteggersi senza sfuggire al contatto con la sofferenza e il dolore anche attraverso l’educazione ad essere
pazienti (Stoccoro).
Un altro fattore delicato riguarda gli aspetti vocazionali della scelta professionale; il bisogno di curare e la
scelta di fare il medico si basano sulla necessità di sanare se stessi o le figure parentali attaccate e ferite in
fantasia, contrastare o dominare i propri bisogni distruttivi e i propri sentimenti di colpa, vincere la morte
assumendosi il compito eroico di guarire gli altri (De Martis).
Già Freud nel 1927 e Simmel nel 1926 avevano sostenuto che la scelta di fare il medico fosse spesso
influenzata da desideri inconsci di tipo sadomasochistico o voyeuristico per i misteri del corpo e della
differenza tra i sessi (Schneider 1991). Oltre a ciò non è infrequente che nella storia personale di chi si
avvicina alla medicina siano presenti traumi o ferite da riparare per se stesso o per figure significative malate
o scomparse. Attraverso la possibilità di guarire si consolida la speranza di poter porre rimedio ai danni subiti
o inferti in fantasia.
Di solito chi viene spinto da queste motivazioni possiede una speciale generosità ed una particolare capacità
di comprendere e identificarsi con il paziente; sebbene si tratti di punti di forza notevoli, questi possono
trasformarsi in fattori di fragilità qualora il lavoro diventi logorante al punto da creare linee di frattura proprio
su quegli stessi elementi di maggiore vigore (Stoccoro).
Il medico di famiglia si assume il compito di rimanere vicino al moribondo e ai suoi parenti; è molto più
facile consolarli al posto del malato, al punto che il conforto maggiore è per loro piuttosto che per il morituro.
Lo sforzo maggiore consiste nel cercare di fare entrare i pazienti da vivi nella morte (Groddeck, Marie de
Hennezel), aiutarli a sentirsi vivi fino alla fine, a mantenere le loro funzioni residue attive e in comunicazione
con gli altri. Groddeck, enfant terribile della psicoanalisi prima maniera, nell’ultima parte della sua carriera
aveva realizzato una specie di hospice dove seguiva malati terminali. Cercava di farli stare fuori dal letto fino
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alla fine, li faceva passeggiare in giardino finchè potevano, li accompagnava cercando di mantenere i loro
sensi svegli nell’approssimarsi di una consapevole e serena fine. Il suo sforzo era quello di non anticipare la
morte attraverso l’anestesia delle percezioni e l’isolamento mentale.
Kierkegaard scrive che Una cosa è soffrire, l’altra è diventare professore di ciò che un altro soffre. Al
medico spetta il compito di soffrire con l’altro, con la contemporanea consapevolezza di stare mettendo in
atto una serie di difese che vorrebbero impedire il dolore, mentre simultaneamente la corteccia cerebrale
dell’area F4 attraverso i neuroni specchio, riflette e riproduce il male dell’altro dentro il curante.
Il dottore tratta la morte come una malattia, pretende di guarirla, di curarla a prescindere da chi la sta
vivendo. Quando il malato muore gli si avvicina, lo sfiora, quasi a mostrare che la consuetudine di toccare il
corpo vivo non è inibita dalla morte, che egli resta coraggioso sia davanti alla malattia che davanti alla morte.
Ecco lo sguardo di ammirazione degli astanti: il medico tocca il paziente anche dopo che è morto, anzi
appena morto, quando nessuno ha ancora il coraggio di avvicinarsi a quel corpo che fino a cinque minuti
prima era in grado di esprimersi, ragionare, comunicare, sentire emozioni.
Quando il paziente non ha più bisogno di cure il medico tenderebbe a eclissarsi, a far finta che il suo lavoro
sia finito, mentre invece gli si richiede ancora la presenza, quando ci vuole coraggio a restare in trincea
senza più le armi che definiscono il ruolo. Il ruolo professionale del medico di famiglia è definito anche dalla
capacità di essere presente in assenza di strumenti tecnici; si tratta di un’eccezione nel mondo sanitario,
definito esclusivamente dai mezzi specialistici, completamente costituito dalle specifiche procedure.
Ciò che cade fuori da tale ambito riconosciuto è certamente accessorio, e forse anche illegittimo (Cataldi).
Quando il medico ha finito di fare quello che deve fare, cosa deve fare? Chi deve preparare alla morte? Cosa
deve fare il familiare superstite? Lo si chiede al medico, esperto di vita ed esperto di morte. Se egli è il
funzionario della medicina e la medicina l’ultimo baluardo contro la morte, ai medici non resta che agire
come difensori ad oltranza della sopravvivenza? Vestendo il camice si obbedisce al ruolo senza altre vie
d’uscita? (Cataldi)
La preparazione alla morte potrebbe essere considerato come un importante evento di vita (life event), cioè
una di quelle situazioni destinate a provocare grosse ripercussioni nell'equilibrio psicologico del soggetto
(Migone).
Alla fine la paura che si prova davanti alla morte ha una duplice valenza: può essere uno strumento che apre
verso la consapevolezza oppure che chiude la mente. Quando non c’è più niente da fare, il da fare che resta si
riferisce alla vicinanza e a sottrarre il morente alla sensazione di abbandono.
Presenza e Identità devono rimanere intatte sia nel medico che nel paziente fino al termine.
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Una lettura sinottica della morte: dal rito alla biologia (Francesco Benincasa)

  • 1. UNA LETTURA SINOTTICA DELLA MORTE: DAL RITO ALLA BIOLOGIA Quando i morto piange è segno che è in via di guarigione - disse solennemente il Corvo. - Mi duole di contraddire il mio illustre amico e collega,- soggiunse la Civetta,- ma per me, quando il morto piange, è segno che gli dispiace a morire. Carlo Collodi. Pinocchio. GRAMMATICA E SINTASSI Morire è facilissimo: basta intraprendere una ricerca tra i filmati di Youtube che riprendono incidenti e omicidi, tuttavia morire è arduo: per accorgersene basta seguire un malato fino alla fine. La morte fa parte di quei tre tipici argomenti tabù di cui nel costume occidentale non si dovrebbe trattare: sesso, soldi e morte. Dei primi due argomenti si chiacchiera a dismisura e li si espone senza discrezione, mentre del terzo si tace. La gente comune della morte non parla, preferisce osservarla con atteggiamento voyeuristico quando viene mostrata dai media, come una curiosità proibita e un po’ indecente che riguarda altri. E’ qualcosa di misterioso e sconosciuto che si osserva dal buco della serratura con curiosità morbosa, celata da un velo di interdetto, il cui significato simbolico, sacro e pericoloso non è del tutto tramontato. I morti devono stare lontani, non vanno toccati, portano sfortuna, quando passano nel carro funebre vanno scacciati con gesti apotropaici, i bambini non devono sapere, i moribondi tantomeno. Si preferisce parlare della morte degli altri, dei vicini di casa, di quei conoscenti di cui non si sentiva parlare da tanto, dei personaggi dello spettacolo, dei morti che compaiono sui giornali a causa di disgrazie o guerre. E ancora, quando si tenta di affrontare l’argomento in un consesso o in una riunione, si preferisce usare il linguaggio poetico, letterario, artistico, la mitografia o qualunque altro modo di espressione che non presupponga una logica rigorosa. Nascita e morte sono state colmate di retorica e di pomposità nel tentativo di esprimere ed affrontare le difficoltà emotive insite nell’inizio e nella fine dell’esistenza. La prosa non basta, si deve trovare ogni volta qualcosa di evocativo e un po’ misterioso per ridurre l’impatto di trattare un soggetto che non piace né a chi ne parla né a chi ascolta. D’altra parte è pur vero che le emozioni che spesso vengono evitate o rifiutate, segnalano ciò che è emotivamente più importante vivere fruttuosamente (Cataldi). 1
  • 2. La morte è senza sintassi e senza grammatica, le espressioni verbali non possono descriverla in prima persona di essa si corre il rischio di discettare esclusivamente attraverso la retorica, la subcultura delle frasi fatte, un tono dimesso, dolce e paternalistico, ispirato, che preveda qualche forma di spiritualismo. Quando si parla di sonno eterno, ogni frase rischia di diventare magniloquente e stucchevole con uno scopo esclusivamente difensivo, per non sentire la paura e l’estraneità con cui lo si vuole trattare. La morte fa soffrire chi muore e chi resta, spezza i legami che hanno la funzione biologica di proteggere dai predatori. Uno degli anatemi degli antichi era augurare al proprio nemico di morire ultimo di tutti coloro che amava come la peggiore delle torture per un essere umano. Parlo quindi con sguardo analitico non della morte in sé, ma degli effetti biologici che essa ha sui vivi. La cura del morire necessita di conoscere gli effetti biologici ed emotivi su paziente, familiari e medico Disquisire della morte è un nonsenso: significa conversare, sviluppando congetture, di qualcosa che non si conosce. Questi sono i motivi per cui qui si esaminerà non la morte in sè, quanto i suoi effetti: la perdita e il processo del lutto. UNA COLLOCAZIONE La propria morte è irrappresentabile: ogni volta che qualcuno immagina il proprio decesso o il proprio funerale, è spettatore di un evento che viene considerato da una persona viva. In fondo nessuno crede veramente alla propria fine; nell’inconscio si è convinti di essere immortali e si tende ad abbassare il trapasso da fatto inevitabile a pura accidentalità. Perfino il risultato emotivo del cosiddetto sillogismo elementare si modifica in relazione a chi ne sia il soggetto: una cosa è recitare “ Socrate è un uomo, gli uomini sono mortali, Socrate è mortale”, altra è affermare “Io sono un uomo. Gli uomini sono mortali, io sono mortale”. Costringersi ad affermare la consapevolezza della propria morte dà sensazioni viscerali sgradevoli anche se appena percettibili. Damasio le definirebbe “marcatori somatici”. Epicuro affermava che quando c’è vita non c’è morte e viceversa, invitando i suoi ascoltatori a non temerne l’arrivo. Xavier Bichat alla fine del ‘700 definiva la vita come ciò che lotta per non morire dandone quindi una definizione in negativo. La vita – affermava - è l’insieme delle funzioni che resistono alla morte. Darwin ha mostrato che la vita è un processo evolutivo, non una condizione assoluta, mentre Claude Bernard ha documentato l’esistenza di un «ambiente interno» in equilibrio dinamico con l’esterno , e che vita e morte non sono sempre in opposizione, sostenendo che «La vita è morte, la vita è creazione». Virchow nel 1858 distingueva una differenza tra «morte generale» dell'organismo e «morte elementare» delle sue unità fondamentali. 2
  • 3. Una definizione in negativo più moderna recita così: “La vita è una struttura dissipativa che ha raggiunto una soglia di complessità tale da renderla un sistema autopoietico. Lo scopo della vita è quello di obbedire strettamente alla seconda legge della termodinamica per accrescere l’entropia”. Sembra che per definire la morte sia impossibile non parlare della vita, come se non fosse concepibile darne una definizione precisa se non in negativo, in rapporto a quello che sembra il suo contrario. Le enunciazioni odierne che definiscono il decesso sono quasi sempre di ordine scientifico con un risvolto medico legale, legate alla difficoltà di stabilire quando si è davvero morti, spesso dovuta a controversie ideologiche più che biologiche. Ma una definizione univoca non può servire come criterio, tant’è vero che non ci può accontentare di un’unica dichiarazione che metta tutti d’accordo: esiste la morte biologica di un corpo e la morte cerebrale di un individuo. Di lei si può dare una definizione biologica prestando attenzione alla cessazione in ogni tessuto delle funzioni vitali, ossia dei processi metabolici. Si può fornirne una definizione clinica, considerando che un essere umano sia clinicamente morto se la sua condizione fisiologica, caratterizzata dalla cessazione delle funzioni vitali in un particolare tessuto/organo, è irreversibilmente seguita dalla completa morte biologica. Entrambe le descrizioni precedenti sembrano ritenere che il decesso sia costituito da un momento, ma sarebbe più appropriato considerarlo – come suggerisce Satolli- Un processo, con un inizio e una fine e con punti di non ritorno (diversi secondo gli organi vitali che cedono prima), che però possono essere modificati dalle tecnologie. Una definizione soddisfacente da tutti i punti di vista dovrebbe quindi individuare criteri espliciti per tutti i punti del processo, ciascuno dei quali potrebbe essere considerato necessario e sufficiente per decisioni pratiche (sospensione delle cure, espianto eccetera), mentre la morte potrebbe essere dichiarata avvenuta solo al termine del processo. CAUSE Alcuni cicli in natura sembrano ripetersi all’infinito, non toccati dall’evento terminale: i fenomeni astronomici, i cicli delle stagioni sembrano eterni. Anche oggi i fenomeni ciclici della natura non hanno cessato di sembrarci infiniti come deve essere accaduto ai nostri antenati che ne hanno probabilmente desunto l’illusione di immortalità di tutti i viventi. L’evoluzione non ha previsto l’immortalità (Troisi) ; nonostante essa abbia compiuto un grande lavoro, gli organismi non risultano progettati in maniera ottimale (Mayr). Le caratteristiche non adattive sono state eliminate, ma quelle adattive non sono perfette; esse servono ad aumentare le probabilità di sopravvivenza genica. Le risposte funzionali hanno assunto un valore adattivo in rapporto alle predisposizioni e alle aspettative individuali ed anche la morte costituisce un fenomeno adatto all’evoluzione (che non è mai compiuta); l’invecchiamento ha lo scopo di ridurre l’utilizzo di risorse da parte dei soggetti anziani per risparmiarle a vantaggio dei più giovani. 3
  • 4. La salute come valore non è un fine biologico, anche se è un mezzo per perseguire un vantaggio riproduttivo, inoltre oggigiorno la capacità di procreare è sempre meno collegata alla salute. Agiatezza, lusso, stato fisico, sono diventati obiettivi da perseguire ad ogni costo a prescindere dal loro fine riproduttivo. e non più mezzi direttamente collegati a un fine riproduttivo (Corbellini). Il livello di evoluzione tecnologica (rapidissima) non è andato di pari passo con l’evoluzione delle strutture cerebrali ed emotive. L’uomo moderno è un frutto senza nocciolo nel senso che si preoccupa solo del presente, della realizzazione del suo desiderio immediato, come se non esistesse futuro e non dovesse seminare il suo nocciolo genetico e culturale alla discendenza. Eppure, sotto altri profili, l’uomo moderno è tremendamente simile al primitivo; che piaccia o no, una volta che il materiale genetico sia stato trasmesso, il ciclo vitale è compiuto a dispetto delle innovazioni tecnologiche che pur avendo favorito il prolungamento della vita media, la sopravvivenza a molte malattie, migliorato le condizioni di vita e nutrizione nel pianeta, non hanno ancora raggiunto l’obbiettivo di rendere i viventi immortali. Dal punto di vista evoluzionistico la vicinanza e la protezione dell’altro hanno lo scopo di regolare i sistemi fisiologici e comportamentali; ciò di cui si resta privi nella perdita non è solo il legame, ma l’opportunità di generare un meccanismo di regolazione di ordine superiore che valuti e riorganizzi i contenuti mentali per consentire di cogliere il punto di vista dell’altro e a fare previsioni sul suo comportamento (Fonagy). La morte spezza i legami che hanno la funzione biologica di proteggere dai predatori. Per secoli ci si è chiesti quel fosse il meccanismo che rende inevitabile la morte e quali fossero i dispositivi biologici che hanno portato alla necessità del morire. Con semplicismo si potrebbe affermare che si muore perchè gli esseri viventi hanno ereditato attraverso l’evoluzione geni della morte dai protisti nostri antenati. Per migliorare le loro strategie evolutive essi sono passati in una certa fase ad una riproduzione sessuata che ha sancito la morte come una inevitabile conseguenza di quel disegno di trasformazione. Le cellule procariote sarebbero virtualmente immortali, si perpetuerebbero duplicandosi in continuazione anche se, naturalmente, possono essere distrutte da agenti esterni. Il loro genoma viene trasmesso immutato alle cellule figlie, identiche a quelle genitoriali. La morte sembra dunque una condizione degli organismi maggiormente progrediti, è stata «progettata» tardi nel corso dell' evoluzione ed è molto probabile che proprio l'«invenzione» della morte abbia avvantaggiato la sopravvivenza degli organismi complessi. E’ infatti la morte che permette che il patrimonio genetico si sviluppi modificandosi e consenta l’infinita unicità degli individui, frutto della mescolanza di genomi sempre diversi. Richard Dawkins ha scritto semiserio, che la morte è la prima malattia sessualmente trasmessa: i viventi hanno barattato l’immortalità per il piacere sessuale. Per farsi una ragione degli aspetti distruttivi della mente, Freud aveva ipotizzato che esistesse in ogni essere vivente una pulsione di morte. Una proprietà universale, una spinta dei viventi a ripristinare uno stato precedente al quale l’organismo aveva dovuto rinunciare sotto l’influsso di forze provenienti dall’esterno. Se è vero che tutto ciò che vive muore, torna allo stato inorganico per una misteriosa forza interna, si può ritenere che lo scopo dei viventi sia quello di ritornare ad uno stato anteriore alla vita. Tuttavia, affermava il 4
  • 5. padre della psicoanalisi, gli organismi vogliono cessare di vivere alla loro maniera e quindi si oppongono a tutti quegli eventi che potrebbero ricacciarli nello stato inorganico troppo in fretta. La teorizzazione, considerata indimostrabile, ha subito strenue opposizioni nell’ambiente psicoanalitico, poi curiosamente negli anni ‘70 si è scoperto che a livello biologico, esiste nella cellula una morte programmata. L’esistenza degli oncogeni e dell’apoptosi era apparsa di primo acchito inconcepibile, tuttavia il fenomeno curiosamente sembrerebbe aver lasciato spazio in campo biologico, alle astrazioni freudiane. Per quanto ne sappiamo, il primo a paragonare la vita umana alla foglia che in autunno si stacca dal ramo dell’albero (Apoptosi), era stato il poeta elegiaco arcaico del IV secolo A.C. Mimnermo. La morte cellulare programmata fornisce una visione concettualmente inedita: la vita starebbe tutta nel riuscire a reprimere una costante pulsione a morire, e la morte sarebbe l’interruzione di ogni resistenza che avverrebbe con la comunicazione e l’assistenza delle cellule vicine. La vita diventa così l'assenza temporanea della morte, perché la morte per suicidio è una tensione naturale delle cellule, e la vita è la capacità che, in certe precise condizioni, hanno le cellule di reprimere quella tensione. In realtà l’apoptosi ha numerose funzioni e non tutte collegate alla cessazione della vita: sono esemplari il caso dei neuroni che retraggono le loro sinapsi non utilizzate e muoiono, i linfociti T che si autodistruggono nel corso del riconoscimento del self, le cellule embrionali che vanno incontro ad apoptosi per modellare la forma del corpo. Ad oggi si è riusciti a stabilire quali siano i modi e gli agenti dell’apoptosi, ma non ancora le cause. Non si tratterebbe di una semplice istruzione genetica, ma di un processo casuale che si attua sulla base di una potenzialità costantemente presente. Le cellule producono, dietro istruzione genica, esecutori o protettori capaci di reprimere o stimolare l’autodistruzione: la loro longevità e il loro invecchiamento sarebbe correlato alla funzione dei telomeri e degli enzimi che li degradano. EFFETTI Come si vede le definizioni non sono né univoche né agevoli. Se è vero che è impossibile parlare di morte da vivi, se è vero che si tratta solo di una parola di cui nessuno può dire il profondo significato, ci si può tuttavia riferire alla Perdita come all’effetto provocato dalla morte. Solo attraverso il vissuto di perdita si può immaginare quale sia la portata della morte per chi si spegne, perdendo la vita e i contatti con gli altri, gli affetti, l’identità, i vincoli. Il processo emozionale della perdita riproduce nel superstite le sensazioni dolorose che sperimenta il morente. Di fronte a una persona che sta per morire, sosteneva Freud, si assume un particolare atteggiamento, gli si manifesta una specie di ammirazione, come uno che stia compiendo o abbia compiuto qualcosa di assai difficile. L’unico modo di conoscere qualcosa che assomigli alla morte è l’esperienza della perdita, dell’ interruzione del legame affettivo, quella sorta di collasso delle capacità vitali legato alla scomparsa che viene esperito da 5
  • 6. chi rimane. Ogni separazione consiste nell’abbandono della sponda conosciuta per quella inesplorata, per ciascuna di esse si attraversa un piccolo Stige pagando un pedaggio a qualche Caronte. La prima prefigurazione della morte è la nascita: la prima delle separazioni che verrà rievocata da ciascuna delle separazioni successive che avverranno nel corso della vita. Da bambini si attraversa una serie molteplice di esperienze di separazione: lo svezzamento, l’acquisizione del controllo degli sfinteri, l’ingresso alla scuola materna, l’autonomia dell’adolescente e i suoi giochi pericolosi, le separazioni affettive e infine i lutti. La morte è il prototipo delle separazioni, è perdita della vita per chi muore e scomparsa dell’oggetto d’amore per chi resta. Perfino a livello neurologico esistono correlati precisi: le aree cerebrali che si attivano durante il cordoglio causato dalla mancanza, sono le stesse attivate durante il dolore fisico. Si ha così una spiegazione biologica sul motivo per cui il dolore della perdita o della separazione viene percepito anche come un dolore fisico (Panksepp). Dal punto di vista neurobiologico i fenomeni neurotrasmettitoriali correlati con la tristezza subiscono i seguenti cambiamenti: 1) il sistema degli oppioidi endogeni si riduce 2) La trasmissione di ossitocina si riduce. 3) il rilascio di dopamina varia in risposta a stimoli visivi che rinnovino il ricordo dello scomparso. Si fa l’ipotesi che il dolore del lutto sia mediato dallo stesso sistema neurale che media il bisogno impellente di una droga (Craving). Con il pessimo termine di Rilevanza Incentivante Robinson e Berridge, hanno definito il substrato biologico su cui si fonda il concetto psicologico di volontà. Il cervello riconosce continuamente ciò che è rilevante per le sue funzioni e per la sopravvivenza ed incentiva la ripetizione di quegli eventi, stati d’animo o comportamenti attraverso un meccanismo di regolazione neuronale. Questo meccanismo darebbe conto della ricerca affannosa e illogica del defunto, che spesso fa seguito alla scomparsa o all’abbandono di una persona cara. Quando la separazione ha carattere temporaneo, la rilevanza incentivante favorisce la prosecuzione della ricerca, se invece la perdita è definitiva, quella si riduce al fine di favorire il processo di elaborazione luttuosa. La figura persa viene interiorizzata e conservata nella memoria attraverso stati d’animo malinconici ma sopportabili. Dal punto di vista biologico la rilevanza incentivante coinvolge le regioni cerebrali connesse con il sistema della gratificazione dopaminergico mesolimbico (corteccia cingolata anteriore, corteccia orbito frontale, amigdala). Sono ben undici le regioni encefaliche che nel 30% degli studi mostrano una attivazione nel corso degli stati luttuosi in maniera analoga a quanto accade nel corso di una depressione. Come la depressione, il processo del lutto avrebbe una funzione adattiva attraverso un aumento della capacità analitica della mente, che aiuterebbe ad affrontare i dolorosi stati d’animo vissuti. Forse nel processo di lutto o di adattamento a una perdita, la tristezza, l’ansia o la rabbia favoriscono un beneficio adattivo. Si indica l’esistenza di un circuito in cui il tratto discendente dalla corteccia cingolata anteriore e attraverso il controllo cerebellare, il grigio periacqueduttale e i nuclei dei nervi cranici (in particolare il VII), favorisce la produzione delle vocalizzazioni, dei ritmi respiratori, delle espressioni facciali e della lacrimazione tipiche 6
  • 7. della tristezza. Molte delle caratteristiche del processo del lutto e del vissuto della perdita sono comuni ad altre specie. A questo proposito sono fondamentali le osservazioni compiute da Bowlby e collaboratori sullo scimpanzé che perde la sua compagna: è la dimostrazione di quanta analogia vi sia tra lutto e angoscia di separazione in tutti i primati. Sulla base di osservazioni prolungate a livello animale e infantile, gli stadi del lutto sono stati suddivisi da Bowlby in questo modo: 1. Torpore: si tratta di una fase di disperazione caratterizzata da quiescenza, anergia, riduzione della comunicazione verbale, incredulità, introversione. Secondo alcuni si tratterebbe di uno squilibrio omeostatico nei sistemi regolatori causato dalla perdita, mentre per altri rappresenterebbe un meccanismo di adattamento per facilitare il distacco. Secondo Panksepp la reazione depressiva alle separazioni è un meccanismo selezionato dall’evoluzione nel cervello dei mammiferi per interrompere il dolore di una separazione protratta o definitiva. Se di lunga durata, le separazioni sarebbero pericolose per i piccoli mammiferi (come dimostrato dai filmati e dalle pubblicazioni di James Robertson negli anni ‘60). I cambiamenti in numerosi sistemi di amine, neuropeptidi, funzioni neuroendocrine e immunitarie, metterebbero a repentaglio la sopravvivenza stessa dei soggetti. Questo meccanismo depressivo di spegnimento dell’angoscia rimane disponibile anche nell’età matura sia per i mammiferi che per i primati in particolare. 2. Struggimento: Bramosia, ricerca , collera. Si tratta di un tentativo in termini evoluzionistici, di recuperare chi si è perso. Le espressioni facciali e il pianto della persona abbandonata sono il risultato del primigenio tentativo di gridare nella speranza di risvegliare l’attenzione di un agente delle cure materne distratto o incosciente. Le espressioni mimiche di dolore sarebbero il risultato della successiva inibizione sociale all’urlo di dolore. In questa fase la presa di coscienza che la perdita sia irreversibile è insopportabile, quindi si reagisce con rabbia anche chi cerca di mostrare la realtà. Dal punto di vista evoluzionistico, istintivamente ogni perdita viene considerata recuperabile. Quando la prova di realtà dimostra che il ritrovamento non è possibile, si sviluppano trasformazioni dello stato d’animo volte a ricuperare l’equilibrio scosso dal dolore. Questa paradossale fase di protesta è caratterizzata da una attivazione autonomica, iperattività, alterazioni dell’espressione vocale, rabbia, aggressività. Tale comportamento riveste un ruolo nel tentativo atavico di mantenere i legami affettivi; innanzitutto costituisce un tentativo di attaccare e mettere in fuga il nemico colpevole di aver provocato la perdita, in secondo luogo ha lo scopo di punire la persona cara che si è sottratta all’amore. Essa viene inconsciamente accusata di essersene andata abbandonando coloro che sono rimasti in vita. Durante questa fase del lutto si insiste irragionevolmente a ricercare la persona perduta e ad interpretare stimoli visivi o uditivi come segno della sua presenza. Dai dati disponibili pare che la reazione fisiologica ad una separazione sia un caso particolare di angoscia programmata biologicamente, proprio come il processo dell’infiammazione: una conseguenza ordinata di risposte fisiologiche al trauma. La psichiatria biologica tradizionale nega totalmente che vi possano essere 7
  • 8. analogie tra la depressione e lo stress sociale, mentre mettere in relazione lo stress della separazione e il lavoro del lutto, permette una potenziale integrazione di dati tra l’approccio psicodinamico e quello neuroscientifico. 3. Depressione e disperazione. 4. Fase di graduale ricostruzione dell’immagine interna dello scomparso 5. Riorganizzazione. Ripresa graduale dei contatti con la vita. La persona a cui si vorrebbe fare ricorso per ottenere protezione e conforto è proprio quella che è scomparsa a causa del decesso, così la perdita sottrae non solo la persona amata, ma anche la base sicura a cui ci si sarebbe affidati in caso di bisogno. La persona che subisce una perdita viene anche esposta a un pericolo reale: si veda in proposito l’aumento di rischio di morte e malattia entro un anno dalla perdita del coniuge. Dopo il decesso del coniuge il rischio di morte o di malattia nei 30 giorni successivi al decesso aumenta del 61% nella donna e del 53 % nel maschio. La salute di una persona è correlata in qualche modo a quella dell’altra (Sharon O’ Brien). Diventa quindi imperativo ricostituire un supporto stabile tramite qualcun altro o tramite il lavoro del lutto che serve a ripristinare dentro di sè una figura protettiva e generosa. La perdita di una persona cara mette in discussione anche i ruoli familiari che vanno rimescolati e ridefiniti. Autostima e identità di ruolo se ne vanno con il defunto al punto che quando muore un membro influente della famiglia, avvengono trasformazioni importanti nell’ assetto dinamico del gruppo. Vedovi e vedove in un primo tempo fanno riferimento ai membri della famiglia del coniuge scomparso, ma con il tempo diventano più autonomi, ritrovano un punto di riferimento o dentro di sé o al di fuori dell’ambiente familiare (Bowlby ). STORIA E GEOGRAFIA Culture e periodi storici diversi hanno considerato l’evento morte in termini estremamente eterogenei. Di fronte alla morte i greci hanno sostituito il concetto di destino (Moira) con la coppia divina λογος και αναγκη (ragione e necessità). La morte è Sonno o catalessi nelle società primitive Passaggio o liberazione in Oriente Attesa o redenzione verso una vita eterna per il cristianesimo e l’ islamismo Momento del ciclo della vita (eterno ritorno) per gli Stoici Caldei e gli Indiani d’America Riposo riparatore o accesso al mondo degli antenati nelle società negro africane. Luogo di trasferimento dello spirito da un corpo all’altro (Metempsicosi, reincarnazione brahmanica) per alcune religioni dell’India. 8
  • 9. Momento supremo di integrazione nell’Io divino per il Buddismo. Nella mentalità collettiva le credenze a proposito della fine, non sono altro che una somma di immagini necessarie a mettere distanza con la realtà biologica e sociale del cessare di vivere. L’immaginazione umana tenta in ogni modo di modificare e allontanare la sensazione di irreversibilità e della violenza dell’evento. In particolare la decomposizione del corpo rappresenta la perdita definitiva dell’individualità e dell’identità che iniziano a smarrirsi attraverso la malattia e la riduzione delle capacità decisionali, fino alla definitiva scomparsa . Distruggere, dissimulare o conservare il cadavere sono stati, nel corso del tempo, modi di evitare la decomposizione. La distruzione del cadavere è avvenuta (per esempio) tramite la cremazione, l’endocannibalismo o l’abbandono dei cadaveri agli avvoltoi. La Dissimulazione si è praticata attraverso lì immersione, il seppellimento, l’inumazione. La conservazione è andata dall’ imbalsamazione e mummificazione fino all’avveniristico Mantenimento criogenico. Ma la morte non è mai un fatto solo individuale, è sempre un fatto sociale in cui la comunità è chiamata a presentarsi, a fare da spettatore o a intervenire. Per De Martino la rappresentazione enfatica del dolore del lutto tipica di alcune popolazioni, ha il significato di esprimere la vitalità di chi resta attraverso un’ affermazione di sé. I canti delle prefiche sono testimonianze di identità e presenza rispetto a chi non c’è più. L’offesa incontrastabile rappresentata dalla perdita di una persona cara, mette in crisi la precaria presenza e la fuggevole esistenza umana, mette in dubbio la coscienza di sé e consente l’ingresso di una forza distruttiva che rischia di portare al delirio. I vivi conservano il timore atavico di venire trascinati nella morte da un defunto che presenta tratti aggressivi e invidiosi verso chi resta. La direzione ritualizzata e collettiva del dolore, diventa così un sistema di difesa controllato e accettato dalla comunità. Il rito funebre caratterizzato da urla e disperazione spettacolarizzate, raffigura la dissoluzione mortale senza realizzarla, permettendo alla comunità di rimanere immune dal delirio distruttivo che la morte ha prodotto e rimarcando nei superstiti la coscienza di esserci. Il defunto viene così trasformato in una presenza protettrice e non aggressiva. Philippe Ariès ha classificato la trasformazione del concetto di morte nei differenti periodi storici nel modo seguente: a) la morte addomesticata. E’ quella naturale, che tutti si attendono con rassegnazione, che permette la coesistenza di vivi e morti, si organizza come cerimonia pubblica e sociale con riti semplici. b) Dalla metà del Medio Evo in poi si ha la morte di sé che implica la scoperta della morte individuale e della sua drammaticità. La figura della morte viene personalizzata e le raffigurazioni del trionfo della morte ne sottolineano la drammaticità. Dall’Umanesimo, si sottolinea la buona vita e non si insiste sulla morte. c) La morte dell’altro parte dal XVIII secolo con una morte drammatizzata dal Romanticismo: si piange 9
  • 10. la morte dell’altro, dell’amico o dell’amata perduta. In questo periodo c’è una laicizzazione della morte che viene inclusa in una sorta di religione civile. Sorge il culto delle tombe, dei sepolcri, dei monumenti come testimonianza e rappresentazione della memoria. Ma i cimiteri servono anche a separare i morti dai vivi per nasconderli. d) La tappa che comprende l’attualità è quella della morte proibita dal secondo dopoguerra. Scompare dal panorama sociale, la si occulta, è vergogna. I riti sono formalmente uguali ma vengono svuotati del loro significato simbolico, vengono ridotti all’osso, si muore in ambienti esterni alla casa, l’orizzonte sociale si riduce, il morente non può più parlare. La morte viene negata. Dopo le leggi Napoleoniche bisogna erigere una barriera tra il corpo dei morti e i vivi: mura, bastioni. Se ne prova orrore e disgusto, si cerca di nascondere il cadavere o di trasformarlo fino a renderlo accettabile attraverso un’operazione di “tanatologia estetica” che riduca il più possibile la bruttura del cadavere. Nonostante l’apparente cambiamento, non c’è molta differenza tra il modo di concepire la morte da parte del primitivo e quella dell’uomo moderno e civilizzato (Schur). È probabile che la paura della morte dell’ominide non fosse molto diversa da quella vissuta oggigiorno ed è raro trovare un settore in cui il modo di sentire umano sia cambiato così poco dai tempi primordiali, in cui l’elemento antico si sia conservato così bene sotto una scorza sottile. Resta il fatto che la morte rientra in uno spettacolo proibito e morboso che si guarda di nascosto nello stesso modo in cui si guardano i film dell’orrore: la consapevolezza di essere al di qua dell’evento rappresentato, conferma il fatto di essere vivi e rassicura. RESTA POSTO PER LA MORTE? TOPOLOGIA DELLA MORTE NELL’ERA POST MODERNA. Ionesco scrive ironico: “Facendo molta attenzione a non ammalarsi, essendo molto prudenti, mettendo sempre una sciarpa, prendendo tutte le medicine previste, stando molto attenti alle automobili, non si morirebbe mai”. Ho affermato più sopra che la gente non parla della morte, ma la realtà è che disserta della morte degli altri a confermare che qualcuno muore, e chi ne parla è vivo. Si parla molto delle malattie considerate ormai tutte guaribili - se prese in tempo, se trattate da luminari, se controllate assiduamente (Cataldi). Una società ossessivo-compulsiva non può tollerare né il Caso né la Morte: entrambi vanno tenuti sotto controllo, o meglio, eliminati come intollerabili intralci. Il concetto di caducità nella società moderna è inammissibile anche se il valore della finitudine del tempo dovrebbe aumentarne la preziosità anzichè sminuirne il rilievo. La caducità viene respinta: ogni singolo momento ha valore per sé senza che il futuro in termini di speranza o il passato in termini di memoria, risultino capaci di modificare la portata emotiva del presente. 10
  • 11. Si può negare la scomparsa e la mancanza attraverso l’illusione di riempire il vuoto tramite qualcosa di concreto ed eccitante da consumare nell’immediato. La scienza, la psicologia, perfino la psicoanalisi, possono essere utilizzati come mezzucci per negare la separazione, occultarla, avere l’illusione di vincerla senza viverla attraverso il processo del lutto. La morte odierna rischia questa fine attraverso la tendenza ad eliminarlo dal vissuto e dal rito; la sua elaborazione implica mangiare la morte, masticarla, assaporarla, digerirla ed eliminarla un po’ per volta. Ai piccoli non si offre più il valore positivo della capacità di stare da soli e di vivere le piccole separazioni quotidiane, esercizio per imparare a tollerare le perdite più importanti. Si tratta di sapere rimanere con le persone assenti attraverso un processo di assimilazione, che fa ritrovare nella dimensione interiore ciò che si è perso in quella esterna (Widlocher). A loro si nasconde la realtà della morte con disagio; spesso i genitori si chiedono se sia opportuno che partecipino ai riti funebri, sono imbarazzati nel rispondere alle loro domande sulla morte più di quanto non lo siano verso domande di carattere sessuale. Come è stato per il sesso nel secolo scorso, la morte è un soggetto osceno di cui si deve negare la realtà: tutti sanno che esiste, ma bisogna allontanarla. Chi non ne ha esperienza diretta la vede come curiosità un po’ morbosa. Il cinema e la TV la mostrano come un fatto privo di sentimento, i videogiochi come qualcosa di indolore e automatico che non implica alcuna partecipazione emotiva. Le morti violente si ripetono talmente tanto frequentemente sul piccolo schermo da aver creato l’abitudine, da aver condotto a considerare indifferentemente le uccisioni posticce dei telefilm e quelle reali dei telegiornali. La confusione tra realtà e finzione è tale da provocare minori emozioni di fronte alle immagini di violenza iperreale del telegiornale o di Youtube. La partecipazione all’evento morte è andato via via scemando; alla condivisione appassionata è subentrata una passiva presenza da spettatori; La maggioranza vuole dimenticare l’inevitabilità della morte senza rinunciare ad assistere allo show. Soltanto in occasione della morte di qualche personaggio famoso si dà fiato ad un rito collettivo di identificazione che vede la massa, la folla, confondersi un in indistinto sentimento luttuoso che non ha né confini precisi né possibilità di essere percepito distintamente. Si partecipa ad un altro rito orgiastico collettivo in cui l’individualità è perduta e confusa nel cordoglio della folla. Il rito si è modificato diventando spettacolo. Sparisce la morte vera e invade la scena la morte rappresentata. La modernità ignora la morte perché le si allontana in ogni modo impedendo perfino al morente di prendere coscienza della fine che si avvicina. Le tradizioni che precedevano il trapasso implicavano le raccomandazioni delle ultime volontà e il congedo dai propri cari. Oggi ci si ferma spesso allo stadio della menzogna o a quello della dissimulazione. Tradizionalmente i vivi assistevano i moribondi, della fine si faceva carico la comunità, assieme si piangeva il defunto rendendo la perdita meno gravosa. La morte era un fatto naturale; ci sono posti in cui l’assistenza a chi sta per morire fa ancora parte dell’equilibrio sociale e dei doveri verso gli anziani. Oggi i moribondi li si evita, sono fonti di tristezza per i familiari e di guai per i curanti: meglio lasciarli nei luoghi istituzionali deputati a curarli in solitudine. Da parte sua, il morente spesso accetta di subire menzogne, sta al gioco per non incrinare un sistema che prevede un ordine costituito 11
  • 12. in cui nessuno si debba far carico del dolore dell’altro e nessuno debba condividere o sopportare il dolore con l’altro. L’agonia avviene clandestinamente e priva di significato emotivo, dietro un paravento, fuori casa, in ospizio o in ospedale, nascosti. Il dolore non è più condiviso, ma solitario come una masturbazione. Bisogna morire nella discrezione e nel silenzio, possibilmente soli per non disturbare nessuno. Chi sta fuori dall’ospedale ha il dovere di evitare il pensiero della morte o di prolungare riti che favoriscano il ricordo, la mancanza del defunto o la consapevolezza della finitezza. Nei luoghi di ricovero il morente subisce un triplice isolamento: spaziale (sta dietro un paravento), temporale (si risponde meno in fretta alle sue chiamate) e relazionale (negli ospedali a mano a mano che si scende nella scala del vivere, il personale dedicato appartiene ad una gerarchia sempre più bassa. Il medico non si scomoda più perché non c’è più niente da fare. Si mandano in avanscoperta il personale infermieristico o gli studenti ancora pieni di buone intenzioni. La società attuale sopporta sempre meno l’invecchiamento, la malattia, la morte come manifestazione massima del tempo che passa. Il tempo va fermato per mantenere una gioventù perenne in cui la fine debba essere allontanata a tutti i costi. Non si trova nessuna ragione per morire, ci sono solo ragioni per vivere dissimulando e rendendo invisibili i segni del tempo attraverso la cura, la chirurgia plastica o la rimozione della morte. La scelta di Achille (meglio vivere una vita breve, ricca d’azione e di splendore piuttosto che un’esistenza lunga ma vuota) è tramontata. Evidentemente c'e' stato un cedimento dell'antico senso della finitudine; risulta ormai incredibile conciliarvisi. "Morirai, è stolto temere ciò che non puoi evitare" (Seneca): forse ancora lo si capisce ma poi i comportamenti vengono determinati da altre forze, coartati da insopprimibili incubi. La vita non è una lotta contro la morte, alla quale con ostinazione ci si opponga; in questo senso, il vitalismo giovanilistico esasperato di alcuni anziani rappresenta un patetico sforzo antistorico e anti biologico. Si devono cancellare le tracce del logoramento finchè si è vivi e le tracce del morente o del cadavere subito dopo la morte. Con la medicalizzazione della morte, essa non è più stata considerata un fatto naturale, ma sempre solo un fatto traumatico che ha finito per rafforzare i suoi effetti angosciosi. E’ entrata nella sfera degli infortuni e delle catastrofi, è uno spaventoso errore, una imperdonabile trascuratezza o un’insopportabile aggressione anche quando è prevedibile e annunciata da lunghe malattie. L’exitus è considerato un incidente, una disgrazia, qualcosa di non previsto, una responsabilità da addossare a qualcun altro, un evento che la Scienza dovrebbe giungere a controllare e vincere per sempre. I parenti dei pazienti sono sempre più stupiti che possa essere accaduto, che la scienza non abbia potuto impedire l’evento, di chi sia la colpa. Oppure il caregiver si tormenta con sensi di colpa irrealistici, come se fosse normale vivere per sempre e un incomprensibile imprevisto il morire. La morte nella post modernità è diventato un fenomeno, impenetrabile, mai completamente assimilato alla coscienza, alla quale è impossibile conformarsi: per la maggioranza bisogna contrastarla ad ogni costo, sperimentando tutte le possibilità di 12
  • 13. abolirla attraverso la sua rimozione, senza dover soffrire attraverso il faticoso lavoro del lutto. Non rimane che affidarsi alle promesse di immortalità che arrivano dalla medicina attraverso la perseverazione in un massiccio processo di rimozione sociale del sonno eterno. IL MEDICO E LA MORTE Quanti compiti e quante forme verbali per un curante di fronte alla morte! Governare, preparare, curare, guarire, sopportare, attendere, accelerare, impedire, contrastare… Per quanto sia legittimo e doveroso contrastare attraverso l’esercizio della medicina le piaghe che affliggono l’umanità, una resistenza non ragionevole al destino ultimo dei viventi, risulta patetica cocciutaggine. Curare le malattie curabili, rendere meno pesanti quelle non curabili appare doveroso. Resistere fino all’ultimo implica la capacità di distinguere da parte dei malati e dei curanti, ciò che è ragionevole fare e ciò che va al di là del sensato. Naturalmente non ci può essere una scelta che non sia soggettiva e questa scelta dipende dal modo in cui convinzioni/credenze/orientamenti permettono di considerare la vita. Emozioni Nel corso del tempo la figura del medico ha prima affiancato e poi sostituito il prete al fianco del moribondo, esercitando senza accorgersene la sua funzione apostolica attraverso un’idea “Vaga ma quasi irremovibile” di come si dovrebbe morire e di come ci si dovrebbe atteggiare di fronte al termine della vita. Quasi tutti in questa circostanza si è impauriti e imbarazzati, ci si sente chiamati ad affrontare un enigma che non si conosce e non si riesce nemmeno ad immaginare, di fronte al quale le parole appaiono piccoli espedienti per trarsi d’impaccio. Solo il personale sanitario assiste da vicino alla morte e al suo progressivo attuarsi; il medico di famiglia che vede la vita vera, vede anche la morte vera, fuori dall’atmosfera ospedaliera e fuori dalla strada a differenza del medico legale che raccoglie cadaveri di traumatizzati e a differenza del medico d’ospedale che non ha conosciuto il paziente quando ancora era sano. Da questo punto di vista il egli può decidere di essere il custode di una tradizione in cui il rito venga mantenuto, e la vicinanza dei membri della famiglia al moribondo venga incoraggiata e incentivata. Ma qual è il costo emotivo di assistere uno o due o dieci o mille morenti nel corso di una intera vita professionale? Molti colleghi percepiscono la morte del paziente come una disfatta, una scorrettezza, un modo sleale di sottrarsi al potere della scienza. Il costo di questa operazione è elevatissimo, il prezzo è la solitudine in cui il morente viene cacciato da chi, attorno a lui, si ostina a negare che la fine gli sia vicina. Spesso i malati terminali chiedono soltanto la presenza di qualcuno che stia loro accanto, senza velleità di guarigioni o promesse di immortalità. Per poter riuscire a prestare un’assistenza adeguata a un paziente in fase terminale è necessario sottoporre il concetto di morte a un esauriente processo 13
  • 14. di analisi e ricodificazione (Ancona) che implichi un attento insight. Più è lunga la relazione con il paziente, maggiore il coinvolgimento del medico alla sua scomparsa. Il moribondo rimanda al curante un’immagine ferita e degradata che gli diventa insopportabile, egli non fa domande per non ricevere bugie da una medicina dalle facoltà illimitate, ultimo baluardo contro la morte (Mannoni). Il medico risponde attraverso emozioni ai bisogni delle persone seriamente ammalate (che sono emozionalmente vulnerabili): le vuole salvare, ma quando non vi si riesce compare un senso di umiliazione e disfatta, una sensazione di impotenza o il desiderio di prendere le distanze dal malato come unica via di salvezza. Se non vengono esaminate e conosciute, queste emozioni confuse possono influire pesantemente sia sulla qualità del lavoro, sia sull’equilibrio del medico; c’è il rischio che agiscano provocando distacco, indifferenza e riduzione delle capacità di giudizio. Come tutti gli strumenti delicati, anche i medici avrebbero bisogno di una manutenzione che favorisca la conoscenza e il controllo delle ansie. L’ identificazione con il paziente, da strumento di comprensione, può trasformarsi in una fonte di angosce di morte: si immagina di ammalarsi della stessa patologia del paziente, di morire, ci si rende conto dolorosamente di non poter salvare il malato, si provano nei suoi confronti rabbia e risentimento rimproverandogli scarsa collaborazione, avidità o ingratitudine. Tutto ciò amplifica le ansie e provoca una ferita narcisistica non indifferente alle capacità professionali (Perini). Un uso eccessivo di difese regressive di fronte alla morte, l’intolleranza all’ incertezza e al dubbio, le intense angosce, sono scatenate dalla prossimità delle persone malate, ferite, morenti, morte. Lo stereotipo popolare e televisivo pretende che chi cura sappia tenere a bada e anzi sia a suo agio nell’ ignorare le proprie emozioni; una specie di superuomo che sfida la morte senza paura per salvare vite umane. In realtà l’incontro con decessi di ogni genere mette a dura prova l’equilibrio emozionale del medico, che non viene affatto sostenuto dalla cultura professionale al fine di tollerare perdite e lutti. Il paziente che sta per morire è sempre un fattore di fondamentale importanza nel generare ansia. La preoccupazione dell’errore è sempre in agguato e le reazioni sono legate al timore di conseguenze, alla perdita della persona spesso curata per anni. Altre volte la morte del paziente è invece vissuta come una liberazione, come la fine di una oppressione insostenibile. È sempre difficile distinguere di chi è la morte: ogni volta che muore un paziente, muore una parte del curante. È inevitabile che vi sia identificazione, che si senta la presenza della morte e che vi sia la paura del fallimento professionale soprattutto quando l’obbiettivo è la guarigione piuttosto che la cura. La difficoltà dipende dalla fatica profonda di pensare la propria morte, impossibile da concepire dagli inguaribili narcisisti umani. Meccanismi di difesa Alcuni dottori dedicano molto tempo al paziente in una sorta di missionarismo che può indicare onnipotenza, 14
  • 15. negazione della morte, incapacità a percepirla oppure può essere una manifestazione di grandiosità quasi maniacale. E’ pieno di medici che diventano rigidi e scorbutici con i morenti e i loro familiari; alcuni di loro diventano freddi perfino con i propri familiari e amici per evitare qualunque contatto con emozioni incomode. Alla lunga, la censura delle emozioni negative riduce o annulla la possibilità di provare anche le emozioni positive. Ci si costruisce una specie di conchiglia che protegga dalla debolezza e dall’ansia: alla fine se non si è in grado di affrontare, riconoscere e modificare le proprie emozioni, si fallisce perfino nell’efficienza lavorativa. L’educazione disciplinare spinge ad affrontare in termini scarsamente emotivi la morte; la cultura medica dovrebbe modificarsi in modo da fornire supporto a chi si trova ad affrontare lutto, depressione, disperazione e tristezza. I medici giovani parlano poco delle loro impressioni e ricercano al massimo un confronto superficiale con i colleghi anziani che accampano il pretesto di doversi occupare del paziente successivo e non hanno tempo per riflettere o rimuginare sulle emozioni provate. Il dottore erige confini tra l’aspetto professionale e quello emozionale per non venirne travolto, oscilla tra i due estremi della vulnerabilità e dell’onnipotenza con lo stesso automatismo utilizzato quando ad essere malato è egli stesso o qualcuno dei suoi familiari. Passa dalla sottovalutazione all’allarmismo, usa processi emotivi (l’empatia) e cognitivi per analizzare e tenere a bada l’ansia. Dopo l’identificazione con l’altro è necessario fare un passo indietro verso la consapevolezza di sè stessi e di ciò che si sta provando, altrimenti la paura della morte può paralizzare l’auto analisi e la capacità di decidere, di tollerare l’incertezza e di vivere tranquillamente con la coscienza della finitezza del tutto. E’ anche per sfuggire alle angosce che si tratta il malato come un bambino: si da per scontato che non sappia, che non si renda conto, che non conosca la realtà della sua fine tanto quanto il bambino si suppone non conosca la realtà e il significato della morte. Si desidera che egli non si renda conto pur sapendo che egli sa: è la stessa strategia utilizzata per secoli riguardo la sessualità nel mondo occidentale. Con i morenti si rischia di essere troppo aggressivi o nichilisti: da un lato la malattia e la morte vengono antropomorfizzate, diventano il nemico da battere e combattere, oppure si passa dal ruolo di eroi a quello di pulcini nella stoppa, quando le terapie falliscono. La morte del paziente riecheggia la paura di perdita (di familiari, finanziaria) o della perdita della capacità di salvare vite. Il malcelato risentimento verso il paziente e verso la sua mancata guarigione è manifestazione di paura, di repulsione verso la possibilità di diventare come i pazienti: invalidi, incapaci, dipendenti dagli altri, deturpati dal male e dalla solitudine. Paziente e medico mettono in atto meccanismi di difesa analoghi: il curante che non ce la fa si isola, abusa di sostanze, prende le distanze dai bisogni del paziente, oppure al contrario assume il ruolo eroico di chi è infallibile e onnisciente. I sistemi istituzionali e i gruppi servono (Menzies Lyth) a controllare e modificare le esperienze di ansia, senso di colpa, dubbio e incertezza, tuttavia questo genere di evasione dell’ansia ne provoca quasi sempre il ritorno sotto forma di ansie secondarie (Stoccoro). 15
  • 16. Si può anche far fronte a queste ansie attraverso difese personali: si può odiare, proiettare la colpa sul malato (sei tu il colpevole della tua malattia), tentare di controllare tutte le variabili in maniera ossessiva (se sto attento non succede nulla), allontanare il paziente (stammi lontano, non mi contagiare con il tuo malanno) rinunciare alla cura (ciò che faccio non serve a niente), occuparsi solo degli aspetti settoriali (non voglio sapere niente delle tue emozioni, io sono un tecnico), trattare il paziente come fosse un bambino completamente dipendente, attivarsi allo spasimo sperando che l’azione cancelli i pensieri angosciosi (faccio tutto io). Sarcasmo e freddezza, autoritarismo o paternalismo, vergogna o imbarazzo, intellettualizzazione, religiosità, humor, distrazione, fatalismo, sono tutti meccanismi di difesa frequentemente utilizzati. Quando il precario equilibrio tra ansie e difese viene meno, lo stato di affaticamento si propaga dal curante al sistema familiare fino a coinvolgere l’organizzazione del lavoro, che si fa sempre più pesante e sfiancante fino al tracollo personale (Perini). Soluzioni Il MMG deve restare presente e in contatto con l’esperienza della morte senza scappare, deve imparare a proteggersi senza sfuggire al contatto con la sofferenza e il dolore anche attraverso l’educazione ad essere pazienti (Stoccoro). Un altro fattore delicato riguarda gli aspetti vocazionali della scelta professionale; il bisogno di curare e la scelta di fare il medico si basano sulla necessità di sanare se stessi o le figure parentali attaccate e ferite in fantasia, contrastare o dominare i propri bisogni distruttivi e i propri sentimenti di colpa, vincere la morte assumendosi il compito eroico di guarire gli altri (De Martis). Già Freud nel 1927 e Simmel nel 1926 avevano sostenuto che la scelta di fare il medico fosse spesso influenzata da desideri inconsci di tipo sadomasochistico o voyeuristico per i misteri del corpo e della differenza tra i sessi (Schneider 1991). Oltre a ciò non è infrequente che nella storia personale di chi si avvicina alla medicina siano presenti traumi o ferite da riparare per se stesso o per figure significative malate o scomparse. Attraverso la possibilità di guarire si consolida la speranza di poter porre rimedio ai danni subiti o inferti in fantasia. Di solito chi viene spinto da queste motivazioni possiede una speciale generosità ed una particolare capacità di comprendere e identificarsi con il paziente; sebbene si tratti di punti di forza notevoli, questi possono trasformarsi in fattori di fragilità qualora il lavoro diventi logorante al punto da creare linee di frattura proprio su quegli stessi elementi di maggiore vigore (Stoccoro). Il medico di famiglia si assume il compito di rimanere vicino al moribondo e ai suoi parenti; è molto più facile consolarli al posto del malato, al punto che il conforto maggiore è per loro piuttosto che per il morituro. Lo sforzo maggiore consiste nel cercare di fare entrare i pazienti da vivi nella morte (Groddeck, Marie de Hennezel), aiutarli a sentirsi vivi fino alla fine, a mantenere le loro funzioni residue attive e in comunicazione con gli altri. Groddeck, enfant terribile della psicoanalisi prima maniera, nell’ultima parte della sua carriera aveva realizzato una specie di hospice dove seguiva malati terminali. Cercava di farli stare fuori dal letto fino 16
  • 17. alla fine, li faceva passeggiare in giardino finchè potevano, li accompagnava cercando di mantenere i loro sensi svegli nell’approssimarsi di una consapevole e serena fine. Il suo sforzo era quello di non anticipare la morte attraverso l’anestesia delle percezioni e l’isolamento mentale. Kierkegaard scrive che Una cosa è soffrire, l’altra è diventare professore di ciò che un altro soffre. Al medico spetta il compito di soffrire con l’altro, con la contemporanea consapevolezza di stare mettendo in atto una serie di difese che vorrebbero impedire il dolore, mentre simultaneamente la corteccia cerebrale dell’area F4 attraverso i neuroni specchio, riflette e riproduce il male dell’altro dentro il curante. Il dottore tratta la morte come una malattia, pretende di guarirla, di curarla a prescindere da chi la sta vivendo. Quando il malato muore gli si avvicina, lo sfiora, quasi a mostrare che la consuetudine di toccare il corpo vivo non è inibita dalla morte, che egli resta coraggioso sia davanti alla malattia che davanti alla morte. Ecco lo sguardo di ammirazione degli astanti: il medico tocca il paziente anche dopo che è morto, anzi appena morto, quando nessuno ha ancora il coraggio di avvicinarsi a quel corpo che fino a cinque minuti prima era in grado di esprimersi, ragionare, comunicare, sentire emozioni. Quando il paziente non ha più bisogno di cure il medico tenderebbe a eclissarsi, a far finta che il suo lavoro sia finito, mentre invece gli si richiede ancora la presenza, quando ci vuole coraggio a restare in trincea senza più le armi che definiscono il ruolo. Il ruolo professionale del medico di famiglia è definito anche dalla capacità di essere presente in assenza di strumenti tecnici; si tratta di un’eccezione nel mondo sanitario, definito esclusivamente dai mezzi specialistici, completamente costituito dalle specifiche procedure. Ciò che cade fuori da tale ambito riconosciuto è certamente accessorio, e forse anche illegittimo (Cataldi). Quando il medico ha finito di fare quello che deve fare, cosa deve fare? Chi deve preparare alla morte? Cosa deve fare il familiare superstite? Lo si chiede al medico, esperto di vita ed esperto di morte. Se egli è il funzionario della medicina e la medicina l’ultimo baluardo contro la morte, ai medici non resta che agire come difensori ad oltranza della sopravvivenza? Vestendo il camice si obbedisce al ruolo senza altre vie d’uscita? (Cataldi) La preparazione alla morte potrebbe essere considerato come un importante evento di vita (life event), cioè una di quelle situazioni destinate a provocare grosse ripercussioni nell'equilibrio psicologico del soggetto (Migone). Alla fine la paura che si prova davanti alla morte ha una duplice valenza: può essere uno strumento che apre verso la consapevolezza oppure che chiude la mente. Quando non c’è più niente da fare, il da fare che resta si riferisce alla vicinanza e a sottrarre il morente alla sensazione di abbandono. Presenza e Identità devono rimanere intatte sia nel medico che nel paziente fino al termine. 17
  • 18. BIBLIOGRAFIA 1. A Scientific View Of Life, Death, Immortality By Aparthib in http://www.mukto- mona.com/Articles/aparthib/life_death_immorality.htm 2. Andrews P.W., and J. Anderson Thomson Jr.: Depression's Evolutionary Roots Scientific American August 25, 2009 | 3. Ariès P.: Storia della morte in Occidente. RIzzoli, Milano , 1978 4. Armstrong, D.: ‘Making Absences Present: The Contribution of W. R. Bion to the Understanding of Unconscious Social Phenomena’; on-line at http://human nature.com/hraj/armstrong.html 1995 5. Bacciagaluppi M: Il paradigma evoluzionistico in psicoanalisi in http://www.psychomedia.it/pm- proc/opifer/12-paradigma.htm 6. Barron H. Lerner: A doctor's dilemma: Stay stoic or display emotions? http://www.nytimes.com/2008/04/23/health/23iht-22essa.12270843.html 7. Blackburn E. H.: Telomeres and Telomerase: The means To The end nobel lecture, december 7 2009 8. Bonasia E: Il sillogismo malato: la paura di morire e il sacrificio della verità. 1997 http://www.sicap.it/merciai/bion/papers/bonasia.htm 9. Bonte P., Izard M: Dizionario di antropologia e etnologia. Einaudi, Torino, 2006 10. Bowlby J: Attaccamento e Perdita. Vol 3. Bollati Boringhieri, Torino, 2000 11. Bowlby J: Costruzione e rottura dei legami affettivi. Cortina, Milano, 1982 12. Bowlby J: Una base sicura. Cortina, Milano, 1989 13. Bucchi M, Neresini F: Sociologia della salute, Carocci, Roma, 2001 14. Byrne GJA, Raphael B. A longitudinal study of bereavement phenomena in recently widowed elderly men. Psychol Med 1994; 24: 411-421 15. Cataldi G.: comunicazione personale 16. Clayton P. Mortality and morbidity in the first year of widowhood. Arch Gen Psychiatry 1974; 30: 747-750 17. Corbellini G. Donghi P, Massarenti A: Biblioetica. Einaudi, Torino, 2006 18. Corbellini G.: Perché gli scienziati non sono pericolosi. Longanesi, Milano, 2009. 19. Corbellini G: La cellule fa hara-kiri per il bene dell'organismo Il Sole 24 Ore25-02-2001 pagina 32 20. Corbellini G: Breve storia delle idee di salute e malattia. Carocci, Roma. 2004 21. De Martino E: Morte e pianto rituale. Bollati Boringhieri, Torino. 1977 22. Defanti C.A: Soglie. Bollati Boringhieri, Torino, 2007 23. Donohoe M.: Reflections of Physician-Authors on Death: Literary Selections Appropriate for Teaching Rounds. Journal Of Palliative Medicine Volume 5, Number 6, 2002 24. Drobot A.: Freud on Death in http://www.freudfile.org/psychoanalysis/papers_11.html 25. Elias N.: La solitudine del morente. Il Mulino. Bari. 1996. 18
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