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CONVEGNO
IL SISTEMA ECONOMICO ITALIANO NEL MERCATO GLOBALIZZATOTRA
OPPORTUNITA’, OSTACOLI E ILLICEITA’ FISCALE
Università degli Studi di Padova – sede di Treviso - 16 ottobre 2015
“Giurisprudenza eurounitaria e contrasto alle frodi nelle transazioni internazionali di
merci, nei deposti IVA e nell’economia digitale”
Le attività svolte dalle dogane per il contrasto alle frodi nei depositi IVA
Relazione del Dott. Vincenzo De Deo - funzionario dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli
- Direzione Interregionale per il Veneto e il Friuli Venezia Giulia
^^^^^^^^^^^^^^^^^^^
Com’è noto, l’istituto del deposito IVA -disciplinato dall’art. 50 bis del D.L. n.331/1993, convertito
nella legge n. 427/1993 - è nato per agevolare lo scambio internazionale delle merci non destinate
all’immediato consumo sul territorio nazionale, attraverso il differimento dell’esigibilità dell’IVA al
momento dell’immissione in consumo dei beni depositati.
I depositi IVA sono luoghi “fisici” che permettono, a determinate condizioni, di stoccare, custodire,
sottoporre a lavorazione o trasferire la proprietà di beni nazionali, comunitari o di provenienza
extracomunitaria (già immessi in libera pratica), senza pagamento dell’IVA: l’imposta viene assolta
dal soggetto passivo che procede all’estrazione della merce dal deposito, ai fini delle sua
commercializzazione nello Stato, secondo le modalità previste dall’art. 17, comma 2, del DPR n.
633/1972, mediante il meccanismo del reverse charge, in modo da determinare la “sterilizzazione”
dell’imposta; solo al momento della successiva rivendita, egli emetterà una normale fattura, da
annotare sul registro delle vendite, con esposizione dell’IVA relativa (salvo il caso di operazione non
imponibile).
La gestione di un deposito IVA, a seconda dei casi, può essere “autorizzata” ex novo dall’Agenzia
delle Entrate ovvero “consentita” dall’Ufficio delle Dogane competente, nel caso in cui il soggetto
gestore sia già titolare di una autorizzazione alla gestione di un deposito doganale o di un deposito
fiscale ai fini accise (ovvero gestore di magazzini generali, depositi franchi o di imprese operanti in
punti franchi) e richieda di poter esercitare il deposito IVA all’interno dei medesimi siti autorizzati.
Recentemente l’Agenzia delle Entrate, con la Circolare n. 12/E del 24 marzo 2015 ha trattato in
modo esaustivo l’intero istituto del deposito IVA, contribuendo, tra l’altro, a chiarirne taluni aspetti
fino ad alloracontroversi.
Dal canto suo anche l’Agenzia delle Dogane ha emanato, nel tempo, numerose disposizioni di prassi
con riferimento agli aspetti di propria competenza riconducibili alla casistica contemplata
dalla lettera b) dell’art. 50 bis del D.L. n. 331/1993 (“operazioni di immissione in libera pratica di
beni non comunitari destinati ad essere introdotti in un deposito IVA”).
Tale fattispecie, del resto – specie con riferimento alle tipologie di depositi già doganali, gestiti per
conto terzi - non di rado ha prestato il fianco alla realizzazione di veri e propri fenomeni di evasione
dell’imposta, tanto da indurre il legislatore tributario - con l’art. 7, comma 2, del D.L. n. 70/2011 - a
prevedere una modifica della norma in esame, nel senso di richiedere la preventiva “prestazione di
idonea garanzia commisurata all’imposta”, che sarà svincolata dal competente ufficio doganale
solo a seguito dell’avvenuta comunicazione al gestore del deposito IVA, da parte del soggetto che
procede all’estrazione, dei “dati relativi alla liquidazione dell’imposta”, da trasmettere altresì
all’ufficio interessato.
La disciplina del deposito IVA è stata sempre oggetto di forti contrasti interpretativi in relazione alle
tematiche di seguito indicate:
- definizione dei presupposti necessari per la fruizione del regime agevolativo;
- conseguenze derivanti dal disconoscimento del regime agevolativo medesimo in caso di
mancata introduzione delle merci nel deposito IVA;
- utilizzo fraudolento del deposito IVA.
Basti pensare – sotto il primo profilo e con riferimento, come già precisato, all’esperienza
“doganale”- alla lunga ed annosa diatriba sull’ammissibilità o meno del cd. “deposito virtuale”, in
cui le merci vengono introdotte non fisicamente ma soltanto contabilmente, mediante la loro
iscrizione nel registro di magazzino del depositario, in relazione alla quale lo stesso legislatore
nazionale è stato costretto più volte ad emanare specifiche norme interpretative nell’intento di
chiarire il concetto di “introduzione delle merci nel deposito”.
Intendo, in particolare, riferirmi, alla dibattuta “interpretazione” della lettera h) del comma 4 del
già citato articolo 50 bis, oggetto di diversi interventi legislativi finalizzati a chiarire che
l’introduzione nel deposito IVA (e la funzione stessa di custodia) deve intendersi realizzata qualora
ricorra una delle seguenti casistiche, alternative tra loro:
- l’ingresso fisico della merce all’interno del deposito (a prescindere dai tempi di giacenza);
- l’ingresso fisico nel deposito del mezzo che trasporta le merci, senza che queste siano
necessariamente scaricate (anche in tal caso senza la necessità che venga rispettato un
tempo minimo di giacenza);
- l’ingresso fisico delle merci o del mezzo di trasporto (anche in tal caso, senza necessità di
scarico delle merci stesse) in luoghi o spazi limitrofi al deposito, ove possono materialmente
effettuarsi le prestazioni di servizi esenti da IVA, previste dalla norma in esame (operazioni
di perfezionamento e manipolazioni usuali), per un tempo non superiore a 60 giorni.
Per quanto concerne poi, l’aspetto sanzionatorio, va osservato che la stessa Agenzia delle Dogane
– ovviamente sempre con riferimento alle operazioni di “immissione in libera pratica di beni non
comunitari destinati ad essere introdotti in un deposito IVA” - con la Circolare n. 23/D del 2007
ebbe ad istruire i dipendenti uffici operativi nel senso che la mancata introduzione delle merci nel
deposito comportasse:
- “la nascita dell’obbligazione tributaria a titolo di IVA all’importazione, che non viene meno
per l’avvenuto assolvimento degli obblighi che attengono alla liquidazione e all’eventuale
pagamento dell’IVA interna”;
- la contestazione al dichiarante, autore dell’omesso versamento, della sanzione
amministrativa prevista dall’art. 13, comma 2, del D. L. vo n. 471/1997, per l’omesso
pagamento dell’IVA all’importazione, pari al 30% del tributo dovuto calcolato con
riferimento alla data di accettazione della dichiarazione doganale di importazione;
- l’obbligo di rapporto all’A.G. penale per l’ipotesi di reato di contrabbando aggravato,
prevista dall’art. 295, 2° comma, lett. c) del DPR n. 43/1973 (TULD), per sottrazione dei beni
al pagamento dell’IVA all’importazione.
E’ evidente come tale impostazione muove dal presupposto (spesso dibattuto, soprattutto in
giurisprudenza) se l’ “IVA sulle importazioni” – in quanto “accertata, liquidata e riscossa per
ciascuna operazione” (come recita l’art. 70 del DPR n. 633/1972) - abbia una propria autonomia
giuridica di “diritto di confine”, “giustificata” dal rinvio operato dallo stesso art. 70 all’applicazione
delle “leggi doganali relative ai diritti di confine”, in tema di controversie e sanzioni, rispetto all’IVA
normalmente corrisposta nell’ambito delle operazioni imponibili, attraverso il ricorso al sistema del
calcolo delle “masse” attive e passive in fase di liquidazione periodica dell’imposta; la risposta
affermativa comporta che in caso di mancata riscossione in dogana dell’IVA all’importazione, sarà
sempre possibile richiedere il pagamento del tributo (diritto di confine) all’importatore (o
dichiarante doganale), non solo in caso di comportamento finalizzato all’evasione dell’imposta
(contrabbando penale o amministrativo), ma anche qualora egli, pur in assenza di intenti evasivi,
abbia comunque assolto all’onere tributario con le modalità previste dalla legge (reverse charge).
Sul tema delle conseguenze sanzionatorie della mancata introduzione delle merci nei depositi IVA è
intervenuta, recentemente, la sentenza della Corte di Giustizia UE C-272/13 del 17 luglio 2014,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte dalla CTR per la
Toscana, nel procedimento Equoland soc. coop. a r.l. contro l’Ufficio del Dogane di Livorno (caso
Equoland), anch’esso relativo ad un caso di “deposito virtuale”.
In particolare, l’Organo giurisdizionale ha affermato che:
- in coerenza con l’art. 16, paragrafo 1, della Sesta Direttiva IVA n. 77/388 e ss. mm., il
legislatore italiano è legittimato a prevedere che il soggetto passivo ha l’obbligo di
introdurre fisicamente la merce importata nel deposito IVA, poiché si presume che tale
presenza fisica garantisca la successiva riscossione dell’imposta;
- qualora dalla mancata osservanza dell’obbligo di introdurre fisicamente le merci in
deposito non derivi evasione dell’IVA – in quanto l’imposta non pagata all’importazione, in
coerenza con il principio di neutralità, viene comunque assolta dal contribuente con il
meccanismo del reverse charge, cioè con una regolarizzazione che comporta soltanto un
ritardato pagamento non equiparabile ad un tentativo di evasione o di frode – la violazione
in argomento avrebbe natura formale; ciò comporta che la relativa sanzione prevista dalla
legislazione nazionale, in ossequio al principio di proporzionalità, non può arrivare fino al
punto di richiedere al soggetto passivo il pagamento dell’IVA già assolta con il meccanismo
dell’inversione contabile (equiparando, di fatto, il versamento “tardivo” dell’IVA ad una vera
e propria frode volta ad ottenere il mancato versamento dell’imposta), né potrà
determinarsi esclusivamente in relazione al mancato pagamento dell’imposta, ma, dovendo
tener conto della natura e della gravità dell’infrazione che la sanzione stessa mira a
penalizzare, essa dovrà essere opportunamente graduata in funzione dell’ampiezza
temporale in cui viene effettivamente assolto il relativo onere tributario.
Sulla base di tale sentenza l’Agenzia delle Dogane, con Circolare n.16/D del 20 ottobre 2014, ha
fornito istruzioni ai dipendenti uffici operativi affinchè, in relazione ai numerosi contesti ancora
aperti in tema di “depositi virtuali” ed in assenza di profili di frode a danno dell’Erario, si
procedesse, oltre all’abbandono in via di autotutela dei contenziosi pendenti in ordine al
pagamento dell’IVA, anche alla riformulazione degli atti di contestazione delle sanzioni
amministrative già emanati sulla base delle pregresse istruzioni, nel senso di ritenere applicabile
non più il solo disposto di cui all’art. 13, comma 1, 1° periodo, del D. Lgs. 471/1997 (30% dell’intero
tributo non versato all’atto dell’importazione), ma il meccanismo di graduazione della sanzione
contemplato dal 2° periodo della norma medesima (1/15 del 30% del tributo dovuto, per ciascun
giorno di ritardo decorrente dalla data di annotazione dell’autofattura nei registri IVA, rispetto alla
data di accettazione della dichiarazione doganale di importazione).
Nel contempo, l’Agenzia delle Dogane ha escluso un’applicazione generalizzata delle statuizioni dei
giudici europei a situazioni diverse dall’istituto del deposito fiscale ai fini IVA, con ciò suscitando
perplessità in coloro che ritengono, invece, che il campo di azione della decisione della Corte di
Giustizia possa ricomprendere anche le ipotesi – di estrema attualità - in cui sia in discussione la
debenza dell’IVA in dogana in relazione ai costi per lo sfruttamento di diritti di licenza e royalties
che concorrono a formare la base imponibile del valore doganale, qualora l’imposta sia stata
comunque assolta dall’importatore/licenziatario nell’ambito del meccanismo del reverse charge.
Anche la Corte di Cassazione ha recepito le indicazioni della Corte di Giustizia UE in due recenti
sentenze della VI sezione tributaria (n. 16109/15 depositata il 29 luglio 2015 e n. 17814/15 dell’8
settembre 2015) - riguardanti anch’esse casi di utilizzo del deposito IVA “virtuale” con assolvimento
dell’imposta mediante l’emissione dell’autofattura, regolarmente annotata nei registri contabili - in
cui, contrariamente all’orientamento fino ad allora prevalente (almeno all’interno della stessa
sezione tributaria), è stato di fatto affermato il principio secondo cui l’IVA interna e l’IVA
all’importazione si distinguono unicamente per le diverse modalità di riscossione e l’avvenuto
“pagamento” con il sistema del reverse charge non può comportare una nuova richiesta di
pagamento da parte del Fisco.
Ulteriori e diverse considerazioni devono essere fatte in relazione alla nozione di fraudolento
utilizzo del depositoIVA.
Come già si è evidenziato, l’utilizzo del deposito IVA permette di “trasformare” il presupposto
impositivo IVA dell’ “importazione da chiunque effettuata” (art. 1, comma 1, seconda parte del DPR
633/1972), cui consegue l’immediato pagamento del tributo, nel presupposto impositivo previsto
invece dalla prima parte del citato articolo, ossia la “cessione dei beni e la prestazione di servizi
effettuata nel territorio dello Stato”; tale spostamento in avanti del momento impositivo rende
potenzialmente più facile attuare una frode all’IVA.
Infatti il soggetto giuridico reale destinatario della merce importata, che abbia propositi evasivi o di
frode, ben potrebbe utilizzare al suo posto una società cd. “cartiera” interposta (missing trader) per
eseguire correttamente le procedure di introduzione ed estrazione dalle quali non scaturisce alcun
obbligo di versamento dell’IVA, per poi non versare l’imposta a debito incassata a titolo di rivalsa
nella successiva rivendita dei beni sul territorio nazionale, facendo sparire la “cartiera” o
spostandone la sede all’estero; il mancato versamento dell’IVA permetterebbe alla società
“cartiera” di rivendere le merci sul territorio nazionale ad un prezzo altamente competitivo, a tutto
vantaggio (illecito) del reale destinatario della merce, autore della frode, che a sua volta
acquisirebbe anche il diritto di detrarre l’IVA pagata al proprio “compiacente” fornitore (e cioè, in
pratica, a se stesso).
Questo è il classico esempio - peraltro nello schema più semplificato – di una “frode carosello”,
perpetrata attraverso l’utilizzo “regolare” del deposito IVA, che troppe volte ha trovato effettivo
riscontro nell’operatività doganale, al cui contrasto mira peraltro il novellato dell’art. 50 bis, comma
6, del D.L. 331/1993, nella parte in cui si prevede – a seguito della modifica apportata dall’art. 2 del
D.L. n. 138/2011 - che l’estrazione dal deposito IVA “può essere effettuata solo da soggetti passivi
d’imposta agli effetti dell’IVA iscritti alla Camera di Commercio … da almeno un anno, che
dimostrino una effettiva operatività e attestino regolarità dei versamenti IVA …”.
In relazioni a simili comportamenti fraudolenti si pone l’interrogativo: il regime agevolato del
deposito IVA verrebbe fraudolentemente sfruttato al fine di non pagare l’IVA dovuta in dogana
all’atto dell’importazione, con la conseguenza che il comportamento dell’autore (o degli autori)
dell’illecito configura una vera e propria evasione di IVA all’importazione punibile – per effetto del
rinvio operato dall’art. 70 del DPR 633/1972 alle norme sanzionatorie del TULD – con le pene
previste per il reato del contrabbando doganale aggravato (multa non minore di 5 e non maggiore
di 10 volte l’IVA evasa e reclusione da 3 a 5 anni), alla stregua di una vera e propria ““sottrazione
della merce al pagamento dei diritti di confine”?
Oppure, essendo stata la merce “correttamente” introdotta ed estratta dal deposito, a mezzo di
autofattura, l’operazione di immissione in libera pratica si è regolarmente perfezionata e pertanto
l’IVA evasa resta quella dovuta in relazione al verificarsi del diverso presupposto impositivo della
cessione della merce nel territorio nazionale, con la conseguente configurabilità dei delitti di
omesso versamento dell’imposta e/o omessa dichiarazione, previsti e puniti rispettivamente dagli
articoli 10-ter e 5 del D. L.vo n. 74/2000, eventualmente concorrendo anche il delitto di emissione
di fatture per operazioni (soggettivamente) inesistenti, di cui all’art. 8 del medesimo D. L.vo?
Nella prassi doganale prevale la prima tesi, motivata dalla sostanziale fittizietà dell’operazione di
immissione in libera pratica, posto che l’effettiva esistenza del soggetto depositante (il quale,
spesso, pur se dotato di partita IVA, non esercita di fatto l’attività, non istituisce le scritture contabili
o non provvede ad annotarvi le fatture ed omette sistematicamente tutti i versamenti delle
imposte) costituisce un requisito imprescindibile per il funzionamento dell’istituto, in assenza del
quale l’operazione doganale posta in essere non può considerarsi quale “immissione in libera
pratica con contestuale introduzione in deposito IVA”, quanto piuttosto quale “importazione
definitiva”, con la conseguente immediata debenza dell’IVA ai sensi dell’art. 70 DPR 633/1972 e
l’applicazione del regime sanzionatorio previsto dal TULD.
In coerenza con tale impostazione e con la fondamentale esigenza di perseguire i reali autori e
beneficiari degli illeciti finanziari, gli uffici doganali propongono alla valutazione della competente
Autorità Giudiziaria - con esiti non sempre favorevoli - informative di reato che pur riportando tutte
le tipologie di ipotesi delittuose sopra delineate, pongono nel dovuto rilievo le più gravi
conseguenze che la prefigurazione del reato del contrabbando aggravato comporta, oltre che sotto
il profilo del trattamento sanzionatorio, in ordine ai seguenti ulteriori aspetti, di rilievo sia
penalistico che amministrativo:
- maggiore complessità dell’attività di ricerca delle fonti di prova, da parte della polizia
giudiziaria delegata (spesso gli stessi funzionari dell’Agenzia delle Dogane), idonee a
supportare la prefigurata consapevole (e dolosa) realizzazione del disegno criminoso
finalizzato all’evasione dell’IVA fin dalla presentazione in dogana delle merci, in modo da
consentire al PM di assolvere al proprio onere probatorio, sia in sede di udienza preliminare
che nella successiva eventuale fase dibattimentale del processo;
- possibilità di utilizzare, nell’ambito delle indagini di polizia giudiziaria delegate, mezzi di
prova di maggiore efficacia ai fini della dimostrazione del prefigurato vincolo associativo fra
gli autori dell’illecito (es. ricorso ad intercettazioni telefoniche ed ambientali)
- indeducibilità ai fini delle imposte dirette dei costi sostenuti e direttamente utilizzati
dall’imputato per la commissione del reato di contrabbando, ai sensi dell’art. 14, comma 4
bis, della legge n. 537/1993, novellato dall’art. 8, comma 1, del D.L. n.15/2012;
- insorgenza dell’obbligazione doganale relativa al pagamento dell’IVA all’importazione anche
in capo al dichiarante doganale che abbia agito in regime di rappresentanza indiretta, in
solido con il proprietario/importatore delle merci, nel caso in cui quest’ultimo fosse
condannato, in via definitiva, per il delitto di contrabbando aggravato.
^^^^^^^^^^^^^^^^^^
Il presente elaborato riflette esclusivamente il pensiero del suo autore e non vincola in alcun modo l’Agenzia
delle Dogane e dei Monopoli

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Dott. vincenzo de deo 16.10.2015

  • 1. CONVEGNO IL SISTEMA ECONOMICO ITALIANO NEL MERCATO GLOBALIZZATOTRA OPPORTUNITA’, OSTACOLI E ILLICEITA’ FISCALE Università degli Studi di Padova – sede di Treviso - 16 ottobre 2015 “Giurisprudenza eurounitaria e contrasto alle frodi nelle transazioni internazionali di merci, nei deposti IVA e nell’economia digitale” Le attività svolte dalle dogane per il contrasto alle frodi nei depositi IVA Relazione del Dott. Vincenzo De Deo - funzionario dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli - Direzione Interregionale per il Veneto e il Friuli Venezia Giulia ^^^^^^^^^^^^^^^^^^^ Com’è noto, l’istituto del deposito IVA -disciplinato dall’art. 50 bis del D.L. n.331/1993, convertito nella legge n. 427/1993 - è nato per agevolare lo scambio internazionale delle merci non destinate all’immediato consumo sul territorio nazionale, attraverso il differimento dell’esigibilità dell’IVA al momento dell’immissione in consumo dei beni depositati. I depositi IVA sono luoghi “fisici” che permettono, a determinate condizioni, di stoccare, custodire, sottoporre a lavorazione o trasferire la proprietà di beni nazionali, comunitari o di provenienza extracomunitaria (già immessi in libera pratica), senza pagamento dell’IVA: l’imposta viene assolta dal soggetto passivo che procede all’estrazione della merce dal deposito, ai fini delle sua commercializzazione nello Stato, secondo le modalità previste dall’art. 17, comma 2, del DPR n. 633/1972, mediante il meccanismo del reverse charge, in modo da determinare la “sterilizzazione” dell’imposta; solo al momento della successiva rivendita, egli emetterà una normale fattura, da annotare sul registro delle vendite, con esposizione dell’IVA relativa (salvo il caso di operazione non imponibile). La gestione di un deposito IVA, a seconda dei casi, può essere “autorizzata” ex novo dall’Agenzia delle Entrate ovvero “consentita” dall’Ufficio delle Dogane competente, nel caso in cui il soggetto gestore sia già titolare di una autorizzazione alla gestione di un deposito doganale o di un deposito fiscale ai fini accise (ovvero gestore di magazzini generali, depositi franchi o di imprese operanti in punti franchi) e richieda di poter esercitare il deposito IVA all’interno dei medesimi siti autorizzati. Recentemente l’Agenzia delle Entrate, con la Circolare n. 12/E del 24 marzo 2015 ha trattato in modo esaustivo l’intero istituto del deposito IVA, contribuendo, tra l’altro, a chiarirne taluni aspetti fino ad alloracontroversi. Dal canto suo anche l’Agenzia delle Dogane ha emanato, nel tempo, numerose disposizioni di prassi con riferimento agli aspetti di propria competenza riconducibili alla casistica contemplata
  • 2. dalla lettera b) dell’art. 50 bis del D.L. n. 331/1993 (“operazioni di immissione in libera pratica di beni non comunitari destinati ad essere introdotti in un deposito IVA”). Tale fattispecie, del resto – specie con riferimento alle tipologie di depositi già doganali, gestiti per conto terzi - non di rado ha prestato il fianco alla realizzazione di veri e propri fenomeni di evasione dell’imposta, tanto da indurre il legislatore tributario - con l’art. 7, comma 2, del D.L. n. 70/2011 - a prevedere una modifica della norma in esame, nel senso di richiedere la preventiva “prestazione di idonea garanzia commisurata all’imposta”, che sarà svincolata dal competente ufficio doganale solo a seguito dell’avvenuta comunicazione al gestore del deposito IVA, da parte del soggetto che procede all’estrazione, dei “dati relativi alla liquidazione dell’imposta”, da trasmettere altresì all’ufficio interessato. La disciplina del deposito IVA è stata sempre oggetto di forti contrasti interpretativi in relazione alle tematiche di seguito indicate: - definizione dei presupposti necessari per la fruizione del regime agevolativo; - conseguenze derivanti dal disconoscimento del regime agevolativo medesimo in caso di mancata introduzione delle merci nel deposito IVA; - utilizzo fraudolento del deposito IVA. Basti pensare – sotto il primo profilo e con riferimento, come già precisato, all’esperienza “doganale”- alla lunga ed annosa diatriba sull’ammissibilità o meno del cd. “deposito virtuale”, in cui le merci vengono introdotte non fisicamente ma soltanto contabilmente, mediante la loro iscrizione nel registro di magazzino del depositario, in relazione alla quale lo stesso legislatore nazionale è stato costretto più volte ad emanare specifiche norme interpretative nell’intento di chiarire il concetto di “introduzione delle merci nel deposito”. Intendo, in particolare, riferirmi, alla dibattuta “interpretazione” della lettera h) del comma 4 del già citato articolo 50 bis, oggetto di diversi interventi legislativi finalizzati a chiarire che l’introduzione nel deposito IVA (e la funzione stessa di custodia) deve intendersi realizzata qualora ricorra una delle seguenti casistiche, alternative tra loro: - l’ingresso fisico della merce all’interno del deposito (a prescindere dai tempi di giacenza); - l’ingresso fisico nel deposito del mezzo che trasporta le merci, senza che queste siano necessariamente scaricate (anche in tal caso senza la necessità che venga rispettato un tempo minimo di giacenza); - l’ingresso fisico delle merci o del mezzo di trasporto (anche in tal caso, senza necessità di scarico delle merci stesse) in luoghi o spazi limitrofi al deposito, ove possono materialmente effettuarsi le prestazioni di servizi esenti da IVA, previste dalla norma in esame (operazioni di perfezionamento e manipolazioni usuali), per un tempo non superiore a 60 giorni. Per quanto concerne poi, l’aspetto sanzionatorio, va osservato che la stessa Agenzia delle Dogane – ovviamente sempre con riferimento alle operazioni di “immissione in libera pratica di beni non comunitari destinati ad essere introdotti in un deposito IVA” - con la Circolare n. 23/D del 2007
  • 3. ebbe ad istruire i dipendenti uffici operativi nel senso che la mancata introduzione delle merci nel deposito comportasse: - “la nascita dell’obbligazione tributaria a titolo di IVA all’importazione, che non viene meno per l’avvenuto assolvimento degli obblighi che attengono alla liquidazione e all’eventuale pagamento dell’IVA interna”; - la contestazione al dichiarante, autore dell’omesso versamento, della sanzione amministrativa prevista dall’art. 13, comma 2, del D. L. vo n. 471/1997, per l’omesso pagamento dell’IVA all’importazione, pari al 30% del tributo dovuto calcolato con riferimento alla data di accettazione della dichiarazione doganale di importazione; - l’obbligo di rapporto all’A.G. penale per l’ipotesi di reato di contrabbando aggravato, prevista dall’art. 295, 2° comma, lett. c) del DPR n. 43/1973 (TULD), per sottrazione dei beni al pagamento dell’IVA all’importazione. E’ evidente come tale impostazione muove dal presupposto (spesso dibattuto, soprattutto in giurisprudenza) se l’ “IVA sulle importazioni” – in quanto “accertata, liquidata e riscossa per ciascuna operazione” (come recita l’art. 70 del DPR n. 633/1972) - abbia una propria autonomia giuridica di “diritto di confine”, “giustificata” dal rinvio operato dallo stesso art. 70 all’applicazione delle “leggi doganali relative ai diritti di confine”, in tema di controversie e sanzioni, rispetto all’IVA normalmente corrisposta nell’ambito delle operazioni imponibili, attraverso il ricorso al sistema del calcolo delle “masse” attive e passive in fase di liquidazione periodica dell’imposta; la risposta affermativa comporta che in caso di mancata riscossione in dogana dell’IVA all’importazione, sarà sempre possibile richiedere il pagamento del tributo (diritto di confine) all’importatore (o dichiarante doganale), non solo in caso di comportamento finalizzato all’evasione dell’imposta (contrabbando penale o amministrativo), ma anche qualora egli, pur in assenza di intenti evasivi, abbia comunque assolto all’onere tributario con le modalità previste dalla legge (reverse charge). Sul tema delle conseguenze sanzionatorie della mancata introduzione delle merci nei depositi IVA è intervenuta, recentemente, la sentenza della Corte di Giustizia UE C-272/13 del 17 luglio 2014, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte dalla CTR per la Toscana, nel procedimento Equoland soc. coop. a r.l. contro l’Ufficio del Dogane di Livorno (caso Equoland), anch’esso relativo ad un caso di “deposito virtuale”. In particolare, l’Organo giurisdizionale ha affermato che: - in coerenza con l’art. 16, paragrafo 1, della Sesta Direttiva IVA n. 77/388 e ss. mm., il legislatore italiano è legittimato a prevedere che il soggetto passivo ha l’obbligo di introdurre fisicamente la merce importata nel deposito IVA, poiché si presume che tale presenza fisica garantisca la successiva riscossione dell’imposta; - qualora dalla mancata osservanza dell’obbligo di introdurre fisicamente le merci in deposito non derivi evasione dell’IVA – in quanto l’imposta non pagata all’importazione, in coerenza con il principio di neutralità, viene comunque assolta dal contribuente con il meccanismo del reverse charge, cioè con una regolarizzazione che comporta soltanto un
  • 4. ritardato pagamento non equiparabile ad un tentativo di evasione o di frode – la violazione in argomento avrebbe natura formale; ciò comporta che la relativa sanzione prevista dalla legislazione nazionale, in ossequio al principio di proporzionalità, non può arrivare fino al punto di richiedere al soggetto passivo il pagamento dell’IVA già assolta con il meccanismo dell’inversione contabile (equiparando, di fatto, il versamento “tardivo” dell’IVA ad una vera e propria frode volta ad ottenere il mancato versamento dell’imposta), né potrà determinarsi esclusivamente in relazione al mancato pagamento dell’imposta, ma, dovendo tener conto della natura e della gravità dell’infrazione che la sanzione stessa mira a penalizzare, essa dovrà essere opportunamente graduata in funzione dell’ampiezza temporale in cui viene effettivamente assolto il relativo onere tributario. Sulla base di tale sentenza l’Agenzia delle Dogane, con Circolare n.16/D del 20 ottobre 2014, ha fornito istruzioni ai dipendenti uffici operativi affinchè, in relazione ai numerosi contesti ancora aperti in tema di “depositi virtuali” ed in assenza di profili di frode a danno dell’Erario, si procedesse, oltre all’abbandono in via di autotutela dei contenziosi pendenti in ordine al pagamento dell’IVA, anche alla riformulazione degli atti di contestazione delle sanzioni amministrative già emanati sulla base delle pregresse istruzioni, nel senso di ritenere applicabile non più il solo disposto di cui all’art. 13, comma 1, 1° periodo, del D. Lgs. 471/1997 (30% dell’intero tributo non versato all’atto dell’importazione), ma il meccanismo di graduazione della sanzione contemplato dal 2° periodo della norma medesima (1/15 del 30% del tributo dovuto, per ciascun giorno di ritardo decorrente dalla data di annotazione dell’autofattura nei registri IVA, rispetto alla data di accettazione della dichiarazione doganale di importazione). Nel contempo, l’Agenzia delle Dogane ha escluso un’applicazione generalizzata delle statuizioni dei giudici europei a situazioni diverse dall’istituto del deposito fiscale ai fini IVA, con ciò suscitando perplessità in coloro che ritengono, invece, che il campo di azione della decisione della Corte di Giustizia possa ricomprendere anche le ipotesi – di estrema attualità - in cui sia in discussione la debenza dell’IVA in dogana in relazione ai costi per lo sfruttamento di diritti di licenza e royalties che concorrono a formare la base imponibile del valore doganale, qualora l’imposta sia stata comunque assolta dall’importatore/licenziatario nell’ambito del meccanismo del reverse charge. Anche la Corte di Cassazione ha recepito le indicazioni della Corte di Giustizia UE in due recenti sentenze della VI sezione tributaria (n. 16109/15 depositata il 29 luglio 2015 e n. 17814/15 dell’8 settembre 2015) - riguardanti anch’esse casi di utilizzo del deposito IVA “virtuale” con assolvimento dell’imposta mediante l’emissione dell’autofattura, regolarmente annotata nei registri contabili - in cui, contrariamente all’orientamento fino ad allora prevalente (almeno all’interno della stessa sezione tributaria), è stato di fatto affermato il principio secondo cui l’IVA interna e l’IVA all’importazione si distinguono unicamente per le diverse modalità di riscossione e l’avvenuto “pagamento” con il sistema del reverse charge non può comportare una nuova richiesta di pagamento da parte del Fisco. Ulteriori e diverse considerazioni devono essere fatte in relazione alla nozione di fraudolento utilizzo del depositoIVA.
  • 5. Come già si è evidenziato, l’utilizzo del deposito IVA permette di “trasformare” il presupposto impositivo IVA dell’ “importazione da chiunque effettuata” (art. 1, comma 1, seconda parte del DPR 633/1972), cui consegue l’immediato pagamento del tributo, nel presupposto impositivo previsto invece dalla prima parte del citato articolo, ossia la “cessione dei beni e la prestazione di servizi effettuata nel territorio dello Stato”; tale spostamento in avanti del momento impositivo rende potenzialmente più facile attuare una frode all’IVA. Infatti il soggetto giuridico reale destinatario della merce importata, che abbia propositi evasivi o di frode, ben potrebbe utilizzare al suo posto una società cd. “cartiera” interposta (missing trader) per eseguire correttamente le procedure di introduzione ed estrazione dalle quali non scaturisce alcun obbligo di versamento dell’IVA, per poi non versare l’imposta a debito incassata a titolo di rivalsa nella successiva rivendita dei beni sul territorio nazionale, facendo sparire la “cartiera” o spostandone la sede all’estero; il mancato versamento dell’IVA permetterebbe alla società “cartiera” di rivendere le merci sul territorio nazionale ad un prezzo altamente competitivo, a tutto vantaggio (illecito) del reale destinatario della merce, autore della frode, che a sua volta acquisirebbe anche il diritto di detrarre l’IVA pagata al proprio “compiacente” fornitore (e cioè, in pratica, a se stesso). Questo è il classico esempio - peraltro nello schema più semplificato – di una “frode carosello”, perpetrata attraverso l’utilizzo “regolare” del deposito IVA, che troppe volte ha trovato effettivo riscontro nell’operatività doganale, al cui contrasto mira peraltro il novellato dell’art. 50 bis, comma 6, del D.L. 331/1993, nella parte in cui si prevede – a seguito della modifica apportata dall’art. 2 del D.L. n. 138/2011 - che l’estrazione dal deposito IVA “può essere effettuata solo da soggetti passivi d’imposta agli effetti dell’IVA iscritti alla Camera di Commercio … da almeno un anno, che dimostrino una effettiva operatività e attestino regolarità dei versamenti IVA …”. In relazioni a simili comportamenti fraudolenti si pone l’interrogativo: il regime agevolato del deposito IVA verrebbe fraudolentemente sfruttato al fine di non pagare l’IVA dovuta in dogana all’atto dell’importazione, con la conseguenza che il comportamento dell’autore (o degli autori) dell’illecito configura una vera e propria evasione di IVA all’importazione punibile – per effetto del rinvio operato dall’art. 70 del DPR 633/1972 alle norme sanzionatorie del TULD – con le pene previste per il reato del contrabbando doganale aggravato (multa non minore di 5 e non maggiore di 10 volte l’IVA evasa e reclusione da 3 a 5 anni), alla stregua di una vera e propria ““sottrazione della merce al pagamento dei diritti di confine”? Oppure, essendo stata la merce “correttamente” introdotta ed estratta dal deposito, a mezzo di autofattura, l’operazione di immissione in libera pratica si è regolarmente perfezionata e pertanto l’IVA evasa resta quella dovuta in relazione al verificarsi del diverso presupposto impositivo della cessione della merce nel territorio nazionale, con la conseguente configurabilità dei delitti di omesso versamento dell’imposta e/o omessa dichiarazione, previsti e puniti rispettivamente dagli articoli 10-ter e 5 del D. L.vo n. 74/2000, eventualmente concorrendo anche il delitto di emissione di fatture per operazioni (soggettivamente) inesistenti, di cui all’art. 8 del medesimo D. L.vo?
  • 6. Nella prassi doganale prevale la prima tesi, motivata dalla sostanziale fittizietà dell’operazione di immissione in libera pratica, posto che l’effettiva esistenza del soggetto depositante (il quale, spesso, pur se dotato di partita IVA, non esercita di fatto l’attività, non istituisce le scritture contabili o non provvede ad annotarvi le fatture ed omette sistematicamente tutti i versamenti delle imposte) costituisce un requisito imprescindibile per il funzionamento dell’istituto, in assenza del quale l’operazione doganale posta in essere non può considerarsi quale “immissione in libera pratica con contestuale introduzione in deposito IVA”, quanto piuttosto quale “importazione definitiva”, con la conseguente immediata debenza dell’IVA ai sensi dell’art. 70 DPR 633/1972 e l’applicazione del regime sanzionatorio previsto dal TULD. In coerenza con tale impostazione e con la fondamentale esigenza di perseguire i reali autori e beneficiari degli illeciti finanziari, gli uffici doganali propongono alla valutazione della competente Autorità Giudiziaria - con esiti non sempre favorevoli - informative di reato che pur riportando tutte le tipologie di ipotesi delittuose sopra delineate, pongono nel dovuto rilievo le più gravi conseguenze che la prefigurazione del reato del contrabbando aggravato comporta, oltre che sotto il profilo del trattamento sanzionatorio, in ordine ai seguenti ulteriori aspetti, di rilievo sia penalistico che amministrativo: - maggiore complessità dell’attività di ricerca delle fonti di prova, da parte della polizia giudiziaria delegata (spesso gli stessi funzionari dell’Agenzia delle Dogane), idonee a supportare la prefigurata consapevole (e dolosa) realizzazione del disegno criminoso finalizzato all’evasione dell’IVA fin dalla presentazione in dogana delle merci, in modo da consentire al PM di assolvere al proprio onere probatorio, sia in sede di udienza preliminare che nella successiva eventuale fase dibattimentale del processo; - possibilità di utilizzare, nell’ambito delle indagini di polizia giudiziaria delegate, mezzi di prova di maggiore efficacia ai fini della dimostrazione del prefigurato vincolo associativo fra gli autori dell’illecito (es. ricorso ad intercettazioni telefoniche ed ambientali) - indeducibilità ai fini delle imposte dirette dei costi sostenuti e direttamente utilizzati dall’imputato per la commissione del reato di contrabbando, ai sensi dell’art. 14, comma 4 bis, della legge n. 537/1993, novellato dall’art. 8, comma 1, del D.L. n.15/2012; - insorgenza dell’obbligazione doganale relativa al pagamento dell’IVA all’importazione anche in capo al dichiarante doganale che abbia agito in regime di rappresentanza indiretta, in solido con il proprietario/importatore delle merci, nel caso in cui quest’ultimo fosse condannato, in via definitiva, per il delitto di contrabbando aggravato. ^^^^^^^^^^^^^^^^^^ Il presente elaborato riflette esclusivamente il pensiero del suo autore e non vincola in alcun modo l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli