1. Il Gigante
Ho sempre pensato che se mai avessi dovuto scrivere un racconto su una vita (o su degli episodi di questa)
avrei cominciato con un incipit che permettesse di “partire col botto”, pensando che con un capoverso
memorabile tutto sarebbe venuto da sé. Ora, si dia il caso che il soggetto di questa vita sia mio nonno ed
essendo tale trova la sua migliore definizione nell’idea che avevo di lui a cinque anni; certo, non sarà un
incipit lirico alla Nabokov o strappalacrime come “Questa è la storia più triste che abbia mai sentito” (Ford
Madox Ford – Il buon Soldato), ma è ciò che a mio parere rende meglio l’idea. Il nonno è un gigante forzuto
e buono che dall’alto mi protegge, che da buon muratore ha costruito tutti gli edifici del mondo, che mi
prende sulle spalle per raccogliere le nespole e che mi tiene per mano ma non mi dà mai la sinistra perché,
come dice lui, “è rovinata”.
Questa è la storia di come anche un gigante possa rovinarsi una mano.
Il nonno è nato in Francia nel 1937 da padre e madre italiani fuggiti dalla miseria all’inizio del secolo.
Apparteneva, dunque, a quella generazione di uomini che dedicavano tutta la loro vita al lavoro, in buona
parte per necessità e un po’ per quel retaggio culturale secondo il quale il lavoro ti rendeva uomo. E’
appunto per questo (necessario) pensiero che il nonno cominciò a lavorare prestissimo, accettando
qualsiasi condizione perché in fondo che diritto aveva di ribellarsi? Non erano forse il sacrificio e il rischio
che ti rendevano veramente uomo?
A quel tempo il lavoro più fruttuoso era quello in miniera perché il rischio era direttamente proporzionale
alla ricompensa e comunque sottoterra a nessuno interessava il tuo grado di istruzione, se sapessi parlare il
francese, se ti trovassi lì legalmente o illegalmente, anzi, nel secondo caso era anche meglio perché se fosse
successo qualcosa nessuno avrebbe avuto da ridire, a nessuno sarebbe importato. Ben presto la diligenza e
gli straordinari furono premiati e in un tempo relativamente breve il nonno si ritrovò capocantiere,
posizione che gli assicurava assieme a uno stipendio più alto e a condizioni di lavoro “più leggere”, misure
di sicurezza maggiori. Il suo lavoro consisteva principalmente nel controllare prima di inserire il tritolo,
attraverso una fiammella, che non vi fossero tracce di grisou nei fori praticati per l’esplosivo. Le sue
mansioni tuttavia non si limitavano a quello, egli doveva infatti supervisionare il lavoro degli altri operai,
assicurarsi che le norme di sicurezza fossero rispettate. Il nonno aveva particolarmente a cuore i suoi
sottoposti, la loro sicurezza, la loro vita, probabilmente più di quanto tenesse alla sua.
Era la fine di Gennaio, nella miniera il freddo era insopportabile, molti operai erano assenti per una
fortissimo virus influenzale che in quelle condizioni aveva trovato terreno fertile per la diffusione; ma la
miniera deve continuare a produrre e il lavoro non si sarebbe certo arrestato per la febbre. Così mio nonno
si trovò a svolgere le mansioni che sarebbero spettate ad altri operai. Il tempo stringeva e il lavoro
procedeva a rilento, non c’era tempo di montare le impalcature per evitare le frane, il nonno cominciò a
picconare ma la parete non resse e subito fu buio. I ricordi di mio nonno si fermano qui e riprendono in un
letto di ospedale. Si risvegliò pieno di lividi, intontito dagli antidolorifici ma sufficientemente lucido per
accorgersi della grande fasciatura che avvolgeva il suo braccio a partire dal gomito fino alla mano. Ma il
vero shock arrivò quando, dopo due mesi, poté vedere quello che rimaneva della sua mano, tuttavia se mi
soffermassi a descriverlo si cadrebbe nell’orrido.
Una distrazione, una negligenza, la scelta di non adottare le giuste misure di sicurezza hanno segnato a vita
un uomo, non gli hanno permesso di stringermi la mano.
Liceo Scientifico “O. Tedone” – Martina Tatoli