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    PER IL RITORNO AL                     TERRITORIO, BENE COMUNE
La società dei territorialisti e delle territorialiste ai candidati delle elezioni del
                           24 febbraio 2013: un appello

•   La Società dei territorialisti e delle territorialiste, tra i cui promotori figurano studiosi di
    varie discipline, dalla storia all’archeologia e all’economia, dall’urbanistica alla sociologia,
    dalle scienze agrarie alla geografia, dalla geologia al diritto e alla filosofia
    (www.societadeiterritorialisti.it), denuncia come la cultura politica dominante nella
    attuale competizione elettorale consideri ancora il territorio come mero supporto fisico
    delle attività produttive e dell’urbanizzazione, anziché assumerne i significati di risorsa,
    di identità e di opportunità, vale a dire di patrimonio, come base su cui fondare nuove
    politiche anticrisi. Il ritorno al territorio, quale ricostruzione delle basi materiali di nuove
    forme di produzione della ricchezza è stato alla base del New Deal keynesiano dopo la crisi
    del ’29, di cui il progetto rooseveltiano della ricostruzione delle condizioni ambientali,
    produttive, agricole, energetiche, sociali della Tennessee Valley (TVA), è stato l’esempio
    paradigmatico. A partire dalla crisi del 2008, crescita, crescita, crescita, senza aggettivi,
    continua invece ad essere il ritornello del dibattito politico e elettorale, mentre i Governi
    nazionali sostengono banche e multinazionali, le stesse responsabili della crisi finanziaria
    globale. Dalla crisi non si può uscire adottando gli stessi paradigmi che l’hanno
    generata.

•   Anche le recenti politiche messe in atto in Italia per fronteggiare la crisi hanno marcato
    questa esclusione del territorio, del paesaggio e dell’ambiente, con la conseguenza di un
    territorio più vulnerabile, più fragile, spesso ferito e offeso. Riteniamo essenziale una
    ricomposizione dei saperi verso una nuova attenzione alla cultura dei luoghi, al territorio
    come bene comune, su cui le nostre civiltà hanno fondato il proprio benessere, la propria
    riproduzione, il proprio sviluppo. La rottura di questa coevoluzione fra insediamento
    umano e ambiente nel mito della sovradeterminazione della crescita economica è concausa
    del progressivo distacco, nei processi di globalizzazione, tra la crescita stessa e il benessere
    sociale; dell’abnorme consumo di suolo che accompagna l’espansione smisurata delle
    urbanizzazioni e della scarsità di cibo; dell’incalzante crisi dell’ambiente e della sicurezza
    del territorio amplificata dai cambiamenti climatici; dell’allontanamento progressivo dei
    centri decisionali dalla capacità di controllo e governo delle comunità locali e dei loro
    ambienti di vita.

•   Per invertire gli esiti catastrofici di questo processo deve e può essere recuperata una
    capacità di una visione strategica incardinata sulla ricostruzione di una cultura e un
    pensiero del territorio, ai quali facciano seguito politiche di buongoverno territoriale.
    Per l’Italia in particolare, la cultura del territorio si fonda storicamente su una grande varietà
    di identità regionali e locali e sulla presenza diffusa di un ricco patrimonio culturale e
                                                   1
 

    ambientale: la molteplicità dei paesaggi rurali, la stratificazione millenaria delle città
    storiche, il policentrismo delle reti insediative e infrastrutturali. Un buon governo che
    sappia valorizzare questo ricco patrimonio territoriale, integrando politiche culturali,
    ambientali, economiche e sociali, rappresenta oggi la sfida essenziale per l’innovazione
    delle politiche pubbliche.

•   In questa direzione e in controtendenza alle politiche istituzionali, la centralità del
    patrimonio territoriale è presente in modo capillare e diffuso nelle sempre più
    numerose esperienze di cittadinanza attiva (comitati, movimenti, pratiche dell’abitare e
    del produrre di tipo comunitario e solidale, enti pubblici territoriali virtuosi). Questa
    centralità assegnata al territorio, ai suoi saperi e sapienze, induce comportamenti di cura,
    manutenzione e valorizzazione, verso una conversione ecologica e territorialista
    dell’economia, basata sulle peculiarità dei territori, sulla “coralità produttiva dei luoghi”
    e su nuove forme di coscienza civica. Queste esperienze diffuse sollecitano una visione
    politica in cui la cura dei mondi di vita vissuta in comune riacquista centralità, riconoscendo
    l’abitante competente e la pratica della partecipazione come basi di una rinascita della
    democrazia, capace di svincolare la nostra società dai meccanismi spesso rovinosi
    dell’economia globale.

•   La sfida del ritorno al territorio come bene comune che la Società dei territorialisti e delle
    territorialiste propone al dibattito pubblico si articola nelle seguenti quattro proposte:

    1. Il ritorno alla terra
    Un intero ciclo di sviluppo fordista si è basato, dal secondo dopoguerra, sull’esodo dalle
    campagne, dai molti ‘Sud’ alpini e appenninici verso le aree metropolitane di pianura e le
    coste. Un primo punto programmatico è l’attivazione di politiche e progetti per un
    controesodo che realizzi un nuovo popolamento rurale.
    Questo popolamento deve perseguire obiettivi su due fronti:
    a) l’elevamento della qualità della vita urbana: nutrire le città con cinture agricole peri-
    urbane produttrici di cibo sano a km zero (orti, frutteti, giardini, fattorie didattiche, mercati
    locali) e estesi parchi agricoli multifunzionali; elevare la qualità abitativa delle periferie
    (standard di verde agricolo “fuori porta” fruibile); riqualificare i margini urbani (qui finisce
    la città, là comincia la campagna); salvaguardare le città dalle conseguenze sempre più
    catastrofiche del dissesto idrogeologico;
    b) l’elevamento della qualità della vita e della produzione del mondo rurale: fermare i
    processi di deruralizzazione; ridare dignità alle attività primarie e al modo di produzione
    contadino, denso di saperi riparativi dei disastri ambientali e sociali dell’agroindustria,
    attraverso i suoi intrinseci caratteri multifunzionali; ridurre l’impronta ecologica con la
    chiusura locale dei cicli dell’acqua, dei rifiuti, dell’energia, dell’alimentazione; elevare la
    qualità ambientale (salvaguardia idrogeologica, qualità dell’aria, dell’acqua, delle reti
    ecologiche e del paesaggio).
    I percorsi delineati del ritorno alla terra restituiscono un ruolo centrale ai paesaggi rurali
    storici con le loro sapienti regole ambientali, idrogeologiche, ecologiche, produttive, in grado
    di dare indicazioni per la multifunzionalità dell’agricoltura, per affrontare le conseguenze
    del cambiamento climatico e garantire una sostanziale sovranità alimentare alle comunità
    locali e al nostro Paese nel suo complesso.
                                                2
 


2. Il ritorno alla montagna
Il 78% del territorio nazionale è collinare e montano: il ritorno alla terra assume perciò
questa centralità ambientale e culturale.
Veniamo da una civilizzazione industriale matura (fordismo) che ha fatto delle pianure, dei
fondovalle, delle coste il proprio campo di battaglia, seppellendone il territorio, l’ambiente, il
paesaggio sotto i propri capannoni prefabbricati e le «fabbriche verdi» dell’agroindustria,
desertificando il territorio montano e, in parte, quello collinare con il dilagare di seconde
case, impianti sportivi, alberghi, riforestazione spontanea e disastri idrogeologici. Il ritorno
alla montagna, ad abitare le valli alpine e appenniniche e gli entroterra costieri, è un
‘controesodo’ culturale verso una società agro-terziaria avanzata che sappia riconoscere il
valore di “retroinnovazione” del proprio patrimonio ambientale e culturale.
Le politiche pubbliche integrate da attivare per favorire questo controesodo nelle aree
interne riguardano: una nuova visione della mobilità, delle infrastrutture e dei servizi di
rete per i piccoli centri, i borghi, le case rurali; l’accesso ai servizi urbani; politiche per le
abitazioni e le reti culturali per i giovani agricoltori; per lo sviluppo di tecnologie, filiere
produttive appropriate e dei mercati locali.

3. Il ritorno alla città
L’urbanizzazione contemporanea nelle sue molteplici declinazioni di città diffusa, sprawl
urbano, ville éparpillee, ville éclatee, città infinita, rururbanizzazione e cosi via, ha distrutto
il valore antropologico riconosciuto all’ars aedificandi dalla civilizzazione urbana
occidentale, dalla polis, al municipium, al libero comune, alla città moderna. Questa
dissoluzione del concetto di città, che ha il suo acme nella megacity, interpretata in molti
rapporti ufficiali come il futuro innovativo per 7 miliardi di abitanti, rappresenta per noi al
contrario una tendenza catastrofica di mort de la ville, insieme all’erosione progressiva dei
suoli fertili. Rispetto a questa tendenza proponiamo la ricerca di forme nuove, alternative di
organizzazione del territorio che restituiscano agli abitanti l’urbanità, lo spazio di
relazione, la qualità della vita urbana e ai milieu urbani la capacità di innovazione. La
ricostruzione di reti di città policentriche in cui rinascano spazi e funzioni pubbliche,
relazioni di prossimità, qualità ambientale, relazione sinergiche con il proprio territorio
rurale, sulle ceneri delle sconfinate conurbazioni periferiche.

4. La crescita di sistemi socioeconomici locali
La riflessione sulle prime tre declinazioni del ritorno al territorio richiede di focalizzare la
sfida su nuove forme di produzione della ricchezza, che sappiano trarre dalla ricostruzione
dei beni patrimoniali locali le basi materiali della produzione di valore aggiunto territoriale.
Nuove forme di intrapresa economica, adatte a promuovere i sistemi locali territoriali e
forme di scambio solidali, a mettere in valore e a gestire beni comuni territoriali, ambientali e
paesaggistici, richiedono ruoli nuovi del governo del territorio nella ricerca di diversi sistemi
socioeconomici, nella consapevolezza che investire in territorio, ambiente e paesaggio può
produrre nuova ricchezza durevole, ovvero nuove forme di reddito, di attività produttive, di
servizi ecosistemici e sociali. Alla base di questi sistemi produttivi sta la sovranità
energetica: una nuova forma di produzione che deriva da peculiari mix energetici locali
fondati sulla valorizzazione integrata delle risorse naturali e territoriali in coerenza con la
valorizzazione ambientale e del paesaggio. Non basta, per la conversione alla green
economy, passare dalle fonti fossili alle fonti rinnovabili (che anzi determinano con i grandi
impianti nuovi degradi ambientali e paesaggistici): occorre che queste risorse siano gestite in

                                            3
 

         forme diffuse con la partecipazione consapevole delle popolazioni e dei governi locali, e che
         tutto ciò contribuisca a costruire le condizioni dell’autogoverno delle comunità territoriali.

                                                     Gennaio 2013




Per il Comitato scientifico della Società dei Territorialisti

Alberto Magnaghi      (urbanista, Emerito, Università di Firenze)
Giacomo Becattini     (economista, Emerito, Università di Firenze)
Piero Bevilacqua      (storico, ordinario Università La Sapienza, Roma)
Stefano Bocchi,       (agronomo, ordinario Università degli Studi di Milano)
Mariolina Besio,       (urbanista, ordinario Università di Genova)
Luisa Bonesio,        (filosofa del paesaggio, docente Università di Pavia).
Paola Bonora,          (geografa, ordinario, Università di Bologna)
Lucia Carle            (storica e antropologa, Università di Firenze e EHESS, Parigi)
Pier Luigi Cervellati (architetto, già ordinario IUAV Venezia)
Mauro Chessa           (geologo, presidente della Fondazione dei Geologi della Toscana)
Sergio De La Pierre, (sociologo delle comunità territoriali.)
Giorgio Ferraresi       (urbanista, già ordinario, Politecnico di Milano
Angelo Marino          (geografo, pres . Società di Ecofilosofia, Treviso
Ottavio Marzocca       (filosofo, Associato Università di Bari)
Luca Mercalli           (climatologo, Presidente Società Meteorologica Italiana)
Giorgio Nebbia          (emerito, Università di Bari)
Aimaro Oreglia d'Isola (architetto, Emerito del Politecnico di Torino)
Giancarlo Paba           (urbanista, Ordinario, Università di Firenze)
Rossano Pazzagli        (storico, Associato Università del Molise)
Pier Paolo Poggio,      (direttore della Fondazione Luigi Micheletti, Brescia)
Daniela Poli           (urbanista, associata Università di Firenze)
Massimo Quaini          (geografo, Ordinario Università di Genova)
Saverio Russo           (direttore	
  del	
  Dipartimento	
  di	
  studi	
  umanistici	
  dell'Università	
  di	
  Foggia
Enzo Scandurra          (urbanista, Ordinario Università La Sapienza, Roma)
Gianni Scudo            (tecnologo, Ordinario Politecnico di Milano)
Guliano Volpe          (archeologo, Rettore Università di Foggia)




                                                              4

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Ritorno al territorio bene comune

  • 1.   PER IL RITORNO AL TERRITORIO, BENE COMUNE La società dei territorialisti e delle territorialiste ai candidati delle elezioni del 24 febbraio 2013: un appello • La Società dei territorialisti e delle territorialiste, tra i cui promotori figurano studiosi di varie discipline, dalla storia all’archeologia e all’economia, dall’urbanistica alla sociologia, dalle scienze agrarie alla geografia, dalla geologia al diritto e alla filosofia (www.societadeiterritorialisti.it), denuncia come la cultura politica dominante nella attuale competizione elettorale consideri ancora il territorio come mero supporto fisico delle attività produttive e dell’urbanizzazione, anziché assumerne i significati di risorsa, di identità e di opportunità, vale a dire di patrimonio, come base su cui fondare nuove politiche anticrisi. Il ritorno al territorio, quale ricostruzione delle basi materiali di nuove forme di produzione della ricchezza è stato alla base del New Deal keynesiano dopo la crisi del ’29, di cui il progetto rooseveltiano della ricostruzione delle condizioni ambientali, produttive, agricole, energetiche, sociali della Tennessee Valley (TVA), è stato l’esempio paradigmatico. A partire dalla crisi del 2008, crescita, crescita, crescita, senza aggettivi, continua invece ad essere il ritornello del dibattito politico e elettorale, mentre i Governi nazionali sostengono banche e multinazionali, le stesse responsabili della crisi finanziaria globale. Dalla crisi non si può uscire adottando gli stessi paradigmi che l’hanno generata. • Anche le recenti politiche messe in atto in Italia per fronteggiare la crisi hanno marcato questa esclusione del territorio, del paesaggio e dell’ambiente, con la conseguenza di un territorio più vulnerabile, più fragile, spesso ferito e offeso. Riteniamo essenziale una ricomposizione dei saperi verso una nuova attenzione alla cultura dei luoghi, al territorio come bene comune, su cui le nostre civiltà hanno fondato il proprio benessere, la propria riproduzione, il proprio sviluppo. La rottura di questa coevoluzione fra insediamento umano e ambiente nel mito della sovradeterminazione della crescita economica è concausa del progressivo distacco, nei processi di globalizzazione, tra la crescita stessa e il benessere sociale; dell’abnorme consumo di suolo che accompagna l’espansione smisurata delle urbanizzazioni e della scarsità di cibo; dell’incalzante crisi dell’ambiente e della sicurezza del territorio amplificata dai cambiamenti climatici; dell’allontanamento progressivo dei centri decisionali dalla capacità di controllo e governo delle comunità locali e dei loro ambienti di vita. • Per invertire gli esiti catastrofici di questo processo deve e può essere recuperata una capacità di una visione strategica incardinata sulla ricostruzione di una cultura e un pensiero del territorio, ai quali facciano seguito politiche di buongoverno territoriale. Per l’Italia in particolare, la cultura del territorio si fonda storicamente su una grande varietà di identità regionali e locali e sulla presenza diffusa di un ricco patrimonio culturale e 1
  • 2.   ambientale: la molteplicità dei paesaggi rurali, la stratificazione millenaria delle città storiche, il policentrismo delle reti insediative e infrastrutturali. Un buon governo che sappia valorizzare questo ricco patrimonio territoriale, integrando politiche culturali, ambientali, economiche e sociali, rappresenta oggi la sfida essenziale per l’innovazione delle politiche pubbliche. • In questa direzione e in controtendenza alle politiche istituzionali, la centralità del patrimonio territoriale è presente in modo capillare e diffuso nelle sempre più numerose esperienze di cittadinanza attiva (comitati, movimenti, pratiche dell’abitare e del produrre di tipo comunitario e solidale, enti pubblici territoriali virtuosi). Questa centralità assegnata al territorio, ai suoi saperi e sapienze, induce comportamenti di cura, manutenzione e valorizzazione, verso una conversione ecologica e territorialista dell’economia, basata sulle peculiarità dei territori, sulla “coralità produttiva dei luoghi” e su nuove forme di coscienza civica. Queste esperienze diffuse sollecitano una visione politica in cui la cura dei mondi di vita vissuta in comune riacquista centralità, riconoscendo l’abitante competente e la pratica della partecipazione come basi di una rinascita della democrazia, capace di svincolare la nostra società dai meccanismi spesso rovinosi dell’economia globale. • La sfida del ritorno al territorio come bene comune che la Società dei territorialisti e delle territorialiste propone al dibattito pubblico si articola nelle seguenti quattro proposte: 1. Il ritorno alla terra Un intero ciclo di sviluppo fordista si è basato, dal secondo dopoguerra, sull’esodo dalle campagne, dai molti ‘Sud’ alpini e appenninici verso le aree metropolitane di pianura e le coste. Un primo punto programmatico è l’attivazione di politiche e progetti per un controesodo che realizzi un nuovo popolamento rurale. Questo popolamento deve perseguire obiettivi su due fronti: a) l’elevamento della qualità della vita urbana: nutrire le città con cinture agricole peri- urbane produttrici di cibo sano a km zero (orti, frutteti, giardini, fattorie didattiche, mercati locali) e estesi parchi agricoli multifunzionali; elevare la qualità abitativa delle periferie (standard di verde agricolo “fuori porta” fruibile); riqualificare i margini urbani (qui finisce la città, là comincia la campagna); salvaguardare le città dalle conseguenze sempre più catastrofiche del dissesto idrogeologico; b) l’elevamento della qualità della vita e della produzione del mondo rurale: fermare i processi di deruralizzazione; ridare dignità alle attività primarie e al modo di produzione contadino, denso di saperi riparativi dei disastri ambientali e sociali dell’agroindustria, attraverso i suoi intrinseci caratteri multifunzionali; ridurre l’impronta ecologica con la chiusura locale dei cicli dell’acqua, dei rifiuti, dell’energia, dell’alimentazione; elevare la qualità ambientale (salvaguardia idrogeologica, qualità dell’aria, dell’acqua, delle reti ecologiche e del paesaggio). I percorsi delineati del ritorno alla terra restituiscono un ruolo centrale ai paesaggi rurali storici con le loro sapienti regole ambientali, idrogeologiche, ecologiche, produttive, in grado di dare indicazioni per la multifunzionalità dell’agricoltura, per affrontare le conseguenze del cambiamento climatico e garantire una sostanziale sovranità alimentare alle comunità locali e al nostro Paese nel suo complesso. 2
  • 3.   2. Il ritorno alla montagna Il 78% del territorio nazionale è collinare e montano: il ritorno alla terra assume perciò questa centralità ambientale e culturale. Veniamo da una civilizzazione industriale matura (fordismo) che ha fatto delle pianure, dei fondovalle, delle coste il proprio campo di battaglia, seppellendone il territorio, l’ambiente, il paesaggio sotto i propri capannoni prefabbricati e le «fabbriche verdi» dell’agroindustria, desertificando il territorio montano e, in parte, quello collinare con il dilagare di seconde case, impianti sportivi, alberghi, riforestazione spontanea e disastri idrogeologici. Il ritorno alla montagna, ad abitare le valli alpine e appenniniche e gli entroterra costieri, è un ‘controesodo’ culturale verso una società agro-terziaria avanzata che sappia riconoscere il valore di “retroinnovazione” del proprio patrimonio ambientale e culturale. Le politiche pubbliche integrate da attivare per favorire questo controesodo nelle aree interne riguardano: una nuova visione della mobilità, delle infrastrutture e dei servizi di rete per i piccoli centri, i borghi, le case rurali; l’accesso ai servizi urbani; politiche per le abitazioni e le reti culturali per i giovani agricoltori; per lo sviluppo di tecnologie, filiere produttive appropriate e dei mercati locali. 3. Il ritorno alla città L’urbanizzazione contemporanea nelle sue molteplici declinazioni di città diffusa, sprawl urbano, ville éparpillee, ville éclatee, città infinita, rururbanizzazione e cosi via, ha distrutto il valore antropologico riconosciuto all’ars aedificandi dalla civilizzazione urbana occidentale, dalla polis, al municipium, al libero comune, alla città moderna. Questa dissoluzione del concetto di città, che ha il suo acme nella megacity, interpretata in molti rapporti ufficiali come il futuro innovativo per 7 miliardi di abitanti, rappresenta per noi al contrario una tendenza catastrofica di mort de la ville, insieme all’erosione progressiva dei suoli fertili. Rispetto a questa tendenza proponiamo la ricerca di forme nuove, alternative di organizzazione del territorio che restituiscano agli abitanti l’urbanità, lo spazio di relazione, la qualità della vita urbana e ai milieu urbani la capacità di innovazione. La ricostruzione di reti di città policentriche in cui rinascano spazi e funzioni pubbliche, relazioni di prossimità, qualità ambientale, relazione sinergiche con il proprio territorio rurale, sulle ceneri delle sconfinate conurbazioni periferiche. 4. La crescita di sistemi socioeconomici locali La riflessione sulle prime tre declinazioni del ritorno al territorio richiede di focalizzare la sfida su nuove forme di produzione della ricchezza, che sappiano trarre dalla ricostruzione dei beni patrimoniali locali le basi materiali della produzione di valore aggiunto territoriale. Nuove forme di intrapresa economica, adatte a promuovere i sistemi locali territoriali e forme di scambio solidali, a mettere in valore e a gestire beni comuni territoriali, ambientali e paesaggistici, richiedono ruoli nuovi del governo del territorio nella ricerca di diversi sistemi socioeconomici, nella consapevolezza che investire in territorio, ambiente e paesaggio può produrre nuova ricchezza durevole, ovvero nuove forme di reddito, di attività produttive, di servizi ecosistemici e sociali. Alla base di questi sistemi produttivi sta la sovranità energetica: una nuova forma di produzione che deriva da peculiari mix energetici locali fondati sulla valorizzazione integrata delle risorse naturali e territoriali in coerenza con la valorizzazione ambientale e del paesaggio. Non basta, per la conversione alla green economy, passare dalle fonti fossili alle fonti rinnovabili (che anzi determinano con i grandi impianti nuovi degradi ambientali e paesaggistici): occorre che queste risorse siano gestite in 3
  • 4.   forme diffuse con la partecipazione consapevole delle popolazioni e dei governi locali, e che tutto ciò contribuisca a costruire le condizioni dell’autogoverno delle comunità territoriali. Gennaio 2013 Per il Comitato scientifico della Società dei Territorialisti Alberto Magnaghi (urbanista, Emerito, Università di Firenze) Giacomo Becattini (economista, Emerito, Università di Firenze) Piero Bevilacqua (storico, ordinario Università La Sapienza, Roma) Stefano Bocchi, (agronomo, ordinario Università degli Studi di Milano) Mariolina Besio, (urbanista, ordinario Università di Genova) Luisa Bonesio, (filosofa del paesaggio, docente Università di Pavia). Paola Bonora, (geografa, ordinario, Università di Bologna) Lucia Carle (storica e antropologa, Università di Firenze e EHESS, Parigi) Pier Luigi Cervellati (architetto, già ordinario IUAV Venezia) Mauro Chessa (geologo, presidente della Fondazione dei Geologi della Toscana) Sergio De La Pierre, (sociologo delle comunità territoriali.) Giorgio Ferraresi (urbanista, già ordinario, Politecnico di Milano Angelo Marino (geografo, pres . Società di Ecofilosofia, Treviso Ottavio Marzocca (filosofo, Associato Università di Bari) Luca Mercalli (climatologo, Presidente Società Meteorologica Italiana) Giorgio Nebbia (emerito, Università di Bari) Aimaro Oreglia d'Isola (architetto, Emerito del Politecnico di Torino) Giancarlo Paba (urbanista, Ordinario, Università di Firenze) Rossano Pazzagli (storico, Associato Università del Molise) Pier Paolo Poggio, (direttore della Fondazione Luigi Micheletti, Brescia) Daniela Poli (urbanista, associata Università di Firenze) Massimo Quaini (geografo, Ordinario Università di Genova) Saverio Russo (direttore  del  Dipartimento  di  studi  umanistici  dell'Università  di  Foggia Enzo Scandurra (urbanista, Ordinario Università La Sapienza, Roma) Gianni Scudo (tecnologo, Ordinario Politecnico di Milano) Guliano Volpe (archeologo, Rettore Università di Foggia) 4