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Proprietà intellettuale
Una questione di utilità
I brevetti sono protetti dai governi in quanto si ritiene che promuovano l'innovazione.
Ma vi è abbondanza di prove che non lo fanno
8 agosto 2015 | Dall'edizione cartacea (traduzione Luigi Pirozzi)
Il primo Expo della Storia, allestito a Londra nel
1851, aveva lo scopo di mostrare il genio inventivo
della Gran Bretagna vittoriana. Ciò scatenò
un acceso dibattito sulla proprietà intellettuale.
Da un lato c'erano rilevanti personaggi e
figure pubbliche inorridite al pensiero di
invitare tutto il mondo per vedere le migliori
idee della nazione e poter, almeno in parte,
tornarsene a casa per copiarle indisturbato. Questi richiedevano un sistema di brevetti
poco costoso e semplice da usare in grado di garantire solidi diritti di sfruttamento.
Tali richieste, però, erano controbilanciate dai sostenitori delle libertà nei comparti
dell'economia: essi avevano combattuto con successo per abrogare i dazi all'import sulle
derrate agricole qualche anno prima e sostenevano quindi, nel dibattito in questione, che
il libero scambio e la concorrenza fossero salutari per l'economia, che i brevetti frenassero
entrambi e che, pertanto, i brevetti dovevano essere non tanto riformati quanto eliminati.
The Economist, fondato dagli oppositori alle leggi protezionistiche suddette, era un promotore
entusiasta di questo movimento abolizionista. Un editoriale sul numero del 26 luglio 1851 tuonò
che la concessione di brevetti "incentiva la frode, spinge le persone a seguire comportamenti che
inducono il sistema ad imporre maggior pressione fiscale, genera dispute e litigi fra gli inventori,
provoca infinite cause legali ed incentiva le persone sbagliate".
In quello che forse rappresenta il primo riferimento storico a quelli che oggi vengono chiamati i
“truffatori di brevetti” sancimmo che “in alcuni casi i brevetti vengono richiesti allo scopo di
ostacolare nuove invenzioni o per appropriarsi dei frutti delle invenzioni altrui".
Sostenendo che i brevetti "raramente assicurano veramente buone invenzioni" e non riescono
nella loro funzione di incoraggiare l'innovazione premiando gli inventori per i loro sforzi, abbiamo
sostenuto gli abolizionisti, successivamente, nel dibattito parlamentare sulla riforma dei brevetti.
Questo era il nostro argomento vincente: la maggior parte delle meraviglie dell'epoca moderna,
dalle macchine per la filatura dei tessuti alle ferrovie, dai vaporetti alle lampade a gas, pare siano
emerse senza l'aiuto di brevetti: se la rivoluzione industriale ne ha fatto a meno, perché non
disfarsene del tutto?
Da Richard Trevithick ai trolls
Il dibattito infuriò per anni, attraversando numerosi cambi di governo. Nel 1883, però, il
Parlamento decise che invece di eliminare i brevetti li avrebbe migliorati. Il dibattito riprese
vigore in altri tempi e luoghi successivi. Come nella prima metà del 20° secolo in America, ad
esempio, in cui si preoccupavano che i brevetti aiutassero aziende come AT &T a monopolizzare
interi settori industriali. Nel 1938, la Federal Communications Commission invitò Franklin
Roosevelt a sostituirli con la “licenza obbligatoria”. Ma ogni volta che il problema veniva sollevato
i legislatori concludevano che il sistema dei brevetti poteva essere perfezionato ed un altro giro di
riforme era tutto ciò che serviva.
In questo frangente, l'ambito concettuale e geografico del brevetto si è andato ampliando,
estendendosi dai dispositivi fisici al software ed al DNA, per non parlare poi, in particolare
in America, della sua applicabilità ai processi industriali ed ai prodotti finanziari.
La paura della concorrenza internazionale venuta alla ribalta al momento dell'Expo londinese
spinse il sistema dei brevetti a diffondersi in tutto il mondo, facendolo ritenere come il prezzo che
le nazioni più piccole o povere dovevano pagare per accedere ai mercati del mondo progredito.
E fu anche il motivo per cui l'Olanda fermò la sperimentazione sull'abolizione dei brevetti che
aveva avviato alla fine del 19° secolo, su richiamo del WTO (World Trade Organization) che
spingeva per l'estensione dei diritti di brevetto alle economie emergenti come la Cina.
Uno dei motivi per cui, giusto il mese scorso, i colloqui sull'Accordo Commerciale Trans­Pacifico
tra Paesi che producono il 40% del PIL mondiale si sono conclusi con un nulla di fatto, è stato
proprio la forte spinta protezionistica da parte dei Paesi occidentali a tutela dei brevetti sui
farmaci a base biotecnologica.
Un argomento che piace ai sostenitori dei brevetti è che tutelano l'interesse pubblico. Ma non era
il loro scopo originale: come osservò in Parlamento John Lewis Ricardo, uno degli abolizionisti
della Gran Bretagna del 19° secolo (imprenditore del settore telegrafico e nipote dell'economista
David Ricardo), furono inizialmente introdotti dai sovrani come “macchine per far soldi”; nei
primi anni del 17 ° secolo, il re James I realizzava 200.000 sterline l'anno grazie ai brevetti
sulle concessioni; nel corso del tempo vennero considerati utili sia per le persone che per i sovrani,
uno strumento con cui "promuovere il progresso della scienza e delle arti", come riporta la
Costituzione americana.
L'argomento pro-interesse pubblico è abbastanza semplice: in cambio della registrazione
dell'idea (che deve essere nuova, utile e non ovvia) si ottiene un diritto di utilizzo in esclusiva
della durata temporanea di, solitamente, 20 anni. Ciò fornisce uno stimolo all'innovazione
perché assicura, se ben recepita dal mercato, dei guadagni all'inventore.
Inoltre, fornisce anche gli strumenti con cui altri soggetti possono innovare, dal momento che
le buone idee aumentano la velocità dell'innovazione tecnologica e costituiscono la base per
innovazioni successive.
Tutto ciò sembra ragionevole. Ma è vero? Esistono molti dubbi in proposito. L'evidenza che
l'attuale sistema incoraggi le imprese ad investire in ricerca e promuova innovazione,
maggior produttività e benessere generale è sorprendentemente debole. Una quantità crescente
di ricerche negli ultimi anni, tra cui uno studio del 2004 da parte dell'Accademia Nazionale
Americana delle Scienze, suggerisce che, tranne poche eccezioni come i farmaci, la Società nel
suo insieme potrebbe anche trovarsi meglio senza i brevetti e senza la confusione dell'attuale
sistema di registrazione e tutela delle idee innovative.
Ricerche e studi successivi
I 2 economisti Michele Boldrin e David Levine hanno realizzato insieme una ricerca,
prima pubblicata nel 2008 e poi inserita in un documento del 2012 per la Federal Reserve
Bank di St. Louis.
Essi sostengono che i brevetti non sono affatto utili come sostenuto poc'anzi, né per premiare
l'innovazione né per promuoverla.
Partiamo, in primo luogo, dall'idea che i brevetti incentivano un più alto tasso di innovazione.
Se si guarda il numero di invenzioni presentate alle fiere internazionali, l'evidenza suggerisce
che i Paesi del 19° secolo senza sistemi brevettuali non sono stati meno innovativi rispetto a
quelli che li avevano, anche se hanno fatto innovazione in settori un po' diversi.
Esaminando i 23 studi analizzati riguardanti il 20° secolo, il Prof. Boldrin ed il Prof. Levine
hanno verificato che in pochi o in nessun caso il rafforzamento dei regimi di brevetto hanno
spinto l'innovazione: ciò che si riscontra è la crescita del numero dei brevetti depositati, che non
è la stessa cosa. Molti di questi studi hanno evidenziato che le "riforme" che hanno rafforzato i
sistemi di brevetto, come quello intrapreso in Giappone nel 1988, non hanno accelerato né
l'innovazione né la sua presunta causa, vale a dire la spesa in Ricerca e Sviluppo.
L'unica eccezione a questa considerazione generale rivela un altro punto interessante: uno studio
riguardante le riforme del sistema brevettuale avviate a Taiwan nel 1986, ha rilevato che tali
riforme hanno realmente prodotto maggiori investimenti in R&S nel Paese e più brevetti
statunitensi concessi a persone e imprese taiwanesi. Questo dimostra che i Paesi la cui
protezione brevettuale è più debole rispetto ad altri possono ottenere maggiori investimenti
e spesa in R&S sul proprio territorio rafforzandola. Ma non dimostra che l'importo complessivo
degli investimenti o dell'innovazione aumenta a livello globale.
Se i brevetti incoraggiano l'innovazione, allora ci si potrebbe aspettare che espansioni del sistema
dei brevetti dovrebbero favorire altra innovazione: studi riguardanti le coltivazioni vegetali
suggeriscono che non è così.
Nel 1970, l'America ha ampliato la tutela del brevetto per colture vegetali che si riproducono
sessualmente; successivi studi sul grano, coltura di questa tipologia, non hanno evidenziato
né maggiori investimenti in ricerca, né miglioramenti qualitativi del prodotto.
La tutela brevettuale sui prodotti del comparto biotecnologico di tutti i tipi è stata ampliata nel
1980; similmente alla precedente riforma del 1970, la produttività del settore agricolo è cresciuta,
dopo l'intervento legislativo, più o meno alla stessa velocità che aveva prima.
Quando cambiamenti nel tasso di innovazione si verificano, sembra che la cosa abbia poco a
che fare con i brevetti. Michele Boldrin e David Levine osservano che dall'industria chimica
all'automotive, passando per il software per computer, i cicli innovativi si originano con la
partecipazione di numerosi contributori alla fase inventiva. I brevetti cominciano ad essere
depositati solo anni dopo, una volta che la spinta creativa si è esaurita e gli operatori storici del
settore cercano di proteggersi dai competitors e dall'ingresso di nuovi operatori: i brevetti
sono conseguenza dell' innovazione vincente e sono causati dalla competizione.
Questo non per dire che i brevetti non offrono vantaggi, soprattutto a chi dispone di buone idee
e scarso accesso al mercato dei capitali. Ma in molti settori produttivi maturi e complessi, tipo
aerospaziale e automotive, ad esempio, il controllo della proprietà intellettuale è solo una
una piccola parte di ciò che serve per creare e commercializzare un prodotto innovativo di
successo. Se così non fosse, i produttori cinesi di automobili e aerei, aiutati dal loro governo
ad acquisire la tecnologia occidentale, sarebbero diventati competitors temibili di BMW e
BOEING, cosa non accaduta.
In uno dei più importanti mercati mondiali, l'industria del software, c'è stata una sorta di reazione
contro l'esclusività della proprietà intellettuale. Il “software proprietario” normalmente non
consente all'utente di accedere al codice sorgente da cui dipende; il “software open-source”,
viceversa, dà accesso a qualsiasi modifica se operata in modalità similmente accessibile a tutti.
E ciò può funzionare su larga scala: Android, il sistema operativo per smartphone di maggior
successo al mondo, ne è testimone.
Trappole e pirateria
Tralasciando lo stimolo a generare innovazione, in quale modo i brevetti potrebbero aiutare a
diffondere altra innovazione? Anche questo è difficile da capire. Boldrin e Levine sostengono
che i brevetti depositati tendono ad essere descritti in maniera talmente ambigua da oscurarne
il funzionamento anche ad esperti del settore dell'idea brevettata. Nella sua storia della proprietà
intellettuale,”Piraty”, Adrian Johns dell'Università di Chicago osserva che tali sotterfugi erano
già praticati nel 18° secolo, con gli inventori attenti a lasciare fuori quanti più dettagli possibile
dalle loro descrizioni brevettuali.
Una dimostrazione di questa strategia difensiva è il deposito dei brevetti “sottomarini”:
vengono presentate descrizioni con schemi vaghi e speculativi, per poi aspettare, dopo la
registrazione del brevetto, che qualcun altro sviluppi progressi sulla tecnologia in questione.
Solo a quel punto le descrizioni dettagliate vengono portate alla luce allo scopo di richiedere
il pagamento delle royalities spettanti.
Ma se i brevetti non offrono grandi vantaggi, perché si moltiplicano?
In alcuni settori e Paesi sono diventati, anziché uno stimolo all'innovazione, un indice della
propria capacità di controllare e gestire lo sviluppo. I ricercatori cinesi, sotto ordini superiori ad
essere più inventivi, hanno presentato una raffica di brevetti negli ultimi anni (vedi tabella 1).
Ma quasi tutti vengono depositati solo presso l'ufficio brevetti della Cina. Se avessero reali
potenzialità commerciali, sicuramente sarebbero anche stati registrati altrove.
Un altro motivo che spinge a depositare brevetti inutili, il che spiega perchè tra il 40% ed il 90%
di tutti i brevetti rilasciati non sono mai usati o concesso in licenza, è l'auto-difesa.
In gran parte del settore tecnologico, le aziende depositano un gran numero di brevetti (vedi
grafico 2), soprattutto per scoraggiare i loro avversari:
se verranno citate in giudizio per aver violato uno dei tanti brevetti dei competitors, useranno
la loro scorta di brevetti per citarli in giudizio a loro volta. Questo rende la vita difficile per i
nuovi arrivati: uno studio del 2001 ha evidenziato che i produttori alle prime armi di microchip
sono stati costretti a spendere fino a 200 milioni di dollari in brevetti inutili solo per respingere
azioni legali.
Tutto ciò, se non per la concorrenza e l'interesse pubblico, potrebbe essere vantaggioso per gli
operatori consolidati nel mercato, ma c'è una buona probabilità che non sia un bene neanche
per loro.
Alcuni studi hanno riscontrato che esiste una sovrapposizione di brevetti che rende addirittura
più difficile per le aziende lanciare nuovi prodotti.
Anche se molti settori non hanno bisogno di brevetti ed altri funzionerebbero meglio senza, vi è
la forte consapevolezza che per alcuni settori siano di vitale importanza. L'esempio è quello dei
farmaci: devono essere sottoposti a procedure di test particolarmente costose e di lunga durata
per dimostrare che siano sicuri ed efficaci. E una volta che una società ha faticosamente
dimostrato che una molecola fà il suo lavoro con pochi o gestibili effetti collaterali, i suoi rivali
potrebbero copiarli a costi inferiori se non ci fosse la protezione brevettuale. È per questo che i
sostenitori dei brevetti considerano giusto che Bristol­Myers Squibb detenga il monopolio
di “Opdivo”, il suo nuovo farmaco anti-melanoma cutaneao, e faccia pagare 120.000 $ per ciclo
di trattamento, in America. Se l'azienda non poteva ottenere ciò, sostengono, non avrebbe speso
una fortuna per ottenere il farmaco ed attuare il complesso processo di autorizzazione alla
produzione.
Le necessità della “Bayer”
Tuttavia, la storia dell'industria farmaceutica ci fa venire dei dubbi in merito a tali argomenti.
Fino al 1967, le aziende tedesche potevano brevettare solo il processo per produrre i farmaci,
non le formule dei farmaci stessi. Chiunque poteva vendere copie dei farmaci se riusciva a
trovare un altro metodo per produrli, eppure il Prof. Boldrin e il Prof. Levine dicono
che le aziende farmaceutiche tedesche hanno innovato di più rispetto a quelle britanniche
(ricordiamo dove è stata inventata l'aspirina). Un altro caso interessante è l'Italia, che non aveva
alcuna protezione brevettuale per i farmaci fino al 1978. Uno studio ha dimostrato che la sua
quota di nuovi farmaci inventati a livello mondiale era più alta prima di tale data; prima del
1978 aveva si un sacco di aziende che copiavano, ma le più grandi facevano anche propria
ricerca interna. La maggior parte di quelle che copiavano e basta sono state spazzate via una
volta che hanno cominciato a pagare le royalties sui farmaci brevettati.
E' vero che, incoraggiate dalla prospettiva del brevetto, le aziende farmaceutiche fanno molto
più ricerca oggi che negli anni '60 e '70. Ma è anche vero che non sono da sole nei loro sforzi.
Il sostegno pubblico per la ricerca biomedica è aumentato vertiginosamente nel corso ultimi
decenni; il budget del “National Institutes of Health” americano è cinque volte di quello che era
nel 1970. Michele Boldrin e David Levine ritengono che al netto di sussidi e sgravi fiscali,
l'industria privata americana copre solo circa 1/3 della ricerca biomedica del Paese.
In cambio, il sistema dei brevetti fornisce loro una grande quantità di ritorno economico.
Le aziende farmaceutiche sostengono che ciò sia sensato: i guadagni nel breve termine sulla
una gran quantità di farmaci a basso costo che verrebbero immessi sul mercato dopo un'eventuale
abolizione della protezione brevettuale sarebbero compensati da perdite di lungo termine causate
dalla carenza di nuovi farmaci. Guardando uno studio commissionato dall'industria farmaceutica
che giunge a questa conclusione, però, il Prof. Boldrin e il Prof. Levine hanno riscontrato che
ciò derivava soprattutto dalla stima percentuale che veniva applicata ai futuri risultati aziendali.
think-thank di Washington DC, ha usato un
Approccio molto più semplice, ma ancor più
sorprendente: ha semplicemente
confrontato i costi imposti dal sistema dei
brevetti con l'innovazione apportata da
tale sistema.
Il sistema sanitario americano, ha osservato,
nel 2004 prescriveva 210 miliardi di $ di
farmaci. Scomputando il minor costo generato
da farmaci non brevettati, Baker ha calcolato
che un mercato libero da brevetti avrebbe
speso non più di 50 miliardi, che rappresenta
un risparmio di 160 miliardi di $.
Le aziende farmaceutiche stimavano in quel
momento di spendere 25 miliardi di $ in
Ricerca e Sviluppo, mentre il Governo ne
spendeva 30 per la ricerca medica di base.
Il denaro che si sarebbe potuto risparmiare per l'acquisto di farmaci in un mondo libero
da brevetti avrebbe consentito al governo di raddoppiare la spesa per la ricerca, sostituire
la spesa di Ricerca & Sviluppo privata e lasciare 130 miliardi di $ da parte.
Con un costo della spesa farmaceutica USA attuale arrivato a 374 miliardi di $, l'occasione
appare tanto più grande, anche se le aziende farmaceutiche dicono che oggi investono 51 milardi
di $ l'anno in R&S. Ipotizzare che il Governo sia in grado di investire in R&S tanto
efficacemente quanto il settore privato può sembrare azzardato, ma potrebbe semplicemente
limitarsi a far produrre i farmaci a costi inferiori (eliminando i brevetti) e trovare altri modi
per innovare, ad esempio utilizzando Società di ricerca a contratto. Joseph Stiglitz, economista
alla Columbia University, e altri hanno suggerito di incoraggiare la costituzione di team di
di scienziati indipendenti per sviluppare nuovi farmaci innovativi, offrendo notevoli incentivi
e premi a chi riuscisse nell'impresa.
Quando un promettente farmaco arriva allo stadio finale dei costosi test clinici che devono
dimostrarne la non pericolosità per la salute, potrebbe essere finanziato pubblicamente
utilizzando parte degli enormi risparmi suddetti e sperimentato da laboratori indipendenti.
Una volta autorizzato, ogni società farmaceutica potrebbe produrlo.
In alternativa, la sperimentazione finale potrebbe semplificarsi, consentendo alle aziende di
produrlo dopo aver accuratamente dimostrato la sua non pericolosità nell'uso pratico.
Nel 2005 Dean Baker, economista presso il
il Centre for Economic Policy Research, un
Ciò non è così strano come potrebbe sembrare: molte start­up farmaceutiche puntano ad
essere acquisite per un miliardo o giù di lì di dollari dalle grandi aziende del settore quando
i loro progetti iniziano a diventare promettenti. Anche riconoscimenti e premi in denaro
incentiverebbero gli investimenti nella Ricerca. E non sarebbe una novità: Robert Macfie, uno
dei principali abolizionisti dell'epoca vittoriana, era favorevole anche ai riconoscimenti in denaro.
6 proposte di legge per riformare i brevetti (in un caso ribaltando una precedente riforma)
sono state presentate nell'attuale Congresso americano. Nessuna chiede l'abolizione dei brevetti:
ogni legislatore che avesse il coraggio di proporre l'abolizione completa si troverebbe ad affrontare
un attacco dalla lobby della difesa della proprietà intellettuale.
Ma un riesame da cima a fondo sulla capacita dei brevetti e delle altre forme di protezione della
proprietà intellettuale di svolgere il proprio compito, e se meritano di esistere, è atteso da tempo.
La semplice abolizione pone problemi in termini di etica dei diritti di proprietà, ma riduzioni
della durata dei diritti di esclusiva e la loro differenziazione per diversa tipologia di innovazione
sono possibili e potrebbero essere introdotti gradualmente nel tempo, permettendo di valutarne
eventuali effetti negativi.
Si potrebbero sperimentare forme alternative di finanziamento dell'innovazione in parallelo
al sistema dei brevetti. Se i difensori dei brevetti vogliono veramente promuovere l'innovazione,
dovrebbero essere pronti a farlo nel loro cortile di casa.

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Abolizione dei brevetti: una questione di utilità (The Economist)

  • 1. Proprietà intellettuale Una questione di utilità I brevetti sono protetti dai governi in quanto si ritiene che promuovano l'innovazione. Ma vi è abbondanza di prove che non lo fanno 8 agosto 2015 | Dall'edizione cartacea (traduzione Luigi Pirozzi) Il primo Expo della Storia, allestito a Londra nel 1851, aveva lo scopo di mostrare il genio inventivo della Gran Bretagna vittoriana. Ciò scatenò un acceso dibattito sulla proprietà intellettuale. Da un lato c'erano rilevanti personaggi e figure pubbliche inorridite al pensiero di invitare tutto il mondo per vedere le migliori idee della nazione e poter, almeno in parte, tornarsene a casa per copiarle indisturbato. Questi richiedevano un sistema di brevetti poco costoso e semplice da usare in grado di garantire solidi diritti di sfruttamento. Tali richieste, però, erano controbilanciate dai sostenitori delle libertà nei comparti dell'economia: essi avevano combattuto con successo per abrogare i dazi all'import sulle derrate agricole qualche anno prima e sostenevano quindi, nel dibattito in questione, che il libero scambio e la concorrenza fossero salutari per l'economia, che i brevetti frenassero entrambi e che, pertanto, i brevetti dovevano essere non tanto riformati quanto eliminati. The Economist, fondato dagli oppositori alle leggi protezionistiche suddette, era un promotore entusiasta di questo movimento abolizionista. Un editoriale sul numero del 26 luglio 1851 tuonò che la concessione di brevetti "incentiva la frode, spinge le persone a seguire comportamenti che inducono il sistema ad imporre maggior pressione fiscale, genera dispute e litigi fra gli inventori, provoca infinite cause legali ed incentiva le persone sbagliate". In quello che forse rappresenta il primo riferimento storico a quelli che oggi vengono chiamati i “truffatori di brevetti” sancimmo che “in alcuni casi i brevetti vengono richiesti allo scopo di ostacolare nuove invenzioni o per appropriarsi dei frutti delle invenzioni altrui". Sostenendo che i brevetti "raramente assicurano veramente buone invenzioni" e non riescono nella loro funzione di incoraggiare l'innovazione premiando gli inventori per i loro sforzi, abbiamo sostenuto gli abolizionisti, successivamente, nel dibattito parlamentare sulla riforma dei brevetti. Questo era il nostro argomento vincente: la maggior parte delle meraviglie dell'epoca moderna, dalle macchine per la filatura dei tessuti alle ferrovie, dai vaporetti alle lampade a gas, pare siano emerse senza l'aiuto di brevetti: se la rivoluzione industriale ne ha fatto a meno, perché non disfarsene del tutto?
  • 2. Da Richard Trevithick ai trolls Il dibattito infuriò per anni, attraversando numerosi cambi di governo. Nel 1883, però, il Parlamento decise che invece di eliminare i brevetti li avrebbe migliorati. Il dibattito riprese vigore in altri tempi e luoghi successivi. Come nella prima metà del 20° secolo in America, ad esempio, in cui si preoccupavano che i brevetti aiutassero aziende come AT &T a monopolizzare interi settori industriali. Nel 1938, la Federal Communications Commission invitò Franklin Roosevelt a sostituirli con la “licenza obbligatoria”. Ma ogni volta che il problema veniva sollevato i legislatori concludevano che il sistema dei brevetti poteva essere perfezionato ed un altro giro di riforme era tutto ciò che serviva. In questo frangente, l'ambito concettuale e geografico del brevetto si è andato ampliando, estendendosi dai dispositivi fisici al software ed al DNA, per non parlare poi, in particolare in America, della sua applicabilità ai processi industriali ed ai prodotti finanziari. La paura della concorrenza internazionale venuta alla ribalta al momento dell'Expo londinese spinse il sistema dei brevetti a diffondersi in tutto il mondo, facendolo ritenere come il prezzo che le nazioni più piccole o povere dovevano pagare per accedere ai mercati del mondo progredito. E fu anche il motivo per cui l'Olanda fermò la sperimentazione sull'abolizione dei brevetti che aveva avviato alla fine del 19° secolo, su richiamo del WTO (World Trade Organization) che spingeva per l'estensione dei diritti di brevetto alle economie emergenti come la Cina. Uno dei motivi per cui, giusto il mese scorso, i colloqui sull'Accordo Commerciale Trans­Pacifico tra Paesi che producono il 40% del PIL mondiale si sono conclusi con un nulla di fatto, è stato proprio la forte spinta protezionistica da parte dei Paesi occidentali a tutela dei brevetti sui farmaci a base biotecnologica. Un argomento che piace ai sostenitori dei brevetti è che tutelano l'interesse pubblico. Ma non era il loro scopo originale: come osservò in Parlamento John Lewis Ricardo, uno degli abolizionisti della Gran Bretagna del 19° secolo (imprenditore del settore telegrafico e nipote dell'economista David Ricardo), furono inizialmente introdotti dai sovrani come “macchine per far soldi”; nei primi anni del 17 ° secolo, il re James I realizzava 200.000 sterline l'anno grazie ai brevetti sulle concessioni; nel corso del tempo vennero considerati utili sia per le persone che per i sovrani, uno strumento con cui "promuovere il progresso della scienza e delle arti", come riporta la Costituzione americana. L'argomento pro-interesse pubblico è abbastanza semplice: in cambio della registrazione dell'idea (che deve essere nuova, utile e non ovvia) si ottiene un diritto di utilizzo in esclusiva della durata temporanea di, solitamente, 20 anni. Ciò fornisce uno stimolo all'innovazione perché assicura, se ben recepita dal mercato, dei guadagni all'inventore. Inoltre, fornisce anche gli strumenti con cui altri soggetti possono innovare, dal momento che le buone idee aumentano la velocità dell'innovazione tecnologica e costituiscono la base per innovazioni successive.
  • 3. Tutto ciò sembra ragionevole. Ma è vero? Esistono molti dubbi in proposito. L'evidenza che l'attuale sistema incoraggi le imprese ad investire in ricerca e promuova innovazione, maggior produttività e benessere generale è sorprendentemente debole. Una quantità crescente di ricerche negli ultimi anni, tra cui uno studio del 2004 da parte dell'Accademia Nazionale Americana delle Scienze, suggerisce che, tranne poche eccezioni come i farmaci, la Società nel suo insieme potrebbe anche trovarsi meglio senza i brevetti e senza la confusione dell'attuale sistema di registrazione e tutela delle idee innovative. Ricerche e studi successivi I 2 economisti Michele Boldrin e David Levine hanno realizzato insieme una ricerca, prima pubblicata nel 2008 e poi inserita in un documento del 2012 per la Federal Reserve Bank di St. Louis. Essi sostengono che i brevetti non sono affatto utili come sostenuto poc'anzi, né per premiare l'innovazione né per promuoverla. Partiamo, in primo luogo, dall'idea che i brevetti incentivano un più alto tasso di innovazione. Se si guarda il numero di invenzioni presentate alle fiere internazionali, l'evidenza suggerisce che i Paesi del 19° secolo senza sistemi brevettuali non sono stati meno innovativi rispetto a quelli che li avevano, anche se hanno fatto innovazione in settori un po' diversi. Esaminando i 23 studi analizzati riguardanti il 20° secolo, il Prof. Boldrin ed il Prof. Levine hanno verificato che in pochi o in nessun caso il rafforzamento dei regimi di brevetto hanno spinto l'innovazione: ciò che si riscontra è la crescita del numero dei brevetti depositati, che non è la stessa cosa. Molti di questi studi hanno evidenziato che le "riforme" che hanno rafforzato i sistemi di brevetto, come quello intrapreso in Giappone nel 1988, non hanno accelerato né l'innovazione né la sua presunta causa, vale a dire la spesa in Ricerca e Sviluppo. L'unica eccezione a questa considerazione generale rivela un altro punto interessante: uno studio riguardante le riforme del sistema brevettuale avviate a Taiwan nel 1986, ha rilevato che tali riforme hanno realmente prodotto maggiori investimenti in R&S nel Paese e più brevetti statunitensi concessi a persone e imprese taiwanesi. Questo dimostra che i Paesi la cui protezione brevettuale è più debole rispetto ad altri possono ottenere maggiori investimenti e spesa in R&S sul proprio territorio rafforzandola. Ma non dimostra che l'importo complessivo degli investimenti o dell'innovazione aumenta a livello globale. Se i brevetti incoraggiano l'innovazione, allora ci si potrebbe aspettare che espansioni del sistema dei brevetti dovrebbero favorire altra innovazione: studi riguardanti le coltivazioni vegetali suggeriscono che non è così.
  • 4. Nel 1970, l'America ha ampliato la tutela del brevetto per colture vegetali che si riproducono sessualmente; successivi studi sul grano, coltura di questa tipologia, non hanno evidenziato né maggiori investimenti in ricerca, né miglioramenti qualitativi del prodotto. La tutela brevettuale sui prodotti del comparto biotecnologico di tutti i tipi è stata ampliata nel 1980; similmente alla precedente riforma del 1970, la produttività del settore agricolo è cresciuta, dopo l'intervento legislativo, più o meno alla stessa velocità che aveva prima. Quando cambiamenti nel tasso di innovazione si verificano, sembra che la cosa abbia poco a che fare con i brevetti. Michele Boldrin e David Levine osservano che dall'industria chimica all'automotive, passando per il software per computer, i cicli innovativi si originano con la partecipazione di numerosi contributori alla fase inventiva. I brevetti cominciano ad essere depositati solo anni dopo, una volta che la spinta creativa si è esaurita e gli operatori storici del settore cercano di proteggersi dai competitors e dall'ingresso di nuovi operatori: i brevetti sono conseguenza dell' innovazione vincente e sono causati dalla competizione. Questo non per dire che i brevetti non offrono vantaggi, soprattutto a chi dispone di buone idee e scarso accesso al mercato dei capitali. Ma in molti settori produttivi maturi e complessi, tipo aerospaziale e automotive, ad esempio, il controllo della proprietà intellettuale è solo una una piccola parte di ciò che serve per creare e commercializzare un prodotto innovativo di successo. Se così non fosse, i produttori cinesi di automobili e aerei, aiutati dal loro governo ad acquisire la tecnologia occidentale, sarebbero diventati competitors temibili di BMW e BOEING, cosa non accaduta. In uno dei più importanti mercati mondiali, l'industria del software, c'è stata una sorta di reazione contro l'esclusività della proprietà intellettuale. Il “software proprietario” normalmente non consente all'utente di accedere al codice sorgente da cui dipende; il “software open-source”, viceversa, dà accesso a qualsiasi modifica se operata in modalità similmente accessibile a tutti. E ciò può funzionare su larga scala: Android, il sistema operativo per smartphone di maggior successo al mondo, ne è testimone. Trappole e pirateria Tralasciando lo stimolo a generare innovazione, in quale modo i brevetti potrebbero aiutare a diffondere altra innovazione? Anche questo è difficile da capire. Boldrin e Levine sostengono che i brevetti depositati tendono ad essere descritti in maniera talmente ambigua da oscurarne il funzionamento anche ad esperti del settore dell'idea brevettata. Nella sua storia della proprietà intellettuale,”Piraty”, Adrian Johns dell'Università di Chicago osserva che tali sotterfugi erano già praticati nel 18° secolo, con gli inventori attenti a lasciare fuori quanti più dettagli possibile dalle loro descrizioni brevettuali.
  • 5. Una dimostrazione di questa strategia difensiva è il deposito dei brevetti “sottomarini”: vengono presentate descrizioni con schemi vaghi e speculativi, per poi aspettare, dopo la registrazione del brevetto, che qualcun altro sviluppi progressi sulla tecnologia in questione. Solo a quel punto le descrizioni dettagliate vengono portate alla luce allo scopo di richiedere il pagamento delle royalities spettanti. Ma se i brevetti non offrono grandi vantaggi, perché si moltiplicano? In alcuni settori e Paesi sono diventati, anziché uno stimolo all'innovazione, un indice della propria capacità di controllare e gestire lo sviluppo. I ricercatori cinesi, sotto ordini superiori ad essere più inventivi, hanno presentato una raffica di brevetti negli ultimi anni (vedi tabella 1). Ma quasi tutti vengono depositati solo presso l'ufficio brevetti della Cina. Se avessero reali potenzialità commerciali, sicuramente sarebbero anche stati registrati altrove. Un altro motivo che spinge a depositare brevetti inutili, il che spiega perchè tra il 40% ed il 90% di tutti i brevetti rilasciati non sono mai usati o concesso in licenza, è l'auto-difesa.
  • 6. In gran parte del settore tecnologico, le aziende depositano un gran numero di brevetti (vedi grafico 2), soprattutto per scoraggiare i loro avversari: se verranno citate in giudizio per aver violato uno dei tanti brevetti dei competitors, useranno la loro scorta di brevetti per citarli in giudizio a loro volta. Questo rende la vita difficile per i nuovi arrivati: uno studio del 2001 ha evidenziato che i produttori alle prime armi di microchip sono stati costretti a spendere fino a 200 milioni di dollari in brevetti inutili solo per respingere azioni legali. Tutto ciò, se non per la concorrenza e l'interesse pubblico, potrebbe essere vantaggioso per gli operatori consolidati nel mercato, ma c'è una buona probabilità che non sia un bene neanche per loro. Alcuni studi hanno riscontrato che esiste una sovrapposizione di brevetti che rende addirittura più difficile per le aziende lanciare nuovi prodotti.
  • 7. Anche se molti settori non hanno bisogno di brevetti ed altri funzionerebbero meglio senza, vi è la forte consapevolezza che per alcuni settori siano di vitale importanza. L'esempio è quello dei farmaci: devono essere sottoposti a procedure di test particolarmente costose e di lunga durata per dimostrare che siano sicuri ed efficaci. E una volta che una società ha faticosamente dimostrato che una molecola fà il suo lavoro con pochi o gestibili effetti collaterali, i suoi rivali potrebbero copiarli a costi inferiori se non ci fosse la protezione brevettuale. È per questo che i sostenitori dei brevetti considerano giusto che Bristol­Myers Squibb detenga il monopolio di “Opdivo”, il suo nuovo farmaco anti-melanoma cutaneao, e faccia pagare 120.000 $ per ciclo di trattamento, in America. Se l'azienda non poteva ottenere ciò, sostengono, non avrebbe speso una fortuna per ottenere il farmaco ed attuare il complesso processo di autorizzazione alla produzione. Le necessità della “Bayer” Tuttavia, la storia dell'industria farmaceutica ci fa venire dei dubbi in merito a tali argomenti. Fino al 1967, le aziende tedesche potevano brevettare solo il processo per produrre i farmaci, non le formule dei farmaci stessi. Chiunque poteva vendere copie dei farmaci se riusciva a trovare un altro metodo per produrli, eppure il Prof. Boldrin e il Prof. Levine dicono che le aziende farmaceutiche tedesche hanno innovato di più rispetto a quelle britanniche (ricordiamo dove è stata inventata l'aspirina). Un altro caso interessante è l'Italia, che non aveva alcuna protezione brevettuale per i farmaci fino al 1978. Uno studio ha dimostrato che la sua quota di nuovi farmaci inventati a livello mondiale era più alta prima di tale data; prima del 1978 aveva si un sacco di aziende che copiavano, ma le più grandi facevano anche propria ricerca interna. La maggior parte di quelle che copiavano e basta sono state spazzate via una volta che hanno cominciato a pagare le royalties sui farmaci brevettati. E' vero che, incoraggiate dalla prospettiva del brevetto, le aziende farmaceutiche fanno molto più ricerca oggi che negli anni '60 e '70. Ma è anche vero che non sono da sole nei loro sforzi. Il sostegno pubblico per la ricerca biomedica è aumentato vertiginosamente nel corso ultimi decenni; il budget del “National Institutes of Health” americano è cinque volte di quello che era nel 1970. Michele Boldrin e David Levine ritengono che al netto di sussidi e sgravi fiscali, l'industria privata americana copre solo circa 1/3 della ricerca biomedica del Paese. In cambio, il sistema dei brevetti fornisce loro una grande quantità di ritorno economico. Le aziende farmaceutiche sostengono che ciò sia sensato: i guadagni nel breve termine sulla una gran quantità di farmaci a basso costo che verrebbero immessi sul mercato dopo un'eventuale abolizione della protezione brevettuale sarebbero compensati da perdite di lungo termine causate dalla carenza di nuovi farmaci. Guardando uno studio commissionato dall'industria farmaceutica che giunge a questa conclusione, però, il Prof. Boldrin e il Prof. Levine hanno riscontrato che ciò derivava soprattutto dalla stima percentuale che veniva applicata ai futuri risultati aziendali.
  • 8. think-thank di Washington DC, ha usato un Approccio molto più semplice, ma ancor più sorprendente: ha semplicemente confrontato i costi imposti dal sistema dei brevetti con l'innovazione apportata da tale sistema. Il sistema sanitario americano, ha osservato, nel 2004 prescriveva 210 miliardi di $ di farmaci. Scomputando il minor costo generato da farmaci non brevettati, Baker ha calcolato che un mercato libero da brevetti avrebbe speso non più di 50 miliardi, che rappresenta un risparmio di 160 miliardi di $. Le aziende farmaceutiche stimavano in quel momento di spendere 25 miliardi di $ in Ricerca e Sviluppo, mentre il Governo ne spendeva 30 per la ricerca medica di base. Il denaro che si sarebbe potuto risparmiare per l'acquisto di farmaci in un mondo libero da brevetti avrebbe consentito al governo di raddoppiare la spesa per la ricerca, sostituire la spesa di Ricerca & Sviluppo privata e lasciare 130 miliardi di $ da parte. Con un costo della spesa farmaceutica USA attuale arrivato a 374 miliardi di $, l'occasione appare tanto più grande, anche se le aziende farmaceutiche dicono che oggi investono 51 milardi di $ l'anno in R&S. Ipotizzare che il Governo sia in grado di investire in R&S tanto efficacemente quanto il settore privato può sembrare azzardato, ma potrebbe semplicemente limitarsi a far produrre i farmaci a costi inferiori (eliminando i brevetti) e trovare altri modi per innovare, ad esempio utilizzando Società di ricerca a contratto. Joseph Stiglitz, economista alla Columbia University, e altri hanno suggerito di incoraggiare la costituzione di team di di scienziati indipendenti per sviluppare nuovi farmaci innovativi, offrendo notevoli incentivi e premi a chi riuscisse nell'impresa. Quando un promettente farmaco arriva allo stadio finale dei costosi test clinici che devono dimostrarne la non pericolosità per la salute, potrebbe essere finanziato pubblicamente utilizzando parte degli enormi risparmi suddetti e sperimentato da laboratori indipendenti. Una volta autorizzato, ogni società farmaceutica potrebbe produrlo. In alternativa, la sperimentazione finale potrebbe semplificarsi, consentendo alle aziende di produrlo dopo aver accuratamente dimostrato la sua non pericolosità nell'uso pratico. Nel 2005 Dean Baker, economista presso il il Centre for Economic Policy Research, un
  • 9. Ciò non è così strano come potrebbe sembrare: molte start­up farmaceutiche puntano ad essere acquisite per un miliardo o giù di lì di dollari dalle grandi aziende del settore quando i loro progetti iniziano a diventare promettenti. Anche riconoscimenti e premi in denaro incentiverebbero gli investimenti nella Ricerca. E non sarebbe una novità: Robert Macfie, uno dei principali abolizionisti dell'epoca vittoriana, era favorevole anche ai riconoscimenti in denaro. 6 proposte di legge per riformare i brevetti (in un caso ribaltando una precedente riforma) sono state presentate nell'attuale Congresso americano. Nessuna chiede l'abolizione dei brevetti: ogni legislatore che avesse il coraggio di proporre l'abolizione completa si troverebbe ad affrontare un attacco dalla lobby della difesa della proprietà intellettuale. Ma un riesame da cima a fondo sulla capacita dei brevetti e delle altre forme di protezione della proprietà intellettuale di svolgere il proprio compito, e se meritano di esistere, è atteso da tempo. La semplice abolizione pone problemi in termini di etica dei diritti di proprietà, ma riduzioni della durata dei diritti di esclusiva e la loro differenziazione per diversa tipologia di innovazione sono possibili e potrebbero essere introdotti gradualmente nel tempo, permettendo di valutarne eventuali effetti negativi. Si potrebbero sperimentare forme alternative di finanziamento dell'innovazione in parallelo al sistema dei brevetti. Se i difensori dei brevetti vogliono veramente promuovere l'innovazione, dovrebbero essere pronti a farlo nel loro cortile di casa.