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UN MALEDETTO (alla Curzio Malaparte) PRATESE RACCONTA
sergio benassai
1. Prato e dintorni
I ragazzini pratesi (o almeno, io e mio cugino), quando facevano le loro escursioni in bicicletta, non
tralasciavano di marcare certe differenze.
Dirigendosi verso Firenze, attraversavano Campi Bisenzio, dove, dopo essersi assicurati di essere
nella giusta posizione per permettere una pedalata veloce, apostrofavano le/i campigiane/i con un
sonoro “Beeeehhheee”, alludendo al fatto che loro altro non erano che pecorai arricchiti.
Se invece si dirigevano verso Pistoia stavano zitti, ma tra di loro borbottavano, in vernacolo
pistoiese, “il zale, il zole, il zoldo e l’inzalata”.
Con Pistoia poi c’è anche di mezzo la leggenda del tentativo di furto della “Cintola della Madonna”
(ma ne ho già parlato da altre parti).
Quanto ai rapporti dei pratesi con Firenze, già ne parlava Dante Alighieri quando, nel XXVI canto
dell’Inferno della Divina Commedia, menzionava il desiderio dei pratesi di veder castigata Firenze
in questi termini:
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,

di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna
Ma è certo che l’antipatia (in realtà a Prato si dice l’odio: ma l’odio dei toscani non è un sentimento
“odioso”: è solo un forte sentimento, anzi, non un sentimento, è solo una forte espressione verbale
che denota, quasi come un gioco, l’aspirazione a “vincere” sull’altro), dicevo, l’antipatia verso i
fiorentini era già stata ben nutrita dal “sacco di Prato”, nel 1512, quando la città fu assaltata e
conquistata dall’esercito spagnolo (con saccheggi, violenze, uccisione di 6000 persone e altre
atrocità) che invece doveva attaccare e conquistare Firenze.
Dante, comunque, non doveva avere una grande opinione di Prato, visto che i pratesi citati da
Dante, nel XXXII canto dell’Inferno, sono due traditori di parenti, Napoleone e Alessandro Alberti,
figli del conte Alberto degli Alberti, Conti di Vernio e di Mangona, proprietari della rocca di
Cerbaia nella Val Bisenzio, che si uccisero fra di loro per questioni politiche e di interesse.
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.
Ovviamente il Bisenzio è il fiume (un affluente dell’Arno) che scende dagli Appennini e attraversa
Prato.
Comunque, per ripagare Dante e Firenze, quando mi parlano di Firenze rispondo: “Ah, sì, quel
borgo medievale a sud di Prato !”
2. Porta al Serraglio
Le mura di Prato, quelle del XIV secolo, avevano 6 porte, delle quali adesso ne rimangono solo 3.
Una delle porte che non esiste più è Porta al Serraglio.
Una porta che era anche ricordata come quella dell’estrema resistenza dei pratesi al sacco del 1512.
Si narra che la prima breccia aperta nella Porta al Serraglio dagli spagnoli si trasformò, per loro, in
una carneficina, perché, essendo stretta, permetteva il passaggio di un solo uomo, il che rendeva
facile ai pratesi farli fuori uno per volta. Ma poi fu abbattuto un altro tratto delle mura e il sacco di
Prato ebbe inizio.
Perché poi si chiamasse Porta al Serraglio non si sa (non risulta che i pratesi si dilettassero nel
mantenere una raccolta di animali rari o feroci). Ma alcune fonti riportano che il nome originale
fosse Porta del Travaglio, forse un richiamo alla presenza di attività lavorative.
Comunque, come detto, la Porta non esiste più: fu abbattuta per far passare la ferrovia che da
Firenze porta a Pistoia ed oltre.
E adesso c’è la stazione ferroviaria di Porta al Serraglio, a due passi dal centro della città.
Una volta, mentre aspettavo di salire sul treno per Firenze, un tizio mi chiese:
“Questa è la stazione di Porta al Serraglio ?”
Io risposi: “Sì”.
E allora lui, pensando di essere spiritoso:
“Allora qui ci sono un sacco di bestie”
La mia risposta fu fulminante:
“Sì, da quando c’è arrivato lei”.
3. I pratesi sono comunque toscani
Qualche anno fa (forse qualcuna/o se lo ricorda: erano i tempi della “Padania”) sulla targa di
qualche veicolo era stato apposta la scritta “Granducato di Toscana”.
Naturalmente era una risposta provocatoria delle/i toscane/i ai leghisti del Nord.
Ma, a pensarci bene, forse era (è) qualcosa di più.
Con quella scritta si rivendicava (forse) il riferimento ad un’epoca nella quale la Toscana poteva
vantare alcune primazie (anche democratiche: l’abolizione della tortura e della pena di morte) e il
Granduca rispondeva all'ambasciatore austriaco (che si lamentava che "In Toscana la censura non fa
il suo dovere"): "Ma il suo dovere è quello di non farlo!".
E anche il riconoscimento al Granduca che, nel 1859, preso atto che la Toscana non voleva più
granduchi, se ne andò, salutato dai fiorentini con il grido "Addio babbo Leopoldo!", e fu
accompagnato con tutti i riguardi da una scorta fino ai confini dello Stato Pontificio.
Facendo un salto in avanti: in ufficio ci eravamo ritrovati in tre toscani: uno di Viareggio, uno di
Grosseto ed io di Prato.
E tutti e tre eravamo impegnati insieme (e ovviamente insieme ad altre/i) in una attività sindacale e
politica.
Come era per noi naturale, ogni tanto ci scambiavamo feroci battute (“zitto tu che sei un
meridionale”, rivolto al grossetano; “vedi di sta’ zitto te che a Dante gl’hai intitolato solo la piazza
della stazione”, rivolto al viareggino; “te tu se’ bono solo a fa’ vola’ gli stracci”, rivolto a me, il
pratese, ecc.).
Ma si diceva anche di molto peggio, mentre intorno le/gli altre/i ci guardavano un po’ atterrite/i.
Poverelle/i, non capivano. Non erano offese, insulti, era solo una gara a vedere chi meglio
interpretava l’innata “cattiveria” campanilistica che ognuno ostentava nei confronti dell’altro:
infatti ci volevamo un gran bene (in fondo eravamo tutti toscani).
Naturalmente anche i toscani, e anche i pratesi, hanno qualche difetto.
Forse.
Infatti un altro collega di lavoro (non toscano), che era andato al festival di poesia che, negli anni
’80 si teneva a Castelporziano (litorale romano) disse di aver ascoltato una poesia che gli aveva
fatto pensare a noi:
Avevo un solo difetto,
ero superbo.
Adesso l’ho superato:
sono perfetto.
4. E anche Pisa è toscana !
Anche se il solito Dante, nel XXXIII canto dell’Inferno, così recita (o meglio, così fa dire al conte
Ugolino):
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove 'l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch'elli annieghi in te ogne persona!
non è giusto parlar troppo male di Pisa (neanche se si è livornesi !).
Intanto perché ha la Piazza dei Miracoli, col Duomo, il Battistero, il Campo Santo e la Torre
Pendente (immortalata anche dalla canzone “Evviva la torre di Pisa” di Casiroli – Rastelli del
1939).
Poi perché ci ho fatto l’Università. Anni trascorsi con fasi alterne: cioè anni un cui studiavo e davo
esami e anni in cui non davo esami (o ne davo pochi), andavo al cinema, leggevo libri gialli e
mangiavo bomboloni accompagnati da un bicchiere di aleatico. E poi, lì, a Pisa, niente amici e, cosa
più grave, niente amiche: una vita universitaria da dimenticare, ma con una piccola giustificazione:
ero comunque fidanzato.
Ma cercavo anche di guadagnare qualche soldo.
Facevo i “summary” per il “Chemical Abstract Service”: cioè mi spedivano un articolo scientifico
(in inglese) ed io dovevo farne un riassunto (sempre in inglese) di una decina di righe. Mi
pagavano, se ricordo bene, 10 $ ad articolo riassunto e fu anche l’occasione per aprirmi un conto in
banca dove farmi versare i compensi. Spero proprio che i miei riassunti non abbiano provocati guai
(ma non ho mai potuto verificarlo).
Un salto in avanti: adoro Marco Malvaldi (chimico pisano) e i suoi racconti e romanzi sul Bar
Lume.
Perché con quelli rivivo le mie puntate e soggiorni a Marina di Pisa (prime escursioni in macchina
dopo aver ottenuto la patente), Tirrenia (nella seconda casa di miei parenti), Calambrone (la colonia
per bambini dove già da piccolo affermavo la mia “quasi ribelle indipendenza” che si concretizzava
nel fatto che, nel pomeriggio, mi rifiutavo di andare a dormire come tutti gli altri bambini e quindi
passavo due ore, seduto per terra, di fronte all’ufficio della direttrice, a giocare con le conchiglie
che avevo trovato sulla spiaggia).
A Pisa, nelle Logge dei Banchi, all’imbocco del ponte di Mezzo, ogni tanto trovavo un pittore un
po’ barbone (adesso penso lo si definirebbe uno “street artist”) che metteva in mostra i suoi quadri.
Un motivo ricorrente era una cacca dipinta sotto i personaggi che gli restavano antipatici.
Ma, sfortunatamente per lui, non ebbe il riconoscimento di cui hanno goduto le scatolette con la
merda d’artista di Piero Manzoni (l’esemplare n. 54, messo all’asta a Milano il 6 dicembre 2016, ha
spuntato 220.000 euro).
Ma, per me, un “must” era entrare nella chiesa romanica di S. Sisto, a due passi da Piazza dei
Cavalieri (dove c’era anche il collegio per gli studenti di ingegneria vincitori di borse di studio), e
ascoltare (o immaginare di ascoltare) le composizioni organistiche di Bach.
5. Capalbio da evitare, Capalbio da vedere, oppure a Montepiano
Alla fine degli anni ’80, complice una foto di Achille Occhetto che baciava la terza moglie,
Aureliana Alberici, Capalbio divenne il centro estivo dell’intellighenzia della sinistra comunista e
post-comunista, tanto da meritarsi il nome di “Piccola Atene” (anche se, invece che appassionarsi a
dispute politico-filosofiche, si dice che si privilegiasse l’enogastronomia).
Perché poi questi intellettuali avessero scelto Capalbio non ha una spiegazione ragionevole: certo,
Marina di Capalbio ha una bellissima e lunghissima spiaggia, ma il paesino, situato a 5 km dal
mare, è solo uno dei tanti antichi borghi dell’Italia.
Comunque c’è che sostiene che non merita affatto la fama che si è guadagnato (e che viene
ampiamente utilizzata dai proprietari capalbiesi per tenere alti i prezzi).
Però, nel territorio di Capalbio c’è invece un luogo che merita assolutamente una visita: il Giardino
dei Tarocchi. un parco artistico ideato dall'artista franco-statunitense Niki de Saint Phalle, popolato
di statue e costruzioni fantastiche, coloratissime e divertenti.
Comunque a Prato non andava giù che la “Piccola Atene” fosse Capalbio.
E allora la sinistra pratese (i sindaci di Prato, tranne che nel periodo 2009-2014, sono sempre stati di
sinistra; Prato era da sempre considerata una delle città più rosse d’Italia) decise di avere la sua
“Piccola Atene” e scelse di costituirla a Montepiano, a 33 km da Prato, al confine con l’Emilia.
Ma anche Montepiano fece la stessa fine di Capalbio: invece che discutere di politica si preferiva
degustare prelibatezze alla Taverna di Tribulzi.
Non sono mai stato a mangiare alla Taverna di Tribulzi, ma conosco molto bene la strada che da
Prato porta a Montepiano, visto che mi ci sono spezzato le gambe nel tentativo di percorrerla tutta
in bicicletta (650 metri di dislivello). Ma ce l’ho fatta: del resto riuscivo a superare anche le famose
svolte di Schignano (pendenza del 12%, con punte al 22% nei tornanti), ma non vi dirò mai se ho
dovuto mettere i piedi in terra.
6. I gemellaggi di Prato
Anche Prato, come quasi tutte le città italiane, è gemellata con città di altri paesi.
E questo è l’elenco delle città gemellate con Prato:
Nam-Dinh (Vietnam) dal 1975
Albemarle (Usa) dal 1977
Roubaix (Francia) dal 1981
Changzhou (Cina) dal 1987
Ebensee (Austria) dal 1987
Wangen (Germania) dal 1988
Sarajevo (Bosnia) dal 1997
Bir-Lehlu (Repubblica Araba Saharawi) dal 1999
6.1 Nam-Dinh
Il gemellaggio con la vietnamita Nam-Dinh del 1975 fu la risposta a quanto dichiarato da un
operaio di Nam-Dinh nel 1972 ad un giornalista italiano: “Siamo operai tessili. Sappiamo che in
Italia c’è una città che si chiama Prato dove ci sono tanti operai tessili come noi. Porta loro il saluto
degli operai tessili di Nam-Dinh e chiedi a loro di non dimenticarci".
La guerra del Vietnam era in pieno svolgimento e Prato (o almeno la sua maggioranza) stava dalla
parte dei vietcong.
Questo gemellaggio è ancora vivo, tanto che la tangenziale ovest di Prato adesso si chiama Viale
Nam-Dinh.
Quanto a me: ero dalla parte dei vietcong.
Il che mi porta anche a dire che non posso essere un pacifista.
Certo che mi piacerebbe la pace: ma il “se ti danno uno schiaffo, porgi l’altra guancia” non lo
condivido.
Ribellarsi talvolta è giusto: ma, attenzione, come insegna Socrate, se si violano le leggi, si deve
essere disposti a pagarne il prezzo (un giorno, o forse mai, scriverò un saggio un proposito).
6.2 Albemarle
Si tratta di un gemellaggio “rubato”. Perché il gemellaggio con la contea di Albemarle (USA) fa
seguito al gemellaggio tra Poggio a Caiano e Charlottesville, la capitale della contea di Albemarle.
Ma perché un gemellaggio tra Poggio a Caiano e Charlottesville ?
Perché a Poggio a Caiano nacque nel 1730 Filippo Mazzei che, dopo aver studiato a Prato (ecco un
elemento a favore di Prato !) e a Firenze come medico, si trasferì a Pisa, e poi a Livorno, e poi a
Smirne in Turchia, e poi a Londra, e infine in Virginia in America.
E lì si stabili ad Albemarle, dove abitava Thomas Jefferson, dedicandosi alla produzione del vino,
dell’olio, degli agrumi e della seta, e poi partecipando alla Guerra di indipendenza americana.
Si sostiene tra l’altro che due principi contenuti nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti
d’America:
- tutti gli uomini sono creati uguali
- ricerca della felicità
siano frutto dello stesso Filippo Mazzei
Anche se non riesco a districarmi tra le varie interpretazioni della “felicità”, sono comunque
totalmente d’accordo sul concetto di eguaglianza e devo tributare un omaggio a Norberto Bobbio
per averlo rimesso al centro di una giusta scelta politica.
6.3 Roubaix
La ragione del gemellaggio con Roubaix è molto chiara. Come Prato, questa città è stata un
importante centro di produzione della lana.
Il che mi porta a ricordare gli anni ’50, quando la notte di Prato era segnata dal rumore delle
spolette delle centinaia di telai che andavano avanti e indietro in tante case e il Bisenzio (il fiume di
Prato) ogni tanto si colorava di colori diversi a seconda di cosa si stava utilizzando nelle tintorie
della valle.
Tornando a Roubaix, mi dispiace per i francesi, ma non è c’è molto di notevole in questa città, che
forse è nota ai più solo perché è il punto di arrivo della classica del ciclismo Parigi Roubaix.
Una corsa che ha visto anche vincitori italiani, tra i quali voglio ricordare la vittoria di Fausto Coppi
(il mio idolo) nel 1950, ma anche la meno nota vittoria, l’anno precedente, nel 1949, del fratello
Serse Coppi.
6.4 Changzhou
Come per Nam-Dinh e per Roubaix la ragione del gemellaggio sta nel fatto che anche Changzhou,
una metropoli cinese, era ed è un importante centro tessile.
Se qualche pratese vuol proprio celebrare il gemellaggio andando in gita a Changzhou, tenga
presente che non c’è un granché da vedere: forse solo il “Parco dei dinosauri” con fossili di molte
specie.
6.5 Ebensee
Ebensee è una piccola cittadina (meno di 8.000 abitanti) dell’Austria.
In essa si trovava una sezione del campo di concentramento di Mauthausen. All’avvicinarsi delle
truppe alleate i nazisti pensarono di lanciare un allarme fra i deportati facendoli rifugiare nelle
gallerie dove aveva sede una fabbrica di missili (le famigerate V2), con l’obiettivo di minarle e far
così scomparire le tracce dell’olocausto. Ma il piano venne a conoscenza del dottor Rudolf Pekar,
che avvisò i deportati che così scamparono alla morte. Fra questi deportati vi erano anche alcuni
pratesi.
C’è però da ricordare anche che Ebensee è stata oggetto, nel 1963, di tre attentati ad opera di
neofascisti italiani che provocarono un morto e quattro feriti.
6.6 Wangen
Anche se Wangen, una cittadina tedesca di quasi 30.000 abitanti, era nel passato un importante
centro tessile, non è questa la ragione del gemellaggio.
Infatti questo gemellaggio nasce da un piccolo episodio: la partecipazione, diversi anni fa, di un
gruppo folcloristico di Wangen al Corteggio storico che si tiene a Prato l’8 settembre.
Insomma un gemellaggio di ricordi (ricordo dell’industria tessile di Wengen, ricordo di un
Corteggio storico).
6.7 Sarajevo
Nel 1994 Sarajevo, la capitale della Bosnia-Erzegovina, era sotto assedio da parte delle forze
militari serbe (l’intervento della NATO, con l’Operazione Deliberate Force, si sarebbe
concretizzato solo nel 1995).
E fu proprio nel 1994 che a Prato fu lanciata la campagna "Sarajevo - 1000 e una stoffa" che si
concretizzò con il dono a Sarajevo di 100.000 metri di stoffa e di accessori utili per il
confezionamento di abiti invernali, permettendo nel contempo di dare una nuova possibilità di
lavoro.
6.8 Bir Lehlu
Bir Lehlu è una piccola oasi del Sahara Occidentale, all’esterno del cosiddetto “Muro del
Marocco”.
E’ la capitale ad interim della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi, perché la capitale
“ufficiale”, El Aaiún, è nel territorio controllato dal Marocco.
Nessun stato europeo ha mai riconosciuto la Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi, come
invece hanno fatto molti stati dell’Africa, dell’Asia e dell’America centrale e meridionale.
Il gemellaggio fra Prato e Bir-Lehlu, firmato nel 1999, è come ricorda il sito dei gemellaggi, “non
un semplice fatto formale, ma il punto di arrivo di un lungo percorso di solidarietà ed al tempo
stesso un concreto atto di sostegno morale alla causa del Popolo Saharawi, impegnato in una
difficile lotta per la libertà e la propria autodeterminazione”.
Anche se i pratesi, come tutti i toscani, non amano parlar bene dei propri vicini, va comunque detto
che Bir-Lehlu è gemellata anche con altri comuni italiani (guarda caso, tutti toscani e non lontani da
Prato), e cioè: Campi Bisenzio, Capraia e Limite, Montemurlo, Monteroni d’Arbia, Montevarchi,
San Piero a Sieve).
7. da Prato al Casentino
Non so se ci sia qualche ragione storica per legare Prato al Casentino (la vallata nella provincia di
Arezzo).
Sicuramente c’è una assonanza toponomastica, dal momento che, nel Casentino, c’è una piccola
località che si chiama Prato di Strada e, soprattutto, c’è la dorsale montuosa del Pratomagno.
Ma per me il Casentino è un luogo di elezione perché lì sono ambientate le storie contenute nella
raccolta “Le novelle della nonna”.
Si tratta di quarantacinque storie scritte da Emma Perodi nel 1893, la cui lettura mi ha
accompagnato in molte sere di quando ero ragazzino.
Storie ambientate nel Medioevo, raccontate, nelle serate di domenica di un inverno dell’800, da
Nonna Regina che raccoglieva intorno al focolare figli, nuore e nipoti della famiglia Marcucci, una
famiglia contadina patriarcale del Casentino.
Qualche anno fa mi sono finalmente tolto lo sfizio di fare una vacanza nel Casentino.
Ho fatto delle bellissime passeggiate.
Sono arrivato alle sorgenti dell’Arno, segnalate da una pietra sulla quale sono incisi i versi di Dante
(Canto XIV del Purgatorio della Divina Commedia):
… Per mezza Toscana si spazia
un fiumicel che nasce in Falterona,
e cento miglia di corso nol sazia
A Poppi ho scoperto alcuni vini rossi del Casentino in grado di rivaleggiare con i migliori Chianti.
Ho anche ritrovato un legame con Prato nell’ammirare le terracotte invetriate dei Della Robbia
presenti in abbondanza nel Santuario della Verna, così come tante sono le opere dei Della Robbia
presenti a Prato.
E mi è piaciuta la spiegazione sul perché il Santuario della Verna sia così ricco di opere dei Della
Robbia: fu una scelta dei frati, basata sul fatto che le terracotte invetriate resistono molto meglio al
freddo e al gelo che caratterizza l’inverno del Casentino di quanto non possano fare quadri e tele.
Io non sono un amante degli animali (li apprezzo soprattutto come alimento), però mi ha molto
colpito questo avviso, che è molto presente nelle foreste casentinesi in vicinanza di grandi nidi di
formiche
8. C’è bistecca e Bistecca
Anche se Prato non è Firenze, comunque ai pratesi piace (e di molto) la bistecca alla fiorentina.
Una delle trattorie che ho più frequentato è situata sulle colline pratesi.
Una volta ci andai, con tutta la famiglia, per il compleanno di mia madre.
Era l’epoca della “mucca pazza”, quando cioè, per evitare il diffondersi della encefalopatia
spongiforme bovina, furono instaurati una serie di divieti sul consumo di certe parti della carne
bovina, tra le quali, per l’appunto, la bistecca con l’osso.
Quindi, rivolgendomi al proprietario, dissi:
“Peccato che non ci si possa fare una bella mangiata di bistecche alla fiorentina”
E lui mi rispose:
“Non si preoccupi, ce l’abbiamo”
“Ma non è proibita ?”
“Sì, ma noi ne abbiamo congelate alcune decine prima della legge”
Nota importante: una bistecca alla fiorentina NON è una bistecca alla fiorentina se pesa meno di 1,2
kg.
Poco dopo andai in Canada per una riunione di lavoro.
Una sera, al ristorante, scorrendo il menù, vidi scritto “cervello fritto di bovino”.
Essendo in carenza di cervello bovino, causa le restrizioni sopra descritte, mi affrettai ad ordinarlo
e, ovviamente, a mangiarlo.
Il giorno dopo sul “National Post” lessi la seguente notizia: “Da oggi proibita la vendita ed il
consumo di cervello, midollo ed interiora di bovini”.
Appena in tempo !
Ma Bistecca era anche il nome di un vetturino di Prato.
Non sapete chi è il “vetturino” ?
Il vetturino era il conducente di una vettura a cavalli di servizio pubblico.
Erano gli anni ’50 e un giorno il babbo, che era amico di Bistecca, mi fece fare una gita sul calesse
di Bistecca.
Partimmo da Prato verso Firenze, girammo poi per Calenzano e facemmo un pezzo della via di
Barberino.
E, al ritorno, Bistecca mi dette in mano (per poco !) le briglie e la frusta.
9. Cicognini, d’Annunzio e ragazze
Allora: ho fatto il Liceo Classico al Cicognini di Prato
Il Liceo Classico era una scuola statale e il Cicognini, il Convitto Cicognini era, per noi, solo
l’edificio che ospitava il Liceo.
Se guardate su Wikipedia scoprirete che il Convitto Cicognini fu fondato nel 1692 dai Gesuiti.
E scoprirete che al Cicognini hanno studiato: Gabriele d'Annunzio, Curzio Malaparte, Bettino
Ricasoli, Cesare Guasti, Tommaso Landolfi, Sem Benelli, Giuseppe Mazzoni.
Evito di ricordarvi chi sono tutti i personaggi sopra citati (salvo un’ovvia menzione per Curzio
Malaparte e il suo “Maledetti toscani”).
Però su d’Annunzio devo dire qualcosa.
E cioè che ho scoperto che il suo soggiorno al Cicognini è stato da lui immortalato in quattordici
composizioni poetiche.
Forse un giorno qualcuna/o ne farà un’edizione critica, ricostruendo nel contempo la Prato di allora,
ma, per quanto mi riguarda, adesso, mi limito a citare i primi versi della prima composizione
poetica:
O Prato, o Prato, ombra dei dì perduti,
chiusa città, forte nella memoria,
ove al fanciul compiacquero la Gloria
e la figliuola di Francesco Buti!
Qui si tratta di capire.
Il d’Annunzio fa riferimento a Lucrezia Bruti, la figlia di Francesco, suora, di cui si innamorò
Filippo Lippi (il grande, glorioso pittore) che la rapì dal convento e che, si ipotizza, la abbia
immortalata coma Madonna in un suo famoso dipinto (indovinate quale) …
… oppure è un modo di dire per affermare che lui (d’Annunzio) è predestinato ad una gloria futura
e che … c’era in Prato una fanciulla (di nome Francesca Buti o una equivalente) con la quale ebbe
una (delle tante) relazione ?
Probabilmente sono vere ambedue le ipotesi.
Sugli anni trascorsi al liceo potrei dilungarmi … ma ... magari un’altra volta !
10. Dalla Retaia al Popocatepl
La domenica ovviamente non si andava a scuola.
E dove si andava ? A camminare !
Ogni tanto si prendeva un autobus, per poi camminare sull’appennino pistoiese.
Ma, più frequentemente, la meta era la Calvana o la Casina Rossa o il Chiesino di Cavagliano o la
Spelonca o il Rio Buti.
Sopra il Chiesino di Cavagliano c’era una pozza d’acqua che, d’inverno, era ghiacciata: e ci si
faceva finta di giocare all’hockey su ghiaccio.
Al ritorno di queste passeggiate (che il babbo riteneva quasi obbligatorie) ci aspettava comunque un
buon pranzo preparato dalla mamma, che però si poteva gustare solo dopo aver frizionato le gambe
nude rese violacee dal freddo accumulato.
Il risultato fu che, diventato grande, per molti anni, privilegiai le vacanze non in montagna.
Poi però iniziò il periodo delle vacanze “alternative”.
Fu così che mi ritrovai, senza fiato, insieme a poche/i altre/i, a mettere il piede, forse secondo
italiano dopo Walter Bonatti, sui 4620 metri del Ras Dashan in Etiopia.
M a quello fu niente rispetto a quello che sperimentai nei primi anni ’70 in Messico.
Quando partii per il viaggio Guatemala-Messico-Belize con il gruppo diretto da quello che poi
avrebbe fondato “Avventure nel mondo” non avevo idea che ci saremmo avvicinate/i al Popocatepl,
il vulcano a 70 km da Città del Messico, altezza intorno a 5.500 metri.
Ad un certo punto ci fu chiesto chi voleva salire sul Popocatepl.
Uno del gruppo rinunciò (e io mi offrì di sostituirlo), mettendomi a disposizione la sua piccozza e i
suoi ramponi (che io ovviamente non avevo).
Accettai e mi avventurai, con altre/i, alle 6 di mattina, dal rifugio, sul ripido pendio di neve
ghiacciata che, dopo mille metri di dislivello, ci avrebbe portate/i in cima (intorno a mezzogiorno).
Una fatica mostruosa.
Risultato: quando arrivai in cima, quasi urlai: “Voglio la mamma !”
E ho solo un vago ricordo di quello che vidi di lassù.
11. La ricetta della ribollita
Intanto va subito precisato che a casa mia non si chiamava ribollita ma, più semplicemente,
minestra di pane.
Tenendo poi conto che in origine la ribollita era uno dei piatti poveri, costituito essenzialmente di
pane, olio e verdure, non può stupire che le ricette siano tante, visto che ognuna/o ci metteva quello
che aveva a disposizione.
Tuttavia sono rimasto sconcertato quando ho letto la ricetta della ribollita in un libro del 1995
(rieditato nel 2016), di Giovanni Righi Parenti, intitolato “La cucina toscana in oltre 450 ricette”.
Ed ecco le ragioni dello sconcerto:
1) la ribollita viene inclusa nelle ricette senesi ( ? ! )
2) in una nota al titolo della ricetta viene specificato che “La vera ribollita è in realtà una zuppa co’
fagioli del giorno prima, arricchita per renderla più appetibile al momento dell’uso”
3) e la ricetta consiste nel mettere gli avanzi della zuppa di fagioli, insieme alla cipolla tagliata fine
e molto olio d’oliva, nel forno della cucina economica. Fine.
4) e, soprattutto … NON si parla del CAVOLO NERO !
Se dovessi giudicare le/i senesi da questa ignobile ricetta dovrei esprimere un giudizio negativo,
magari in qualche modo concordante con Dante che, nel XXIX Canto dell’Inferno, così si esprime:
E io dissi al poeta: "Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì d'assai!".
Ed ecco invece la vera ricetta pratese della ribollita (dove per “pratese” intendo “secondo la mia
mamma”).
Ovviamente non sono indicate le quantità. La mamma a domanda rispondeva: “Quanto basta”.
Tenere a bagno per una notte i fagioli borlotti e cannellini secchi; cuocerli in acqua, passarne la
metà; cuocere in poca acqua cavolo nero e verza, aggiungere verdure (carote, cipolla, sedano, porri,
bieta, spinaci fatti a pezzetti) e far cuocere per un paio d’ore aggiungendo in continuazione olio (in
grande quantità) e broda di fagioli; terminare la cottura aggiungendo i fagioli lessi e aggiustando di
sale. Mettere in un recipiente alternando a strati i risultati della cottura (che deve essere ancora
molto liquida) e piccole fette di fame raffermo.
12. Passerella, pesche, carro armato e pesce fritto
La Passerella è il ponte pedonale che, accanto al ponte della ferrovia, all’altezza della stazione di
Prato Porta al Serraglio, attraversa il Bisenzio.
La usavo spesso, anche con la bicicletta, per dirigermi verso La Pietà, il classico punto di partenza
per le salite in Giolica.
All’inizio delle scalette c’era sempre un rivenditore di dolciumi.
Ma, non avendo soldi, non mi era permesso di potermi comprare una di quelle che io chiamavo “le
pesche”. Si trattava di due emisferi di pasta dolce, con all’interno crema pasticcera, ricoperte di
alchermes (che dava il tipico colore roseo delle pesche) e rivestite di zucchero.
Ho detto si trattava, ma mi sbaglio: ho scoperto che ci sono ancora.
Quando ero ragazzino qualche volta andavo a fare il bagno nel Bisenzio.
Era il primo dopo guerra e c’erano ancora molti residuati militari.
In particolare, proprio vicino alla Passerella, era rimasto un residuo di carro armato mezzo immerso
nel fiume. Una parte del carro era costituita da una spessa lamiera liscia: in pratica un perfetto piano
inclinato per poter scivolare nell’acqua.
La Passerella era anche un posto prediletto dai pescatori, perché le cascatelle e le successive pozze
sembra fossero un luogo ideale per la pesca di cavedani e carpe.
Ma non mi chiedete ulteriori informazioni sulla pesca perché sono un non pescatore (come
dimostrai in una vacanza con mio zio a Badi sull’Appennino).
Ho anche scoperto che ci sono tutt’oggi molti pescatori lungo il Bisenzio.
Pescatori che si lamentano perché sono stati introdotti (da chi ?) pesci siluro e pesci gatto che fanno
strage degli altri pesci.
E pescatori che si lamentano perché i cinesi (che certo a Prato non mancano !) usano le reti, invece
della canna, impadronendosi così illegalmente di grandi quantità di pesce.
Mi piacevano molto i pesciolini fritti (che però non sono sicuro venissero dal Bisenzio).
I pesciolini fritti mi piacciono molto ancora oggi, anche se continuo a non capire se quelli che
compro sono sempre gli stessi (se sono alici o argentini o lattarini o come diavolo si chiamano, se
sono di mare o di lago o di fiume).
13. Prato – Ginevra
Tralasciando il fatto che io, nato a Prato, ho trascorso un bel po’ di tempo, per ragioni di lavoro,
presso la sede delle Nazioni Unite a Ginevra, in Svizzera, che legame c’è fra Prato e Ginevra ?
L’unico collegamento trovato tra Prato e Ginevra è quello della “Torta Ginevra”.
Si tratta della torta preparata a Prato il 24 novembre del 1407 in occasione dello sposalizio di
Ginevra, figlia di Francesco Datini, il celebre inventore della cambiale.
Questa la ricetta:
Ingredienti: 350 g di arancia candita, 350 g di cedro candito, 210 g di pinoli, un
cucchiaino di spezie varie come cannella, pepe e chiodi garofano, 2 cucchiai di acqua,
270g di zucchero di canna e 2 cucchiai di miele.
Preparazione: Tagliare molto finemente a pezzetti i canditi (sia l’arancia che il cedro). In
una casseruola a parte, inserire lo zucchero, l’acqua e miele, farli sciogliere sul fuoco e
poi aggiungere i pinoli e i canditi precedentemente tagliati. Mescolare bene. Una volta
tolto tutto dal fuoco si pressa l’impasto in un involucro di carta da forno come se fosse un
panforte. Inserirlo poi nel forno per qualche minuto e aggiungere poi in superficie le varie
spezie.
Ma poi ho scoperto che alla Webster University di Ginevra è stata realizzata, nel quadro del
progetto “Hidden Identity Project” una mostra fotografica, intitolata “We, Prato – Youth in
trasformation”, che ritrae 16 ragazze/i pratesi, di origine cinese e di origine italiana.
Potrei raccontare mille storie su Ginevra, darvi mille indicazioni, ma lascio perdere.
Non è mica un diario o un sito turistico questo !
14. Dal vernacolo all’inglese
Quando una/un bambina/o aveva mal di pancia, a Prato si diceva (si dice che si dicesse): “Caratu ?
Tarabai !”
Tradotto: “Che avrai tu ? Avrai i bachi !
Il riferimento era ovviamente al fatto che un mal di pancia poteva essere originato dalla presenza di
vermi nell’intestino.
Questo per dire che (anche se non perdo l’occasione di affermare che la Toscana è l’unica regione
nella quale il dialetto altro non è che il puro italiano) qualche volta può non essere
comprensibilissimo quello che dice(va) una/un pratese.
Ci sono dotte ricerche sul vernacolo pratese e quindi mi guardo bene dall’approfondire l’argomento.
Però ho un tarlo che ancora mi rode, anche se ho lasciato Prato da tempo, prima facendo
l’Università a Pisa e poi finendo a lavorare a Roma.
Il fatto cioè che per me “duecento” si dice “dugento”.
Da cui ne consegue che, appena apro bocca, mi dicono: “ma sei toscano !” (al che rispondo sempre:
“sì, ma di Prato”)
Potrei comunque sempre appellarmi all’Accademia della Crusca che registra la permanenza in
Toscana di “dugento” (anche nella forma popolaresca di “duegento”), che tuttavia è stato sostituito,
nel XIX secolo, dall’ormai acquisito “duecento”.
Però il vernacolo pratese mi è stato di grande aiuto quando ho dovuto imparare l’inglese.
Volete mettere la facilità con la quale pronunciamo le h aspirate !
La più bella soddisfazione è stata quando, dopo che ero stato eletto a presiedere un gruppo
internazionale di esperti, il rappresentante inglese mi disse: “Finalmente avremo uno che parla
inglese e non americano”.
Ma non mi illudo che volesse complimentarmi per il mio inglese. Probabilmente la ragione stava
nel fatto che tra UK e USA non facevano altro che punzecchiarsi.
Il rappresentante inglese, di fronte a certe espressioni americane, godeva nell’iniziare l’intervento
dicendo: “If I have understood correctly…”
15. Ma cosa c’entra Wehr con Prato ?
Procediamo con calma.
Wehr è una cittadina tedesca di quasi 15.000 abitanti, situata nel Baden-Württemberg.
Io non ci sono mai stato (né ho intenzione di andarci) e dubito che ci sia qualche pratese che l’abbia
mai visitata.
Però “wehr”, in tedesco vuol dire “difesa”, “sbarramento”.
E allora, direte voi ?
Ebbene, nel Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana del 1907 di Ottorino Pianigiani (il
riferimento principe, in termini di etimologia, per chi naviga sul web), il vocabolo tedesco “wehr” è
considerato l’antenato del vocabolo italiano “gora”
Credo che le/i pratesi comincino a comprendere.
Si tratta delle gore.
Cosa sono le gore ?
Beh, qualche indicazione avreste già dovuto ricavarla dal Pianigiani.
Qualche altro suggerimento classico ?
Eccolo qua: Canto VIII dell’Inferno dalla Divina Commedia
Mentre noi corravam la morta gora,
che però forse può essere fuorviante.
Allora, per dirla in chiaro: le gore (a Prato) erano dei canali alimentati dal Bisenzio che portavano
l’acqua in città.
Acqua che serviva a molti usi.
Quella che mi ricordo io era la gora di Bachilloni, forse più nota come gora Bresci.
E naturalmente anche nella gora di Bachilloni (si dice che Bachilloni derivi dal latino "sub
aquilonem", perché lì tirava un forte vento di tramontana, l’aquilone appunto) c’erano i lavatoi, cioè
le strutture pubbliche dove le donne (ovviamente mai gli uomini !) andavano a lavare le lenzuola e
quant’altro c’era da lavare.
Invece a casa mia le lenzuola si mandavano a lavare in campagna. Ogni due o tre settimane arrivava
un carretto di contadini trainato da un asino che riportava le lenzuola lavate e asciugate sul prato
(d’estate) o nella stalla (d’inverno) e si prendeva quelle da lavare.
L’arrivo del carretto dei contadini era una costante, come il lattaio ogni mattina … ok, basta così,
altrimenti vi propino tutto il racconto della mia infanzia.
Resta (forse) un problema.
Poiché adesso le gore sono tutte interrate, siamo sicure/i che l’acqua continuerà a scorrervi
regolarmente senza creare problemi ?
O forse il problema è già stato risolto ?
Speriamo in bene.
16. Giolica
Credo che non ci sia una/un pratese che non abbia fatto qualche passeggiata in Giolica (via Giolica
alta, via Giolica di sopra, via Giolica di sotto).
Ma non ero mai riuscito a sapere di dove venisse il nome “Giolica”.
Allora ho fatto molte ricerche sul web e alla fine la costanza è stata premiata.
Vediamo come.
Nel libro intitolato “Intorno le proprietà, l'uso, e la utilità delle acque ventina e virium rinvenute in
città di Penna” di Vincenzo Gentile, pubblicato a Napoli nel 1828 si parla, oltre che delle proprietà
delle acque pennesi, della storia di Penna.
E, raccontando le vicende di Penna nella seconda metà del XV secolo, viene menzionato un certo
Branchiliante, signore e protettore di Penna, al quale è associata la seguente nota a piè di pagina:
Si racconta che questi, per far acquisto di una certa Giolica , figlia di Blandisia , signora
dimorante in Gironda , oggi Pescara, uccidesse in duello Amerio suo rivale , nobile della
citta di Attilia , che indi sorprese Gioiica medesima , e che , per aver rapita costei e
condottala seco , insieme con la madre, si attirò lo sdegno del popolo romano
Cosa ricavarne ?
Si può solo fantasticare.
Si può ad esempio immaginare che Giolica, insieme alla madre Blandizia, sia riuscita a sottrarsi alle
grinfie di Branchiliante e che, con l’aiuto di frati agostiniani, abbia trovato rifugio nel loro convento
pratese, attualmente S. Anna in Giolica.
E che quindi i pratesi di allora, colpiti dalla bellezza di Giolica, abbiano dato luogo ad un continuo
pellegrinaggio presso il convento per poterla ammirare, tanto che la strada che passava dal convento
fu appunto nominata “Giolica”.
Non contento, ho provato a trovare un’altra spiegazione, facendo sempre ricerche sul web,
storpiando un po’ il nome.
E alla fine mi sono imbattuto sulla Jolika Collection of New Guinea Art (in fondo Jolika è molto
simile a Giolica).
E cos’è questa collezione ?
E’ una collezione di opere d’arte della Nuova Guinea raccolte da John Friede (USA).
Naturalmente tutto ciò non ha niente a che fare con la Giolica pratese, però mi ha divertito lo
scoprire che la collezione è stata chiamata Jolika sulla base delle iniziali dei nomi delle/del figlie/io
di John Friede, e cioè John, Lisa e Karen.
17. Fidarsi delle/i pratesi ?
Secondo il Boccaccio, no.
Infatti il Decameron inizia con una novella della quale è protagonista Ser Ciappelletto, uno
spergiuro, bestemmiatore, omicida, il peggior uomo mai nato. Che però riesce, per la sua falsa
confessione in punto di morte, a guadagnarsi la fama di santo.
Sembra che il Boccaccio avesse a riferimento un notaio pratese che operava in Francia per
riscuotere tasse per conto del Re di Francia e del Papa.
E forse il fatto che Francesco Datini, il grande mercante pratese, sia ricordato come l’inventore
della cambiale (che, come è noto, non è proprio l’indice massimo dell’affidabilità) non contribuisce
più di tanto a considerare i pratesi come un esempio di onestà.
Ma poi si pensa a Giuseppe Mazzoni, il mazziniano che fu uno dei triumviri toscani nel 1849, o a
Virginia Frosini, che fondò l’istituto S. Rita per accogliere i minori abbandonati, forse quel giudizio
negativo va ribaltato.
Per non trascurare poi i contributi pratesi alla cultura come lo scrittore Sem Benelli, l’autore della
“Cena delle beffe”, la cui trasposizione cinematografica di Blasetti ebbe come protagonista una
grande attrice pratese, Clara Calamai (con lo scandalo della scena nella quale compare a seno
nudo).
Ma su tutta questa questione ci sono due considerazioni da fare.
La prima è che in ogni città o paese ci sono persone delle quali ti puoi fidare e persone delle quali
non puoi.
La seconda è che … ma davvero non vi fidereste di me ?
Io dico sempre la verità, a meno che non sia necessario mentire (scherzo naturalmente).
18. Conclusione ?
Il fatto è che adesso non ho voglia di andare avanti.
Ma magari domani (o dopodomani o fra qualche giorno o qualche mese) ci ripenso.
Quindi questa è solo una conclusione (forse) provvisoria.

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UN MALEDETTO (alla Curzio Malaparte) PRATESE RACCONTA

  • 1. UN MALEDETTO (alla Curzio Malaparte) PRATESE RACCONTA sergio benassai 1. Prato e dintorni I ragazzini pratesi (o almeno, io e mio cugino), quando facevano le loro escursioni in bicicletta, non tralasciavano di marcare certe differenze. Dirigendosi verso Firenze, attraversavano Campi Bisenzio, dove, dopo essersi assicurati di essere nella giusta posizione per permettere una pedalata veloce, apostrofavano le/i campigiane/i con un sonoro “Beeeehhheee”, alludendo al fatto che loro altro non erano che pecorai arricchiti. Se invece si dirigevano verso Pistoia stavano zitti, ma tra di loro borbottavano, in vernacolo pistoiese, “il zale, il zole, il zoldo e l’inzalata”. Con Pistoia poi c’è anche di mezzo la leggenda del tentativo di furto della “Cintola della Madonna” (ma ne ho già parlato da altre parti). Quanto ai rapporti dei pratesi con Firenze, già ne parlava Dante Alighieri quando, nel XXVI canto dell’Inferno della Divina Commedia, menzionava il desiderio dei pratesi di veder castigata Firenze in questi termini: Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai, di qua da picciol tempo,
 di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna Ma è certo che l’antipatia (in realtà a Prato si dice l’odio: ma l’odio dei toscani non è un sentimento “odioso”: è solo un forte sentimento, anzi, non un sentimento, è solo una forte espressione verbale
  • 2. che denota, quasi come un gioco, l’aspirazione a “vincere” sull’altro), dicevo, l’antipatia verso i fiorentini era già stata ben nutrita dal “sacco di Prato”, nel 1512, quando la città fu assaltata e conquistata dall’esercito spagnolo (con saccheggi, violenze, uccisione di 6000 persone e altre atrocità) che invece doveva attaccare e conquistare Firenze. Dante, comunque, non doveva avere una grande opinione di Prato, visto che i pratesi citati da Dante, nel XXXII canto dell’Inferno, sono due traditori di parenti, Napoleone e Alessandro Alberti, figli del conte Alberto degli Alberti, Conti di Vernio e di Mangona, proprietari della rocca di Cerbaia nella Val Bisenzio, che si uccisero fra di loro per questioni politiche e di interesse. Se vuoi saper chi son cotesti due, la valle onde Bisenzo si dichina del padre loro Alberto e di lor fue. Ovviamente il Bisenzio è il fiume (un affluente dell’Arno) che scende dagli Appennini e attraversa Prato. Comunque, per ripagare Dante e Firenze, quando mi parlano di Firenze rispondo: “Ah, sì, quel borgo medievale a sud di Prato !” 2. Porta al Serraglio Le mura di Prato, quelle del XIV secolo, avevano 6 porte, delle quali adesso ne rimangono solo 3. Una delle porte che non esiste più è Porta al Serraglio. Una porta che era anche ricordata come quella dell’estrema resistenza dei pratesi al sacco del 1512. Si narra che la prima breccia aperta nella Porta al Serraglio dagli spagnoli si trasformò, per loro, in una carneficina, perché, essendo stretta, permetteva il passaggio di un solo uomo, il che rendeva facile ai pratesi farli fuori uno per volta. Ma poi fu abbattuto un altro tratto delle mura e il sacco di Prato ebbe inizio. Perché poi si chiamasse Porta al Serraglio non si sa (non risulta che i pratesi si dilettassero nel mantenere una raccolta di animali rari o feroci). Ma alcune fonti riportano che il nome originale fosse Porta del Travaglio, forse un richiamo alla presenza di attività lavorative. Comunque, come detto, la Porta non esiste più: fu abbattuta per far passare la ferrovia che da Firenze porta a Pistoia ed oltre. E adesso c’è la stazione ferroviaria di Porta al Serraglio, a due passi dal centro della città.
  • 3. Una volta, mentre aspettavo di salire sul treno per Firenze, un tizio mi chiese: “Questa è la stazione di Porta al Serraglio ?” Io risposi: “Sì”. E allora lui, pensando di essere spiritoso: “Allora qui ci sono un sacco di bestie” La mia risposta fu fulminante: “Sì, da quando c’è arrivato lei”. 3. I pratesi sono comunque toscani Qualche anno fa (forse qualcuna/o se lo ricorda: erano i tempi della “Padania”) sulla targa di qualche veicolo era stato apposta la scritta “Granducato di Toscana”. Naturalmente era una risposta provocatoria delle/i toscane/i ai leghisti del Nord. Ma, a pensarci bene, forse era (è) qualcosa di più. Con quella scritta si rivendicava (forse) il riferimento ad un’epoca nella quale la Toscana poteva vantare alcune primazie (anche democratiche: l’abolizione della tortura e della pena di morte) e il Granduca rispondeva all'ambasciatore austriaco (che si lamentava che "In Toscana la censura non fa il suo dovere"): "Ma il suo dovere è quello di non farlo!". E anche il riconoscimento al Granduca che, nel 1859, preso atto che la Toscana non voleva più granduchi, se ne andò, salutato dai fiorentini con il grido "Addio babbo Leopoldo!", e fu accompagnato con tutti i riguardi da una scorta fino ai confini dello Stato Pontificio. Facendo un salto in avanti: in ufficio ci eravamo ritrovati in tre toscani: uno di Viareggio, uno di Grosseto ed io di Prato. E tutti e tre eravamo impegnati insieme (e ovviamente insieme ad altre/i) in una attività sindacale e politica. Come era per noi naturale, ogni tanto ci scambiavamo feroci battute (“zitto tu che sei un meridionale”, rivolto al grossetano; “vedi di sta’ zitto te che a Dante gl’hai intitolato solo la piazza della stazione”, rivolto al viareggino; “te tu se’ bono solo a fa’ vola’ gli stracci”, rivolto a me, il pratese, ecc.). Ma si diceva anche di molto peggio, mentre intorno le/gli altre/i ci guardavano un po’ atterrite/i. Poverelle/i, non capivano. Non erano offese, insulti, era solo una gara a vedere chi meglio interpretava l’innata “cattiveria” campanilistica che ognuno ostentava nei confronti dell’altro: infatti ci volevamo un gran bene (in fondo eravamo tutti toscani). Naturalmente anche i toscani, e anche i pratesi, hanno qualche difetto. Forse.
  • 4. Infatti un altro collega di lavoro (non toscano), che era andato al festival di poesia che, negli anni ’80 si teneva a Castelporziano (litorale romano) disse di aver ascoltato una poesia che gli aveva fatto pensare a noi: Avevo un solo difetto, ero superbo. Adesso l’ho superato: sono perfetto. 4. E anche Pisa è toscana ! Anche se il solito Dante, nel XXXIII canto dell’Inferno, così recita (o meglio, così fa dire al conte Ugolino): Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove 'l sì suona, poi che i vicini a te punir son lenti, muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sì ch'elli annieghi in te ogne persona! non è giusto parlar troppo male di Pisa (neanche se si è livornesi !). Intanto perché ha la Piazza dei Miracoli, col Duomo, il Battistero, il Campo Santo e la Torre Pendente (immortalata anche dalla canzone “Evviva la torre di Pisa” di Casiroli – Rastelli del 1939). Poi perché ci ho fatto l’Università. Anni trascorsi con fasi alterne: cioè anni un cui studiavo e davo esami e anni in cui non davo esami (o ne davo pochi), andavo al cinema, leggevo libri gialli e mangiavo bomboloni accompagnati da un bicchiere di aleatico. E poi, lì, a Pisa, niente amici e, cosa più grave, niente amiche: una vita universitaria da dimenticare, ma con una piccola giustificazione: ero comunque fidanzato. Ma cercavo anche di guadagnare qualche soldo. Facevo i “summary” per il “Chemical Abstract Service”: cioè mi spedivano un articolo scientifico (in inglese) ed io dovevo farne un riassunto (sempre in inglese) di una decina di righe. Mi pagavano, se ricordo bene, 10 $ ad articolo riassunto e fu anche l’occasione per aprirmi un conto in banca dove farmi versare i compensi. Spero proprio che i miei riassunti non abbiano provocati guai (ma non ho mai potuto verificarlo). Un salto in avanti: adoro Marco Malvaldi (chimico pisano) e i suoi racconti e romanzi sul Bar Lume. Perché con quelli rivivo le mie puntate e soggiorni a Marina di Pisa (prime escursioni in macchina dopo aver ottenuto la patente), Tirrenia (nella seconda casa di miei parenti), Calambrone (la colonia per bambini dove già da piccolo affermavo la mia “quasi ribelle indipendenza” che si concretizzava nel fatto che, nel pomeriggio, mi rifiutavo di andare a dormire come tutti gli altri bambini e quindi passavo due ore, seduto per terra, di fronte all’ufficio della direttrice, a giocare con le conchiglie che avevo trovato sulla spiaggia).
  • 5. A Pisa, nelle Logge dei Banchi, all’imbocco del ponte di Mezzo, ogni tanto trovavo un pittore un po’ barbone (adesso penso lo si definirebbe uno “street artist”) che metteva in mostra i suoi quadri. Un motivo ricorrente era una cacca dipinta sotto i personaggi che gli restavano antipatici. Ma, sfortunatamente per lui, non ebbe il riconoscimento di cui hanno goduto le scatolette con la merda d’artista di Piero Manzoni (l’esemplare n. 54, messo all’asta a Milano il 6 dicembre 2016, ha spuntato 220.000 euro). Ma, per me, un “must” era entrare nella chiesa romanica di S. Sisto, a due passi da Piazza dei Cavalieri (dove c’era anche il collegio per gli studenti di ingegneria vincitori di borse di studio), e ascoltare (o immaginare di ascoltare) le composizioni organistiche di Bach. 5. Capalbio da evitare, Capalbio da vedere, oppure a Montepiano Alla fine degli anni ’80, complice una foto di Achille Occhetto che baciava la terza moglie, Aureliana Alberici, Capalbio divenne il centro estivo dell’intellighenzia della sinistra comunista e post-comunista, tanto da meritarsi il nome di “Piccola Atene” (anche se, invece che appassionarsi a dispute politico-filosofiche, si dice che si privilegiasse l’enogastronomia). Perché poi questi intellettuali avessero scelto Capalbio non ha una spiegazione ragionevole: certo, Marina di Capalbio ha una bellissima e lunghissima spiaggia, ma il paesino, situato a 5 km dal mare, è solo uno dei tanti antichi borghi dell’Italia. Comunque c’è che sostiene che non merita affatto la fama che si è guadagnato (e che viene ampiamente utilizzata dai proprietari capalbiesi per tenere alti i prezzi). Però, nel territorio di Capalbio c’è invece un luogo che merita assolutamente una visita: il Giardino dei Tarocchi. un parco artistico ideato dall'artista franco-statunitense Niki de Saint Phalle, popolato di statue e costruzioni fantastiche, coloratissime e divertenti.
  • 6. Comunque a Prato non andava giù che la “Piccola Atene” fosse Capalbio. E allora la sinistra pratese (i sindaci di Prato, tranne che nel periodo 2009-2014, sono sempre stati di sinistra; Prato era da sempre considerata una delle città più rosse d’Italia) decise di avere la sua “Piccola Atene” e scelse di costituirla a Montepiano, a 33 km da Prato, al confine con l’Emilia. Ma anche Montepiano fece la stessa fine di Capalbio: invece che discutere di politica si preferiva degustare prelibatezze alla Taverna di Tribulzi. Non sono mai stato a mangiare alla Taverna di Tribulzi, ma conosco molto bene la strada che da Prato porta a Montepiano, visto che mi ci sono spezzato le gambe nel tentativo di percorrerla tutta in bicicletta (650 metri di dislivello). Ma ce l’ho fatta: del resto riuscivo a superare anche le famose svolte di Schignano (pendenza del 12%, con punte al 22% nei tornanti), ma non vi dirò mai se ho dovuto mettere i piedi in terra. 6. I gemellaggi di Prato Anche Prato, come quasi tutte le città italiane, è gemellata con città di altri paesi. E questo è l’elenco delle città gemellate con Prato: Nam-Dinh (Vietnam) dal 1975 Albemarle (Usa) dal 1977 Roubaix (Francia) dal 1981 Changzhou (Cina) dal 1987 Ebensee (Austria) dal 1987 Wangen (Germania) dal 1988 Sarajevo (Bosnia) dal 1997 Bir-Lehlu (Repubblica Araba Saharawi) dal 1999 6.1 Nam-Dinh Il gemellaggio con la vietnamita Nam-Dinh del 1975 fu la risposta a quanto dichiarato da un operaio di Nam-Dinh nel 1972 ad un giornalista italiano: “Siamo operai tessili. Sappiamo che in Italia c’è una città che si chiama Prato dove ci sono tanti operai tessili come noi. Porta loro il saluto degli operai tessili di Nam-Dinh e chiedi a loro di non dimenticarci". La guerra del Vietnam era in pieno svolgimento e Prato (o almeno la sua maggioranza) stava dalla parte dei vietcong.
  • 7. Questo gemellaggio è ancora vivo, tanto che la tangenziale ovest di Prato adesso si chiama Viale Nam-Dinh. Quanto a me: ero dalla parte dei vietcong. Il che mi porta anche a dire che non posso essere un pacifista. Certo che mi piacerebbe la pace: ma il “se ti danno uno schiaffo, porgi l’altra guancia” non lo condivido. Ribellarsi talvolta è giusto: ma, attenzione, come insegna Socrate, se si violano le leggi, si deve essere disposti a pagarne il prezzo (un giorno, o forse mai, scriverò un saggio un proposito). 6.2 Albemarle Si tratta di un gemellaggio “rubato”. Perché il gemellaggio con la contea di Albemarle (USA) fa seguito al gemellaggio tra Poggio a Caiano e Charlottesville, la capitale della contea di Albemarle. Ma perché un gemellaggio tra Poggio a Caiano e Charlottesville ? Perché a Poggio a Caiano nacque nel 1730 Filippo Mazzei che, dopo aver studiato a Prato (ecco un elemento a favore di Prato !) e a Firenze come medico, si trasferì a Pisa, e poi a Livorno, e poi a Smirne in Turchia, e poi a Londra, e infine in Virginia in America. E lì si stabili ad Albemarle, dove abitava Thomas Jefferson, dedicandosi alla produzione del vino, dell’olio, degli agrumi e della seta, e poi partecipando alla Guerra di indipendenza americana. Si sostiene tra l’altro che due principi contenuti nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America: - tutti gli uomini sono creati uguali - ricerca della felicità siano frutto dello stesso Filippo Mazzei Anche se non riesco a districarmi tra le varie interpretazioni della “felicità”, sono comunque totalmente d’accordo sul concetto di eguaglianza e devo tributare un omaggio a Norberto Bobbio per averlo rimesso al centro di una giusta scelta politica. 6.3 Roubaix La ragione del gemellaggio con Roubaix è molto chiara. Come Prato, questa città è stata un importante centro di produzione della lana. Il che mi porta a ricordare gli anni ’50, quando la notte di Prato era segnata dal rumore delle spolette delle centinaia di telai che andavano avanti e indietro in tante case e il Bisenzio (il fiume di Prato) ogni tanto si colorava di colori diversi a seconda di cosa si stava utilizzando nelle tintorie della valle.
  • 8. Tornando a Roubaix, mi dispiace per i francesi, ma non è c’è molto di notevole in questa città, che forse è nota ai più solo perché è il punto di arrivo della classica del ciclismo Parigi Roubaix. Una corsa che ha visto anche vincitori italiani, tra i quali voglio ricordare la vittoria di Fausto Coppi (il mio idolo) nel 1950, ma anche la meno nota vittoria, l’anno precedente, nel 1949, del fratello Serse Coppi. 6.4 Changzhou Come per Nam-Dinh e per Roubaix la ragione del gemellaggio sta nel fatto che anche Changzhou, una metropoli cinese, era ed è un importante centro tessile. Se qualche pratese vuol proprio celebrare il gemellaggio andando in gita a Changzhou, tenga presente che non c’è un granché da vedere: forse solo il “Parco dei dinosauri” con fossili di molte specie. 6.5 Ebensee Ebensee è una piccola cittadina (meno di 8.000 abitanti) dell’Austria. In essa si trovava una sezione del campo di concentramento di Mauthausen. All’avvicinarsi delle truppe alleate i nazisti pensarono di lanciare un allarme fra i deportati facendoli rifugiare nelle gallerie dove aveva sede una fabbrica di missili (le famigerate V2), con l’obiettivo di minarle e far così scomparire le tracce dell’olocausto. Ma il piano venne a conoscenza del dottor Rudolf Pekar, che avvisò i deportati che così scamparono alla morte. Fra questi deportati vi erano anche alcuni pratesi.
  • 9. C’è però da ricordare anche che Ebensee è stata oggetto, nel 1963, di tre attentati ad opera di neofascisti italiani che provocarono un morto e quattro feriti. 6.6 Wangen Anche se Wangen, una cittadina tedesca di quasi 30.000 abitanti, era nel passato un importante centro tessile, non è questa la ragione del gemellaggio. Infatti questo gemellaggio nasce da un piccolo episodio: la partecipazione, diversi anni fa, di un gruppo folcloristico di Wangen al Corteggio storico che si tiene a Prato l’8 settembre. Insomma un gemellaggio di ricordi (ricordo dell’industria tessile di Wengen, ricordo di un Corteggio storico). 6.7 Sarajevo Nel 1994 Sarajevo, la capitale della Bosnia-Erzegovina, era sotto assedio da parte delle forze militari serbe (l’intervento della NATO, con l’Operazione Deliberate Force, si sarebbe concretizzato solo nel 1995). E fu proprio nel 1994 che a Prato fu lanciata la campagna "Sarajevo - 1000 e una stoffa" che si concretizzò con il dono a Sarajevo di 100.000 metri di stoffa e di accessori utili per il confezionamento di abiti invernali, permettendo nel contempo di dare una nuova possibilità di lavoro. 6.8 Bir Lehlu Bir Lehlu è una piccola oasi del Sahara Occidentale, all’esterno del cosiddetto “Muro del Marocco”.
  • 10. E’ la capitale ad interim della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi, perché la capitale “ufficiale”, El Aaiún, è nel territorio controllato dal Marocco. Nessun stato europeo ha mai riconosciuto la Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi, come invece hanno fatto molti stati dell’Africa, dell’Asia e dell’America centrale e meridionale. Il gemellaggio fra Prato e Bir-Lehlu, firmato nel 1999, è come ricorda il sito dei gemellaggi, “non un semplice fatto formale, ma il punto di arrivo di un lungo percorso di solidarietà ed al tempo stesso un concreto atto di sostegno morale alla causa del Popolo Saharawi, impegnato in una difficile lotta per la libertà e la propria autodeterminazione”. Anche se i pratesi, come tutti i toscani, non amano parlar bene dei propri vicini, va comunque detto che Bir-Lehlu è gemellata anche con altri comuni italiani (guarda caso, tutti toscani e non lontani da Prato), e cioè: Campi Bisenzio, Capraia e Limite, Montemurlo, Monteroni d’Arbia, Montevarchi, San Piero a Sieve). 7. da Prato al Casentino Non so se ci sia qualche ragione storica per legare Prato al Casentino (la vallata nella provincia di Arezzo). Sicuramente c’è una assonanza toponomastica, dal momento che, nel Casentino, c’è una piccola località che si chiama Prato di Strada e, soprattutto, c’è la dorsale montuosa del Pratomagno. Ma per me il Casentino è un luogo di elezione perché lì sono ambientate le storie contenute nella raccolta “Le novelle della nonna”. Si tratta di quarantacinque storie scritte da Emma Perodi nel 1893, la cui lettura mi ha accompagnato in molte sere di quando ero ragazzino.
  • 11. Storie ambientate nel Medioevo, raccontate, nelle serate di domenica di un inverno dell’800, da Nonna Regina che raccoglieva intorno al focolare figli, nuore e nipoti della famiglia Marcucci, una famiglia contadina patriarcale del Casentino. Qualche anno fa mi sono finalmente tolto lo sfizio di fare una vacanza nel Casentino. Ho fatto delle bellissime passeggiate. Sono arrivato alle sorgenti dell’Arno, segnalate da una pietra sulla quale sono incisi i versi di Dante (Canto XIV del Purgatorio della Divina Commedia): … Per mezza Toscana si spazia un fiumicel che nasce in Falterona, e cento miglia di corso nol sazia A Poppi ho scoperto alcuni vini rossi del Casentino in grado di rivaleggiare con i migliori Chianti. Ho anche ritrovato un legame con Prato nell’ammirare le terracotte invetriate dei Della Robbia presenti in abbondanza nel Santuario della Verna, così come tante sono le opere dei Della Robbia presenti a Prato. E mi è piaciuta la spiegazione sul perché il Santuario della Verna sia così ricco di opere dei Della Robbia: fu una scelta dei frati, basata sul fatto che le terracotte invetriate resistono molto meglio al freddo e al gelo che caratterizza l’inverno del Casentino di quanto non possano fare quadri e tele. Io non sono un amante degli animali (li apprezzo soprattutto come alimento), però mi ha molto colpito questo avviso, che è molto presente nelle foreste casentinesi in vicinanza di grandi nidi di formiche 8. C’è bistecca e Bistecca Anche se Prato non è Firenze, comunque ai pratesi piace (e di molto) la bistecca alla fiorentina. Una delle trattorie che ho più frequentato è situata sulle colline pratesi. Una volta ci andai, con tutta la famiglia, per il compleanno di mia madre. Era l’epoca della “mucca pazza”, quando cioè, per evitare il diffondersi della encefalopatia spongiforme bovina, furono instaurati una serie di divieti sul consumo di certe parti della carne bovina, tra le quali, per l’appunto, la bistecca con l’osso.
  • 12. Quindi, rivolgendomi al proprietario, dissi: “Peccato che non ci si possa fare una bella mangiata di bistecche alla fiorentina” E lui mi rispose: “Non si preoccupi, ce l’abbiamo” “Ma non è proibita ?” “Sì, ma noi ne abbiamo congelate alcune decine prima della legge” Nota importante: una bistecca alla fiorentina NON è una bistecca alla fiorentina se pesa meno di 1,2 kg. Poco dopo andai in Canada per una riunione di lavoro. Una sera, al ristorante, scorrendo il menù, vidi scritto “cervello fritto di bovino”. Essendo in carenza di cervello bovino, causa le restrizioni sopra descritte, mi affrettai ad ordinarlo e, ovviamente, a mangiarlo. Il giorno dopo sul “National Post” lessi la seguente notizia: “Da oggi proibita la vendita ed il consumo di cervello, midollo ed interiora di bovini”. Appena in tempo ! Ma Bistecca era anche il nome di un vetturino di Prato. Non sapete chi è il “vetturino” ? Il vetturino era il conducente di una vettura a cavalli di servizio pubblico. Erano gli anni ’50 e un giorno il babbo, che era amico di Bistecca, mi fece fare una gita sul calesse di Bistecca. Partimmo da Prato verso Firenze, girammo poi per Calenzano e facemmo un pezzo della via di Barberino. E, al ritorno, Bistecca mi dette in mano (per poco !) le briglie e la frusta. 9. Cicognini, d’Annunzio e ragazze Allora: ho fatto il Liceo Classico al Cicognini di Prato Il Liceo Classico era una scuola statale e il Cicognini, il Convitto Cicognini era, per noi, solo l’edificio che ospitava il Liceo.
  • 13. Se guardate su Wikipedia scoprirete che il Convitto Cicognini fu fondato nel 1692 dai Gesuiti. E scoprirete che al Cicognini hanno studiato: Gabriele d'Annunzio, Curzio Malaparte, Bettino Ricasoli, Cesare Guasti, Tommaso Landolfi, Sem Benelli, Giuseppe Mazzoni. Evito di ricordarvi chi sono tutti i personaggi sopra citati (salvo un’ovvia menzione per Curzio Malaparte e il suo “Maledetti toscani”). Però su d’Annunzio devo dire qualcosa. E cioè che ho scoperto che il suo soggiorno al Cicognini è stato da lui immortalato in quattordici composizioni poetiche. Forse un giorno qualcuna/o ne farà un’edizione critica, ricostruendo nel contempo la Prato di allora, ma, per quanto mi riguarda, adesso, mi limito a citare i primi versi della prima composizione poetica: O Prato, o Prato, ombra dei dì perduti, chiusa città, forte nella memoria, ove al fanciul compiacquero la Gloria e la figliuola di Francesco Buti! Qui si tratta di capire. Il d’Annunzio fa riferimento a Lucrezia Bruti, la figlia di Francesco, suora, di cui si innamorò Filippo Lippi (il grande, glorioso pittore) che la rapì dal convento e che, si ipotizza, la abbia immortalata coma Madonna in un suo famoso dipinto (indovinate quale) … … oppure è un modo di dire per affermare che lui (d’Annunzio) è predestinato ad una gloria futura e che … c’era in Prato una fanciulla (di nome Francesca Buti o una equivalente) con la quale ebbe una (delle tante) relazione ? Probabilmente sono vere ambedue le ipotesi. Sugli anni trascorsi al liceo potrei dilungarmi … ma ... magari un’altra volta ! 10. Dalla Retaia al Popocatepl La domenica ovviamente non si andava a scuola. E dove si andava ? A camminare ! Ogni tanto si prendeva un autobus, per poi camminare sull’appennino pistoiese.
  • 14. Ma, più frequentemente, la meta era la Calvana o la Casina Rossa o il Chiesino di Cavagliano o la Spelonca o il Rio Buti. Sopra il Chiesino di Cavagliano c’era una pozza d’acqua che, d’inverno, era ghiacciata: e ci si faceva finta di giocare all’hockey su ghiaccio. Al ritorno di queste passeggiate (che il babbo riteneva quasi obbligatorie) ci aspettava comunque un buon pranzo preparato dalla mamma, che però si poteva gustare solo dopo aver frizionato le gambe nude rese violacee dal freddo accumulato. Il risultato fu che, diventato grande, per molti anni, privilegiai le vacanze non in montagna. Poi però iniziò il periodo delle vacanze “alternative”. Fu così che mi ritrovai, senza fiato, insieme a poche/i altre/i, a mettere il piede, forse secondo italiano dopo Walter Bonatti, sui 4620 metri del Ras Dashan in Etiopia. M a quello fu niente rispetto a quello che sperimentai nei primi anni ’70 in Messico. Quando partii per il viaggio Guatemala-Messico-Belize con il gruppo diretto da quello che poi avrebbe fondato “Avventure nel mondo” non avevo idea che ci saremmo avvicinate/i al Popocatepl, il vulcano a 70 km da Città del Messico, altezza intorno a 5.500 metri. Ad un certo punto ci fu chiesto chi voleva salire sul Popocatepl. Uno del gruppo rinunciò (e io mi offrì di sostituirlo), mettendomi a disposizione la sua piccozza e i suoi ramponi (che io ovviamente non avevo). Accettai e mi avventurai, con altre/i, alle 6 di mattina, dal rifugio, sul ripido pendio di neve ghiacciata che, dopo mille metri di dislivello, ci avrebbe portate/i in cima (intorno a mezzogiorno). Una fatica mostruosa. Risultato: quando arrivai in cima, quasi urlai: “Voglio la mamma !” E ho solo un vago ricordo di quello che vidi di lassù.
  • 15. 11. La ricetta della ribollita Intanto va subito precisato che a casa mia non si chiamava ribollita ma, più semplicemente, minestra di pane. Tenendo poi conto che in origine la ribollita era uno dei piatti poveri, costituito essenzialmente di pane, olio e verdure, non può stupire che le ricette siano tante, visto che ognuna/o ci metteva quello che aveva a disposizione. Tuttavia sono rimasto sconcertato quando ho letto la ricetta della ribollita in un libro del 1995 (rieditato nel 2016), di Giovanni Righi Parenti, intitolato “La cucina toscana in oltre 450 ricette”. Ed ecco le ragioni dello sconcerto: 1) la ribollita viene inclusa nelle ricette senesi ( ? ! ) 2) in una nota al titolo della ricetta viene specificato che “La vera ribollita è in realtà una zuppa co’ fagioli del giorno prima, arricchita per renderla più appetibile al momento dell’uso” 3) e la ricetta consiste nel mettere gli avanzi della zuppa di fagioli, insieme alla cipolla tagliata fine e molto olio d’oliva, nel forno della cucina economica. Fine. 4) e, soprattutto … NON si parla del CAVOLO NERO ! Se dovessi giudicare le/i senesi da questa ignobile ricetta dovrei esprimere un giudizio negativo, magari in qualche modo concordante con Dante che, nel XXIX Canto dell’Inferno, così si esprime: E io dissi al poeta: "Or fu già mai gente sì vana come la sanese? Certo non la francesca sì d'assai!". Ed ecco invece la vera ricetta pratese della ribollita (dove per “pratese” intendo “secondo la mia mamma”). Ovviamente non sono indicate le quantità. La mamma a domanda rispondeva: “Quanto basta”. Tenere a bagno per una notte i fagioli borlotti e cannellini secchi; cuocerli in acqua, passarne la metà; cuocere in poca acqua cavolo nero e verza, aggiungere verdure (carote, cipolla, sedano, porri, bieta, spinaci fatti a pezzetti) e far cuocere per un paio d’ore aggiungendo in continuazione olio (in grande quantità) e broda di fagioli; terminare la cottura aggiungendo i fagioli lessi e aggiustando di sale. Mettere in un recipiente alternando a strati i risultati della cottura (che deve essere ancora molto liquida) e piccole fette di fame raffermo.
  • 16. 12. Passerella, pesche, carro armato e pesce fritto La Passerella è il ponte pedonale che, accanto al ponte della ferrovia, all’altezza della stazione di Prato Porta al Serraglio, attraversa il Bisenzio. La usavo spesso, anche con la bicicletta, per dirigermi verso La Pietà, il classico punto di partenza per le salite in Giolica. All’inizio delle scalette c’era sempre un rivenditore di dolciumi. Ma, non avendo soldi, non mi era permesso di potermi comprare una di quelle che io chiamavo “le pesche”. Si trattava di due emisferi di pasta dolce, con all’interno crema pasticcera, ricoperte di alchermes (che dava il tipico colore roseo delle pesche) e rivestite di zucchero. Ho detto si trattava, ma mi sbaglio: ho scoperto che ci sono ancora. Quando ero ragazzino qualche volta andavo a fare il bagno nel Bisenzio. Era il primo dopo guerra e c’erano ancora molti residuati militari. In particolare, proprio vicino alla Passerella, era rimasto un residuo di carro armato mezzo immerso nel fiume. Una parte del carro era costituita da una spessa lamiera liscia: in pratica un perfetto piano inclinato per poter scivolare nell’acqua. La Passerella era anche un posto prediletto dai pescatori, perché le cascatelle e le successive pozze sembra fossero un luogo ideale per la pesca di cavedani e carpe. Ma non mi chiedete ulteriori informazioni sulla pesca perché sono un non pescatore (come dimostrai in una vacanza con mio zio a Badi sull’Appennino). Ho anche scoperto che ci sono tutt’oggi molti pescatori lungo il Bisenzio. Pescatori che si lamentano perché sono stati introdotti (da chi ?) pesci siluro e pesci gatto che fanno strage degli altri pesci. E pescatori che si lamentano perché i cinesi (che certo a Prato non mancano !) usano le reti, invece della canna, impadronendosi così illegalmente di grandi quantità di pesce. Mi piacevano molto i pesciolini fritti (che però non sono sicuro venissero dal Bisenzio). I pesciolini fritti mi piacciono molto ancora oggi, anche se continuo a non capire se quelli che compro sono sempre gli stessi (se sono alici o argentini o lattarini o come diavolo si chiamano, se sono di mare o di lago o di fiume).
  • 17. 13. Prato – Ginevra Tralasciando il fatto che io, nato a Prato, ho trascorso un bel po’ di tempo, per ragioni di lavoro, presso la sede delle Nazioni Unite a Ginevra, in Svizzera, che legame c’è fra Prato e Ginevra ? L’unico collegamento trovato tra Prato e Ginevra è quello della “Torta Ginevra”. Si tratta della torta preparata a Prato il 24 novembre del 1407 in occasione dello sposalizio di Ginevra, figlia di Francesco Datini, il celebre inventore della cambiale. Questa la ricetta: Ingredienti: 350 g di arancia candita, 350 g di cedro candito, 210 g di pinoli, un cucchiaino di spezie varie come cannella, pepe e chiodi garofano, 2 cucchiai di acqua, 270g di zucchero di canna e 2 cucchiai di miele. Preparazione: Tagliare molto finemente a pezzetti i canditi (sia l’arancia che il cedro). In una casseruola a parte, inserire lo zucchero, l’acqua e miele, farli sciogliere sul fuoco e poi aggiungere i pinoli e i canditi precedentemente tagliati. Mescolare bene. Una volta tolto tutto dal fuoco si pressa l’impasto in un involucro di carta da forno come se fosse un panforte. Inserirlo poi nel forno per qualche minuto e aggiungere poi in superficie le varie spezie. Ma poi ho scoperto che alla Webster University di Ginevra è stata realizzata, nel quadro del progetto “Hidden Identity Project” una mostra fotografica, intitolata “We, Prato – Youth in trasformation”, che ritrae 16 ragazze/i pratesi, di origine cinese e di origine italiana. Potrei raccontare mille storie su Ginevra, darvi mille indicazioni, ma lascio perdere. Non è mica un diario o un sito turistico questo ! 14. Dal vernacolo all’inglese Quando una/un bambina/o aveva mal di pancia, a Prato si diceva (si dice che si dicesse): “Caratu ? Tarabai !” Tradotto: “Che avrai tu ? Avrai i bachi ! Il riferimento era ovviamente al fatto che un mal di pancia poteva essere originato dalla presenza di vermi nell’intestino.
  • 18. Questo per dire che (anche se non perdo l’occasione di affermare che la Toscana è l’unica regione nella quale il dialetto altro non è che il puro italiano) qualche volta può non essere comprensibilissimo quello che dice(va) una/un pratese. Ci sono dotte ricerche sul vernacolo pratese e quindi mi guardo bene dall’approfondire l’argomento. Però ho un tarlo che ancora mi rode, anche se ho lasciato Prato da tempo, prima facendo l’Università a Pisa e poi finendo a lavorare a Roma. Il fatto cioè che per me “duecento” si dice “dugento”. Da cui ne consegue che, appena apro bocca, mi dicono: “ma sei toscano !” (al che rispondo sempre: “sì, ma di Prato”) Potrei comunque sempre appellarmi all’Accademia della Crusca che registra la permanenza in Toscana di “dugento” (anche nella forma popolaresca di “duegento”), che tuttavia è stato sostituito, nel XIX secolo, dall’ormai acquisito “duecento”. Però il vernacolo pratese mi è stato di grande aiuto quando ho dovuto imparare l’inglese. Volete mettere la facilità con la quale pronunciamo le h aspirate ! La più bella soddisfazione è stata quando, dopo che ero stato eletto a presiedere un gruppo internazionale di esperti, il rappresentante inglese mi disse: “Finalmente avremo uno che parla inglese e non americano”. Ma non mi illudo che volesse complimentarmi per il mio inglese. Probabilmente la ragione stava nel fatto che tra UK e USA non facevano altro che punzecchiarsi. Il rappresentante inglese, di fronte a certe espressioni americane, godeva nell’iniziare l’intervento dicendo: “If I have understood correctly…” 15. Ma cosa c’entra Wehr con Prato ? Procediamo con calma. Wehr è una cittadina tedesca di quasi 15.000 abitanti, situata nel Baden-Württemberg. Io non ci sono mai stato (né ho intenzione di andarci) e dubito che ci sia qualche pratese che l’abbia mai visitata. Però “wehr”, in tedesco vuol dire “difesa”, “sbarramento”. E allora, direte voi ? Ebbene, nel Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana del 1907 di Ottorino Pianigiani (il riferimento principe, in termini di etimologia, per chi naviga sul web), il vocabolo tedesco “wehr” è considerato l’antenato del vocabolo italiano “gora”
  • 19. Credo che le/i pratesi comincino a comprendere. Si tratta delle gore. Cosa sono le gore ? Beh, qualche indicazione avreste già dovuto ricavarla dal Pianigiani. Qualche altro suggerimento classico ? Eccolo qua: Canto VIII dell’Inferno dalla Divina Commedia Mentre noi corravam la morta gora, che però forse può essere fuorviante. Allora, per dirla in chiaro: le gore (a Prato) erano dei canali alimentati dal Bisenzio che portavano l’acqua in città. Acqua che serviva a molti usi. Quella che mi ricordo io era la gora di Bachilloni, forse più nota come gora Bresci. E naturalmente anche nella gora di Bachilloni (si dice che Bachilloni derivi dal latino "sub aquilonem", perché lì tirava un forte vento di tramontana, l’aquilone appunto) c’erano i lavatoi, cioè le strutture pubbliche dove le donne (ovviamente mai gli uomini !) andavano a lavare le lenzuola e quant’altro c’era da lavare. Invece a casa mia le lenzuola si mandavano a lavare in campagna. Ogni due o tre settimane arrivava un carretto di contadini trainato da un asino che riportava le lenzuola lavate e asciugate sul prato (d’estate) o nella stalla (d’inverno) e si prendeva quelle da lavare. L’arrivo del carretto dei contadini era una costante, come il lattaio ogni mattina … ok, basta così, altrimenti vi propino tutto il racconto della mia infanzia. Resta (forse) un problema. Poiché adesso le gore sono tutte interrate, siamo sicure/i che l’acqua continuerà a scorrervi regolarmente senza creare problemi ?
  • 20. O forse il problema è già stato risolto ? Speriamo in bene. 16. Giolica Credo che non ci sia una/un pratese che non abbia fatto qualche passeggiata in Giolica (via Giolica alta, via Giolica di sopra, via Giolica di sotto). Ma non ero mai riuscito a sapere di dove venisse il nome “Giolica”. Allora ho fatto molte ricerche sul web e alla fine la costanza è stata premiata. Vediamo come. Nel libro intitolato “Intorno le proprietà, l'uso, e la utilità delle acque ventina e virium rinvenute in città di Penna” di Vincenzo Gentile, pubblicato a Napoli nel 1828 si parla, oltre che delle proprietà delle acque pennesi, della storia di Penna. E, raccontando le vicende di Penna nella seconda metà del XV secolo, viene menzionato un certo Branchiliante, signore e protettore di Penna, al quale è associata la seguente nota a piè di pagina: Si racconta che questi, per far acquisto di una certa Giolica , figlia di Blandisia , signora dimorante in Gironda , oggi Pescara, uccidesse in duello Amerio suo rivale , nobile della citta di Attilia , che indi sorprese Gioiica medesima , e che , per aver rapita costei e condottala seco , insieme con la madre, si attirò lo sdegno del popolo romano Cosa ricavarne ? Si può solo fantasticare. Si può ad esempio immaginare che Giolica, insieme alla madre Blandizia, sia riuscita a sottrarsi alle grinfie di Branchiliante e che, con l’aiuto di frati agostiniani, abbia trovato rifugio nel loro convento pratese, attualmente S. Anna in Giolica.
  • 21. E che quindi i pratesi di allora, colpiti dalla bellezza di Giolica, abbiano dato luogo ad un continuo pellegrinaggio presso il convento per poterla ammirare, tanto che la strada che passava dal convento fu appunto nominata “Giolica”. Non contento, ho provato a trovare un’altra spiegazione, facendo sempre ricerche sul web, storpiando un po’ il nome. E alla fine mi sono imbattuto sulla Jolika Collection of New Guinea Art (in fondo Jolika è molto simile a Giolica). E cos’è questa collezione ? E’ una collezione di opere d’arte della Nuova Guinea raccolte da John Friede (USA). Naturalmente tutto ciò non ha niente a che fare con la Giolica pratese, però mi ha divertito lo scoprire che la collezione è stata chiamata Jolika sulla base delle iniziali dei nomi delle/del figlie/io di John Friede, e cioè John, Lisa e Karen. 17. Fidarsi delle/i pratesi ? Secondo il Boccaccio, no. Infatti il Decameron inizia con una novella della quale è protagonista Ser Ciappelletto, uno spergiuro, bestemmiatore, omicida, il peggior uomo mai nato. Che però riesce, per la sua falsa confessione in punto di morte, a guadagnarsi la fama di santo.
  • 22. Sembra che il Boccaccio avesse a riferimento un notaio pratese che operava in Francia per riscuotere tasse per conto del Re di Francia e del Papa. E forse il fatto che Francesco Datini, il grande mercante pratese, sia ricordato come l’inventore della cambiale (che, come è noto, non è proprio l’indice massimo dell’affidabilità) non contribuisce più di tanto a considerare i pratesi come un esempio di onestà. Ma poi si pensa a Giuseppe Mazzoni, il mazziniano che fu uno dei triumviri toscani nel 1849, o a Virginia Frosini, che fondò l’istituto S. Rita per accogliere i minori abbandonati, forse quel giudizio negativo va ribaltato. Per non trascurare poi i contributi pratesi alla cultura come lo scrittore Sem Benelli, l’autore della “Cena delle beffe”, la cui trasposizione cinematografica di Blasetti ebbe come protagonista una grande attrice pratese, Clara Calamai (con lo scandalo della scena nella quale compare a seno nudo). Ma su tutta questa questione ci sono due considerazioni da fare. La prima è che in ogni città o paese ci sono persone delle quali ti puoi fidare e persone delle quali non puoi. La seconda è che … ma davvero non vi fidereste di me ? Io dico sempre la verità, a meno che non sia necessario mentire (scherzo naturalmente). 18. Conclusione ? Il fatto è che adesso non ho voglia di andare avanti. Ma magari domani (o dopodomani o fra qualche giorno o qualche mese) ci ripenso. Quindi questa è solo una conclusione (forse) provvisoria.