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STUDIO TECNICO
Ing. NICOLA LENOCI
Via Annunziata 56
70021 Acquaviva delle Fonti (BA)
Tel. 339 7745010
@-mail: nicola.lenoci1@tiscali.it
All’Assessore alle attività produttive del Comune di
ACQUAVIVA DELLE FONTI
Oggetto: Possibilità di esercitare un’attività commerciale all’interno di locali destinati ad attività
artigianale ed ubicati in zona PIP.
^^^^^^^^^^^^^
Caro Luca
a conclusione del dibattito che, alcuni giorno or sono, si è tenuto negli studi televisivi dell’emittente
locale “TELEMAJG”, mi hai chiesto di esprimere un parere riguardo alla possibilità di esercitare,
nel rispetto della legge, attività commerciali all’interno di locali aziendali, ubicati in zona PIP,
attualmente destinati ad attività artigianale.
Mi hai chiesto, in buona sostanza, di precisare se, anche alla luce delle vigenti normative
urbanistiche ed edilizie, un imprenditore artigiano possa effettuare, all’interno dei locali aziendali la
vendita di:
1. beni di produzione propria;
2. beni non di produzione propria;
Aderisco volentieri alla tua richiesta e ti riferisco quanto segue.
PRIMO QUESITO
Per rispondere al primo dei due quesiti occorre far riferimento alla legge regionale n. 24 del
5.8.2013 “Norme per lo sviluppo, la promozione e la tutela dell’artigianato pugliese”, che, al punto
8 dell’art. 4 “Definizione di impresa artigiana”, così recita: “Per la vendita nei locali di produzione,
o a essi contigui, dei beni di produzione propria, ovvero per la fornitura al committente di quanto
strettamente occorrente all’esecuzione dell’opera o alla prestazione del servizio commesso, non si
applicano alle imprese artigiane le disposizioni vigenti in materia di esercizio di attività
commerciali, di intermediazione di vendita e di orario di vendita.”
La norma citata deriva, in maniera diretta, dal decreto legislativo 31.3.1998, n. 114, “Riforma della
disciplina al settore del commercio” che, all’art. 4, così dispone:
“Art. 4: Definizioni e ambito di applicazione del decreto
1. omissis;
2. Il presente decreto non si applica:
2
omissis
f) agli artigiani iscritti nell'albo di cui all'articolo 5, primo comma, della legge 8 agosto 1985, n.
443, per la vendita nei locali di produzione o nei locali a questi adiacenti dei beni di produzione
propria, ovvero per la fornitura al committente dei beni accessori all'esecuzione delle opere o alla
prestazione del servizio;”
In base alla normativa citata si può concludere, quindi, che un imprenditore artigiano può effettuare,
all’interno della sua azienda ed in maniera del tutto legittima, la vendita dei beni di sua produzione
e/o la vendita di beni strettamente necessari ad eseguire le lavorazioni artigianali di sua competenza,
senza che debba sottostare, per l’esercizio di siffatte attività commerciali, alle disposizioni vigenti in
materia di esercizio di attività commerciali, di intermediazione di vendita e di orario di vendita
contenute nel decreto legislativo 31.3.1998, n. 114 e s.m.i.
Il falegname, a titolo esemplificativo, può vendere, all’interno dei locali aziendali, i mobili di sua
produzione senza dover sottostare alle anzidette disposizioni; del pari, un gommista può vendere
pneumatici, beni non di sua produzione, ma che sono strettamente occorrenti all’esercizio della sua
attività artigianale.
Dal punto di vista urbanistico non vi è ostacolo alcuno all’esercizio delle attività commerciali
suddette, in quanto le Norme Tecniche di Attuazione (NTA) allegate al vigente PRG (vedi l’incipit
dell’art. 73), definiscono le zone produttive come il luogo deputato allo svolgimento delle attività
industriali ed artigianali, attività che consistono nella produzione, nella lavorazione, nel deposito,
nella la commercializzazione e nella distribuzione di manufatti e dei prodotti in generale.
L’attività artigiana si caratterizza, quindi, per la presenza di un legame inscindibile fra la
produzione e la commercializzazione di manufatti
SECONDO QUESITO
Meno scontata appare, invece, la risposta da dare allorquando l’imprenditore artigiano voglia
effettuare, all’interno dei locali aziendali, la vendita di beni non di produzione propria e/o di beni
non accessori all'esecuzione delle opere o alla prestazione del servizio.
Il legame che unisce la produzione alla commercializzazione dei manufatti, risulta, in questo
caso interrotto, con la conseguenza che, in luogo di attività artigianale, si dovrebbe più
propriamente parlare di attività commerciale.
Sic rebus stantibus, sembrerebbe illegittimo, quindi, l’esercizio di una attività commerciale
all’interno di locali destinati ad attività artigianale.
Sennonché l’art. 3 della legge 8.8.1985, n. 443 e s.m.i., di seguito riportato, apre uno scenario del
tutto differente rispetto a quello ora prospettato:
“ Art. 3. - Definizione di impresa artigiana-
È artigiana l’impresa che, esercitata dall’imprenditore artigiano nei limiti dimensionali di cui
alla presente legge, abbia per scopo prevalente lo svolgimento di un’attività di produzione di
beni, anche semilavorati, di prestazioni di servizi, escluse le attività agricole e le attività di
prestazione di servizi commerciali, di intermediazione nella circolazione dei beni o ausiliarie di
queste ultime, di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, salvo il caso che siano
solamente strumentali e accessorie all’esercizio dell’impresa.....”
3
Dalla norma dianzi riportata si evince che un’impresa artigiana, per poter essere qualificata come
tale, deve avere come scopo prevalente l’attività di produzione di beni e la prestazione di servizi.
Scopo prevalente non significa, come è ovvio, scopo esclusivo.
Ne deriva, pertanto, che l’imprenditore artigiano può esercitare anche altre attività (ad
esempio commerciali) purché il suo scopo prevalente continui ad essere l’attività di
produzione di beni e la prestazione di servizi.
Per esemplificare: un auto – riparatore, conserva la qualifica di artigiano se ha come scopo
prevalente la riparazione di autovetture e non già quello della vendita di autoradio o pneumatici
all’interno della sua officina; del pari un fornaio, potrà essere definito artigiano se ha come scopo
prevalente la produzione di articoli da forno e non già la vendita di pasta, cereali, succhi, conserve
ecc.
Va da sé che le attività commerciali consistenti nella vendita di beni non di produzione propria e/o
di beni non accessori all'esecuzione delle opere o alla prestazione del servizio, effettuate
all’interno di locali destinati ad attività artigianale, debbono soggiacere alle disposizioni vigenti in
materia di esercizio di attività commerciali, di intermediazione di vendita e di orario di vendita
contenute nel decreto legislativo 31.3.1998, n. 114 e s.m.i.
All’imprenditore artigiano che abbia come scopo prevalente la produzione di beni e servizi non
può, quindi, in alcun modo, essere vietato l’esercizio di una attività commerciale; occorrerà,
semmai, valutare e verificare, sulla base del reddito d’impresa, che l’attività artigianale svolta sia
prevalente su quella commerciale.
La valutazione e la verifica del possesso di un siffatto requisito spetta, come è noto, alla
commissione per la tenuta dell’albo artigiani che ha sede presso la C.C.I.A.A. territorialmente
competente.
Occorrerà accertare, inoltre, che le attività commerciali, da effettuare all’interno di una struttura
artigianale, siano compatibili con le norme igienico – sanitarie e con quelle relative alla sicurezza
sui luoghi di lavoro.
Così come occorrerà verificare, dal punto di vista urbanistico, che le aree a standard reperite nella
fase di redazione del piano particolareggiato della zona PIP, siano sufficienti a consentire il
cambio d’uso di alcuni locali aziendali dalla destinazione artigianale a quella commerciale.
AREE A STANDARD
Riguardo alla questione da ultimo sollevata, relativa alla congruità delle aree a standard, osservo
quanto segue.
L’art. 5 del DM 1444/68, titolato “Rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti
produttivi e gli spazi pubblici destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”, al
punto 1, prescrive: “nei nuovi insediamenti di carattere industriale o ad essi assimilabili compresi
nelle zone D) la superficie da destinare a spazi pubblici o destinata ad attività collettive, a verde
pubblico o a parcheggi (escluse le sedi viarie) non può essere inferiore al 10% dell’intera
superficie destinata a tali insediamenti;”
4
L’articolo 76 delle NTA allegate al PRG, titolato “Modalità di intervento nelle zone D”,
coerentemente con quanto prescritto dall’art. 5, punto 1, del menzionato DM 1444/68, impone di
riservare, nelle zone D3 a carattere Direzionale e Commerciale (insediamenti assimilabili a quelli
di carattere industriale), aree a standard nella misura del 10% della superficie tipizzata.
E’ evidente, quindi, che il cambio d’uso di alcuni locali aziendali dalla destinazione artigianale a
quella commerciale potrà essere consentito ove si dimostri che nella redazione del piano
particolareggiato della zona PIP furono, a suo tempo, reperite aree a standard in misura non
inferiore al 10% dell’intera superficie destinata ad insediamenti produttivi.
Orbene, a pagina 12 della Relazione Illustrativa (tavola n. 12) allegata al menzionato piano
particolareggiato (adottato dal Comune di Acquaviva delle Fonti con delibera CC n. 188 del
23.10.1976 ed approvato con DPRG n. 1571 del 10.7.1978) si legge: “Gli spazi destinati a verde
pubblico, a parcheggi, ad attività collettive risultano essere superiori al 10% dell’intera
superficie, come previsto dal D.M. 2/4/68 n. 1444.”
Dalla pagina 2 della citata Relazione Illustrativa si apprende, inoltre, che l’area da destinare ad
insediamenti produttivi era estesa mq 637.133; in conseguenza occorreva reperire una superficie da
destinare a standard non inferiore a mq 637.133 x 10% = mq 63.713
In realtà, come si evince dalla tabella 2 contenuta nella tavola 13 allegata al PIP, fu reperita e
riservata a standard una superficie di mq 39998 (parcheggi pubblici) + 79992 (verde pubblico) +
29400 (servizi sociali) = mq 149.390 ben superiore al valor minimo di mq 63.713
Nessun problema, quindi, neppure dal punto di vista urbanistico, riguardo alla possibilità di
effettuare il cambio d’uso di alcuni locali aziendali dalla destinazione artigianale a quella
commerciale.
Occorrerà, ovviamente, porre mano al regolamento ed alle NTA del PIP per disciplinare nella
maniera più opportuna la possibilità di esercitare attività commerciali all’interno di locali aziendali
destinati ad attività artigianale.
Spero, caro Luca, di aver esaurientemente risposto ai quesiti che mi hai posto.
Consentimi, a conclusione di queste mie brevi note, di segnalarti che fra le Norme Tecniche
d’Attuazione contenute nel piano particolareggiato (vedi delibera CC n. 6 del 19.01.2009) e le
Norme Tecniche d’Attuazione allegate al vigente PRG vi sono discrepanze considerevoli riguardo
alle zone D.
Se richiesto, provvederò a relazionare in merito.
Ti saluto cordialmente e, .... disponi pure, sempre e quando vuoi.
Acquaviva delle Fonti 11.3.2014
Nicola Lenoci

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  • 2. 2 omissis f) agli artigiani iscritti nell'albo di cui all'articolo 5, primo comma, della legge 8 agosto 1985, n. 443, per la vendita nei locali di produzione o nei locali a questi adiacenti dei beni di produzione propria, ovvero per la fornitura al committente dei beni accessori all'esecuzione delle opere o alla prestazione del servizio;” In base alla normativa citata si può concludere, quindi, che un imprenditore artigiano può effettuare, all’interno della sua azienda ed in maniera del tutto legittima, la vendita dei beni di sua produzione e/o la vendita di beni strettamente necessari ad eseguire le lavorazioni artigianali di sua competenza, senza che debba sottostare, per l’esercizio di siffatte attività commerciali, alle disposizioni vigenti in materia di esercizio di attività commerciali, di intermediazione di vendita e di orario di vendita contenute nel decreto legislativo 31.3.1998, n. 114 e s.m.i. Il falegname, a titolo esemplificativo, può vendere, all’interno dei locali aziendali, i mobili di sua produzione senza dover sottostare alle anzidette disposizioni; del pari, un gommista può vendere pneumatici, beni non di sua produzione, ma che sono strettamente occorrenti all’esercizio della sua attività artigianale. Dal punto di vista urbanistico non vi è ostacolo alcuno all’esercizio delle attività commerciali suddette, in quanto le Norme Tecniche di Attuazione (NTA) allegate al vigente PRG (vedi l’incipit dell’art. 73), definiscono le zone produttive come il luogo deputato allo svolgimento delle attività industriali ed artigianali, attività che consistono nella produzione, nella lavorazione, nel deposito, nella la commercializzazione e nella distribuzione di manufatti e dei prodotti in generale. L’attività artigiana si caratterizza, quindi, per la presenza di un legame inscindibile fra la produzione e la commercializzazione di manufatti SECONDO QUESITO Meno scontata appare, invece, la risposta da dare allorquando l’imprenditore artigiano voglia effettuare, all’interno dei locali aziendali, la vendita di beni non di produzione propria e/o di beni non accessori all'esecuzione delle opere o alla prestazione del servizio. Il legame che unisce la produzione alla commercializzazione dei manufatti, risulta, in questo caso interrotto, con la conseguenza che, in luogo di attività artigianale, si dovrebbe più propriamente parlare di attività commerciale. Sic rebus stantibus, sembrerebbe illegittimo, quindi, l’esercizio di una attività commerciale all’interno di locali destinati ad attività artigianale. Sennonché l’art. 3 della legge 8.8.1985, n. 443 e s.m.i., di seguito riportato, apre uno scenario del tutto differente rispetto a quello ora prospettato: “ Art. 3. - Definizione di impresa artigiana- È artigiana l’impresa che, esercitata dall’imprenditore artigiano nei limiti dimensionali di cui alla presente legge, abbia per scopo prevalente lo svolgimento di un’attività di produzione di beni, anche semilavorati, di prestazioni di servizi, escluse le attività agricole e le attività di prestazione di servizi commerciali, di intermediazione nella circolazione dei beni o ausiliarie di queste ultime, di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, salvo il caso che siano solamente strumentali e accessorie all’esercizio dell’impresa.....”
  • 3. 3 Dalla norma dianzi riportata si evince che un’impresa artigiana, per poter essere qualificata come tale, deve avere come scopo prevalente l’attività di produzione di beni e la prestazione di servizi. Scopo prevalente non significa, come è ovvio, scopo esclusivo. Ne deriva, pertanto, che l’imprenditore artigiano può esercitare anche altre attività (ad esempio commerciali) purché il suo scopo prevalente continui ad essere l’attività di produzione di beni e la prestazione di servizi. Per esemplificare: un auto – riparatore, conserva la qualifica di artigiano se ha come scopo prevalente la riparazione di autovetture e non già quello della vendita di autoradio o pneumatici all’interno della sua officina; del pari un fornaio, potrà essere definito artigiano se ha come scopo prevalente la produzione di articoli da forno e non già la vendita di pasta, cereali, succhi, conserve ecc. Va da sé che le attività commerciali consistenti nella vendita di beni non di produzione propria e/o di beni non accessori all'esecuzione delle opere o alla prestazione del servizio, effettuate all’interno di locali destinati ad attività artigianale, debbono soggiacere alle disposizioni vigenti in materia di esercizio di attività commerciali, di intermediazione di vendita e di orario di vendita contenute nel decreto legislativo 31.3.1998, n. 114 e s.m.i. All’imprenditore artigiano che abbia come scopo prevalente la produzione di beni e servizi non può, quindi, in alcun modo, essere vietato l’esercizio di una attività commerciale; occorrerà, semmai, valutare e verificare, sulla base del reddito d’impresa, che l’attività artigianale svolta sia prevalente su quella commerciale. La valutazione e la verifica del possesso di un siffatto requisito spetta, come è noto, alla commissione per la tenuta dell’albo artigiani che ha sede presso la C.C.I.A.A. territorialmente competente. Occorrerà accertare, inoltre, che le attività commerciali, da effettuare all’interno di una struttura artigianale, siano compatibili con le norme igienico – sanitarie e con quelle relative alla sicurezza sui luoghi di lavoro. Così come occorrerà verificare, dal punto di vista urbanistico, che le aree a standard reperite nella fase di redazione del piano particolareggiato della zona PIP, siano sufficienti a consentire il cambio d’uso di alcuni locali aziendali dalla destinazione artigianale a quella commerciale. AREE A STANDARD Riguardo alla questione da ultimo sollevata, relativa alla congruità delle aree a standard, osservo quanto segue. L’art. 5 del DM 1444/68, titolato “Rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti produttivi e gli spazi pubblici destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”, al punto 1, prescrive: “nei nuovi insediamenti di carattere industriale o ad essi assimilabili compresi nelle zone D) la superficie da destinare a spazi pubblici o destinata ad attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi (escluse le sedi viarie) non può essere inferiore al 10% dell’intera superficie destinata a tali insediamenti;”
  • 4. 4 L’articolo 76 delle NTA allegate al PRG, titolato “Modalità di intervento nelle zone D”, coerentemente con quanto prescritto dall’art. 5, punto 1, del menzionato DM 1444/68, impone di riservare, nelle zone D3 a carattere Direzionale e Commerciale (insediamenti assimilabili a quelli di carattere industriale), aree a standard nella misura del 10% della superficie tipizzata. E’ evidente, quindi, che il cambio d’uso di alcuni locali aziendali dalla destinazione artigianale a quella commerciale potrà essere consentito ove si dimostri che nella redazione del piano particolareggiato della zona PIP furono, a suo tempo, reperite aree a standard in misura non inferiore al 10% dell’intera superficie destinata ad insediamenti produttivi. Orbene, a pagina 12 della Relazione Illustrativa (tavola n. 12) allegata al menzionato piano particolareggiato (adottato dal Comune di Acquaviva delle Fonti con delibera CC n. 188 del 23.10.1976 ed approvato con DPRG n. 1571 del 10.7.1978) si legge: “Gli spazi destinati a verde pubblico, a parcheggi, ad attività collettive risultano essere superiori al 10% dell’intera superficie, come previsto dal D.M. 2/4/68 n. 1444.” Dalla pagina 2 della citata Relazione Illustrativa si apprende, inoltre, che l’area da destinare ad insediamenti produttivi era estesa mq 637.133; in conseguenza occorreva reperire una superficie da destinare a standard non inferiore a mq 637.133 x 10% = mq 63.713 In realtà, come si evince dalla tabella 2 contenuta nella tavola 13 allegata al PIP, fu reperita e riservata a standard una superficie di mq 39998 (parcheggi pubblici) + 79992 (verde pubblico) + 29400 (servizi sociali) = mq 149.390 ben superiore al valor minimo di mq 63.713 Nessun problema, quindi, neppure dal punto di vista urbanistico, riguardo alla possibilità di effettuare il cambio d’uso di alcuni locali aziendali dalla destinazione artigianale a quella commerciale. Occorrerà, ovviamente, porre mano al regolamento ed alle NTA del PIP per disciplinare nella maniera più opportuna la possibilità di esercitare attività commerciali all’interno di locali aziendali destinati ad attività artigianale. Spero, caro Luca, di aver esaurientemente risposto ai quesiti che mi hai posto. Consentimi, a conclusione di queste mie brevi note, di segnalarti che fra le Norme Tecniche d’Attuazione contenute nel piano particolareggiato (vedi delibera CC n. 6 del 19.01.2009) e le Norme Tecniche d’Attuazione allegate al vigente PRG vi sono discrepanze considerevoli riguardo alle zone D. Se richiesto, provvederò a relazionare in merito. Ti saluto cordialmente e, .... disponi pure, sempre e quando vuoi. Acquaviva delle Fonti 11.3.2014 Nicola Lenoci