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“Il mobbing non è un reato, solo illecito civile”
La Cassazione: non previsto dal codice penale
di Fernando Cecchini
In data 30 agosto 2007 questi titoli apparivano sulla stampa italiana e su questa linea si attestavano
anche i media nei Tg.
Tale notizia ha generato panico, delusione e sconforto come risulta dalla quantità di e-mail e
telefonate da me ricevute in questi giorni, per cui mi sento in dovere di fare chiarezza.
Innanzi tutto vorrei evidenziare la positività dell’evento, in quanto un problema SOPITO o meglio
DIMENTICATO è tornato alla ribalta interessando l’ opinione pubblica.
Veniamo al punto: nel nostro Paese non esiste una legge che contenga la parola mobbing e che
definisca le caratteristiche del fenomeno, né sul codice civile né sul codice penale.
Per cui, a rigore, se una persona si presentasse dal giudice denunziando di subire azioni di mobbing
potrebbe sentirsi rispondere: “non so cosa sia”, in quanto il giudice deve applicare quanto definito
da una legge e tale legge non esiste.
La prima proposta di legge che prevede il mobbing risale al luglio 1996. A tale proposta ne sono
seguite dozzine e nell’attuale legislatura.
A proposito poi dell’ azione penale, molti giuslavoristi ne sconsigliano l’ uso, perché, oltre a
precludere ogni possibilità di mediazione tra le parti, ha tempi lunghi e l’esito incerto.
Nella fase attuale è preferibile procedere con una causa civile chiedendo un risarcimento dei
danni.
Ricordo che il toccare le tasche del persecutore, o chi per lui, fa molto più male; ad esempio la
Corte dei Conti in più occasioni ha chiesto al persecutore dell’ azienda pubblica il risarcimento per
quanto fatto sborsare ingiustamente all’ erario quale risarcimento per azioni persecutorie.
E qui nasce il primo dubbio; ma se manca qualsivoglia legge penale o civile sul fenomeno mobbing
come faccio ad iniziare una azione legale?
La soluzione sta nel non denunziare l’azione di mobbing (anzi, va suggerito ai lavoratori di non
pronunciare mai la parola mobbing dinanzi al giudice o nel ricorso), ma di ricorrere rifacendosi alle
tutele già prevista dalla vigente normativa:
1. la Costituzione della Repubblica Italiana
Art. 3 E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto la libertà e l’ eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l’ effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’
organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 32 1°c. La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’ individuo e
interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Art. 35 1°c. La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
Art. 41 1°comma . L’ iniziativa economica privata è libera Non può svolgersi in
contrasto con l’ utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana
2. il Codice Civile
Art. cc 2087 Tutela delle condizioni di lavoro "L'imprenditore è tenuto ad adottare nello
esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro l'esperienza e la
tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori
di lavoro”
Art. cc 2103 Mansioni del lavoratore Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle
mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore
che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime
effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di
assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente
all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia
avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del
posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre
mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non
percomprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è
nullo.
Art. cc 2043 Risarcimenti per fatto illecito Qualunque fatto doloso o colposo, che
cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il
danno (Cod. Pen. 185).
Art. cc 2049 Responsabilità dei padroni e dei committenti I padroni e i committenti
sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi
nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti.
3. il Codice Penale
Art. 571 - Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina -Chiunque abusa dei mezzi di
correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui
affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per
l`esercizio di una professione o di un`arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una
malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. Se dal fatto deriva una
lesione personale si applicano le pene stabilite negli artt. 582 e 583, ridotte a un terzo; se
ne deriva la morte, si applica la reclusione da due a otto anni.
Art. 572 - Maltrattamenti -Chiunque, fuori dei casi indicati nell`articolo precedente,
maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona
sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura,
vigilanza o custodia, o per l`esercizio di una professione o di un`arte, è punito con la
reclusione da uno a cinque anni.
Art. 582 - Lesione personale - Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla
quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi
a tre anni.
Art. 583 - Circostanze aggravanti - La lesione personale è grave, si applica la reclusione
da tre a sette anni: 1) se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della
persona offesa, ovvero una malattia o un'incapacità di attendere alle ordinarie
occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni
Art. 590 - Lesioni personali colpose - Chiunque cagiona ad altri, per colpa, una lesione
personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a lire
seicentomila. Se i fatti di cui al precedente capoverso sono commessi con violazione
delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, la pena per le lesioni gravi è
della reclusione da due a sei mesi o della multa da lire quattrocentottantamila a un
milione duecentomila
Art. 660 - Molestia o disturbo alle persone - Chiunque, in luogo pubblico o aperto al
pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo,
reca a taluno molestia o disturbo è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda
fino a lire un milione.
Art. 610 - Violenza privata - Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare,
tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni.
Art. 629 – Estorsione Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a
fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui
danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da lire 1 milione a
4 milioni.
Va ricordata in proposito la condanna in sede penale inflitta ad 11 dirigenti della ILVA di Taranto
proprio dalla Cassazione nel 2006 per la celeberrima storia della palazzina LAF, definita palazzina
Lager, dove 62 lavoratori vennero confinati, senza nessuna mansione, isolandoli dal resto delle
maestranze in quanto non accettavano posizioni demanzionate.
Ben venga comunque una legge dedicata appositamente al mobbing al fine di dare più certezza di
diritto e ai lavoratori e al giudice.
Concludo riportando di seguito la sentenza della cassazione, e confermo che nulla è cambiato, in
quanto è possibile seguire a propria difesa, in attesa di una legge, le strade civilistiche o
penalistiche tuttora esistenti.
Il mobbing non è reato tipizzato nel codice penale...
Cass. Pen., V sez., 29 agosto 2007 n. 33624 – Pres. Pizzuti – Rel. Sandrelli –
Ricorrenti: I. Ca. e P.M.
In fatto.
Ricorrono avverso la sentenza di non luogo a procedere resa dal GUP presso il Tribunale di
S. Maria Capua Vetere nel proc. a carico di G. De Nu. sia il PM. sia la Parte Civile I. CA.,
lamentando entrambi sia la erronea applicazione della legge penale sia la carenza di
motivazione.
La vicenda attiene ad una annosa querelle tra la prof. I. Ca., insegnante di sostegno presso
l'Istituto d'arte di San Y., ed il preside della scuola, G. De Nu., sfociata in contenzioso
amministrativo e, di poi, penale. L'accusa dedotta nell'attuale procedimento è di lesioni
personali volontarie gravi in ragione dell'indebolimento permanente dell'organo della
funzione psichica, in sostanza un comportamento riconducibile, come si esprimono le parti,
nella condotta di mobbing.
Il giudice ha reso sentenza liberatoria sostanzialmente ritenendo “insostenibile” la tesi
(espressa dal CT.) della riconducibilità alla nozione di lesione della mera alterazione del
tono dell’umore attesa la natura transeunte ed assai comune e la difficoltà di individuare
un atto a cui collegare eziologicamente la malattia.
In diritto
1) Sia le parti private sia il giudicante invocano, per l’attuale vicenda, la condotta di
mobbing.
Con la nozione (delineatasi nella esperienza giudiziale gius/lavoristica) di mobbing si
individua la fattispecie relativa ad una condotta che si protragga nel tempo con le
caratteristiche della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del lavoratore, onde
configurare una vera e propria condotta persecutoria posta in essere dal preposto sul luogo
di lavoro.
La difficoltà di inquadrare la fattispecie in una precisa figura incriminatrice, mancando in
seno al codice penale questa tipicizzazione, deriva – nel caso di specie – dalla erronea
contestazione del reato da parte del P.M. Infatti, l’atto di incolpazione è assolutamente
incapace di descrivere i tratti dell’azione censurata.
La condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata
reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da
rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima
sia nell'efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro.
Pertanto la prova della relativa responsabilità "deve essere verificata, procedendosi alla
valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi .... che può essere
dimostrata per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche
oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una
connotazione emulativa e pretestuosa... " (cfr. Cass. civ., Sez. L, 6.2006,
Meneghello/Unicredit Spa, CED Cass. 587359).
2) E' approdo giurisprudenziale di questa Corte che la figura di reato maggiormente
prossima ai connotati caratterizzanti il cd. mobbing è quella descritta dall'art. 572 c.p.,
commessa da persona dotata di autorità per l'esercizio di una professione: si richiama, in
tal senso, per una situazione di fatto giuridicamente paragonabile - in linea astratta - alla
presente, Cass., sez. VI, 22.1.2001, Erba, CED Cass. 218201.
Ove si accolga siffatta lettura, risulta evidente che, soltanto per l'ipotesi dell'aggravante
specifica della citata disposizione, si richieda la individuazione della conseguenza patologica
riconducibile agli atti illeciti.
3) Se questa è la premessa di diritto (richiamata dalle parti processuali nei loro ricorsi e dal
giudice nella decisione impugnata), non è dato vedere - nella contestazione formulata dalla
pubblica accusa verso il De Nu. - quale azione possa ritenersi illecita e causativa della
malattia della Ca. Non risulta - pertanto - illogica l'osservazione del giudice che lamenta la
mancata individuazione degli atti lesivi, ciascuno dei quali difficilmente in grado di
rapportarsi alla patologia evidenziata (malattia, a sua volta, non connotata da esiti
allocabili cronologicamente - con sicurezza - quanto al suo insorgere, così da evidenziare
l'autore del fatto illecito e le circostanze modali dell'azione lesiva).
D'altra parte, in carenza financo di una prospettazione espressamente continuativa (la
condotta è, tuttavia, contestata “sino all'aprile 2003” senza richiamo all'art. 81 cpv. c.p.), è
ben ardua la ravvisabilità del rapporto di cui all'art. 40 c.p. di una singola ingiuria o di una
sola propalazione diffamatoria o intimidativa (i cui contorni restano oscuri, non essendo
assolutamente specificati nell'addebito di accusa). Gli stessi atti di impugnazione
richiamano la pluralità di gesti ostili, senza che - peraltro - degli stessi vi sia indicazione
(se non indebitamente generica) nella formale incolpazione.
Non è, conseguentemente, data la ravvisabilità dei parametri di frequenza e di durata nel
tempo delle azioni ostili poste in essere dal soggetto attivo delle lesioni personali, onde
valutare il loro complessivo carattere persecutorio e discriminatorio.
4) Trascurando quanto attiene alla già resa valutazione della prova, incompatibile con il
giudizio di legittimità, le censure addotte sono infondate poiché pretendono dal GIP di
considerare una "reiterazione" di condotte, non compiutamente contestata; inoltre riferita
ad azioni in sé prive di potenzialità direttamente lesiva dell'integrità della vittima (come
ingiurie, diffamazioni, ecc.), o prive di riscontri di esiti obiettivamente dimostrabili.
Per questa ragione, non si rileva né carenza né illogicità della motivazione, attesa la
radicale insufficienza della contestazione a contenere possibili sviluppi dibattimentali
dell'accusa (ben avendo potuto, già in sede di udienza preliminare, il P.M. procedere a più
confacente contestazione) ed a sviluppare un possibile compendio probatorio ex art. 422
c.p.p., onere che grava principalmente sull’organo di accusa.
I ricorsi vengono rigettati: da tanto consegue la condanna della parte civile al pagamento
delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna la parte Civile al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma il 9 luglio 2007 (depositato il 29 agosto 2007).

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“Il mobbing non è un reato, solo illecito civile” - In data 30 agosto 2007 questi titoli apparivano sulla stampa italiana. Tale notizia ha generato panico, delusione e sconforto.

  • 1. “Il mobbing non è un reato, solo illecito civile” La Cassazione: non previsto dal codice penale di Fernando Cecchini In data 30 agosto 2007 questi titoli apparivano sulla stampa italiana e su questa linea si attestavano anche i media nei Tg. Tale notizia ha generato panico, delusione e sconforto come risulta dalla quantità di e-mail e telefonate da me ricevute in questi giorni, per cui mi sento in dovere di fare chiarezza. Innanzi tutto vorrei evidenziare la positività dell’evento, in quanto un problema SOPITO o meglio DIMENTICATO è tornato alla ribalta interessando l’ opinione pubblica. Veniamo al punto: nel nostro Paese non esiste una legge che contenga la parola mobbing e che definisca le caratteristiche del fenomeno, né sul codice civile né sul codice penale. Per cui, a rigore, se una persona si presentasse dal giudice denunziando di subire azioni di mobbing potrebbe sentirsi rispondere: “non so cosa sia”, in quanto il giudice deve applicare quanto definito da una legge e tale legge non esiste. La prima proposta di legge che prevede il mobbing risale al luglio 1996. A tale proposta ne sono seguite dozzine e nell’attuale legislatura. A proposito poi dell’ azione penale, molti giuslavoristi ne sconsigliano l’ uso, perché, oltre a precludere ogni possibilità di mediazione tra le parti, ha tempi lunghi e l’esito incerto. Nella fase attuale è preferibile procedere con una causa civile chiedendo un risarcimento dei danni. Ricordo che il toccare le tasche del persecutore, o chi per lui, fa molto più male; ad esempio la Corte dei Conti in più occasioni ha chiesto al persecutore dell’ azienda pubblica il risarcimento per quanto fatto sborsare ingiustamente all’ erario quale risarcimento per azioni persecutorie. E qui nasce il primo dubbio; ma se manca qualsivoglia legge penale o civile sul fenomeno mobbing come faccio ad iniziare una azione legale? La soluzione sta nel non denunziare l’azione di mobbing (anzi, va suggerito ai lavoratori di non pronunciare mai la parola mobbing dinanzi al giudice o nel ricorso), ma di ricorrere rifacendosi alle tutele già prevista dalla vigente normativa: 1. la Costituzione della Repubblica Italiana Art. 3 E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’ eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’ effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’ organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Art. 32 1°c. La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’ individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Art. 35 1°c. La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Art. 41 1°comma . L’ iniziativa economica privata è libera Non può svolgersi in contrasto con l’ utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana 2. il Codice Civile Art. cc 2087 Tutela delle condizioni di lavoro "L'imprenditore è tenuto ad adottare nello esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” Art. cc 2103 Mansioni del lavoratore Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime
  • 2. effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non percomprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo. Art. cc 2043 Risarcimenti per fatto illecito Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno (Cod. Pen. 185). Art. cc 2049 Responsabilità dei padroni e dei committenti I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti. 3. il Codice Penale Art. 571 - Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina -Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l`esercizio di una professione o di un`arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. Se dal fatto deriva una lesione personale si applicano le pene stabilite negli artt. 582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da due a otto anni. Art. 572 - Maltrattamenti -Chiunque, fuori dei casi indicati nell`articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l`esercizio di una professione o di un`arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Art. 582 - Lesione personale - Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni. Art. 583 - Circostanze aggravanti - La lesione personale è grave, si applica la reclusione da tre a sette anni: 1) se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni Art. 590 - Lesioni personali colpose - Chiunque cagiona ad altri, per colpa, una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a lire seicentomila. Se i fatti di cui al precedente capoverso sono commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, la pena per le lesioni gravi è della reclusione da due a sei mesi o della multa da lire quattrocentottantamila a un milione duecentomila Art. 660 - Molestia o disturbo alle persone - Chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a lire un milione. Art. 610 - Violenza privata - Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni. Art. 629 – Estorsione Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da lire 1 milione a 4 milioni.
  • 3. Va ricordata in proposito la condanna in sede penale inflitta ad 11 dirigenti della ILVA di Taranto proprio dalla Cassazione nel 2006 per la celeberrima storia della palazzina LAF, definita palazzina Lager, dove 62 lavoratori vennero confinati, senza nessuna mansione, isolandoli dal resto delle maestranze in quanto non accettavano posizioni demanzionate. Ben venga comunque una legge dedicata appositamente al mobbing al fine di dare più certezza di diritto e ai lavoratori e al giudice. Concludo riportando di seguito la sentenza della cassazione, e confermo che nulla è cambiato, in quanto è possibile seguire a propria difesa, in attesa di una legge, le strade civilistiche o penalistiche tuttora esistenti. Il mobbing non è reato tipizzato nel codice penale... Cass. Pen., V sez., 29 agosto 2007 n. 33624 – Pres. Pizzuti – Rel. Sandrelli – Ricorrenti: I. Ca. e P.M. In fatto. Ricorrono avverso la sentenza di non luogo a procedere resa dal GUP presso il Tribunale di S. Maria Capua Vetere nel proc. a carico di G. De Nu. sia il PM. sia la Parte Civile I. CA., lamentando entrambi sia la erronea applicazione della legge penale sia la carenza di motivazione. La vicenda attiene ad una annosa querelle tra la prof. I. Ca., insegnante di sostegno presso l'Istituto d'arte di San Y., ed il preside della scuola, G. De Nu., sfociata in contenzioso amministrativo e, di poi, penale. L'accusa dedotta nell'attuale procedimento è di lesioni personali volontarie gravi in ragione dell'indebolimento permanente dell'organo della funzione psichica, in sostanza un comportamento riconducibile, come si esprimono le parti, nella condotta di mobbing. Il giudice ha reso sentenza liberatoria sostanzialmente ritenendo “insostenibile” la tesi (espressa dal CT.) della riconducibilità alla nozione di lesione della mera alterazione del tono dell’umore attesa la natura transeunte ed assai comune e la difficoltà di individuare un atto a cui collegare eziologicamente la malattia. In diritto 1) Sia le parti private sia il giudicante invocano, per l’attuale vicenda, la condotta di mobbing. Con la nozione (delineatasi nella esperienza giudiziale gius/lavoristica) di mobbing si individua la fattispecie relativa ad una condotta che si protragga nel tempo con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del lavoratore, onde configurare una vera e propria condotta persecutoria posta in essere dal preposto sul luogo di lavoro. La difficoltà di inquadrare la fattispecie in una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al codice penale questa tipicizzazione, deriva – nel caso di specie – dalla erronea contestazione del reato da parte del P.M. Infatti, l’atto di incolpazione è assolutamente incapace di descrivere i tratti dell’azione censurata. La condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell'efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro. Pertanto la prova della relativa responsabilità "deve essere verificata, procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi .... che può essere dimostrata per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa... " (cfr. Cass. civ., Sez. L, 6.2006, Meneghello/Unicredit Spa, CED Cass. 587359). 2) E' approdo giurisprudenziale di questa Corte che la figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il cd. mobbing è quella descritta dall'art. 572 c.p., commessa da persona dotata di autorità per l'esercizio di una professione: si richiama, in
  • 4. tal senso, per una situazione di fatto giuridicamente paragonabile - in linea astratta - alla presente, Cass., sez. VI, 22.1.2001, Erba, CED Cass. 218201. Ove si accolga siffatta lettura, risulta evidente che, soltanto per l'ipotesi dell'aggravante specifica della citata disposizione, si richieda la individuazione della conseguenza patologica riconducibile agli atti illeciti. 3) Se questa è la premessa di diritto (richiamata dalle parti processuali nei loro ricorsi e dal giudice nella decisione impugnata), non è dato vedere - nella contestazione formulata dalla pubblica accusa verso il De Nu. - quale azione possa ritenersi illecita e causativa della malattia della Ca. Non risulta - pertanto - illogica l'osservazione del giudice che lamenta la mancata individuazione degli atti lesivi, ciascuno dei quali difficilmente in grado di rapportarsi alla patologia evidenziata (malattia, a sua volta, non connotata da esiti allocabili cronologicamente - con sicurezza - quanto al suo insorgere, così da evidenziare l'autore del fatto illecito e le circostanze modali dell'azione lesiva). D'altra parte, in carenza financo di una prospettazione espressamente continuativa (la condotta è, tuttavia, contestata “sino all'aprile 2003” senza richiamo all'art. 81 cpv. c.p.), è ben ardua la ravvisabilità del rapporto di cui all'art. 40 c.p. di una singola ingiuria o di una sola propalazione diffamatoria o intimidativa (i cui contorni restano oscuri, non essendo assolutamente specificati nell'addebito di accusa). Gli stessi atti di impugnazione richiamano la pluralità di gesti ostili, senza che - peraltro - degli stessi vi sia indicazione (se non indebitamente generica) nella formale incolpazione. Non è, conseguentemente, data la ravvisabilità dei parametri di frequenza e di durata nel tempo delle azioni ostili poste in essere dal soggetto attivo delle lesioni personali, onde valutare il loro complessivo carattere persecutorio e discriminatorio. 4) Trascurando quanto attiene alla già resa valutazione della prova, incompatibile con il giudizio di legittimità, le censure addotte sono infondate poiché pretendono dal GIP di considerare una "reiterazione" di condotte, non compiutamente contestata; inoltre riferita ad azioni in sé prive di potenzialità direttamente lesiva dell'integrità della vittima (come ingiurie, diffamazioni, ecc.), o prive di riscontri di esiti obiettivamente dimostrabili. Per questa ragione, non si rileva né carenza né illogicità della motivazione, attesa la radicale insufficienza della contestazione a contenere possibili sviluppi dibattimentali dell'accusa (ben avendo potuto, già in sede di udienza preliminare, il P.M. procedere a più confacente contestazione) ed a sviluppare un possibile compendio probatorio ex art. 422 c.p.p., onere che grava principalmente sull’organo di accusa. I ricorsi vengono rigettati: da tanto consegue la condanna della parte civile al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna la parte Civile al pagamento delle spese del procedimento. Così deciso in Roma il 9 luglio 2007 (depositato il 29 agosto 2007).