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STRESS LAVORO-CORRELATO, MOBBING, BURNOUT 
11 OTTOBRE 2013 
IIˆ SESSIONE 
Dott. Nicola Armenise – Psicologo del lavoro
Nel mondo del lavoro esistono, accanto a fattori di rischio specifici, responsabili di malattie professionali, numerosi altri agenti capaci di turbare l’equilibrio ed il benessere dell’uomo, creando fenomeni di disadattamento e reazioni di stress, da cui possono derivare malattie, non specifiche, ma certamente collegate alla professione (Mobbing e Burnout) 
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STRESS LAVORO-CORRELATO l’operatore stressato 
• rende di meno 
• può commettere errori 
• è più esposto ad infortuni 
• è più conflittuale (minore qualità di vita) 
• teme l’innovazione 
• entra nell’area di rischio psicosomatico l’organizzazione stressata 
• riduzione produttività e qualità 
• conflittualità in azienda 
• diminuzione del senso di appartenenza 
• mancato rispetto delle regole o irrigidimento per il loro rispetto 
• elevato assenteismo, turn over 
• insoddisfazione, ricerca continua di capri espiatori 
•aumento incidenti ed infortuni 
risposta psicofisica che si verifica quando le richieste del lavoro superano le risorse o le capacità del lavoratore di farvi fronte o si scontrano eccessivamente con i suoi bisogni (Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, 2010) 
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CONSEGUENZE INDIVIDUALI DELLO STRESS METAFORA DELLA BAMBOLA SPEZZATA (Manciaux, 1999) Facendo cadere una bambola, essa si romperà più o meno facilmente a seconda: 
• del materiale della bambola (rappresenta la resistenza dell’individuo ai traumi); 
• della materia del suolo (rappresenta l’ambiente); 
• della forza con cui è stata gettata (rappresenta l’intensità del trauma e la durata dell’evento) 
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SINDROME DA BURNOUT 
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La sindrome da burnout (o più semplicemente burnout) è l'esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni d’aiuto, qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere. Il burnout interessa tutte quelle figure caricate da una duplice fonte di stress, ovvero quello personale e quello della persona aiutata; 
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Il burnout è definito come una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e derealizzazione personale, che può manifestarsi in tutte quelle professioni con implicazioni relazionali molto accentuate. 
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È una malattia in costante e graduale aumento tra i lavoratori dei paesi occidentalizzati a tecnologia avanzata, ciò non significa che qualcosa non funziona più nelle persone, bensì che si sono verificati cambiamenti sostanziali e significativi sia nei posti di lavoro sia nel modo in cui si lavora. 
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STORIA DEL BURNOUT Il termine burnout in italiano si può tradurre come “bruciato”, “scoppiato”, “esaurito”, è apparso la prima volta nel mondo dello sport, nel 1930, per indicare l’incapacità di un atleta, dopo alcuni successi, di ottenere ulteriori risultati e/o mantenere quelli acquisiti. 
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Il termine è stato poi ripreso dalla psichiatra americana C. Maslach nel 1970, la quale ha utilizzato questo termine per definire una sindrome i cui sintomi evidenziano una patologia comportamentale a carico di tutte le professioni ad elevata implicazione relazionale. 
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La Maslach definisce il burnout come una perdita di interesse vissuta dall’operatore verso le persone con le quali svolge la propria attività (pazienti, assistiti, clienti, utenti, ecc), una sindrome di esaurimento emozionale, di spersonalizzazione e riduzione delle capacità personali che può presentarsi in persone che, per professione, sono a contatto e si prendono cura degli altri. 
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BURNOUT: "malattia che si diffonde nel tempo con costanza e gradualità, risucchiando le persone in una spirale discendente dalla quale non è facile riprendersi" (Maslach) 
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COME SI MANIFESTA IL BURNOUT In particolare, è caratterizzato da tre aspetti: ESAURIMENTO EMOTIVO. L’individuo si sente prosciugato, esausto, incapace di rilassarsi e di recuperare; DEPERSONALIZZAZIONE. L’individuo assume un comportamento freddo e distaccato nei confronti del lavoro e degli altri, adottando un atteggiamento di indifferenza nel tentativo di proteggersi; RIDOTTA REALIZZAZIONE PERSONALE. L’individuo arriva a percepirsi come incapace ed inadeguato al lavoro. 
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Il contatto costante con le persone e con le loro esigenze, l’essere a disposizione delle molteplici richieste e necessità, sono alcune delle caratteristiche comuni a tutte quelle attività che hanno come obiettivo professionale il benessere delle persone e la risoluzione dei loro problemi, come nel caso di medici, psicologi, infermieri, insegnanti, ecc.. 
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Negli anni, nella sindrome del Burnout sono state incluse altre categorie di lavoratori, tutti quei professionisti o lavoratori che hanno un contatto frequente con un pubblico, con un’utenza, quindi non più solo gli “helper” …, possono quindi far parte di tali categorie tanti liberi professionisti o dipendenti: l’avvocato, il ristoratore, il politico, l’impiegato delle poste, il manager, la centralinista, la segretaria ecc.. 
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ll burnout viene considerato, da molti studiosi, non solo un sintomo di sofferenza individuale legata al lavoro (stress lavorativo), ma anche come un problema di natura sociale provocato da dinamiche sia sociali, sia, politiche, sia economiche. 
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La sindrome può infatti interessare il singolo lavoratore, lo staff nel suo insieme e anche istituzioni (per esempio l’organizzazione dei soccorsi in situazioni di crisi come i Vigile del Fuoco, i Militari, le Forze dell’Ordine ecc.). 
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LE CARATTERISTICHE DEL BURNOUT Molti contesti lavorativi richiedono una forte dedizione ed un notevole impegno, sia in termini economici sia in termini psicologici e, in certi casi, i valori personali sono messi in primo piano a scapito di quelli lavorativi. Le richieste quotidiane rivendicate dal lavoro, dalla famiglia e da tutto il resto consumano l’energia e l’entusiasmo del lavoratore. 
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LE CARATTERISTICHE DEL BURNOUT Quando gli obiettivi (spesso troppo ambiziosi) sono difficili da conseguire, molte persone perdono la dedizione data a quel lavoro, cercano di tenersi a distanza pur di non farsi coinvolgere e, spesso, diventano cinici. 
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IL BURNOUT HA MANIFESTAZIONI SPECIFICHE: Un deterioramento progressivo dell’impegno nei confronti del lavoro. Un lavoro inizialmente importante, ricco di prospettive ed affascinante diventa sgradevole, insoddisfacente e demotivante. Un deterioramento delle emozioni. Sentimenti positivi come per esempio l’entusiasmo, motivazione e il piacere svaniscono per essere sostituiti dalla rabbia, dall’ansia, dalla depressione. 
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PERCEZIONE INDIVIDUALE I singoli individui percepiscono questo squilibrio come una crisi personale, mentre in realtà è il posto di lavoro a presentare problemi. 
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IL BURNOUT E’ UN PROBLEMA PER … 
1.Il LAVORATORE E I SUOI FAMILIARI: Problemi fisici (mal di testa, disturbi gastrointestinali, ipertensione, tensione muscolare e affaticamento cronico); Problemi psichici (ansia, depressione e disturbi del sonno); Problemi comportamentali (abuso di alcol, farmaci e droghe). 
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IL BURNOUT E’ UN PROBLEMA PER … 
2.L’UTENZA E l’ORGANIZZAZIONE, a causa di una forza lavoro che non offre più la dedizione, la creatività e la produttività precedenti: Scarsa qualità delle prestazioni e delle relazioni; Aumento del tasso di assenteismo, turnover, dimissioni, ecc. 
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IL BURNOUT 
NON E’ COLPA DELLA PERSONA 
E’ UN PROBLEMA LAVORATIVO 
Quindi 
per affrontarlo bisogna considerare sia il soggetto, sia il contesto in cui opera. 
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LE CAUSE DEL BURNOUT Le cause sono da ricercare nell’interazione tra il SOGGETTO e il CONTESTO DI LAVORO, cioè nell’influenza reciproca tra: 
1)la personalità dell’individuo; 
2)la struttura dell’organizzazione in cui lavora; 
3)il tipo di attività svolta; 
4)l’utenza di cui si occupa. 
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LE CAUSE DEL BURNOUT 
1) BURNOUT E PERSONALITA 
Può colpire chiunque, ma sono maggiormente esposti i soggetti ansiosi e remissivi; con scarsa fiducia in se stessi; con tendenza all’idealizzazione. Esistono relazioni con le caratteristiche demografiche (età, anzianità di servizio, stato civile, istruzione). 
Il burnout NON deriva da qualche predisposizione genetica. 
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LE CAUSE DEL BURNOUT 
2) BURNOUT E VARIABILI ORGANIZZATIVE Sovraccarico di lavoro. Si deve fare troppo, in poco tempo, con risorse scarse; Mancanza di controllo sulla propria attività. La possibilità di fare scelte e di prendere decisioni è fortemente limitata da politiche rigide e da controlli severi (responsabilità senza autonomia); Ricompense e conferme insufficienti- incongrue. Manca un equo riconoscimento economico e umano per il lavoro svolto; 
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LE CAUSE DEL BURNOUT 
3) BURNOUT E VARIABILI ORGANIZZATIVE Assenza di equità. Ingiustizia nella distribuzione dei carichi di lavoro o nel riconoscimento delle carriere; Crollo del senso di appartenenza e di comunità. I rapporti sono lacerati dal conflitto e dalle scarse opportunità di contatti sociali; Conflitto di valori. I requisiti richiesti dal lavoro (produttività, efficienza, profitto, ecc.) non concordano con i principi e gli ideali personali. 
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LE CAUSE DEL BURNOUT 4) BURNOUT E TIPO DI ATTIVITA’ Operatori delle helping professions; Ovunque il lavoro comprenda relazioni; Dove le richieste esplicite/implicite e la dipendenza dell’“altro” sono forti Dove le condizioni del lavoro sono improntate da incertezza, precarietà. 
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LE CAUSE DEL BURNOUT 
5) BURNOUT E TIPOLOGIA DI UTENZA Utenza “bisognosa”; Utenti cronici; Pazienti terminali, psicotici, soggetti che “peggiorano” a seguito delle cure ricevute; Dove cresce la distanza tra risultati e aspettative; Dove il carico è gravoso dal punto di vista sia quantitativo sia qualitativo. 
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LE FASI DEL BURNOUT 
Negli operatori sanitari, la sindrome si manifesta generalmente seguendo quattro fasi. 
La prima, (preparatoria), è quella dell'"entusiasmo idealistico" che spinge il soggetto a scegliere un lavoro di tipo assistenziale. 
Nella seconda (stagnazione) il soggetto, sottoposto a carichi di lavoro e di stress eccessivi, inizia a rendersi conto di come le sue aspettative non coincidano con la realtà lavorativa. L'entusiasmo, l'interesse ed il senso di gratificazione legati alla professione iniziano a diminuire. 
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LE FASI DEL BURNOUT 
32 Nella terza fase (frustrazione) il soggetto affetto da burnout avverte sentimenti di inutilità, di inadeguatezza, di insoddisfazione, uniti alla percezione di essere sfruttato, oberato di lavoro e poco apprezzato; spesso tende a mettere in atto comportamenti di fuga dall'ambiente lavorativo, ed eventualmente atteggiamenti aggressivi verso gli altri o verso se stesso. Nel corso della quarta fase (apatia) l'interesse e la passione per il proprio lavoro si spengono completamente, subentra l'indifferenza, fino ad una vera e propria "morte professionale". 
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FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 1) Fattori individuali; 2) Fattori socio-demografici; 3) Struttura organizzativa. 
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FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 1) Fattori individuali Caratteristiche di personalità - introversione (incapacità di lavorare in équipe); - tendenza a porsi obiettivi irrealistici; - adottare uno stile di vita iperattivo; 
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FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 1) Fattori individuali Caratteristiche di personalità - personalità autoritaria; - abnegazione al lavoro, inteso come sostituzione della vita sociale; - concetto di se stessi come indispensabili; - motivazione ed aspettative professionali; 
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FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 2) Fattori socio-demografici - differenza di genere (donne più predisposte degli uomini); - età (primi anni di carriera si è più predisposti); - stato civile (persone senza un compagno stabile più predisposte). 
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FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 3) Struttura organizzativa Le tensioni sono generate da: - Ambiguità di ruolo: insufficienza di informazioni in relazione ad una determinata posizione; - Conflitto di ruolo: esistenza di richieste che - l’operatore ritiene incompatibili con il proprio ruolo professionale; 
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FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 3) Struttura organizzativa Le tensioni sono generate da: - Sovraccarico: quando all’individuo viene assegnato un eccessivo carico di lavoro o un’eccessiva responsabilità, che non gli permettono di portare avanti una buona prestazione lavorativa; 
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FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 3) Struttura organizzativa Le tensioni sono generate da: - Mancanza di stimolazione: si riferisce alla monotonia dell’attività lavorativa; - Struttura di potere: riguarda il modo in cui si stabiliscono i processi decisionali e di controllo nell’ambito lavorativo, ovvero la possibilità dell’individuo di partecipare alla presa di decisione; 
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FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 3) Struttura organizzativa Le tensioni sono generate da: - Turnazione Lavorativa: La turnazione e l'orario lavorativo possono favorire l’insorgenza della sindrome. In tal senso migliorando il turn – over e la rotazione del personale è possibile arginare il fenomeno. - Retribuzione inadeguata 
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LA SINTOMATOLOGIA La sindrome è caratterizzata da manifestazioni quali nervosismo, irrequietezza, apatia, indifferenza, cinismo, ostilità delle persone, sia tra di loro sia verso terzi; si distingue dalla nevrosi, in quanto non è un disturbo della personalità ma del ruolo lavorativo. 
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LA SINTOMATOLOGIA Dal punto di vista clinico (psicopatologico) i sintomi del burnout sono molteplici, richiamano i disturbi dello spettro ansioso- depressivo, e sottolineano la particolare tendenza alla somatizzazione e allo sviluppo di disturbi comportamentali. 
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LA SINTOMATOLOGIA Il soggetto colpito da burnout manifesta: - Sintomi aspecifici: stanchezza ed esaurimento, apatia, nervosismo, irrequietezza, insonnia. - Sintomi somatici: insorgenza di patologie varie (ulcera, cefalea, disturbi cardiovascolari, difficoltà sessuali ecc.) 
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LA SINTOMATOLOGIA - Sintomi psicologici: rabbia, risentimento, irritabilità, aggressività, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, negativismo, indifferenza, depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento, isolamento, sensazione di immobilismo, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, cinismo, atteggiamento colpevolizzante nei confronti degli utenti e critico nei confronti dei colleghi. 
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LA SINTOMATOLOGIA Tale situazione di disagio molto spesso porta il soggetto ad abuso di alcool, di psicofarmaci o fumo. Per evitare che la sindrome del burnout, deteriori sia la vita lavorativa, sia la vita privata della persona, bisogna intervenire con efficacia. 
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COSA FARE PRATICAMENTE Riconoscere la sindrome del burnout non è così facile, spesso si tende a ricondurre il tutto come un problema dell’individuo e non del contesto lavorativo nel suo insieme. 
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COSA FARE PRATICAMENTE Le organizzazioni quasi sempre ignorano questo problema e questo rappresenta un errore molto pericoloso, in quanto il burnout può incidere pesantemente sull’economia dell’intera organizzazione. La risoluzione del fenomeno burnout dovrebbe essere affrontata sia a livello organizzativo che a livello individuale, l’organizzazione che si assume la responsabilità di affrontare il burnout, lo può gestire in modo da garantirsi il proprio personale produttivo nel tempo. 
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COSA FARE PRATICAMENTE Un’organizzazione che agisce a sostegno dell’impegno nel lavoro è un’organizzazione forte. L’aiuto maggiormente efficace per la singola persona è sicuramente un intervento da parte di un professionista competente in materia che possa fornire strumenti cognitivi, favorire una maggiore comprensione/consapevolezza del problema, aiutare a comprendere le relazioni esistenti tra il comportamento personale, il proprio vissuto ed il contesto di vita e lavorativo, modificare il proprio comportamento e i propri atteggiamenti in coerenza con quanto acquisito. 
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COSA FARE PRATICAMENTE Ma tali interventi sul singolo non sono semplici: il singolo può avere difficoltà a rivolgersi ad uno psicologo per farsi aiutare, ciò a causa sia di pregiudizi verso la categoria di professionisti che si occupa di tali problematiche, sia perché spesso non è in grado di chiedere aiuto e/o si imbatte in altre categorie di professionisti non competenti in tali materie. 
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POSSIBILI SOLUZIONI PER LA GESTIONE DELLO STRESS E DEL BURNOUT 
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Il passo più importante è riconoscere le prime avvisaglie del burn out, in modo da intervenire prima che compaiano i sintomi fisici e prima che il malessere si ripercuota sulla vita familiare e sessuale. Studi recenti hanno individuato alcune strategie di cura individuali ed organizzative. 
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STRATEGIE INDIVIDUALI Quelle individuali comprendono le tecniche di rilassamento e la psicoterapia. È utile ricordare che la vita è anche altrove, fuori dall’ambiente lavorativo; a questo scopo è importante praticare e coltivare hobby. 
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STRATEGIE INDIVIDUALI Il modo migliore per prevenire il burnout è sicuramente puntare sulla promozione dell'impegno nel lavoro. Ciò non consiste semplicemente nel ridurre gli aspetti negativi presenti sul posto di lavoro, ma anche nel tentare di aumentare quelli positivi. 
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STRATEGIE INDIVIDUALI Le strategie per aumentare l'impegno sono quelle che accrescono l'energia, il coinvolgimento e l'efficacia, sostenendo i lavoratori, permettendo loro di affermarsi tra i loro colleghi, lasciando loro dell'autonomia nelle decisioni da prendere ed offrendo loro un'organizzazione del lavoro chiara e coerente, ecc. 
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STRATEGIE ORGANIZZATIVE Agire sulle strutture di un sistema per eliminarne le caratteristiche patogene o che comportano peggioramento nella qualità del lavoro e della vita. Individuare fattori stressanti nell’organizzazione del lavoro e quindi risolverli, infatti, come afferma Spaltro, il costo del lavoro diminuisce e la produttività aumenta se si cambiano gli stili di gestione del potere, i modi di incentivare, il clima nell’ambiente di lavoro. 
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Un ambiente lavorativo gratificante dal punto di vista umano allontana il burnout così come la condivisione con i colleghi del senso di angoscia e frustrazione. È importante che ai fini dell’organizzazione del lavoro si eviti di caricare la singola persona, così come di creare conflitti di ruolo. 
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COME SI MISURA IL BURNOUT 
Per misurare il burnout ci sono diverse scale ma è da ricordare la scala di Maslach (Maslach Burnout Inventory, MBI), (Maslach, Jackson, 1981): un questionario di 22 items, ossia domande, atte a stabilire se nell'individuo sono attive dinamiche psicofisiche che rientrano nel burnout. A ogni domanda il soggetto interessato deve rispondere inserendo un valore da 0 a 6 per indicare intensità e frequenza con cui si verificano le sensazioni descritte nella domanda stessa. 
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COME SI MISURA IL BURNOUT 
Health Professions Stress and Coping Scale (HPSCS), un nuovo questionario self-report appositamente elaborato per la valutazione dello stress percepito e l'utilizzo del coping in ambito sanitario. 
L'HPSCS propone una serie di situazioni lavorative potenzialmente stressanti nel contesto sanitario, rispetto alle quali misura sia il livello di stress percepito associato a ciascuna situazione, sia i meccanismi di coping abitualmente utilizzati per fronteggiarla. 
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BURNOUT COME MALATTIA PROFESSIONALE In considerazione del continuo aumento dei casi denunciati di burnout, ci si può solo augurare che l'INAIL riconosca, in modo specifico e al più presto, tale sindrome come malattia professionale, inserendone formalmente la causa tra i disturbi psichici da costrittività lavorativa, cosi come ha fatto (circolare n. 71 del 17 dicembre 2003) nei confronti del mobbing. Sino ad allora si continuerà a considerare la sindrome del burnout come una comune malattia. 
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BURNOUT COME MALATTIA PROFESSIONALE Il decreto del Ministro del lavoro e le politiche sociali del 27 aprile 2004, ha aggiornato l'elenco delle patologie per le quali il medico ha l'obbligo di denuncia all'INAIL, ha inserito tra i nuovi agenti patogeni anche le "disfunzioni dell'organizzazione del lavoro e le malattie connesse" 
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PROGRAMMI DI INTERVENTO 
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Santinello e Furlotti [1992] elencano quattro tipologie di programmi di intervento per la prevenzione e la gestione delle cause di stress che risultano efficaci se si orientano nell’ottica di un processo continuo: 1) LAVORARE PER OBIETTIVI E PIANI: l’organizzazione ha il compito di definire obiettivi il più possibile quantificabili e verificabili e che siano raggiungibili nel medio lungo periodo. 
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Questo può essere utile all’individuo per ricevere dei feedback sul come sta svolgendo il suo lavoro, per ridurre incertezze e ambiguità, e per aumentare la soddisfazione personale. 2) PARTECIPARE ALLE DECISIONI: come le ricerche hanno più volte dimostrato, i soggetti che partecipano alle decisioni aziendali hanno una motivazione al lavoro più elevata di quelli che non vi partecipano, di conseguenza questo fattore apporta degli effetti positivi sulla salute psico fisica del lavoratore migliorando a sua volta il flusso di comunicazioni. 
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3) LA STRUTTURA DEI COMPITI E DELLE MANSIONI: l’organizzazione deve consentire a ciascun individuo che ricopre un determinato ruolo al suo interno, di svolgere la propria mansione con dei margini di autonomia professionale e possibilmente variare i compiti assegnati a ciascun lavoratore, facendogli capire l’utilità che il suo contributo apporta all’organizzazione. 
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4) SISTEMA DI MONITORAGGIO PERIODICO: Questo è un sistema che deve coinvolgere tutti i livelli gerarchici dell’organizzazione lavorativa. “È un sistema di valutazione periodica standardizzato, volto a cogliere non solo i livelli distress e la percezione delle cause, ma anche il clima psicologico presente” in modo che si possa avere una panoramica degli aspetti organizzativi negativi e per avanzare delle proposte di miglioramento. 
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I risultati devono essere discussi con tutti a piccoli gruppi e incontri stabiliti. Se i lavoratori si accorgono dell’interesse che la direzione ha nei confronti delle loro attività e dei loro problemi con l’organizzazione, attuando misure preventive o di risoluzione dei problemi presenti, allora sarà probabile riscontrare un impatto positivo della percezione del lavoro da parte dei dipendenti. 
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IL RUOLO DELLA FORMAZIONE NELLA PREVENZIONE DEL BURNOUT E GESTIONE DELLO STRESS 
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FORMAZIONE E INFORMAZIONE La formazione ha un ruolo molto importante ed essenziale per la prevenzione del burnout. È importante per diffondere la sua conoscenza, infatti, nella nostra cultura il concetto di burnout è assolutamente poco o per niente conosciuto dai singoli ma anche nelle organizzazioni. 
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Spesso le persone come anche le organizzazioni ignorano l’incisività di questa patologia sulla vita sia lavorativa che privata. I corsi di formazione diretti ai singoli e ai gruppi di persone dovrebbero essere quindi orientati a trasmettere informazioni sullo stress, il burnout e su stili di vita salutari, dando strumenti utili alla loro gestione, come le tecniche di rilassamento, di respirazione, metodi e strumenti per il controllo delle emozioni, per la gestione efficace del tempo ecc. 
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“L’obiettivo è fare in modo che le persone possano aumentare la consapevolezza di se e delle proprie emozioni, migliorando la capacità individuale di far fronte allo stress da lavoro. “ (Borgogni e Consiglio 2005) 
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“Soprattutto nelle professioni di aiuto, è necessario formare le persone non solo da un punto di vista tecnico-metodologico, ma anche alla conoscenza di sé, che non sempre è scontata. Aiutare quindi le persone a gestire i rapporti interpersonali, capire i propri limiti, e in questo caso nei confronti dell’utenza disagiata “. (Del Rio 1990) 
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“In questo tipo di professioni sembrerebbe utile attuare una sorta di detached concern, cioè un “interessamento distaccato”: lavorano efficacemente senza lasciarsi sopraffare dalle proprie emozioni”. (Del Rio1990, p. 135). 
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Potrebbe essere molto difficile attuare un tale atteggiamento ma Del Rio ricorda che non è una posizione fissa da occupare, ma è un modo di relazionarsi non stabile, che oscilla tra il coinvolgimento e il distacco per comprendere si l’altro, ma evitando di esserne “risucchiati”. 
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La formazione oltre ad aiutare le persone a gestire i rapporti con gli utenti, dovrebbe anche essere orientata a creare un efficace sostegno tra il gruppo composto dai colleghi, considerati come si è visto, importante risorsa per la prevenzione e gestione del burnout. Nello specifico è importante che la formazione per gli operatori sanitari sia permanente e continua. 
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ALCUNI LIMITI Nel merito della formazione, emergono anche dei problemi, infatti le ricerche ci dicono che l’efficacia formativa di questi corsi è incoraggiante per quanto riguarda i risultati nel breve periodo. Ma la formazione dovrebbe essere in grado di produrre cambiamenti o far acquisire strumenti a lunga scadenza, da utilizzare cioè anche a distanza dalla conclusione di un eventuale percorso formativo. 
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Questi training sulla gestione dello stress dovrebbero rendere i soggetti consapevoli della natura e dell’impatto che lo stress e il burnout potrebbe avere su di loro, fornendo quindi adeguate strategie per poter gestire tali fenomeni. 
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Santinello e Furlotti (1992) ci dicono che il cambiamento non è scontato. Affinché il training risulti efficace, non basta che ci sia un formatore che diriga il corso e i partecipanti che ascoltino quanto esso ha da dire, ma è invece necessario che i partecipanti siano attivi, responsabili e riflettano su se stessi. 
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Da parte dell’organizzazione invece è necessario che anche essa prima di organizzare questo tipo di intervento, rifletta su stessa per capire quali siano veramente i problemi che affronta e le necessità dei suoi collaboratori. 
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Sia da una parte (organizzazione) che dall’altra (individuo), ci deve essere la consapevolezza della necessità di cambiare, dopo di che sarà possibile procedere con l’individuazione delle motivazioni che spingono ad attuare un intervento. 
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IN CONCLUSIONE È quindi importante che la direzione e i dipendenti si impegnino reciprocamente per trovare insieme delle soluzioni che migliorino il contesto di lavoro, agendo direttamente sulle discrepanze che potrebbero causare il burnout, e allo stesso tempo agendo sull’individuo per indurlo a trovare delle strategie personalizzate di gestione dei propri vissuti prevenendo l’eccessivo stress e il burnout 
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IL MOBBING: definizioni e caratteristiche del fenomeno 
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MOBBING Dall’inglese to mob = “attaccare”, “accerchiare” Termine coniato per indicare un meccanismo di difesa collettivo che si attua nel mondo animale e mediante il quale un branco mantiene la sua omogeneità espellendo “il non simile” attraverso comportamenti di isolamento e lesivi. (Konrad Lorenz) 
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Alla fine degli anni ’80, il primo a parlare di mobbing quale condizione di persecuzione psicologica nell’ambiente di lavoro fu lo psicologo tedesco Heinz Leymann che è considerato il fondatore di questa nuova direzione di ricerca della Psicologia del Lavoro. Leymann (1996) trovò un’analogia tra l’aggressività degli animali e quella manifestata da certi lavoratori nei confronti di altri, così utilizzò il termine mobbing per indicare il fenomeno da lui studiato. 
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In Italia si inizia a parlare di mobbing sul lavoro solo negli anni ‘90 grazie allo psicologo del lavoro Harald Ege. Con la parola mobbing si intende definire «una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori» (Ege, 1997, p. 31). 
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Lo scopo di tali comportamenti è sempre distruttivo e mira ad eliminare una persona divenuta in qualche modo ‘scomoda’, inducendola alle dimissioni volontarie o provocandone un motivato licenziamento. 
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QUANDO SI PARLA DI MOBBING Attualmente il fenomeno viene definito come una forma di pressione psicologica sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte dei colleghi o superiori, attuati in modo ripetitivo e protratti nel tempo per un periodo di almeno sei mesi. 
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QUANDO SI PARLA DI MOBBING In seguito a questi attacchi la vittima progressivamente precipita verso una condizione di estremo disagio che cronicizzandosi si ripercuote negativamente sul suo equilibrio psico-fisico. 
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QUANDO SI PARLA DI MOBBING Secondo Ege il conflitto deve durare da almeno sei mesi, salvo il caso del “quick mobbing” (almeno 3): Per potersi avere quick mobbing è però necessario che gli attacchi siano quotidiani e le azioni messe in opera rientrino in almeno 2 delle categorie previste dal “LIPT Ege”. 
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UNO STRUMENTO D’INDAGINE: LIPT Come strumento di indagine per lo studio del mobbing possiamo citare il questionario LIPT (Leymann Inventory of Psychological Terrorism), messo a punto da Leymann negli anni ’80. Nel questionario elaborato da Leymann e modificato da Ege vengono individuate 45 azioni ostili suddivise in 5 categorie mobbizzanti: 
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a) attacchi ai contatti umani e alla possibilità di comunicare; b) isolamento sistematico; c) cambiamenti delle mansioni lavorative; d) attacchi alla reputazione; e) violenza e minacce di violenza. 
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IL MOBBING SUL LAVORO: I DATI (1998) La “classifica” dei mobbizzati vede al primo posto l’Inghilterra (16,3%), seguita da: Svezia (10,2%), Francia (9,9%), Irlanda (9,4%) e Germania (7,3%). L’Italia con il 4% si trova al di sotto della media Europea 
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IL MOBBING SUL LAVORO: I DATI (2008) Secondo i dati dell’Ispesl (l'istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro), in Italia le vittime del mobbing sul lavoro sarebbero circa un milione e mezzo. Il fenomeno sarebbe più diffuso nel nord (65%) e le più colpite sarebbero le donne (52%). Nell’Unione Europea le vittime di mobbing sarebbero12 milioni, cioè l’8% degli occupati. 
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IL MOBBING SUL LAVORO: I DATI (2008) Le categorie più esposte risultano gli impiegati (79%) e i diplomati (52%). Per quanto riguarda la durata delle azioni mobbizzanti, il 40% dei casi ha durata da un anno a due anni; il 30% dei casi oltre due anni; il 27% dei casi da sei mesi a un anno. 
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IL MOBBING SUL LAVORO: I DATI (2008) Da recenti studi sullo sviluppo del fenomeno emerge con sorpresa che il mobbing colpisce non solo quadri e dirigenti, bensì anche addetti alle mansioni più semplici. Sarebbero loro le vittime preferite degli abusi psicologici in azienda. 
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MOBBING NON E’ UNA QUALSIASI FORMA DI CONFLITTO Non si può classificare come mobbing qualsiasi forma di conflitto nel posto di lavoro. Il mobbing ha radici più profonde, è caratterizzato da un’azione sistematica, premeditata consciamente o inconsciamente ai danni di una vittima ben precisa, con l’intento di danneggiarla o allontanarla. 
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˝Quindi la condizione per parlare di mobbing è il requisito temporale: le violenze psicologiche devono essere regolari, sistematiche, frequenti e durare nel tempo – almeno sei mesi. ˝ (Ascenzi e Bergagio, 2000) 
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Sebbene nella maggior parte dei saggi sul tema del mobbing si faccia ancora oggi costante riferimento al fattore temporale, che del resto è inserito nella definizione del fenomeno data da Leymann, a poco a poco esso è andato perdendo consistenza, al punto da non essere più ritenuto un parametro oggettivamente valido, se non come punto di partenza degli studi sulla reiterazione delle azioni nel mobbing. 
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SCOPO DEL MOBBING: DANNEGGIARE QUALCUNO - Isolare la vittima sul posto di lavoro e/o allontanarla definitivamente o comunque impedirle l’esercizio di un ruolo attivo nel contesto lavorativo; - Danneggiare i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e/o la professionalità della vittima. 
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Il mobbing NON è un singolo evento/episodio ma un PROCESSO frequente e costante nel tempo, spesso si manifesta solo dopo una lunga incubazione. Le azioni di conflitto sono intenzionali, frequenti, ripetute, sistematiche, di lungo periodo. 
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DISTINZIONE TRA MOBBING E STRESS ˝Spesso non si distingue correttamente tra i due fenomeni, sebbene essi abbiano una natura ben diversa e specifica. Si può sicuramente affermare che tra lo stress e il mobbing esista un rapporto di causa-effetto. ˝ (Ege e Lancioni,1998). 
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DISTINZIONE TRA MOBBING E STRESS Il mobbing è certamente causa di stress; non è vero il contrario, nel senso che lo stress può presentarsi indipendentemente dal mobbing. 
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DISTINZIONE TRA MOBBING E STRESS Lo stress causato dal mobbing ha delle caratteristiche molto particolari in quanto crea un forte stato confusionale che disorienta la percezione degli attori, particolarmente della vittima (viene esagerata l’importanza del lavoro, viene ridotta la motivazione ad agire, aumenta l’incertezza per l’imprevedibilità del futuro). 
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SOGGETTI STRESSATI - MOBBER Tuttavia da molti studi si evince che le persone stressate sono considerati i soggetti più predisposti all’assunzione del ruolo di mobber, perché lo stress porta a sfogare la rabbia accumulata attraverso delle persecuzioni su un altro individuo. 
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GRUPPO STRESSATO - MOBBER Questa situazione si può presentare anche in una dimensione di gruppo. Quando il/la mobber (appunto, il gruppo) vuole sfogare, attraverso delle strategie persecutorie, la propria pressione da stress, dovuta, anche qui, a sovra o sotto attivazione nel lavoro. 
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GRUPPO STRESSATO – MOBBER Ad esempio: il gruppo o riceve troppi ordini, o si mettono in discussione le posizioni gerarchiche. Ciò determinerà inevitabilmente un calo di impegno sul lavoro e si darà avvio alla caccia al colpevole, che sarà colui/colei che continua a lavorare attivamente e che è continuamente occupato rispetto agli altri. La vittima diviene bersaglio delle azioni di mobbing. 
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VITTIMA STRESSATA Un altro oggetto della ricerca psicologica sul mobbing è la ‘vittima stressata’. Quando un lavoratore è molto stressato, può accadere che riversi la propria pressione sui colleghi o i capi attraverso nervosismi, ansie e stati di panico, che suscitano risposte di persecuzione con il tentativo di porre fine alla situazione. 
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VITTIMA STRESSATA In tal modo si attiva un circolo vizioso in cui il/la mobber realizzerà azioni che danneggiano la vittima procurandole stress ulteriore; quest’ultimo aumenterà il disagio generale che si continuerà ad esprimere attraverso stati d’ansia e nervosismi riversati sui colleghi. 
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VITTIMA STRESSATA A livello di gruppo il mobbing si verificherà nel momento in cui un lavoratore stressato disturbi o crei inquietudine nella stabilità del gruppo, causando una serie di azioni persecutorie. Il gruppo potrebbe non accettare un elemento che violi l’equilibrio interno e allora vorrà difendersi, attaccando l’individuo (minaccia) che si distacca, anche solo parzialmente, dalle regole condivise. In tale prospettiva ogni azione sembra giustificata dal fine (la stabilità e l’equilibrio del gruppo). 
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MOBBING COME GIOCO Il mobbing può essere attivato da un semplice gioco sadico dovuto a noia, invidia o gelosia nei confronti di un lavoratore verso cui si realizzano azioni persecutorie. Il/la mobber spesso si trova in una situazione di intoccabilità, ha poco lavoro da svolgere, gode della simpatia generale, ed impiega il suo tempo a sviluppare strategie persecutorie da cui trarrà un piacevole stato di euforia. 
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MOBBING COME GIOCO In una prospettiva di gruppo, la vittima prescelta si caratterizza per la sua diversità dagli altri (una donna in mezzo a uomini, uno straniero in mezzo a lavoratori locali). Tra i membri del gruppo si crea un accordo tacito sull’obiettivo comune; la situazione è grave per la vittima perché i membri del gruppo si possono sostenere a vicenda. 
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STRAINING 
Lo straining è definito come una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. 
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STRAINING 
Tecnicamente parlando, lo straining si colloca a metà strada tra il mobbing e lo stress occupazionale. Non è mobbing in quanto, manca la sistematicità e la frequenza delle azioni ostili; d'altra parte è qualcosa di più del semplice stress occupazionale, ossia allo stress dovuto al tipo o alle condizioni di lavoro. 
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STRAINING 
Le vittime di straining infatti sono oggetto di uno Stress che è forzato, cioè superiore a quello normalmente richiesto dalle loro mansioni lavorative e diretto nei loro confronti in maniera intenzionale e discriminante: in sostanza, solo a loro – siano essi una sola persona o un gruppo – viene riservato quel tipo di trattamento illecito e dannoso. 
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STRAINING 
In una situazione di straining, infatti, l'aggressore (strainer) sottomette la vittima facendola cadere in una condizione particolare di stress con effetti a lungo termine. Tale stress può derivare dall'isolamento fisico o relazionale, dalla privazione, dalla riduzione o dall'eccesso del carico lavorativo. 
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STRAINING - MOBBING 
la sentenza (Tribunale di Bergamo del 20 giugno 2005) 
«La differenza tra lo straining e il mobbing», ha chiarito il giudice estensore, è stata individuata nella mancanza di una frequenza idonea (almeno alcune volte al mese) di azioni ostili ostative: in tali situazioni le azioni ostili che la vittima ha effettivamente subito sono poche e troppo distanziate nel tempo, spesso addirittura limitate a una singola azione, come un demansionamento o un trasferimento disagevole». 
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STRAINING - MOBBING 
Pertanto, mentre il mobbing si caratterizza per una serie di condotte ostili, continue e frequenti nel tempo, per lo straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso di un demansionamento). 
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I PROTAGONISTI DEL MOBBING 
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Sulla scena del mobbing recitano TRE TIPOLOGIE DI ATTORI: i mobbers sono coloro che compiono le azioni vessatorie; le vittime o mobbizzati sono coloro che subiscono i comportamenti persecutori; gli spettatori sono coloro che non sono direttamente coinvolti nel comportamento vessatorio ma il cui comportamento può influire sullo sviluppo del mobbing. 
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Non è semplice definire con certezza e precisione le caratteristiche di un/una possibile MOBBER, anche perché tutto deve essere messo in relazione sia alle caratteristiche di personalità che all’ambiente di lavoro specifico. Harald Ege ha invece delineato i seguenti 14 profili di mobber che si riscontrano con maggiore frequenza: 
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1. l’istigatore: è colui/colei che è sempre alla ricerca di nuove cattiverie e maldicenze volte a colpire gli altri; 2. il casuale: è colui/colei che diventa mobber per caso, quando trovandosi all’interno di un conflitto prende il sopravvento sull’altro; 3. il conformista: è un tipo di mobber spettatore, nel senso che è una persona che non prende direttamente parte al conflitto attaccando la vittima, però la sua non reazione equivale ad un’azione favorente il mobbing; 
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4. il collerico: è la persona che non riesce a contenere la rabbia e far fronte ai suoi problemi e solo prendendosela con gli altri riesce a scaricare la forte tensione interna; 5. il megalomane: è colui/colei che ha una visione distorta di se stesso considerandosi sempre al di sopra, un senso di Io grandioso che lo autorizza a colpire gli altri ritenuti inferiori; 
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6. il frustrato: è l’individuo insoddisfatto della sua vita che scarica il suo malessere sugli altri, alla stregua del collerico; 7. il sadico: è colui/colei che prova piacere nel distruggere l’altro e che non è disposto a lasciarsi scappare la vittima; questo individuo, identificato da altri come il perverso narcisista, rappresenta il modello più pericoloso in quanto è da considerarsi uno psicotico senza sintomi che rifiuta di prendere in considerazione i suoi conflitti interni e trova il suo equilibrio scaricando il dolore su di un altro; 
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8. il criticone: è la persona perennemente insoddisfatta degli altri che crea un clima di insoddisfazione e di tensione; 9. il leccapiedi: è il classico carrierista, che si comporta da tiranno coi subalterni ed ossequioso coi superiori; 10. il pusillanime: è colui/colei che ha troppa paura per esporsi e si limita ad aiutare il/la mobber o, se agisce in prima persona, lo fa in maniera subdola, con cattiverie e sparlando della vittima; 
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11. il tiranno: è simile al sadico, non sente ragione ed i suoi metodi seguono uno stile dittatoriale; 12. il terrorizzato: è colui/colei che teme la concorrenza e inizia a fare azioni di mobbing per difendersi; 13. l’invidioso: è colui/colei che è sempre orientato verso l’esterno e non può accettare l’idea che qualcun altro stia meglio di lui; 14. il carrierista: è la persona che cerca di farsi una posizione con tutti i mezzi possibili, anche non legali, non puntando invece sulle sue reali capacità. 
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Per quanto riguarda LA VITTIMA, non esiste una categoria più a rischio di altre. ˝Ogni lavoratore potrebbe essere vittima di mobbing. Generalizzando, comunque, sembra che le persone più a rischio siano quelle o troppo passive o troppo aggressive nelle relazioni interpersonali.˝ (Ascenzi e Bergagio, 2000, p. 48). 
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GLI SPETTATORI sono rappresentati da un numero molto alto di persone, costituito dai colleghi, dall’amministrazione del personale e da tutti coloro che rifiutano di assumersi qualsiasi responsabilità preferendo la strategia del ‘lavarsene le mani’. Gli spettatori spesso hanno paura di diventare vittima del mobber e così non reagiscono e a volte aiutano il/la mobber nelle sue vessazioni. 
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MOBBING ARTICOLATO IN FASI In quanto processo, il mobbing si può suddividere in fasi che i ricercatori hanno tentato di elencare in vari modelli, con lo scopo di facilitare il riconoscimento del fenomeno e valutarne più accuratamente le cause, così da permettere di trovare soluzioni adeguate. 
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MOBBING ARTICOLATO IN FASI Sulla base del modello di mobbing più famoso, ossia quello a quattro fasi di Leymann, Ege ha elaborato un modello particolare che si compone di sei fasi, legate logicamente tra loro e precedute da una sorta di pre-fase, detta Condizione Zero, che ancora non è mobbing, ma che ne costituisce l'indispensabile presupposto. 
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LE FASI DEL MOBBING Modello a sei fasi di Ege adattato alla realtà italiana CONDIZIONE ZERO Conflitto fisiologico e generalizzato, il tutti contro tutti. In questa fase non è ancora chiara la volontà di distruggere, ma è evidente una forte competitività e una lotta spietata alla sopravvivenza. 
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Iª FASE IL CONFLITTO MIRATO Viene individuata una vittima e la conflittualità ora si dirige verso di essa. Vengono messe in atto una serie di azioni distruttrici. 2ª FASE L’INIZIO DEL MOBBING Le azioni del mobber iniziano a generare ansia e disagio nella vittima, la quale comincia ad avvertire il mutamento del clima lavorativo. 
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3ª FASE PRIMI SINTOMI PSICOSOMATICI La vittima accusa i primi problemi di salute che si manifestano come disturbi psicosomatici (problemi digestivi, disturbi del sonno, ansia generalizzata, disturbi mnesici e di concentrazione, labilità emotiva). 
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4ª FASE ERRORI ED ABUSI DELL’AMMINISTRAZIONE DEL PERSONALE Il caso di mobbing è divenuto pubblico e viene altresì favorito dall’Amministrazione del personale che, insospettita dall’assenteismo per malattia della vittima, richiama la persona con contestazioni e interventi disciplinari. 
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5ª FASE AGGRAVAMENTO DELLA SALUTE PSICOFISICA DELLA VITTIMA Il mobbizzato è in preda alla disperazione, compie errori sempre più frequenti convincendosi di essere una nullità e che tutto ciò che sta accadendo è colpa sua (auto-attribuzione di colpa). 
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6ª FASE ESCLUSIONE DAL MONDO DEL LAVORO Epilogo della storia del mobbing, che vede l’uscita della vittima dal mondo del lavoro, o tramite licenziamento o ricorso al prepensionamento o anche mediante esiti traumatici come lo sviluppo di manie ossessive, suicidio nei casi estremi. 
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LE AZIONI MOBBIZZANTI Riconoscere le azioni mobbizzanti è di estrema importanza ma, allo stesso tempo, risulta molto difficile poiché bisognerebbe avere informazioni dettagliate dell’ambiente lavorativo, del livello culturale e professionale di chi compie tali azioni e di chi le subisce, dello scopo per cui sono state messe in atto, ecc. 
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LE AZIONI MOBBIZZANTI ˝Le azioni di violenza psicologica sul posto di lavoro possono essere: • palesi e violente: se sono effettuate attraverso aggressioni verbali e fisiche, urla, commenti inopportuni alla sfera sessuale e privata; • sottili e silenziose: se la vittima viene isolata ed esclusa dal gruppo; • disciplinari: attraverso lettere di richiamo ingiustificato; 
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LE AZIONI MOBBIZZANTI • logistiche: se la vittima viene trasferita in sedi periferiche, scomode e lontane dagli affetti; • mansionali: se si affidano alla vittima compiti al di sotto delle sue competenze; • paradossali: quando si affidano compiti superiori alle sue capacità con la speranza che la vittima sbagli. (Menelao et al., 2001) 
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ALCUNE CONDOTTE DI MOBBING - Demansionamento in modo formale o solo di fatto; - Addebito di contestazioni infondate con sanzioni disciplinari pretestuose; - Lesione dell’immagine e/o della reputazione presso colleghi e superiori; - Discriminazioni riguardanti la carriera, le ferie, l’aggiornamento, il carico e la qualità del lavoro; - Assegnazione di obblighi dequalificanti o umilianti; 
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- Imposizione di turni gravosi; - Abuso di controlli medico fiscali in caso di malattia; - Utilizzo in modo esasperato ed esasperante del potere di controllo e dell’azione disciplinare; - Molestie o violenze sessuali; - Provocazioni al fine di indurre il soggetto a reazioni incontrollate; - Negazione dei diritti contrattuali; 
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- Critiche comuni non corrispondenti alla realtà e rifiuto di specificarne i motivi; - Accuse di scarsi risultati non corrispondenti a realtà; - Comportamenti per emarginare, escludere, isolare, o delegittimare; - Comportamenti intenzionali e ripetuti per sminuire, ignorare o ridicolizzare idee, opinioni, rendimento ed anche la competenza professionale; 
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- Conferimento di maggiori responsabilità senza informare la vittima e con contemporanea diminuzione di autorità; - Minacce disciplinari per eventi insignificanti; - Umiliazioni di fronte ad altri (inflitte con tono arrogante); - Distorsione/accentuazione di fatti; 
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- Continue focalizzazioni su fatti irrilevanti; - Rifiuto di chiarire funzioni o descrizione di compiti; - Cambiamento di compiti di lavoro senza informare la vittima; - Ripetizione di compiti assegnati senza necessità; - Negazione alla vittima di informazioni e permessi necessari per svolgere il proprio lavoro; - Negazione di sostegno in caso di necessità o negazione di risorse; - Periodi di silenzio per settimane; 
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- Evitare colloqui diretti e comunicare con e- mail, tramite terzi o tramite i servizi; - Imposizione di scadenze non realistiche o/e cambio improvviso poco prima del termine; - Assegnazione di obiettivi impossibili per condizioni di salute, per onerosità, o per incompatibilità con qualifica; - Ingiustificate richieste di ripetere un lavoro già fatto; - Rifiutare di assegnare un lavoro lamentandosi poi di non farcela; 
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- Comportamenti per sabotare interferire o impedire il lavoro; - Accettazione di commenti negativi riportati da terzi; - Riunioni tenute come interrogatori; - Rifiuto di verbalizzare riunioni; - Declassamento reale o di fatto di compiti e funzioni e favoritismi nella concessione di ferie e permessi; - Commenti malevoli, insulti, frecciate e comportamento aggressivo con carenza di self control; - Creazione di clima di caccia alle streghe; 
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- Accuse di cattiva condotta; - Uso di minacce velate, intimidazioni, denunce o ricorso continuo alle autorità - Uso di linguaggio vernacolare, osceno, offensivo; - Colpevolizzazione ripetuta; - Sparlare, fare pettegolezzi sulla vittima o incoraggiare a spiare, origliare, riferire; - Uso regolare di sarcasmo senza consenso; - Atteggiamenti di duplicità; - Frequenti mutamenti di opinione senza preavviso; 
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- Strumentalizzazione di terzi innocenti; - Prendere crediti in caso di successo e scaricare le colpe su altri in caso d'insuccesso; - Invio di lettere ambigue o maliziose ad amici e partners; - Trasferimenti imposti in sedi lontane e disagiate senza apparenti giustificazioni o necessità; - Telefonate controllate o intercettazione della posta. 
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In conclusione, fare un lista completa ed esaustiva di tutte le strategie e le azioni mobbizzanti risulta arduo se non impossibile; comunque sono indicativi tutti quei comportamenti che colpiscono l’individuo nella sua dignità personale, morale e professionale, oltre che quelli che minano il suo equilibrio psichico per indurlo in errore e renderlo inerme. 
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DIFFERENZE DI GENERE Un dato particolarmente interessante è quello che mostra la differenza di comportamento tra i due sessi nella reazione ad una situazione conflittuale. 
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DIFFERENZE DI GENERE La donna in situazioni critiche tende a parlare più in fretta e a fare più gesti e movimenti: si comporta quindi più nervosamente e tende a essere più attiva sul lavoro. L’uomo, al contrario della donna, diminuisce notevolmente la sua attività gestuale e verbale: invece di dimostrare maggiore efficienza, tende a limitarsi sia nei rapporti interpersonali, sia nello svolgimento del suo lavoro. 
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DIFFERENZE DI GENERE Queste differenze sono significative e rappresentano una testimonianza di due modi di essere e di percepire la realtà; tuttavia, ai fini del mobbing, va sottolineato che nessuna delle due reazioni ottiene un risultato. In entrambi i casi, infatti, la reazione stessa dà al/alla mobber motivo per continuare la sua azione persecutoria. 
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DIFFERENZE DI GENERE Anche nel modo di fare mobbing si verificano differenze tra i sessi a causa della diversa educazione tra uomo e donna e del diverso sviluppo della persona. Anche Leymann ha trovato delle differenze significative ed in particolare: Il mobber uomo preferisce azioni passive, cioè azioni che non puntano sulla cattiveria aperta ma su quella nascosta, come ignorare qualcuno, o dargli sempre nuovi lavori o metterlo sotto pressione. La mobber donna invece in genere preferisce il mobbing attivo, prendere in giro qualcuno davanti ad altri o fare girare voci su di lui/lei. 
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DIFFERENZE DI GENERE I mobber preferiscono attaccare una vittima del loro stesso sesso: 2 mobber uomini su 3 se la prendono con una vittima uomo, mentre ben 13 mobber donne su14 mobbizzano una donna. Gli uomini inoltre sono tendenzialmente più mobber delle donne e non disdegnano vittime donne. (Harald Ege) 
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DIFFERENZE DI GENERE In questi casi è ragionevole pensare che entri in gioco il fattore delle molestie sessuali, che possono configurarsi spesso come mobbing a sfondo sessuale. Le donne invece tendono a mobbizzare quasi esclusivamente altre donne. Ciò potrebbe essere correlato al fatto che statisticamente ci sono più uomini nei ruoli responsabili, e quindi più difficili da mobbizzare, ma anche al fatto che nei confronti di un’altra donna possono subentrare più facilmente invidie e gelosie. 
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IL MOBBING SESSUALE Prima di parlare di ‘mobbing sessuale’, è utile fare una piccola premessa sulle molestie sessuali. Le molestie sessuali sono una serie di comportamenti di avvicinamento a scopo sessuale portate avanti da una persona verso un’altra che evidentemente non desidera e rifiuta questo tipo di contatto. Le molestie non sono solo atti, ma comprendono la sfera ben più ampia del linguaggio: parole, battute, apprezzamenti, allusioni pesanti […] oppure proposte, più o meno dirette, spesso accompagnate da minacce di ritorsione in caso di risposta negativa (Ege, 1997, p. 84). 
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IL MOBBING SESSUALE Le molestie sessuali non corrispondono tout court al mobbing, principalmente per il fatto che lo scopo del/della mobber è quello di eliminare o allontanare la vittima. Il molestatore sessuale, invece, non ha alcuna intenzione di allontanare la vittima, ma vuole tenere il più possibile vicino a se l’oggetto dei suoi desideri. 
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IL MOBBING SESSUALE Nel momento in cui il molestatore subirà continui e ripetuti rifiuti il legame tra molestia sessuale e mobbing si può fare sottilissimo, trasformando il molestatore in vero e proprio mobber. Il mobbing, quindi diventa la ritorsione, la vendetta del molestatore respinto; se la vittima cede alle molestie, infatti, non verrà mai mobbizzata. 
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IL MOBBING SESSUALE In questo caso è la vittima che desidera scappare, chiedendo trasferimenti o giorni di malattia e il persecutore farà di tutto per ostacolare la ‘fuga’, obbligandola a lavorare quotidianamente insieme a lui, in modo che «potrà importunarla sistematicamente fin quando non si arrenderà alle sue pesanti ed ossessive lusinghe» (Hirigoyen, 2000). 
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TIPOLOGIE DI VESSAZIONI Verso un collega (orizzontale). Questa forma viene esercitata da uno o più colleghi nei confronti di un soggetto. Le azioni più frequentemente attuate sono di natura socio - comunicativa, volte all’isolamento della persona vessata dal gruppo e al blocco delle informazioni (Einarsen et al., 1997 in Maier, 2003); 
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IL MOBBING ORIZZONTALE MOTIVAZIONI - Le difficoltà del mercato del lavoro; - L’alto tasso di disoccupazione; - Gli esiti lavorativi incerti dei contratti atipici; - La mancanza di trasparenza nello sviluppo di carriera; … favoriscono una forte competizione in grado di attivare alti livelli di aggressività e destrutturare i rapporti interpersonali. 
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TIPOLOGIE DI VESSAZIONI Verso un sottoposto (verticale). Con questo termine, si intendono quelle vessazioni esercitate da una persona (anche assieme a dei collaboratori) che ha una posizione gerarchica superiore rispetto alla vittima. Un tipico esempio di mobbing verticale è l’abuso di potere (Giannini, Di Fabio e Gepponi, 2004). 
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TIPOLOGIE DI VESSAZIONI Mobbing dall’alto viene anche definito Bossing: Il mobber è l'azienda stessa e la strategia persecutoria assume i contorni di una vera e propria strategia aziendale di riduzione, ringiovanimento o razionalizzazione del personale, oppure di semplice eliminazione di una persona indesiderata. 
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TIPOLOGIE DI VESSAZIONI Mobbing dal basso. Questa forma di mobbing, a differenza di quella verticale, vede il subordinato o comunque chi detiene un potere minore (singolo o gruppo di persone) mettere in atto una serie di vessazioni ai danni di un superiore. 
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Tipologie di vessazioni mobbing dal basso: nelle situazioni di mobbing dal basso sono solitamente più di uno, a volte anche tutti gli operai o i colleghi di un certo reparto, coloro che attuano una vera e propria ribellione contro il capo che non accettano. 
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Tipologie di vessazioni mobbing dal basso: La vittima si trova quanto mai in una condizione di isolamento totale e devastante; inoltre essendo il numero dei suoi detrattori piuttosto alto, anche il suo tentativo di discolpa risulta arduo; l’ufficio del personale finirà col dare credito alla maggioranza delle voci. 
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Tipologie di vessazioni mobbing dal basso: I casi di mobbing dal basso sono comunque abbastanza rari; nell’area tedesca si stima che ricoprano una percentuale del 10% del totale di tutti i casi di mobbing, in Italia la percentuale è addirittura minore: infatti, se l’antipatia verso il capo è un fenomeno molto diffuso, non altrettanto si può dire dell’aperta manifestazione di questo sentimento. 
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DOPPIO MOBBING Il mobbizzato si sfoga sulla famiglia che subisce anch'essa le persecuzioni, gli attacchi e le umiliazioni fino al punto che inizia a difendersi dalla forza devastante del mobbing. 
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DOPPIO MOBBING La famiglia, da generosa e protettrice – cambia atteggiamento, si chiude in se stessa, passa sulla difensiva e nega alla vittima ulteriore aiuto e comprensione aggravandone ulteriormente la situazione psicopatologica. 
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Un’altra forma di mobbing, molto pericolosa e di recente diffusione, è quella che usa i contratti precari come strumento per ricattare ed umiliare il lavoratore. Si tratta di un mobbing che tende a colpire prevalentemente le donne che, spesso, non vengono fatte oggetto del rinnovo del contratto, come invece accade ai colleghi maschi, per espellerle dal ciclo produttivo in caso di maternità o in caso di rifiuto di ricatti di vario genere, spesso di tipo sessuale. 
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Questo tipo di mobbing si può vincere dimostrando di aver subito una discriminazione di genere che viola le norme sulle Pari Opportunità o di aver subito molestie sessuali. 
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MOBBING DALL’ALTO 
BOSSING O MOBBING STRATEGICO 
MOBBING DAL BASSO O DOWN - UP 
DOPPIO MOBBING 
MOBBING TRA PARI O ORIZZONTALE 
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LE CAUSE DEL FENOMENO Esistono molte teorie che sino ad ora hanno cercato di far luce sul fenomeno del mobbing e di spiegare le principali motivazioni per cui esso si verifica; questi modelli, non riescono a delineare un’unica situazione a rischio. 
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LE CAUSE DEL FENOMENO Non esiste un ambiente tipo o una caratteristica di personalità che da sola basti per scatenare il mobbing, perché è dalla relazione tra le molteplici variabili in gioco che esso si sviluppa. Leymann vede nel conflitto il presupposto essenziale alla nascita del mobbing ed individua 6 campi nei quali si può sviluppare il conflitto e di conseguenza il mobbing: 
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LE CAUSE DEL FENOMENO 1. L’organizzazione del lavoro: una carente organizzazione e distribuzione del lavoro è causa di stress e di tensioni che vengono scaricate su un colpevole. 2. Le mansioni lavorative: se un lavoratore svolge mansioni ripetitive, monotone e sottoqualificate è più probabile il ricorso al mobbing per sfuggire alla monotonia. 
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LE CAUSE DEL FENOMENO 3. La direzione del lavoro: una direzione aziendale carente, che non tiene conto delle esigenze dei lavoratori è più facile che favorisca la nascita del mobbing all’interno della sua organizzazione: bisogna fare molta attenzione al lavoro a turni che isolano le persone in quanto un ambiente con una carente socializzazione è più a rischio di mobbing. 
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LE CAUSE DEL FENOMENO 4. La dinamica sociale del gruppo di lavoro: riguarda le relazioni intercorrenti tra i membri del gruppo di lavoro che possono essere più o meno tranquille a seconda del carico di lavoro che grava sul gruppo. 
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LE CAUSE DEL FENOMENO 5. Le teorie sulla personalità: a questo riguardo Leymann sostiene che il mobbing è indipendente dal carattere delle persone, non dando alcun credito alle teorie che vogliono identificare dei gruppi maggiormente a rischio, in quanto sostiene che dipende sempre dalle circostanze e dall’ambiente. 
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LE CAUSE DEL FENOMENO 6. La funzione nascosta della psicologia nella società: Leymann muove una critica contro tutti coloro che identificano le vittime come delle persone con ‘problemi psicologici’ ritenendo estremamente pericoloso soffermarsi solo su di esse e trascurando invece l’aspetto peculiare del sistema entro cui avviene il mobbing. 
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LE CAUSE DEL FENOMENO In questa lista sulle cause del conflitto sul luogo di lavoro si nota come Leymann identifichi delle cause esterne ed interne, in particolare modo pone l’accenno su un ambiente malato o conflittuale e sulle comunicazioni disturbate che avvengono tra i lavoratori. 
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GRUPPO MAGGIORMENTE A RISCHIO Ege, in una ricerca effettuata tra il 1999 e il 2000, si propose di verificare se esistesse o meno un gruppo maggiormente a rischio di mobbing in base a fattori temporali, così studiò un campione di lavoratori provenienti da tutta Italia utilizzando 5 parametri (4 temporali) mai utilizzati in precedenza (Ege, 2001): 
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1. l’età delle vittime, cercando di capire se esisteva una fascia di età più a rischio delle altre; 2. la durata del mobbing, utile per la determinazione del danno da mobbing; 3. la data di assunzione della vittima, per capire se il mobbing ha più a che fare con i neoassunti o con gli impiegati anziani; 4. il periodo di tempo intercorrente tra l’assunzione della vittima in quel posto di lavoro e l’inizio del mobbing; 5. il sesso della vittima, unico parametro non temporale. 
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RISULTATI: Gli uomini compresi tra i 30 e i 40 anni e le donne comprese tra i 40 e i 50 anni risultavano maggiormente esposti. Gli uomini soffrivano per più tempo il mobbing delle donne, probabilmente per paura di perdere il posto di lavoro e per una minore propensione a riconoscere sintomi e segnali di malessere. Anche se le donne sembravano più esposte al mobbing (57%) è errato supporre che gli uomini siano meno a rischio. 
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RISULTATI: Risultano più esposti a vessazioni lavorative i lavoratori più anziani perché meno propensi al cambiamento, mentre i neoassunti sono più disposti a lasciare un posto di lavoro altamente conflittuale. Se il mobbing non emerge immediatamente dopo l’assunzione, non si verificherà per almeno due anni, in quanto in questo lasso di tempo i colleghi metteranno alla prova il nuovo arrivato per saggiarne le capacità. 
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EFFETTI DEL MOBBING 
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ll mobbing provoca molti danni, non solo alla vittima, ma anche all’organizzazione e, in misura minore, al mobber stesso. La vittima presenta il maggior numero di problematiche, di tipo psichico, sociale, medico ed anche economico: queste ultime solitamente vengono trascurate, ma comprendono le spese sostenute per la psicoterapia, per i corsi di rilassamento, per le medicine, per le cure di riabilitazione, nonché per la riduzione dello stipendio (Ege, 1997). 
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DISTURBI A LIVELLO FISICO E PSICOSOMATICO Sul piano fisico, è tutto l’organismo ad essere coinvolto. Il benessere della vittima si riduce notevolmente anche a causa delle preoccupazioni (o addirittura terrore) di incontrare il/la mobber, generando stati d’ansia e di panico costanti fuori dal controllo personale, che fanno si che la persona si concentri esclusivamente sulle problematiche lavorative. 
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DISTURBI A LIVELLO FISICO E PSICOSOMATICO La vittima perde la capacità di concentrazione, accusa mal di testa, giramenti di capo, riduzione della capacità mnemonica. Lo stato di depressione che ne deriva porta la vittima a manifestare quasi delle manie di persecuzione. Un grave problema che spesso ostacola la lotta al mobbing è che spesso la vittima non riesce a collegare tutti questi sintomi con le violenze psicologiche subite nell’ambiente lavorativo. 
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DISTURBI A LIVELLO FISICO E PSICOSOMATICO Non bisogna dimenticare che spesso la vittima ricorre a sostanze esterne come alcool, droghe, fumo, caffè, nella speranza di ridurre la sensazione di malessere diffuso. Ma il risultato è un semplice stato di benessere momentaneo che non risolve il problema, ma lo amplifica. 
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DISTURBI A LIVELLO FISICO E PSICOSOMATICO Sul piano emotivo si può parlare di crisi esistenziale (si perde il ruolo di lavoratore e ciò provoca calo dell’autostima e senso di colpa), crisi relazionale familiare e delle relazioni personali con amici e parenti (separazioni, divorzi, allontanamento degli amici ), crisi economica (dovuta alla perdita del reddito). (Ascenzi e Bergagio, 2000). 
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DISTURBI A LIVELLO FISICO E PSICOSOMATICO Alcune ricerche hanno ipotizzato che i figli dei mobbizzati possano avere dei comportamenti di imitazione del genitore e di conseguenza accusare problemi di somatizzazione (neurodermiti, anoressia, ecc.). 
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DISTURBI A LIVELLO FISICO E PSICOSOMATICO Nei casi più gravi la vittima, non trovando altra via d’uscita ai suoi problemi, medita il suicidio o, all’opposto, l’omicidio. La sovraesposizione di una persona al mobbing può portare la vittima a commettere reati per collera, per infrazioni, per reazioni violente o per aggressività o eccessi di difesa. Negli Stati Uniti circa 1.000 omicidi ogni anno avvengono nel posto di lavoro (Ascenzi e Bergagio, 2000). 
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LE CONSEGUENZE PER L’AZIENDA Gli effetti del mobbing non producono danni solo ai lavoratori che le subiscono, ma hanno ricadute in termini di costi anche per le aziende. Il mobbing provoca una inutile dispersione di risorse. I danni creati dal mobbing sono concreti e oggettivi, e più i metodi utilizzati sono subdoli, più aumentano i danni, poiché richiedono dispendio di tempo e risorse (Monateri et al., 2000). 
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LE CONSEGUENZE PER L’AZIENDA In una situazione di mobbing, il gruppo di lavoro accusa una riduzione della capacità produttiva e dell’efficienza, le critiche verso il datore di lavoro si fanno più marcate e il tasso di assenteismo per malattia cresce. Il gruppo va alla continua ricerca di capri espiatori e aumenta la tendenza ad ingigantire i piccoli problemi. 
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LE CONSEGUENZE PER L’AZIENDA Le spese per l’azienda aumentano a causa dei sabotaggi messi in atto dal/dalla mobber, i quali provocano la perdita di grandi investimenti e di anni di ricerca. Un ulteriore aumento dei costi deriva dalla necessità di sostituire il lavoratore mobbizzato durante la sua assenza per malattia o incaricare qualcuno di portare a termine il lavoro incompiuto o errato della vittima. 
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LE CONSEGUENZE PER L’AZIENDA Se il mobbing è lasciato agire indisturbato, esso può giungere alla sua ultima fase, che vede la vittima costretta ad uscire dal mondo del lavoro, causando ancora gravi costi alla ditta, che deve trovare nuovo personale e predisporre una nuova formazione. 
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COSTI UMANI Per quanto riguarda i costi umani si verifica un netto calo del rendimento e di impegno sia del mobbizzato che del/della mobber, una perdita di personale specialistico, il crollo del clima sociale dell’organizzazione e una limitazione della fiducia e della collaborazione tra i dipendenti. 
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COSTI UMANI Un lavoratore sottoposto a violenze psicologiche sul posto di lavoro ha un tasso di produttività ed efficienza inferiore del 60%. Egli, inoltre, graverà sul datore di lavoro del 180% in più (Ascenzi e Bergagio, 2000). È evidente che le aziende dovrebbero prestare più attenzione alla gestione delle risorse umane e delle relazioni all’interno dei luoghi di lavoro. 
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COSTI PER LO STATO Tra i costi che ricadono sull’intera società troviamo gli oneri che il sistema sanitario nazionale deve sostenere per le lunghe assenze dal lavoro e per i frequenti periodi di malattia a cui è costretto il soggetto mobbizzato, spese a cui contribuiscono anche le aziende sanitarie locali. Si aggiungono anche, nei casi di prepensionamento, sia il costo sostenuto dall’intero sistema sanitario che si vede costretto al pagamento di una pensione in anticipo rispetto alla normale età, sia la perdita dei contributi sullo stipendio prima versati dal lavoratore. 
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MA ESISTE UN RISCHIO DA MOBBING VALUTABILE? Il mobbing è una condizione di antigiuridicità o non etica che può conseguire generalmente a fatti organizzativi – relazionali - gestionali incongrui o inadeguati. Questo malessere organizzativo – e non il mobbing - deve essere oggetto di valutazione attenta da parte del RSPP e del MC 
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LA SITUAZIONE IN ITALIA L’Italia, secondo le statistiche europee si trova all’ultimo posto nella classifica dei casi di mobbing, con il 4,2%. Se si leggessero superficialmente questi dati, si potrebbe dedurre che il terrorismo psicologico nei posti di lavoro è praticamente assente dagli scenari italiani. 
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LA SITUAZIONE IN ITALIA Lo studio della violenza psicologica sul posto di lavoro è iniziata con notevole ritardo rispetto ad altre nazioni. In Italia si è cominciato a parlare diffusamente di mobbing solo dal 1999, anno dei due primi convegni nazionali sul tema. 
200 
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LA SITUAZIONE IN ITALIA In Italia il mobbing spesso non è conosciuto come problema a se stante e in genere viene vissuto come routine. Il lavoratore è convinto che le persecuzioni sul posto di lavoro siano la norma e così il problema non viene neanche percepito, trascinando la situazione per anni, fino a diventare pericolosa e spesso irreparabile. 
201 
Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
LA SITUAZIONE IN ITALIA Nel mobbizzato italiano l’allarme, che dovrebbe scattare al semplice conflitto, risulta tarato ad una soglia più alta, quella della malattia e quindi si trova a combattere un processo già iniziato e che ha già prodotto serie conseguenze (Ege, 1997). 
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LA SITUAZIONE IN ITALIA Un dato interessante emerso dalle ricerche di Ege in Italia e non riscontrato in altre culture è il ricorso da parte del/della mobber a strumenti esterni - (fumare in presenza di non fumatori, alzare il volume con lo scopo di isolare la vittima e deconcentrarla) e l’aria condizionata, (rendere il clima dell’ufficio insostenibile) - attraverso cui creare fastidio e problemi alla vittima. Il/la mobber italiano/a cerca di evitare i rischi insiti nell’attacco diretto attraverso una strategia più articolata e complessa, utilizzando mezzi esterni in modo da non scoprirsi del tutto e risultare estraneo alla vicenda. 
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LA SITUAZIONE IN ITALIA La vittima scarica la sua rabbia inizialmente su tale mezzo esterno e il/la mobber riesce a guadagnare tempo, tanto che nel momento in cui la vittima si rende conto di chi sia il vero colpevole è troppo tardi per cercare alleati e per difendersi. In tutti questi casi la strategia mobbizzante è altamente subdola e praticamente infallibile e mira a rendere le condizioni di lavoro fastidiose o insopportabili per la vittima designata. 
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DIFENDERSI DAL MOBBING: PREVENZIONE E INTERVENTI 
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COME REAGIRE AL MOBBING Non esistono formule magiche che liberino dal mobbing e, prima di dare qualsiasi tipo di consiglio è fondamentale attuare una analisi puntuale del fenomeno per far si che la diagnosi e la terapia siano il più possibile aderenti alla situazione. Se viene saltato questo passo, ossia l’analisi delle caratteristiche e delle motivazioni che hanno portato al mobbing, si rischia di peggiorare la situazione, invece che risolverla. 
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COME REAGIRE AL MOBBING E’ consigliabile attuare una valida opera di prevenzione che sia indirizzata da un lato all’azienda e dall’altro ai singoli individui, con l’obiettivo di impedire che un banale conflitto irrisolto possa diventare un vero caso di mobbing. Nel caso dell’intervento mirato all’azienda, si dovrebbe attuare una formazione mirata che corregga ed indirizzi adeguatamente il lavoro dell’Ufficio Risorse Umane, oltre che creare la cosiddetta «cultura del litigio» (Ege, 2001). 
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COME REAGIRE AL MOBBING La cultura del litigio è un programma formativo rivolto alle aziende che deve partire dall’alto ed essere diretto dall’ufficio risorse umane o dai vertici dirigenziali. L’obiettivo della cultura del litigio è rendere trasparente e chiaro il conflitto in modo da poterlo riconoscere e averne una visione obiettiva ed imparziale. Questa strategia va a beneficio non solo dell’azienda ma anche dei singoli lavoratori. 
208 
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COME REAGIRE AL MOBBING Il primo passo da fare per attuare la cultura del litigio è de-emozionare il conflitto (Ege, 2001), ossia togliervi ogni elemento emozionale che può risultare scomodo e fuori luogo in determinate circostanze, in modo da affrontarlo con lucidità e sangue freddo. 
209 
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COME REAGIRE AL MOBBING Nella cultura del litigio le risorse dei contendenti lavorano insieme ed in sinergia, venendo impiegate per la creazione di nuove e creative soluzioni. Il punto di vista dell’altro non è più una minaccia, ma diviene una opportunità di crescita e di arricchimento personale, i problemi sono risolti più velocemente ed il clima organizzativo è più sereno, per cui i dipendenti lavorano meglio e sono più produttivi. 
210 
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COME REAGIRE AL MOBBING Altro modo di reagire al mobbing è partecipare ai corsi di autodifesa verbale. I corsi di autodifesa verbale sono dei corsi di formazione personale che si rivolgono alle singole persone per insegnare ad affrontare e gestire meglio la conflittualità della vita quotidiana (Ege, 2001). Questi corsi intendono fortificare la persona dentro per cambiare il loro atteggiamento fuori. 
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COME REAGIRE AL MOBBING La vittima, acquisendo la capacità di rispondere adeguatamente in qualsiasi circostanza, si sente più sicura di se stessa e nei rapporti interpersonali, ispirando rispetto e considerazione; in tal modo riesce a salvaguardare la sua dignità ed evita che gli attacchi costituiscano delle premesse per disturbi psicosomatici (l’aumento dell’autostima e della fiducia in se stessi risulta un ottimo immunizzante). 
212 
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Se il medico riscontra una situazione di ansia, stress o depressione è consigliabile assentarsi dal lavoro per recuperare le energie. Non bisogna sentirsi in colpa, è un nostro diritto, anche perché la nostra prima preoccupazione deve essere la nostra salute. 
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COME REAGIRE AL MOBBING Fare formazione ed informazione è l’unica metodologia che consente di far prendere coscienza dei danni che il mobbing può provocare, in modo da riconoscere il fenomeno. La formazione diventa quindi una missione che ha l’obiettivo di prevenire, curare, assistere ed intervenire sul mobbing in modo che questo causi il minor numero di danni possibili. La conoscenza del mobbing deve essere inculcata ad ogni vertice e grado della scala gerarchica, e le aziende dovrebbero essere dotate di figure professionali in grado di mediare le situazioni di conflitto (Ascenzi e Bergagio, 2000). 
214 
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Il/la mobber, quando è consapevole, non è stupido/a, e solitamente attacca in assenza di testimoni perché sa che ciò che fa non è lecito. Per questo motivo è buon consiglio mettere per iscritto tutto ciò che succede in ufficio raccogliendo la documentazione delle vessazioni subite: 
215 
Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
Tenere un diario di ogni azione mobbizzante contenente data, ora, luogo, autore, descrizione, persone presenti, testimoni; tenere un resoconto delle conseguenze psico-fisiche che le azioni mobbizzati hanno avuto sul nostro organismo (questo faciliterà la documentazione del danno biologico che il mobbing ha determinato per la richiesta di risarcimento dei danni psicofisici) e di tutta la documentazione medica e delle cure seguite; 
216 
Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
Mettere in forma scritta e fare protocollare o spedire per raccomandata R.R. ogni richiesta, trasformando qualsiasi ordine verbale ricevuto in interrogazione scritta («a voce mi è stato detto di fare questo, chiedo conferma scritta») ed esigere l’ordine di servizio che attesti il cambiamento di mansioni, il trasferimento o lo straordinario. Molto spesso non si riceve risposta: ciò sarà un’ulteriore prova di azione mobbizzate. 
217 
Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
Sarebbe molto utile cercare degli alleati, ma è forse la cosa più difficile. Infatti, non sempre i colleghi sono coraggiosi. È fondamentale non isolarsi, ma coltivare le relazioni sociali, frequentare gli amici, rinsaldare i rapporti familiari. Si può andare a cena fuori, fare una bella vacanza, o dedicarsi ad un hobby; insomma, tutto ciò che può costituire una utile valvola di sfogo è ben accetto. 
218 
Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
Se si decide di ricorrere alle vie legali non bisogna essere impazienti. La durata di una causa di lavoro è lunga e anche in caso di vittoria in primo grado, ci si deve aspettare un ricorso in appello da parte dell’azienda; quindi si può calcolare da un minimo di quattro anni fino ad otto-dieci anni. Nella scelta tra procedimento penale e/o civile (causa di lavoro, risarcimento del danno biologico), è meglio preferire dapprima il procedimento civile. 
219 
Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
Ci si deve rivolgere ad un buon avvocato cha abbia già trattato cause di mobbing, che sicuramente non abbia legami con la propria azienda. Bisogna chiarire subito gli obiettivi che si intendono raggiungere (danno biologico, demansionamento, reintegra nel posto di lavoro, patteggiamento, risarcimento dei danni, ecc.) e cercare di coinvolgere il minor numero di persone (possibilmente solo l’azienda). In caso contrario il nostro avvocato si troverà a dover lottare contro eserciti di avvocati di controparte che si coalizzeranno contro di noi. Solo dopo si può procedere anche contro gli autori materiali del mobbing. 
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Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
Conoscere e intervenire adeguatamente sul fenomeno del mobbing porta indubbi vantaggi ai molteplici soggetti che vi sono implicati: le persone, divenendo maggiormente coscienti della loro situazione, potrebbero adottare migliori strategie difensive contro gli aggressori e combattere il loro malessere; 
221 
Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
Le aziende potrebbero risparmiarsi onerosi costi di un personale così problematico; la mutua non dovrebbe caricarsi degli onerosi costi per terapie mediche e/o addirittura ricoveri nei casi più gravi; infine, lo Stato eviterebbe gravosi oneri sociali collettivi con premature pensioni di invalidità. 
222 
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A seguito di un’indagine della Fondazione Europea per il Miglioramento delle Condizioni di Vita e di Lavoro (Dublino) che individua nell’8% la percentuale dei lavoratori dell’Unione colpiti da mobbing negli ultimi 12 mesi, il Parlamento Europeo, in data 20 settembre 2001, emette la “Risoluzione sul mobbing nel posto di lavoro”. 
223 
Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
Il Parlamento, tra l’altro, “esorta gli Stati membri a rivedere e, se del caso, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing…” 
224 
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LA SITUAZIONE ITALIANA 
225 
Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
In Italia non esiste una normativa specifica contro il fenomeno del mobbing. Tuttavia ci sembra di poter individuare nelle disposizioni in vigore strumenti legislativi in grado di tutelare la salute fisica e psicologica dei lavoratori. Vediamo in rapida sintesi il quadro normativo cui si può fare riferimento: 
226 
Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
Costituzione (art. 32) la salute è un diritto dell'individuo e della collettività; (art. 42) l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. 
227 
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CODICE PENALE PREVEDE SANZIONI SPECIFICHE IN CASO DI OMISSIONE DOLOSA (art. 437) e colposa (art. 451) di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Inoltre punisce con la reclusione da tre mesi a tre anni “chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente (art. 582)” e punisce con l’arresto chiunque “reca molestie o disturbo” a qualcuno (art. 660). 
228 
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Legge 300/ 1970 - Statuto dei Lavoratori (art. 13) al dipendente non possono essere date mansioni di livello professionale inferiore a quello d’inquadramento. 
229 
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D.Lgs 626/1994 riguardante il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro - (art. 4, punto 5) il datore di lavoro adotta le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori; (at 17, punto 1, comma a) il medico competente collabora …alla predisposizione dell’attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità psicofisica dei lavoratori. 
230 
Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
In relazione invece alle anomalie organizzative in Italia l’INAIL ha utilizzato il termine “costrittività organizzative” per definire le condizioni di anomalie ed incongruenze organizzative i cui elementi essenziali riguardano “la sottrazione di compiti lavorativi adeguati, l’inadeguatezza degli strumenti di lavoro, l’attribuzione di carichi eccessivi, le distorsioni sul piano delle comunicazioni interne e le forme di iper-controllo (Circolare INAIL 71 del 17.12.2003)”. 
231 
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L'Inail considera il mobbing come malattia professionale: infatti è stato inserito nella categoria delle malattie professionali non tabellari, cioè non comprese nelle tabelle. Il lavoratore o la lavoratrice devono dimostrare con una documentazione appropriata il nesso tra la malattia contratta e le attività professionali svolte. Quindi il lavoratore potrà chiedere il risarcimento del danno anche al suddetto Istituto. 
232 
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Secondo la direttiva Inail, l’Istituto come per ogni altra malattia professionale denunciata dal lavoratore, procede per il caso del mobbing ad una serie di verifiche e di controlli in ordine alla veridicità di quanto lamentato dall'assicurato che deve provare, con la presentazione di documenti probatori, ai sensi dell'art. 38, D.Lgs. n. 38/ 2000: • l'esistenza della malattia professionale; • le caratteristiche morbigene della lavorazione (in questo caso la sussistenza dei comportamenti mobbizanti); • il nesso causale intercorrente tra la malattia stessa e il lavoro concretamente svolto. 
233 
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Poiché però in questi casi è spesso difficile per il lavoratore produrre prove documentali sufficienti, la circolare prevede che l'Inail effettui delle indagini ispettive, per raccogliere le prove testimoniali dei colleghi di lavoro, del datore di lavoro, del responsabile dei servizi di prevenzione e protezione delle aziende e di ogni persona informata sui fatti allo scopo di: • acquisire riscontri oggettivi di quanto dichiarato dall'assicurato; • integrare gli elementi probatori prodotti dall'assicurato. 
234 
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L'Inail, nella sua valutazione, può anche utilizzare ulteriori elementi derivanti da precedenti accertamenti dei fatti eventualmente emersi in sede giudiziale o in sede di vigilanza ispettiva da parte della Direzione provinciale del lavoro, nonché delle Asl. 
235 
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Secondo una sentenza della Corte di Cassazione, numero 685 del gennaio 2011, non è ancora possibile ricondurre il mobbing a sanzioni di tipo penale, nonostante ci siano alcuni comportamenti riconducibili a un trattamento vessatorio. Il vuoto legislativo, infatti, fa sì che ad oggi si possa procedere solamente con procedimenti civili. 
236 
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LIMITI E DIFFICOLTA’ DI INTERPRETAZIONE 
237 
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L’intento persecutorio è il più complesso fra gli elementi che caratterizzano la fattispecie. La difficoltà di provare che sotteso ai comportamenti del datore di lavoro vi sia un simile intento rappresenta uno dei nodi più spinosi della materia. 
238 
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In alcuni studi viene enfatizzata, come possibile elemento di discrimine tra il mobbing e le anomalie organizzative, la presenza o meno dell’intenzionalità dell’azione lesiva e della volontà esplicita di allontanare la vittima dal contesto lavorativo. In realtà tale elemento di differenziazione appare, per quanto riguarda «l’intenzionalità», non sempre oggettivabile 
239 
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QUESTIONARI Oggi esistono alcuni “questionari auto- somministrati tesi alla valutazione delle condizioni mobbizzanti vissute e che esprimono, quindi, la prospettiva soggettiva della vittima. Il capostipite di questi strumenti è rappresentato dal Leymann Inventory of Psychological Terror (LIPT) elaborato da Leymann negli anni ’90”. 
240 
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Esistono poi altri questionari: il Negative Acts Questionnaire (NAQ), il CDL-2.0 ed il Val.Mob. 
241 
Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
UN NUOVO STRUMENTO PER VALUTARE IL MOBBING E LE ANOMALIE ORGANIZZATIVE 
242 
Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
Un studio, presentato sul numero di aprile/giugno 2013 del Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia, dal titolo “Mobbing, costrittività organizzative ed effetti bio-psico-sociali: una valutazione integrata. Dati preliminari di validazione del Questionario-napoletano sul Disagio Lavorativo (Qn-DL)”, ha avuto l’obiettivo di validare un nuovo strumento di valutazione delle condizioni di disagio percepite nell’ambito lavorativo. 
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STRESS LAVORO-CORRELATO, MOBBING, BURNOUT - Dott. Nicola Armenise Psicologo del Lavoro
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STRESS LAVORO-CORRELATO, MOBBING, BURNOUT - Dott. Nicola Armenise Psicologo del Lavoro

  • 1. STRESS LAVORO-CORRELATO, MOBBING, BURNOUT 11 OTTOBRE 2013 IIˆ SESSIONE Dott. Nicola Armenise – Psicologo del lavoro
  • 2. Nel mondo del lavoro esistono, accanto a fattori di rischio specifici, responsabili di malattie professionali, numerosi altri agenti capaci di turbare l’equilibrio ed il benessere dell’uomo, creando fenomeni di disadattamento e reazioni di stress, da cui possono derivare malattie, non specifiche, ma certamente collegate alla professione (Mobbing e Burnout) 2 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 3. STRESS LAVORO-CORRELATO l’operatore stressato • rende di meno • può commettere errori • è più esposto ad infortuni • è più conflittuale (minore qualità di vita) • teme l’innovazione • entra nell’area di rischio psicosomatico l’organizzazione stressata • riduzione produttività e qualità • conflittualità in azienda • diminuzione del senso di appartenenza • mancato rispetto delle regole o irrigidimento per il loro rispetto • elevato assenteismo, turn over • insoddisfazione, ricerca continua di capri espiatori •aumento incidenti ed infortuni risposta psicofisica che si verifica quando le richieste del lavoro superano le risorse o le capacità del lavoratore di farvi fronte o si scontrano eccessivamente con i suoi bisogni (Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, 2010) 3 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 4. CONSEGUENZE INDIVIDUALI DELLO STRESS METAFORA DELLA BAMBOLA SPEZZATA (Manciaux, 1999) Facendo cadere una bambola, essa si romperà più o meno facilmente a seconda: • del materiale della bambola (rappresenta la resistenza dell’individuo ai traumi); • della materia del suolo (rappresenta l’ambiente); • della forza con cui è stata gettata (rappresenta l’intensità del trauma e la durata dell’evento) 4 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 5. SINDROME DA BURNOUT 5 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 6. La sindrome da burnout (o più semplicemente burnout) è l'esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni d’aiuto, qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere. Il burnout interessa tutte quelle figure caricate da una duplice fonte di stress, ovvero quello personale e quello della persona aiutata; 6 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 7. Il burnout è definito come una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e derealizzazione personale, che può manifestarsi in tutte quelle professioni con implicazioni relazionali molto accentuate. 7 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 8. È una malattia in costante e graduale aumento tra i lavoratori dei paesi occidentalizzati a tecnologia avanzata, ciò non significa che qualcosa non funziona più nelle persone, bensì che si sono verificati cambiamenti sostanziali e significativi sia nei posti di lavoro sia nel modo in cui si lavora. 8 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 9. STORIA DEL BURNOUT Il termine burnout in italiano si può tradurre come “bruciato”, “scoppiato”, “esaurito”, è apparso la prima volta nel mondo dello sport, nel 1930, per indicare l’incapacità di un atleta, dopo alcuni successi, di ottenere ulteriori risultati e/o mantenere quelli acquisiti. 9 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 10. Il termine è stato poi ripreso dalla psichiatra americana C. Maslach nel 1970, la quale ha utilizzato questo termine per definire una sindrome i cui sintomi evidenziano una patologia comportamentale a carico di tutte le professioni ad elevata implicazione relazionale. 10 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 11. La Maslach definisce il burnout come una perdita di interesse vissuta dall’operatore verso le persone con le quali svolge la propria attività (pazienti, assistiti, clienti, utenti, ecc), una sindrome di esaurimento emozionale, di spersonalizzazione e riduzione delle capacità personali che può presentarsi in persone che, per professione, sono a contatto e si prendono cura degli altri. 11 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 12. BURNOUT: "malattia che si diffonde nel tempo con costanza e gradualità, risucchiando le persone in una spirale discendente dalla quale non è facile riprendersi" (Maslach) 12 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 13. COME SI MANIFESTA IL BURNOUT In particolare, è caratterizzato da tre aspetti: ESAURIMENTO EMOTIVO. L’individuo si sente prosciugato, esausto, incapace di rilassarsi e di recuperare; DEPERSONALIZZAZIONE. L’individuo assume un comportamento freddo e distaccato nei confronti del lavoro e degli altri, adottando un atteggiamento di indifferenza nel tentativo di proteggersi; RIDOTTA REALIZZAZIONE PERSONALE. L’individuo arriva a percepirsi come incapace ed inadeguato al lavoro. 13 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 14. Il contatto costante con le persone e con le loro esigenze, l’essere a disposizione delle molteplici richieste e necessità, sono alcune delle caratteristiche comuni a tutte quelle attività che hanno come obiettivo professionale il benessere delle persone e la risoluzione dei loro problemi, come nel caso di medici, psicologi, infermieri, insegnanti, ecc.. 14 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 15. Negli anni, nella sindrome del Burnout sono state incluse altre categorie di lavoratori, tutti quei professionisti o lavoratori che hanno un contatto frequente con un pubblico, con un’utenza, quindi non più solo gli “helper” …, possono quindi far parte di tali categorie tanti liberi professionisti o dipendenti: l’avvocato, il ristoratore, il politico, l’impiegato delle poste, il manager, la centralinista, la segretaria ecc.. 15 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 16. ll burnout viene considerato, da molti studiosi, non solo un sintomo di sofferenza individuale legata al lavoro (stress lavorativo), ma anche come un problema di natura sociale provocato da dinamiche sia sociali, sia, politiche, sia economiche. 16 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 17. La sindrome può infatti interessare il singolo lavoratore, lo staff nel suo insieme e anche istituzioni (per esempio l’organizzazione dei soccorsi in situazioni di crisi come i Vigile del Fuoco, i Militari, le Forze dell’Ordine ecc.). 17 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 18. LE CARATTERISTICHE DEL BURNOUT Molti contesti lavorativi richiedono una forte dedizione ed un notevole impegno, sia in termini economici sia in termini psicologici e, in certi casi, i valori personali sono messi in primo piano a scapito di quelli lavorativi. Le richieste quotidiane rivendicate dal lavoro, dalla famiglia e da tutto il resto consumano l’energia e l’entusiasmo del lavoratore. 18 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 19. LE CARATTERISTICHE DEL BURNOUT Quando gli obiettivi (spesso troppo ambiziosi) sono difficili da conseguire, molte persone perdono la dedizione data a quel lavoro, cercano di tenersi a distanza pur di non farsi coinvolgere e, spesso, diventano cinici. 19 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 20. IL BURNOUT HA MANIFESTAZIONI SPECIFICHE: Un deterioramento progressivo dell’impegno nei confronti del lavoro. Un lavoro inizialmente importante, ricco di prospettive ed affascinante diventa sgradevole, insoddisfacente e demotivante. Un deterioramento delle emozioni. Sentimenti positivi come per esempio l’entusiasmo, motivazione e il piacere svaniscono per essere sostituiti dalla rabbia, dall’ansia, dalla depressione. 20 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 21. PERCEZIONE INDIVIDUALE I singoli individui percepiscono questo squilibrio come una crisi personale, mentre in realtà è il posto di lavoro a presentare problemi. 21 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 22. 22 IL BURNOUT E’ UN PROBLEMA PER … 1.Il LAVORATORE E I SUOI FAMILIARI: Problemi fisici (mal di testa, disturbi gastrointestinali, ipertensione, tensione muscolare e affaticamento cronico); Problemi psichici (ansia, depressione e disturbi del sonno); Problemi comportamentali (abuso di alcol, farmaci e droghe). Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 23. IL BURNOUT E’ UN PROBLEMA PER … 2.L’UTENZA E l’ORGANIZZAZIONE, a causa di una forza lavoro che non offre più la dedizione, la creatività e la produttività precedenti: Scarsa qualità delle prestazioni e delle relazioni; Aumento del tasso di assenteismo, turnover, dimissioni, ecc. 23 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 24. IL BURNOUT NON E’ COLPA DELLA PERSONA E’ UN PROBLEMA LAVORATIVO Quindi per affrontarlo bisogna considerare sia il soggetto, sia il contesto in cui opera. 24 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 25. LE CAUSE DEL BURNOUT Le cause sono da ricercare nell’interazione tra il SOGGETTO e il CONTESTO DI LAVORO, cioè nell’influenza reciproca tra: 1)la personalità dell’individuo; 2)la struttura dell’organizzazione in cui lavora; 3)il tipo di attività svolta; 4)l’utenza di cui si occupa. 25 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 26. LE CAUSE DEL BURNOUT 1) BURNOUT E PERSONALITA Può colpire chiunque, ma sono maggiormente esposti i soggetti ansiosi e remissivi; con scarsa fiducia in se stessi; con tendenza all’idealizzazione. Esistono relazioni con le caratteristiche demografiche (età, anzianità di servizio, stato civile, istruzione). Il burnout NON deriva da qualche predisposizione genetica. 26 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 27. LE CAUSE DEL BURNOUT 2) BURNOUT E VARIABILI ORGANIZZATIVE Sovraccarico di lavoro. Si deve fare troppo, in poco tempo, con risorse scarse; Mancanza di controllo sulla propria attività. La possibilità di fare scelte e di prendere decisioni è fortemente limitata da politiche rigide e da controlli severi (responsabilità senza autonomia); Ricompense e conferme insufficienti- incongrue. Manca un equo riconoscimento economico e umano per il lavoro svolto; 27 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 28. LE CAUSE DEL BURNOUT 3) BURNOUT E VARIABILI ORGANIZZATIVE Assenza di equità. Ingiustizia nella distribuzione dei carichi di lavoro o nel riconoscimento delle carriere; Crollo del senso di appartenenza e di comunità. I rapporti sono lacerati dal conflitto e dalle scarse opportunità di contatti sociali; Conflitto di valori. I requisiti richiesti dal lavoro (produttività, efficienza, profitto, ecc.) non concordano con i principi e gli ideali personali. 28 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 29. LE CAUSE DEL BURNOUT 4) BURNOUT E TIPO DI ATTIVITA’ Operatori delle helping professions; Ovunque il lavoro comprenda relazioni; Dove le richieste esplicite/implicite e la dipendenza dell’“altro” sono forti Dove le condizioni del lavoro sono improntate da incertezza, precarietà. 29 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 30. LE CAUSE DEL BURNOUT 5) BURNOUT E TIPOLOGIA DI UTENZA Utenza “bisognosa”; Utenti cronici; Pazienti terminali, psicotici, soggetti che “peggiorano” a seguito delle cure ricevute; Dove cresce la distanza tra risultati e aspettative; Dove il carico è gravoso dal punto di vista sia quantitativo sia qualitativo. 30 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 31. LE FASI DEL BURNOUT Negli operatori sanitari, la sindrome si manifesta generalmente seguendo quattro fasi. La prima, (preparatoria), è quella dell'"entusiasmo idealistico" che spinge il soggetto a scegliere un lavoro di tipo assistenziale. Nella seconda (stagnazione) il soggetto, sottoposto a carichi di lavoro e di stress eccessivi, inizia a rendersi conto di come le sue aspettative non coincidano con la realtà lavorativa. L'entusiasmo, l'interesse ed il senso di gratificazione legati alla professione iniziano a diminuire. 31 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 32. LE FASI DEL BURNOUT 32 Nella terza fase (frustrazione) il soggetto affetto da burnout avverte sentimenti di inutilità, di inadeguatezza, di insoddisfazione, uniti alla percezione di essere sfruttato, oberato di lavoro e poco apprezzato; spesso tende a mettere in atto comportamenti di fuga dall'ambiente lavorativo, ed eventualmente atteggiamenti aggressivi verso gli altri o verso se stesso. Nel corso della quarta fase (apatia) l'interesse e la passione per il proprio lavoro si spengono completamente, subentra l'indifferenza, fino ad una vera e propria "morte professionale". Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 33. FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 1) Fattori individuali; 2) Fattori socio-demografici; 3) Struttura organizzativa. 33 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 34. FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 1) Fattori individuali Caratteristiche di personalità - introversione (incapacità di lavorare in équipe); - tendenza a porsi obiettivi irrealistici; - adottare uno stile di vita iperattivo; 34 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 35. FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 1) Fattori individuali Caratteristiche di personalità - personalità autoritaria; - abnegazione al lavoro, inteso come sostituzione della vita sociale; - concetto di se stessi come indispensabili; - motivazione ed aspettative professionali; 35 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 36. FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 2) Fattori socio-demografici - differenza di genere (donne più predisposte degli uomini); - età (primi anni di carriera si è più predisposti); - stato civile (persone senza un compagno stabile più predisposte). 36 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 37. FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 3) Struttura organizzativa Le tensioni sono generate da: - Ambiguità di ruolo: insufficienza di informazioni in relazione ad una determinata posizione; - Conflitto di ruolo: esistenza di richieste che - l’operatore ritiene incompatibili con il proprio ruolo professionale; 37 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 38. FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 3) Struttura organizzativa Le tensioni sono generate da: - Sovraccarico: quando all’individuo viene assegnato un eccessivo carico di lavoro o un’eccessiva responsabilità, che non gli permettono di portare avanti una buona prestazione lavorativa; 38 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 39. FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 3) Struttura organizzativa Le tensioni sono generate da: - Mancanza di stimolazione: si riferisce alla monotonia dell’attività lavorativa; - Struttura di potere: riguarda il modo in cui si stabiliscono i processi decisionali e di controllo nell’ambito lavorativo, ovvero la possibilità dell’individuo di partecipare alla presa di decisione; 39 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 40. FATTORI CHE POSSONO DETERMINARE LA SINDROME 3) Struttura organizzativa Le tensioni sono generate da: - Turnazione Lavorativa: La turnazione e l'orario lavorativo possono favorire l’insorgenza della sindrome. In tal senso migliorando il turn – over e la rotazione del personale è possibile arginare il fenomeno. - Retribuzione inadeguata 40 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 41. LA SINTOMATOLOGIA La sindrome è caratterizzata da manifestazioni quali nervosismo, irrequietezza, apatia, indifferenza, cinismo, ostilità delle persone, sia tra di loro sia verso terzi; si distingue dalla nevrosi, in quanto non è un disturbo della personalità ma del ruolo lavorativo. 41 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 42. LA SINTOMATOLOGIA Dal punto di vista clinico (psicopatologico) i sintomi del burnout sono molteplici, richiamano i disturbi dello spettro ansioso- depressivo, e sottolineano la particolare tendenza alla somatizzazione e allo sviluppo di disturbi comportamentali. 42 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 43. LA SINTOMATOLOGIA Il soggetto colpito da burnout manifesta: - Sintomi aspecifici: stanchezza ed esaurimento, apatia, nervosismo, irrequietezza, insonnia. - Sintomi somatici: insorgenza di patologie varie (ulcera, cefalea, disturbi cardiovascolari, difficoltà sessuali ecc.) 43 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 44. LA SINTOMATOLOGIA - Sintomi psicologici: rabbia, risentimento, irritabilità, aggressività, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, negativismo, indifferenza, depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento, isolamento, sensazione di immobilismo, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, cinismo, atteggiamento colpevolizzante nei confronti degli utenti e critico nei confronti dei colleghi. 44 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 45. LA SINTOMATOLOGIA Tale situazione di disagio molto spesso porta il soggetto ad abuso di alcool, di psicofarmaci o fumo. Per evitare che la sindrome del burnout, deteriori sia la vita lavorativa, sia la vita privata della persona, bisogna intervenire con efficacia. 45 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 46. COSA FARE PRATICAMENTE Riconoscere la sindrome del burnout non è così facile, spesso si tende a ricondurre il tutto come un problema dell’individuo e non del contesto lavorativo nel suo insieme. 46 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 47. COSA FARE PRATICAMENTE Le organizzazioni quasi sempre ignorano questo problema e questo rappresenta un errore molto pericoloso, in quanto il burnout può incidere pesantemente sull’economia dell’intera organizzazione. La risoluzione del fenomeno burnout dovrebbe essere affrontata sia a livello organizzativo che a livello individuale, l’organizzazione che si assume la responsabilità di affrontare il burnout, lo può gestire in modo da garantirsi il proprio personale produttivo nel tempo. 47 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 48. COSA FARE PRATICAMENTE Un’organizzazione che agisce a sostegno dell’impegno nel lavoro è un’organizzazione forte. L’aiuto maggiormente efficace per la singola persona è sicuramente un intervento da parte di un professionista competente in materia che possa fornire strumenti cognitivi, favorire una maggiore comprensione/consapevolezza del problema, aiutare a comprendere le relazioni esistenti tra il comportamento personale, il proprio vissuto ed il contesto di vita e lavorativo, modificare il proprio comportamento e i propri atteggiamenti in coerenza con quanto acquisito. 48 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 49. COSA FARE PRATICAMENTE Ma tali interventi sul singolo non sono semplici: il singolo può avere difficoltà a rivolgersi ad uno psicologo per farsi aiutare, ciò a causa sia di pregiudizi verso la categoria di professionisti che si occupa di tali problematiche, sia perché spesso non è in grado di chiedere aiuto e/o si imbatte in altre categorie di professionisti non competenti in tali materie. 49 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 50. POSSIBILI SOLUZIONI PER LA GESTIONE DELLO STRESS E DEL BURNOUT 50 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 51. Il passo più importante è riconoscere le prime avvisaglie del burn out, in modo da intervenire prima che compaiano i sintomi fisici e prima che il malessere si ripercuota sulla vita familiare e sessuale. Studi recenti hanno individuato alcune strategie di cura individuali ed organizzative. 51 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 52. STRATEGIE INDIVIDUALI Quelle individuali comprendono le tecniche di rilassamento e la psicoterapia. È utile ricordare che la vita è anche altrove, fuori dall’ambiente lavorativo; a questo scopo è importante praticare e coltivare hobby. 52 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 53. STRATEGIE INDIVIDUALI Il modo migliore per prevenire il burnout è sicuramente puntare sulla promozione dell'impegno nel lavoro. Ciò non consiste semplicemente nel ridurre gli aspetti negativi presenti sul posto di lavoro, ma anche nel tentare di aumentare quelli positivi. 53 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 54. STRATEGIE INDIVIDUALI Le strategie per aumentare l'impegno sono quelle che accrescono l'energia, il coinvolgimento e l'efficacia, sostenendo i lavoratori, permettendo loro di affermarsi tra i loro colleghi, lasciando loro dell'autonomia nelle decisioni da prendere ed offrendo loro un'organizzazione del lavoro chiara e coerente, ecc. 54 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 55. STRATEGIE ORGANIZZATIVE Agire sulle strutture di un sistema per eliminarne le caratteristiche patogene o che comportano peggioramento nella qualità del lavoro e della vita. Individuare fattori stressanti nell’organizzazione del lavoro e quindi risolverli, infatti, come afferma Spaltro, il costo del lavoro diminuisce e la produttività aumenta se si cambiano gli stili di gestione del potere, i modi di incentivare, il clima nell’ambiente di lavoro. 55 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 56. Un ambiente lavorativo gratificante dal punto di vista umano allontana il burnout così come la condivisione con i colleghi del senso di angoscia e frustrazione. È importante che ai fini dell’organizzazione del lavoro si eviti di caricare la singola persona, così come di creare conflitti di ruolo. 56 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 57. COME SI MISURA IL BURNOUT Per misurare il burnout ci sono diverse scale ma è da ricordare la scala di Maslach (Maslach Burnout Inventory, MBI), (Maslach, Jackson, 1981): un questionario di 22 items, ossia domande, atte a stabilire se nell'individuo sono attive dinamiche psicofisiche che rientrano nel burnout. A ogni domanda il soggetto interessato deve rispondere inserendo un valore da 0 a 6 per indicare intensità e frequenza con cui si verificano le sensazioni descritte nella domanda stessa. 57 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 58. COME SI MISURA IL BURNOUT Health Professions Stress and Coping Scale (HPSCS), un nuovo questionario self-report appositamente elaborato per la valutazione dello stress percepito e l'utilizzo del coping in ambito sanitario. L'HPSCS propone una serie di situazioni lavorative potenzialmente stressanti nel contesto sanitario, rispetto alle quali misura sia il livello di stress percepito associato a ciascuna situazione, sia i meccanismi di coping abitualmente utilizzati per fronteggiarla. 58 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 59. BURNOUT COME MALATTIA PROFESSIONALE In considerazione del continuo aumento dei casi denunciati di burnout, ci si può solo augurare che l'INAIL riconosca, in modo specifico e al più presto, tale sindrome come malattia professionale, inserendone formalmente la causa tra i disturbi psichici da costrittività lavorativa, cosi come ha fatto (circolare n. 71 del 17 dicembre 2003) nei confronti del mobbing. Sino ad allora si continuerà a considerare la sindrome del burnout come una comune malattia. 59 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 60. BURNOUT COME MALATTIA PROFESSIONALE Il decreto del Ministro del lavoro e le politiche sociali del 27 aprile 2004, ha aggiornato l'elenco delle patologie per le quali il medico ha l'obbligo di denuncia all'INAIL, ha inserito tra i nuovi agenti patogeni anche le "disfunzioni dell'organizzazione del lavoro e le malattie connesse" 60 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 61. PROGRAMMI DI INTERVENTO Nicola Armenise - Psicologo del lavoro 61
  • 62. Santinello e Furlotti [1992] elencano quattro tipologie di programmi di intervento per la prevenzione e la gestione delle cause di stress che risultano efficaci se si orientano nell’ottica di un processo continuo: 1) LAVORARE PER OBIETTIVI E PIANI: l’organizzazione ha il compito di definire obiettivi il più possibile quantificabili e verificabili e che siano raggiungibili nel medio lungo periodo. 62 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 63. Questo può essere utile all’individuo per ricevere dei feedback sul come sta svolgendo il suo lavoro, per ridurre incertezze e ambiguità, e per aumentare la soddisfazione personale. 2) PARTECIPARE ALLE DECISIONI: come le ricerche hanno più volte dimostrato, i soggetti che partecipano alle decisioni aziendali hanno una motivazione al lavoro più elevata di quelli che non vi partecipano, di conseguenza questo fattore apporta degli effetti positivi sulla salute psico fisica del lavoratore migliorando a sua volta il flusso di comunicazioni. 63 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 64. 3) LA STRUTTURA DEI COMPITI E DELLE MANSIONI: l’organizzazione deve consentire a ciascun individuo che ricopre un determinato ruolo al suo interno, di svolgere la propria mansione con dei margini di autonomia professionale e possibilmente variare i compiti assegnati a ciascun lavoratore, facendogli capire l’utilità che il suo contributo apporta all’organizzazione. 64 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 65. 4) SISTEMA DI MONITORAGGIO PERIODICO: Questo è un sistema che deve coinvolgere tutti i livelli gerarchici dell’organizzazione lavorativa. “È un sistema di valutazione periodica standardizzato, volto a cogliere non solo i livelli distress e la percezione delle cause, ma anche il clima psicologico presente” in modo che si possa avere una panoramica degli aspetti organizzativi negativi e per avanzare delle proposte di miglioramento. 65 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 66. I risultati devono essere discussi con tutti a piccoli gruppi e incontri stabiliti. Se i lavoratori si accorgono dell’interesse che la direzione ha nei confronti delle loro attività e dei loro problemi con l’organizzazione, attuando misure preventive o di risoluzione dei problemi presenti, allora sarà probabile riscontrare un impatto positivo della percezione del lavoro da parte dei dipendenti. 66 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 67. IL RUOLO DELLA FORMAZIONE NELLA PREVENZIONE DEL BURNOUT E GESTIONE DELLO STRESS 67 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 68. FORMAZIONE E INFORMAZIONE La formazione ha un ruolo molto importante ed essenziale per la prevenzione del burnout. È importante per diffondere la sua conoscenza, infatti, nella nostra cultura il concetto di burnout è assolutamente poco o per niente conosciuto dai singoli ma anche nelle organizzazioni. 68 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 69. Spesso le persone come anche le organizzazioni ignorano l’incisività di questa patologia sulla vita sia lavorativa che privata. I corsi di formazione diretti ai singoli e ai gruppi di persone dovrebbero essere quindi orientati a trasmettere informazioni sullo stress, il burnout e su stili di vita salutari, dando strumenti utili alla loro gestione, come le tecniche di rilassamento, di respirazione, metodi e strumenti per il controllo delle emozioni, per la gestione efficace del tempo ecc. 69 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 70. “L’obiettivo è fare in modo che le persone possano aumentare la consapevolezza di se e delle proprie emozioni, migliorando la capacità individuale di far fronte allo stress da lavoro. “ (Borgogni e Consiglio 2005) 70 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 71. “Soprattutto nelle professioni di aiuto, è necessario formare le persone non solo da un punto di vista tecnico-metodologico, ma anche alla conoscenza di sé, che non sempre è scontata. Aiutare quindi le persone a gestire i rapporti interpersonali, capire i propri limiti, e in questo caso nei confronti dell’utenza disagiata “. (Del Rio 1990) 71 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 72. “In questo tipo di professioni sembrerebbe utile attuare una sorta di detached concern, cioè un “interessamento distaccato”: lavorano efficacemente senza lasciarsi sopraffare dalle proprie emozioni”. (Del Rio1990, p. 135). 72 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 73. Potrebbe essere molto difficile attuare un tale atteggiamento ma Del Rio ricorda che non è una posizione fissa da occupare, ma è un modo di relazionarsi non stabile, che oscilla tra il coinvolgimento e il distacco per comprendere si l’altro, ma evitando di esserne “risucchiati”. 73 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 74. La formazione oltre ad aiutare le persone a gestire i rapporti con gli utenti, dovrebbe anche essere orientata a creare un efficace sostegno tra il gruppo composto dai colleghi, considerati come si è visto, importante risorsa per la prevenzione e gestione del burnout. Nello specifico è importante che la formazione per gli operatori sanitari sia permanente e continua. 74 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 75. ALCUNI LIMITI Nel merito della formazione, emergono anche dei problemi, infatti le ricerche ci dicono che l’efficacia formativa di questi corsi è incoraggiante per quanto riguarda i risultati nel breve periodo. Ma la formazione dovrebbe essere in grado di produrre cambiamenti o far acquisire strumenti a lunga scadenza, da utilizzare cioè anche a distanza dalla conclusione di un eventuale percorso formativo. 75 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 76. Questi training sulla gestione dello stress dovrebbero rendere i soggetti consapevoli della natura e dell’impatto che lo stress e il burnout potrebbe avere su di loro, fornendo quindi adeguate strategie per poter gestire tali fenomeni. 76 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 77. Santinello e Furlotti (1992) ci dicono che il cambiamento non è scontato. Affinché il training risulti efficace, non basta che ci sia un formatore che diriga il corso e i partecipanti che ascoltino quanto esso ha da dire, ma è invece necessario che i partecipanti siano attivi, responsabili e riflettano su se stessi. 77 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 78. Da parte dell’organizzazione invece è necessario che anche essa prima di organizzare questo tipo di intervento, rifletta su stessa per capire quali siano veramente i problemi che affronta e le necessità dei suoi collaboratori. 78 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 79. Sia da una parte (organizzazione) che dall’altra (individuo), ci deve essere la consapevolezza della necessità di cambiare, dopo di che sarà possibile procedere con l’individuazione delle motivazioni che spingono ad attuare un intervento. 79 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 80. IN CONCLUSIONE È quindi importante che la direzione e i dipendenti si impegnino reciprocamente per trovare insieme delle soluzioni che migliorino il contesto di lavoro, agendo direttamente sulle discrepanze che potrebbero causare il burnout, e allo stesso tempo agendo sull’individuo per indurlo a trovare delle strategie personalizzate di gestione dei propri vissuti prevenendo l’eccessivo stress e il burnout 80 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 81. IL MOBBING: definizioni e caratteristiche del fenomeno 81 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 82. MOBBING Dall’inglese to mob = “attaccare”, “accerchiare” Termine coniato per indicare un meccanismo di difesa collettivo che si attua nel mondo animale e mediante il quale un branco mantiene la sua omogeneità espellendo “il non simile” attraverso comportamenti di isolamento e lesivi. (Konrad Lorenz) 82 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 83. Alla fine degli anni ’80, il primo a parlare di mobbing quale condizione di persecuzione psicologica nell’ambiente di lavoro fu lo psicologo tedesco Heinz Leymann che è considerato il fondatore di questa nuova direzione di ricerca della Psicologia del Lavoro. Leymann (1996) trovò un’analogia tra l’aggressività degli animali e quella manifestata da certi lavoratori nei confronti di altri, così utilizzò il termine mobbing per indicare il fenomeno da lui studiato. 83 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 84. In Italia si inizia a parlare di mobbing sul lavoro solo negli anni ‘90 grazie allo psicologo del lavoro Harald Ege. Con la parola mobbing si intende definire «una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori» (Ege, 1997, p. 31). 84 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 85. Lo scopo di tali comportamenti è sempre distruttivo e mira ad eliminare una persona divenuta in qualche modo ‘scomoda’, inducendola alle dimissioni volontarie o provocandone un motivato licenziamento. 85 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 86. QUANDO SI PARLA DI MOBBING Attualmente il fenomeno viene definito come una forma di pressione psicologica sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte dei colleghi o superiori, attuati in modo ripetitivo e protratti nel tempo per un periodo di almeno sei mesi. 86 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 87. QUANDO SI PARLA DI MOBBING In seguito a questi attacchi la vittima progressivamente precipita verso una condizione di estremo disagio che cronicizzandosi si ripercuote negativamente sul suo equilibrio psico-fisico. 87 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 88. QUANDO SI PARLA DI MOBBING Secondo Ege il conflitto deve durare da almeno sei mesi, salvo il caso del “quick mobbing” (almeno 3): Per potersi avere quick mobbing è però necessario che gli attacchi siano quotidiani e le azioni messe in opera rientrino in almeno 2 delle categorie previste dal “LIPT Ege”. 88 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 89. UNO STRUMENTO D’INDAGINE: LIPT Come strumento di indagine per lo studio del mobbing possiamo citare il questionario LIPT (Leymann Inventory of Psychological Terrorism), messo a punto da Leymann negli anni ’80. Nel questionario elaborato da Leymann e modificato da Ege vengono individuate 45 azioni ostili suddivise in 5 categorie mobbizzanti: 89 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 90. a) attacchi ai contatti umani e alla possibilità di comunicare; b) isolamento sistematico; c) cambiamenti delle mansioni lavorative; d) attacchi alla reputazione; e) violenza e minacce di violenza. 90 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 91. IL MOBBING SUL LAVORO: I DATI (1998) La “classifica” dei mobbizzati vede al primo posto l’Inghilterra (16,3%), seguita da: Svezia (10,2%), Francia (9,9%), Irlanda (9,4%) e Germania (7,3%). L’Italia con il 4% si trova al di sotto della media Europea 91 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 92. IL MOBBING SUL LAVORO: I DATI (2008) Secondo i dati dell’Ispesl (l'istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro), in Italia le vittime del mobbing sul lavoro sarebbero circa un milione e mezzo. Il fenomeno sarebbe più diffuso nel nord (65%) e le più colpite sarebbero le donne (52%). Nell’Unione Europea le vittime di mobbing sarebbero12 milioni, cioè l’8% degli occupati. 92 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 93. IL MOBBING SUL LAVORO: I DATI (2008) Le categorie più esposte risultano gli impiegati (79%) e i diplomati (52%). Per quanto riguarda la durata delle azioni mobbizzanti, il 40% dei casi ha durata da un anno a due anni; il 30% dei casi oltre due anni; il 27% dei casi da sei mesi a un anno. 93 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 94. IL MOBBING SUL LAVORO: I DATI (2008) Da recenti studi sullo sviluppo del fenomeno emerge con sorpresa che il mobbing colpisce non solo quadri e dirigenti, bensì anche addetti alle mansioni più semplici. Sarebbero loro le vittime preferite degli abusi psicologici in azienda. 94 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 95. MOBBING NON E’ UNA QUALSIASI FORMA DI CONFLITTO Non si può classificare come mobbing qualsiasi forma di conflitto nel posto di lavoro. Il mobbing ha radici più profonde, è caratterizzato da un’azione sistematica, premeditata consciamente o inconsciamente ai danni di una vittima ben precisa, con l’intento di danneggiarla o allontanarla. 95 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 96. ˝Quindi la condizione per parlare di mobbing è il requisito temporale: le violenze psicologiche devono essere regolari, sistematiche, frequenti e durare nel tempo – almeno sei mesi. ˝ (Ascenzi e Bergagio, 2000) 96 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 97. Sebbene nella maggior parte dei saggi sul tema del mobbing si faccia ancora oggi costante riferimento al fattore temporale, che del resto è inserito nella definizione del fenomeno data da Leymann, a poco a poco esso è andato perdendo consistenza, al punto da non essere più ritenuto un parametro oggettivamente valido, se non come punto di partenza degli studi sulla reiterazione delle azioni nel mobbing. 97 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 98. SCOPO DEL MOBBING: DANNEGGIARE QUALCUNO - Isolare la vittima sul posto di lavoro e/o allontanarla definitivamente o comunque impedirle l’esercizio di un ruolo attivo nel contesto lavorativo; - Danneggiare i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e/o la professionalità della vittima. 98 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 99. Il mobbing NON è un singolo evento/episodio ma un PROCESSO frequente e costante nel tempo, spesso si manifesta solo dopo una lunga incubazione. Le azioni di conflitto sono intenzionali, frequenti, ripetute, sistematiche, di lungo periodo. 99 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 100. DISTINZIONE TRA MOBBING E STRESS ˝Spesso non si distingue correttamente tra i due fenomeni, sebbene essi abbiano una natura ben diversa e specifica. Si può sicuramente affermare che tra lo stress e il mobbing esista un rapporto di causa-effetto. ˝ (Ege e Lancioni,1998). 100 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 101. DISTINZIONE TRA MOBBING E STRESS Il mobbing è certamente causa di stress; non è vero il contrario, nel senso che lo stress può presentarsi indipendentemente dal mobbing. 101 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 102. DISTINZIONE TRA MOBBING E STRESS Lo stress causato dal mobbing ha delle caratteristiche molto particolari in quanto crea un forte stato confusionale che disorienta la percezione degli attori, particolarmente della vittima (viene esagerata l’importanza del lavoro, viene ridotta la motivazione ad agire, aumenta l’incertezza per l’imprevedibilità del futuro). 102 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 103. SOGGETTI STRESSATI - MOBBER Tuttavia da molti studi si evince che le persone stressate sono considerati i soggetti più predisposti all’assunzione del ruolo di mobber, perché lo stress porta a sfogare la rabbia accumulata attraverso delle persecuzioni su un altro individuo. 103 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 104. GRUPPO STRESSATO - MOBBER Questa situazione si può presentare anche in una dimensione di gruppo. Quando il/la mobber (appunto, il gruppo) vuole sfogare, attraverso delle strategie persecutorie, la propria pressione da stress, dovuta, anche qui, a sovra o sotto attivazione nel lavoro. 104 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 105. GRUPPO STRESSATO – MOBBER Ad esempio: il gruppo o riceve troppi ordini, o si mettono in discussione le posizioni gerarchiche. Ciò determinerà inevitabilmente un calo di impegno sul lavoro e si darà avvio alla caccia al colpevole, che sarà colui/colei che continua a lavorare attivamente e che è continuamente occupato rispetto agli altri. La vittima diviene bersaglio delle azioni di mobbing. 105 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 106. VITTIMA STRESSATA Un altro oggetto della ricerca psicologica sul mobbing è la ‘vittima stressata’. Quando un lavoratore è molto stressato, può accadere che riversi la propria pressione sui colleghi o i capi attraverso nervosismi, ansie e stati di panico, che suscitano risposte di persecuzione con il tentativo di porre fine alla situazione. 106 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 107. VITTIMA STRESSATA In tal modo si attiva un circolo vizioso in cui il/la mobber realizzerà azioni che danneggiano la vittima procurandole stress ulteriore; quest’ultimo aumenterà il disagio generale che si continuerà ad esprimere attraverso stati d’ansia e nervosismi riversati sui colleghi. 107 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 108. VITTIMA STRESSATA A livello di gruppo il mobbing si verificherà nel momento in cui un lavoratore stressato disturbi o crei inquietudine nella stabilità del gruppo, causando una serie di azioni persecutorie. Il gruppo potrebbe non accettare un elemento che violi l’equilibrio interno e allora vorrà difendersi, attaccando l’individuo (minaccia) che si distacca, anche solo parzialmente, dalle regole condivise. In tale prospettiva ogni azione sembra giustificata dal fine (la stabilità e l’equilibrio del gruppo). 108 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 109. MOBBING COME GIOCO Il mobbing può essere attivato da un semplice gioco sadico dovuto a noia, invidia o gelosia nei confronti di un lavoratore verso cui si realizzano azioni persecutorie. Il/la mobber spesso si trova in una situazione di intoccabilità, ha poco lavoro da svolgere, gode della simpatia generale, ed impiega il suo tempo a sviluppare strategie persecutorie da cui trarrà un piacevole stato di euforia. 109 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 110. MOBBING COME GIOCO In una prospettiva di gruppo, la vittima prescelta si caratterizza per la sua diversità dagli altri (una donna in mezzo a uomini, uno straniero in mezzo a lavoratori locali). Tra i membri del gruppo si crea un accordo tacito sull’obiettivo comune; la situazione è grave per la vittima perché i membri del gruppo si possono sostenere a vicenda. 110 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 111. STRAINING Lo straining è definito come una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. Nicola Armenise - Psicologo del lavoro 111
  • 112. STRAINING Tecnicamente parlando, lo straining si colloca a metà strada tra il mobbing e lo stress occupazionale. Non è mobbing in quanto, manca la sistematicità e la frequenza delle azioni ostili; d'altra parte è qualcosa di più del semplice stress occupazionale, ossia allo stress dovuto al tipo o alle condizioni di lavoro. 112 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 113. STRAINING Le vittime di straining infatti sono oggetto di uno Stress che è forzato, cioè superiore a quello normalmente richiesto dalle loro mansioni lavorative e diretto nei loro confronti in maniera intenzionale e discriminante: in sostanza, solo a loro – siano essi una sola persona o un gruppo – viene riservato quel tipo di trattamento illecito e dannoso. 113 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 114. STRAINING In una situazione di straining, infatti, l'aggressore (strainer) sottomette la vittima facendola cadere in una condizione particolare di stress con effetti a lungo termine. Tale stress può derivare dall'isolamento fisico o relazionale, dalla privazione, dalla riduzione o dall'eccesso del carico lavorativo. 114 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 115. STRAINING - MOBBING la sentenza (Tribunale di Bergamo del 20 giugno 2005) «La differenza tra lo straining e il mobbing», ha chiarito il giudice estensore, è stata individuata nella mancanza di una frequenza idonea (almeno alcune volte al mese) di azioni ostili ostative: in tali situazioni le azioni ostili che la vittima ha effettivamente subito sono poche e troppo distanziate nel tempo, spesso addirittura limitate a una singola azione, come un demansionamento o un trasferimento disagevole». 115 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 116. STRAINING - MOBBING Pertanto, mentre il mobbing si caratterizza per una serie di condotte ostili, continue e frequenti nel tempo, per lo straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso di un demansionamento). 116 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 117. I PROTAGONISTI DEL MOBBING 117 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 118. Sulla scena del mobbing recitano TRE TIPOLOGIE DI ATTORI: i mobbers sono coloro che compiono le azioni vessatorie; le vittime o mobbizzati sono coloro che subiscono i comportamenti persecutori; gli spettatori sono coloro che non sono direttamente coinvolti nel comportamento vessatorio ma il cui comportamento può influire sullo sviluppo del mobbing. 118 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 119. Non è semplice definire con certezza e precisione le caratteristiche di un/una possibile MOBBER, anche perché tutto deve essere messo in relazione sia alle caratteristiche di personalità che all’ambiente di lavoro specifico. Harald Ege ha invece delineato i seguenti 14 profili di mobber che si riscontrano con maggiore frequenza: 119 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 120. 1. l’istigatore: è colui/colei che è sempre alla ricerca di nuove cattiverie e maldicenze volte a colpire gli altri; 2. il casuale: è colui/colei che diventa mobber per caso, quando trovandosi all’interno di un conflitto prende il sopravvento sull’altro; 3. il conformista: è un tipo di mobber spettatore, nel senso che è una persona che non prende direttamente parte al conflitto attaccando la vittima, però la sua non reazione equivale ad un’azione favorente il mobbing; 120 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 121. 4. il collerico: è la persona che non riesce a contenere la rabbia e far fronte ai suoi problemi e solo prendendosela con gli altri riesce a scaricare la forte tensione interna; 5. il megalomane: è colui/colei che ha una visione distorta di se stesso considerandosi sempre al di sopra, un senso di Io grandioso che lo autorizza a colpire gli altri ritenuti inferiori; 121 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 122. 6. il frustrato: è l’individuo insoddisfatto della sua vita che scarica il suo malessere sugli altri, alla stregua del collerico; 7. il sadico: è colui/colei che prova piacere nel distruggere l’altro e che non è disposto a lasciarsi scappare la vittima; questo individuo, identificato da altri come il perverso narcisista, rappresenta il modello più pericoloso in quanto è da considerarsi uno psicotico senza sintomi che rifiuta di prendere in considerazione i suoi conflitti interni e trova il suo equilibrio scaricando il dolore su di un altro; 122 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 123. 8. il criticone: è la persona perennemente insoddisfatta degli altri che crea un clima di insoddisfazione e di tensione; 9. il leccapiedi: è il classico carrierista, che si comporta da tiranno coi subalterni ed ossequioso coi superiori; 10. il pusillanime: è colui/colei che ha troppa paura per esporsi e si limita ad aiutare il/la mobber o, se agisce in prima persona, lo fa in maniera subdola, con cattiverie e sparlando della vittima; 123 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 124. 11. il tiranno: è simile al sadico, non sente ragione ed i suoi metodi seguono uno stile dittatoriale; 12. il terrorizzato: è colui/colei che teme la concorrenza e inizia a fare azioni di mobbing per difendersi; 13. l’invidioso: è colui/colei che è sempre orientato verso l’esterno e non può accettare l’idea che qualcun altro stia meglio di lui; 14. il carrierista: è la persona che cerca di farsi una posizione con tutti i mezzi possibili, anche non legali, non puntando invece sulle sue reali capacità. 124 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 125. Per quanto riguarda LA VITTIMA, non esiste una categoria più a rischio di altre. ˝Ogni lavoratore potrebbe essere vittima di mobbing. Generalizzando, comunque, sembra che le persone più a rischio siano quelle o troppo passive o troppo aggressive nelle relazioni interpersonali.˝ (Ascenzi e Bergagio, 2000, p. 48). 125 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 126. GLI SPETTATORI sono rappresentati da un numero molto alto di persone, costituito dai colleghi, dall’amministrazione del personale e da tutti coloro che rifiutano di assumersi qualsiasi responsabilità preferendo la strategia del ‘lavarsene le mani’. Gli spettatori spesso hanno paura di diventare vittima del mobber e così non reagiscono e a volte aiutano il/la mobber nelle sue vessazioni. 126 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 127. MOBBING ARTICOLATO IN FASI In quanto processo, il mobbing si può suddividere in fasi che i ricercatori hanno tentato di elencare in vari modelli, con lo scopo di facilitare il riconoscimento del fenomeno e valutarne più accuratamente le cause, così da permettere di trovare soluzioni adeguate. 127 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 128. MOBBING ARTICOLATO IN FASI Sulla base del modello di mobbing più famoso, ossia quello a quattro fasi di Leymann, Ege ha elaborato un modello particolare che si compone di sei fasi, legate logicamente tra loro e precedute da una sorta di pre-fase, detta Condizione Zero, che ancora non è mobbing, ma che ne costituisce l'indispensabile presupposto. 128 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 129. LE FASI DEL MOBBING Modello a sei fasi di Ege adattato alla realtà italiana CONDIZIONE ZERO Conflitto fisiologico e generalizzato, il tutti contro tutti. In questa fase non è ancora chiara la volontà di distruggere, ma è evidente una forte competitività e una lotta spietata alla sopravvivenza. 129 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 130. Iª FASE IL CONFLITTO MIRATO Viene individuata una vittima e la conflittualità ora si dirige verso di essa. Vengono messe in atto una serie di azioni distruttrici. 2ª FASE L’INIZIO DEL MOBBING Le azioni del mobber iniziano a generare ansia e disagio nella vittima, la quale comincia ad avvertire il mutamento del clima lavorativo. 130 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 131. 3ª FASE PRIMI SINTOMI PSICOSOMATICI La vittima accusa i primi problemi di salute che si manifestano come disturbi psicosomatici (problemi digestivi, disturbi del sonno, ansia generalizzata, disturbi mnesici e di concentrazione, labilità emotiva). 131 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 132. 4ª FASE ERRORI ED ABUSI DELL’AMMINISTRAZIONE DEL PERSONALE Il caso di mobbing è divenuto pubblico e viene altresì favorito dall’Amministrazione del personale che, insospettita dall’assenteismo per malattia della vittima, richiama la persona con contestazioni e interventi disciplinari. 132 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 133. 5ª FASE AGGRAVAMENTO DELLA SALUTE PSICOFISICA DELLA VITTIMA Il mobbizzato è in preda alla disperazione, compie errori sempre più frequenti convincendosi di essere una nullità e che tutto ciò che sta accadendo è colpa sua (auto-attribuzione di colpa). 133 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 134. 6ª FASE ESCLUSIONE DAL MONDO DEL LAVORO Epilogo della storia del mobbing, che vede l’uscita della vittima dal mondo del lavoro, o tramite licenziamento o ricorso al prepensionamento o anche mediante esiti traumatici come lo sviluppo di manie ossessive, suicidio nei casi estremi. 134 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 135. LE AZIONI MOBBIZZANTI Riconoscere le azioni mobbizzanti è di estrema importanza ma, allo stesso tempo, risulta molto difficile poiché bisognerebbe avere informazioni dettagliate dell’ambiente lavorativo, del livello culturale e professionale di chi compie tali azioni e di chi le subisce, dello scopo per cui sono state messe in atto, ecc. 135 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 136. LE AZIONI MOBBIZZANTI ˝Le azioni di violenza psicologica sul posto di lavoro possono essere: • palesi e violente: se sono effettuate attraverso aggressioni verbali e fisiche, urla, commenti inopportuni alla sfera sessuale e privata; • sottili e silenziose: se la vittima viene isolata ed esclusa dal gruppo; • disciplinari: attraverso lettere di richiamo ingiustificato; 136 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 137. LE AZIONI MOBBIZZANTI • logistiche: se la vittima viene trasferita in sedi periferiche, scomode e lontane dagli affetti; • mansionali: se si affidano alla vittima compiti al di sotto delle sue competenze; • paradossali: quando si affidano compiti superiori alle sue capacità con la speranza che la vittima sbagli. (Menelao et al., 2001) 137 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 138. ALCUNE CONDOTTE DI MOBBING - Demansionamento in modo formale o solo di fatto; - Addebito di contestazioni infondate con sanzioni disciplinari pretestuose; - Lesione dell’immagine e/o della reputazione presso colleghi e superiori; - Discriminazioni riguardanti la carriera, le ferie, l’aggiornamento, il carico e la qualità del lavoro; - Assegnazione di obblighi dequalificanti o umilianti; 138 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 139. - Imposizione di turni gravosi; - Abuso di controlli medico fiscali in caso di malattia; - Utilizzo in modo esasperato ed esasperante del potere di controllo e dell’azione disciplinare; - Molestie o violenze sessuali; - Provocazioni al fine di indurre il soggetto a reazioni incontrollate; - Negazione dei diritti contrattuali; 139 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 140. - Critiche comuni non corrispondenti alla realtà e rifiuto di specificarne i motivi; - Accuse di scarsi risultati non corrispondenti a realtà; - Comportamenti per emarginare, escludere, isolare, o delegittimare; - Comportamenti intenzionali e ripetuti per sminuire, ignorare o ridicolizzare idee, opinioni, rendimento ed anche la competenza professionale; 140 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 141. - Conferimento di maggiori responsabilità senza informare la vittima e con contemporanea diminuzione di autorità; - Minacce disciplinari per eventi insignificanti; - Umiliazioni di fronte ad altri (inflitte con tono arrogante); - Distorsione/accentuazione di fatti; 141 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 142. - Continue focalizzazioni su fatti irrilevanti; - Rifiuto di chiarire funzioni o descrizione di compiti; - Cambiamento di compiti di lavoro senza informare la vittima; - Ripetizione di compiti assegnati senza necessità; - Negazione alla vittima di informazioni e permessi necessari per svolgere il proprio lavoro; - Negazione di sostegno in caso di necessità o negazione di risorse; - Periodi di silenzio per settimane; 142 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 143. - Evitare colloqui diretti e comunicare con e- mail, tramite terzi o tramite i servizi; - Imposizione di scadenze non realistiche o/e cambio improvviso poco prima del termine; - Assegnazione di obiettivi impossibili per condizioni di salute, per onerosità, o per incompatibilità con qualifica; - Ingiustificate richieste di ripetere un lavoro già fatto; - Rifiutare di assegnare un lavoro lamentandosi poi di non farcela; 143 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 144. - Comportamenti per sabotare interferire o impedire il lavoro; - Accettazione di commenti negativi riportati da terzi; - Riunioni tenute come interrogatori; - Rifiuto di verbalizzare riunioni; - Declassamento reale o di fatto di compiti e funzioni e favoritismi nella concessione di ferie e permessi; - Commenti malevoli, insulti, frecciate e comportamento aggressivo con carenza di self control; - Creazione di clima di caccia alle streghe; 144 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 145. - Accuse di cattiva condotta; - Uso di minacce velate, intimidazioni, denunce o ricorso continuo alle autorità - Uso di linguaggio vernacolare, osceno, offensivo; - Colpevolizzazione ripetuta; - Sparlare, fare pettegolezzi sulla vittima o incoraggiare a spiare, origliare, riferire; - Uso regolare di sarcasmo senza consenso; - Atteggiamenti di duplicità; - Frequenti mutamenti di opinione senza preavviso; 145 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 146. - Strumentalizzazione di terzi innocenti; - Prendere crediti in caso di successo e scaricare le colpe su altri in caso d'insuccesso; - Invio di lettere ambigue o maliziose ad amici e partners; - Trasferimenti imposti in sedi lontane e disagiate senza apparenti giustificazioni o necessità; - Telefonate controllate o intercettazione della posta. 146 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 147. In conclusione, fare un lista completa ed esaustiva di tutte le strategie e le azioni mobbizzanti risulta arduo se non impossibile; comunque sono indicativi tutti quei comportamenti che colpiscono l’individuo nella sua dignità personale, morale e professionale, oltre che quelli che minano il suo equilibrio psichico per indurlo in errore e renderlo inerme. 147 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 148. DIFFERENZE DI GENERE Un dato particolarmente interessante è quello che mostra la differenza di comportamento tra i due sessi nella reazione ad una situazione conflittuale. 148 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 149. DIFFERENZE DI GENERE La donna in situazioni critiche tende a parlare più in fretta e a fare più gesti e movimenti: si comporta quindi più nervosamente e tende a essere più attiva sul lavoro. L’uomo, al contrario della donna, diminuisce notevolmente la sua attività gestuale e verbale: invece di dimostrare maggiore efficienza, tende a limitarsi sia nei rapporti interpersonali, sia nello svolgimento del suo lavoro. 149 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 150. DIFFERENZE DI GENERE Queste differenze sono significative e rappresentano una testimonianza di due modi di essere e di percepire la realtà; tuttavia, ai fini del mobbing, va sottolineato che nessuna delle due reazioni ottiene un risultato. In entrambi i casi, infatti, la reazione stessa dà al/alla mobber motivo per continuare la sua azione persecutoria. 150 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 151. DIFFERENZE DI GENERE Anche nel modo di fare mobbing si verificano differenze tra i sessi a causa della diversa educazione tra uomo e donna e del diverso sviluppo della persona. Anche Leymann ha trovato delle differenze significative ed in particolare: Il mobber uomo preferisce azioni passive, cioè azioni che non puntano sulla cattiveria aperta ma su quella nascosta, come ignorare qualcuno, o dargli sempre nuovi lavori o metterlo sotto pressione. La mobber donna invece in genere preferisce il mobbing attivo, prendere in giro qualcuno davanti ad altri o fare girare voci su di lui/lei. 151 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 152. DIFFERENZE DI GENERE I mobber preferiscono attaccare una vittima del loro stesso sesso: 2 mobber uomini su 3 se la prendono con una vittima uomo, mentre ben 13 mobber donne su14 mobbizzano una donna. Gli uomini inoltre sono tendenzialmente più mobber delle donne e non disdegnano vittime donne. (Harald Ege) 152 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 153. DIFFERENZE DI GENERE In questi casi è ragionevole pensare che entri in gioco il fattore delle molestie sessuali, che possono configurarsi spesso come mobbing a sfondo sessuale. Le donne invece tendono a mobbizzare quasi esclusivamente altre donne. Ciò potrebbe essere correlato al fatto che statisticamente ci sono più uomini nei ruoli responsabili, e quindi più difficili da mobbizzare, ma anche al fatto che nei confronti di un’altra donna possono subentrare più facilmente invidie e gelosie. 153 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 154. IL MOBBING SESSUALE Prima di parlare di ‘mobbing sessuale’, è utile fare una piccola premessa sulle molestie sessuali. Le molestie sessuali sono una serie di comportamenti di avvicinamento a scopo sessuale portate avanti da una persona verso un’altra che evidentemente non desidera e rifiuta questo tipo di contatto. Le molestie non sono solo atti, ma comprendono la sfera ben più ampia del linguaggio: parole, battute, apprezzamenti, allusioni pesanti […] oppure proposte, più o meno dirette, spesso accompagnate da minacce di ritorsione in caso di risposta negativa (Ege, 1997, p. 84). 154 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 155. IL MOBBING SESSUALE Le molestie sessuali non corrispondono tout court al mobbing, principalmente per il fatto che lo scopo del/della mobber è quello di eliminare o allontanare la vittima. Il molestatore sessuale, invece, non ha alcuna intenzione di allontanare la vittima, ma vuole tenere il più possibile vicino a se l’oggetto dei suoi desideri. 155 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 156. IL MOBBING SESSUALE Nel momento in cui il molestatore subirà continui e ripetuti rifiuti il legame tra molestia sessuale e mobbing si può fare sottilissimo, trasformando il molestatore in vero e proprio mobber. Il mobbing, quindi diventa la ritorsione, la vendetta del molestatore respinto; se la vittima cede alle molestie, infatti, non verrà mai mobbizzata. 156 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 157. IL MOBBING SESSUALE In questo caso è la vittima che desidera scappare, chiedendo trasferimenti o giorni di malattia e il persecutore farà di tutto per ostacolare la ‘fuga’, obbligandola a lavorare quotidianamente insieme a lui, in modo che «potrà importunarla sistematicamente fin quando non si arrenderà alle sue pesanti ed ossessive lusinghe» (Hirigoyen, 2000). 157 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 158. TIPOLOGIE DI VESSAZIONI Verso un collega (orizzontale). Questa forma viene esercitata da uno o più colleghi nei confronti di un soggetto. Le azioni più frequentemente attuate sono di natura socio - comunicativa, volte all’isolamento della persona vessata dal gruppo e al blocco delle informazioni (Einarsen et al., 1997 in Maier, 2003); 158 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 159. IL MOBBING ORIZZONTALE MOTIVAZIONI - Le difficoltà del mercato del lavoro; - L’alto tasso di disoccupazione; - Gli esiti lavorativi incerti dei contratti atipici; - La mancanza di trasparenza nello sviluppo di carriera; … favoriscono una forte competizione in grado di attivare alti livelli di aggressività e destrutturare i rapporti interpersonali. 159 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 160. TIPOLOGIE DI VESSAZIONI Verso un sottoposto (verticale). Con questo termine, si intendono quelle vessazioni esercitate da una persona (anche assieme a dei collaboratori) che ha una posizione gerarchica superiore rispetto alla vittima. Un tipico esempio di mobbing verticale è l’abuso di potere (Giannini, Di Fabio e Gepponi, 2004). 160 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 161. TIPOLOGIE DI VESSAZIONI Mobbing dall’alto viene anche definito Bossing: Il mobber è l'azienda stessa e la strategia persecutoria assume i contorni di una vera e propria strategia aziendale di riduzione, ringiovanimento o razionalizzazione del personale, oppure di semplice eliminazione di una persona indesiderata. 161 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 162. TIPOLOGIE DI VESSAZIONI Mobbing dal basso. Questa forma di mobbing, a differenza di quella verticale, vede il subordinato o comunque chi detiene un potere minore (singolo o gruppo di persone) mettere in atto una serie di vessazioni ai danni di un superiore. 162 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 163. Tipologie di vessazioni mobbing dal basso: nelle situazioni di mobbing dal basso sono solitamente più di uno, a volte anche tutti gli operai o i colleghi di un certo reparto, coloro che attuano una vera e propria ribellione contro il capo che non accettano. 163 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 164. Tipologie di vessazioni mobbing dal basso: La vittima si trova quanto mai in una condizione di isolamento totale e devastante; inoltre essendo il numero dei suoi detrattori piuttosto alto, anche il suo tentativo di discolpa risulta arduo; l’ufficio del personale finirà col dare credito alla maggioranza delle voci. 164 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 165. Tipologie di vessazioni mobbing dal basso: I casi di mobbing dal basso sono comunque abbastanza rari; nell’area tedesca si stima che ricoprano una percentuale del 10% del totale di tutti i casi di mobbing, in Italia la percentuale è addirittura minore: infatti, se l’antipatia verso il capo è un fenomeno molto diffuso, non altrettanto si può dire dell’aperta manifestazione di questo sentimento. 165 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 166. DOPPIO MOBBING Il mobbizzato si sfoga sulla famiglia che subisce anch'essa le persecuzioni, gli attacchi e le umiliazioni fino al punto che inizia a difendersi dalla forza devastante del mobbing. 166 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 167. DOPPIO MOBBING La famiglia, da generosa e protettrice – cambia atteggiamento, si chiude in se stessa, passa sulla difensiva e nega alla vittima ulteriore aiuto e comprensione aggravandone ulteriormente la situazione psicopatologica. 167 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 168. Un’altra forma di mobbing, molto pericolosa e di recente diffusione, è quella che usa i contratti precari come strumento per ricattare ed umiliare il lavoratore. Si tratta di un mobbing che tende a colpire prevalentemente le donne che, spesso, non vengono fatte oggetto del rinnovo del contratto, come invece accade ai colleghi maschi, per espellerle dal ciclo produttivo in caso di maternità o in caso di rifiuto di ricatti di vario genere, spesso di tipo sessuale. 168 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 169. Questo tipo di mobbing si può vincere dimostrando di aver subito una discriminazione di genere che viola le norme sulle Pari Opportunità o di aver subito molestie sessuali. 169 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 170. MOBBING DALL’ALTO BOSSING O MOBBING STRATEGICO MOBBING DAL BASSO O DOWN - UP DOPPIO MOBBING MOBBING TRA PARI O ORIZZONTALE 170 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 171. LE CAUSE DEL FENOMENO Esistono molte teorie che sino ad ora hanno cercato di far luce sul fenomeno del mobbing e di spiegare le principali motivazioni per cui esso si verifica; questi modelli, non riescono a delineare un’unica situazione a rischio. 171 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 172. LE CAUSE DEL FENOMENO Non esiste un ambiente tipo o una caratteristica di personalità che da sola basti per scatenare il mobbing, perché è dalla relazione tra le molteplici variabili in gioco che esso si sviluppa. Leymann vede nel conflitto il presupposto essenziale alla nascita del mobbing ed individua 6 campi nei quali si può sviluppare il conflitto e di conseguenza il mobbing: 172 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 173. LE CAUSE DEL FENOMENO 1. L’organizzazione del lavoro: una carente organizzazione e distribuzione del lavoro è causa di stress e di tensioni che vengono scaricate su un colpevole. 2. Le mansioni lavorative: se un lavoratore svolge mansioni ripetitive, monotone e sottoqualificate è più probabile il ricorso al mobbing per sfuggire alla monotonia. 173 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 174. LE CAUSE DEL FENOMENO 3. La direzione del lavoro: una direzione aziendale carente, che non tiene conto delle esigenze dei lavoratori è più facile che favorisca la nascita del mobbing all’interno della sua organizzazione: bisogna fare molta attenzione al lavoro a turni che isolano le persone in quanto un ambiente con una carente socializzazione è più a rischio di mobbing. 174 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 175. LE CAUSE DEL FENOMENO 4. La dinamica sociale del gruppo di lavoro: riguarda le relazioni intercorrenti tra i membri del gruppo di lavoro che possono essere più o meno tranquille a seconda del carico di lavoro che grava sul gruppo. 175 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 176. LE CAUSE DEL FENOMENO 5. Le teorie sulla personalità: a questo riguardo Leymann sostiene che il mobbing è indipendente dal carattere delle persone, non dando alcun credito alle teorie che vogliono identificare dei gruppi maggiormente a rischio, in quanto sostiene che dipende sempre dalle circostanze e dall’ambiente. 176 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 177. LE CAUSE DEL FENOMENO 6. La funzione nascosta della psicologia nella società: Leymann muove una critica contro tutti coloro che identificano le vittime come delle persone con ‘problemi psicologici’ ritenendo estremamente pericoloso soffermarsi solo su di esse e trascurando invece l’aspetto peculiare del sistema entro cui avviene il mobbing. 177 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 178. LE CAUSE DEL FENOMENO In questa lista sulle cause del conflitto sul luogo di lavoro si nota come Leymann identifichi delle cause esterne ed interne, in particolare modo pone l’accenno su un ambiente malato o conflittuale e sulle comunicazioni disturbate che avvengono tra i lavoratori. 178 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 179. GRUPPO MAGGIORMENTE A RISCHIO Ege, in una ricerca effettuata tra il 1999 e il 2000, si propose di verificare se esistesse o meno un gruppo maggiormente a rischio di mobbing in base a fattori temporali, così studiò un campione di lavoratori provenienti da tutta Italia utilizzando 5 parametri (4 temporali) mai utilizzati in precedenza (Ege, 2001): 179 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 180. 1. l’età delle vittime, cercando di capire se esisteva una fascia di età più a rischio delle altre; 2. la durata del mobbing, utile per la determinazione del danno da mobbing; 3. la data di assunzione della vittima, per capire se il mobbing ha più a che fare con i neoassunti o con gli impiegati anziani; 4. il periodo di tempo intercorrente tra l’assunzione della vittima in quel posto di lavoro e l’inizio del mobbing; 5. il sesso della vittima, unico parametro non temporale. 180 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 181. RISULTATI: Gli uomini compresi tra i 30 e i 40 anni e le donne comprese tra i 40 e i 50 anni risultavano maggiormente esposti. Gli uomini soffrivano per più tempo il mobbing delle donne, probabilmente per paura di perdere il posto di lavoro e per una minore propensione a riconoscere sintomi e segnali di malessere. Anche se le donne sembravano più esposte al mobbing (57%) è errato supporre che gli uomini siano meno a rischio. 181 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 182. RISULTATI: Risultano più esposti a vessazioni lavorative i lavoratori più anziani perché meno propensi al cambiamento, mentre i neoassunti sono più disposti a lasciare un posto di lavoro altamente conflittuale. Se il mobbing non emerge immediatamente dopo l’assunzione, non si verificherà per almeno due anni, in quanto in questo lasso di tempo i colleghi metteranno alla prova il nuovo arrivato per saggiarne le capacità. 182 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 183. EFFETTI DEL MOBBING 183 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 184. ll mobbing provoca molti danni, non solo alla vittima, ma anche all’organizzazione e, in misura minore, al mobber stesso. La vittima presenta il maggior numero di problematiche, di tipo psichico, sociale, medico ed anche economico: queste ultime solitamente vengono trascurate, ma comprendono le spese sostenute per la psicoterapia, per i corsi di rilassamento, per le medicine, per le cure di riabilitazione, nonché per la riduzione dello stipendio (Ege, 1997). 184 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 185. DISTURBI A LIVELLO FISICO E PSICOSOMATICO Sul piano fisico, è tutto l’organismo ad essere coinvolto. Il benessere della vittima si riduce notevolmente anche a causa delle preoccupazioni (o addirittura terrore) di incontrare il/la mobber, generando stati d’ansia e di panico costanti fuori dal controllo personale, che fanno si che la persona si concentri esclusivamente sulle problematiche lavorative. 185 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 186. DISTURBI A LIVELLO FISICO E PSICOSOMATICO La vittima perde la capacità di concentrazione, accusa mal di testa, giramenti di capo, riduzione della capacità mnemonica. Lo stato di depressione che ne deriva porta la vittima a manifestare quasi delle manie di persecuzione. Un grave problema che spesso ostacola la lotta al mobbing è che spesso la vittima non riesce a collegare tutti questi sintomi con le violenze psicologiche subite nell’ambiente lavorativo. 186 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 187. DISTURBI A LIVELLO FISICO E PSICOSOMATICO Non bisogna dimenticare che spesso la vittima ricorre a sostanze esterne come alcool, droghe, fumo, caffè, nella speranza di ridurre la sensazione di malessere diffuso. Ma il risultato è un semplice stato di benessere momentaneo che non risolve il problema, ma lo amplifica. 187 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 188. DISTURBI A LIVELLO FISICO E PSICOSOMATICO Sul piano emotivo si può parlare di crisi esistenziale (si perde il ruolo di lavoratore e ciò provoca calo dell’autostima e senso di colpa), crisi relazionale familiare e delle relazioni personali con amici e parenti (separazioni, divorzi, allontanamento degli amici ), crisi economica (dovuta alla perdita del reddito). (Ascenzi e Bergagio, 2000). 188 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 189. DISTURBI A LIVELLO FISICO E PSICOSOMATICO Alcune ricerche hanno ipotizzato che i figli dei mobbizzati possano avere dei comportamenti di imitazione del genitore e di conseguenza accusare problemi di somatizzazione (neurodermiti, anoressia, ecc.). 189 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 190. DISTURBI A LIVELLO FISICO E PSICOSOMATICO Nei casi più gravi la vittima, non trovando altra via d’uscita ai suoi problemi, medita il suicidio o, all’opposto, l’omicidio. La sovraesposizione di una persona al mobbing può portare la vittima a commettere reati per collera, per infrazioni, per reazioni violente o per aggressività o eccessi di difesa. Negli Stati Uniti circa 1.000 omicidi ogni anno avvengono nel posto di lavoro (Ascenzi e Bergagio, 2000). 190 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 191. LE CONSEGUENZE PER L’AZIENDA Gli effetti del mobbing non producono danni solo ai lavoratori che le subiscono, ma hanno ricadute in termini di costi anche per le aziende. Il mobbing provoca una inutile dispersione di risorse. I danni creati dal mobbing sono concreti e oggettivi, e più i metodi utilizzati sono subdoli, più aumentano i danni, poiché richiedono dispendio di tempo e risorse (Monateri et al., 2000). 191 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 192. LE CONSEGUENZE PER L’AZIENDA In una situazione di mobbing, il gruppo di lavoro accusa una riduzione della capacità produttiva e dell’efficienza, le critiche verso il datore di lavoro si fanno più marcate e il tasso di assenteismo per malattia cresce. Il gruppo va alla continua ricerca di capri espiatori e aumenta la tendenza ad ingigantire i piccoli problemi. 192 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 193. LE CONSEGUENZE PER L’AZIENDA Le spese per l’azienda aumentano a causa dei sabotaggi messi in atto dal/dalla mobber, i quali provocano la perdita di grandi investimenti e di anni di ricerca. Un ulteriore aumento dei costi deriva dalla necessità di sostituire il lavoratore mobbizzato durante la sua assenza per malattia o incaricare qualcuno di portare a termine il lavoro incompiuto o errato della vittima. 193 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 194. LE CONSEGUENZE PER L’AZIENDA Se il mobbing è lasciato agire indisturbato, esso può giungere alla sua ultima fase, che vede la vittima costretta ad uscire dal mondo del lavoro, causando ancora gravi costi alla ditta, che deve trovare nuovo personale e predisporre una nuova formazione. 194 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 195. COSTI UMANI Per quanto riguarda i costi umani si verifica un netto calo del rendimento e di impegno sia del mobbizzato che del/della mobber, una perdita di personale specialistico, il crollo del clima sociale dell’organizzazione e una limitazione della fiducia e della collaborazione tra i dipendenti. 195 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 196. COSTI UMANI Un lavoratore sottoposto a violenze psicologiche sul posto di lavoro ha un tasso di produttività ed efficienza inferiore del 60%. Egli, inoltre, graverà sul datore di lavoro del 180% in più (Ascenzi e Bergagio, 2000). È evidente che le aziende dovrebbero prestare più attenzione alla gestione delle risorse umane e delle relazioni all’interno dei luoghi di lavoro. 196 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 197. COSTI PER LO STATO Tra i costi che ricadono sull’intera società troviamo gli oneri che il sistema sanitario nazionale deve sostenere per le lunghe assenze dal lavoro e per i frequenti periodi di malattia a cui è costretto il soggetto mobbizzato, spese a cui contribuiscono anche le aziende sanitarie locali. Si aggiungono anche, nei casi di prepensionamento, sia il costo sostenuto dall’intero sistema sanitario che si vede costretto al pagamento di una pensione in anticipo rispetto alla normale età, sia la perdita dei contributi sullo stipendio prima versati dal lavoratore. 197 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 198. MA ESISTE UN RISCHIO DA MOBBING VALUTABILE? Il mobbing è una condizione di antigiuridicità o non etica che può conseguire generalmente a fatti organizzativi – relazionali - gestionali incongrui o inadeguati. Questo malessere organizzativo – e non il mobbing - deve essere oggetto di valutazione attenta da parte del RSPP e del MC 198 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 199. LA SITUAZIONE IN ITALIA L’Italia, secondo le statistiche europee si trova all’ultimo posto nella classifica dei casi di mobbing, con il 4,2%. Se si leggessero superficialmente questi dati, si potrebbe dedurre che il terrorismo psicologico nei posti di lavoro è praticamente assente dagli scenari italiani. 199 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 200. LA SITUAZIONE IN ITALIA Lo studio della violenza psicologica sul posto di lavoro è iniziata con notevole ritardo rispetto ad altre nazioni. In Italia si è cominciato a parlare diffusamente di mobbing solo dal 1999, anno dei due primi convegni nazionali sul tema. 200 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 201. LA SITUAZIONE IN ITALIA In Italia il mobbing spesso non è conosciuto come problema a se stante e in genere viene vissuto come routine. Il lavoratore è convinto che le persecuzioni sul posto di lavoro siano la norma e così il problema non viene neanche percepito, trascinando la situazione per anni, fino a diventare pericolosa e spesso irreparabile. 201 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 202. LA SITUAZIONE IN ITALIA Nel mobbizzato italiano l’allarme, che dovrebbe scattare al semplice conflitto, risulta tarato ad una soglia più alta, quella della malattia e quindi si trova a combattere un processo già iniziato e che ha già prodotto serie conseguenze (Ege, 1997). 202 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 203. LA SITUAZIONE IN ITALIA Un dato interessante emerso dalle ricerche di Ege in Italia e non riscontrato in altre culture è il ricorso da parte del/della mobber a strumenti esterni - (fumare in presenza di non fumatori, alzare il volume con lo scopo di isolare la vittima e deconcentrarla) e l’aria condizionata, (rendere il clima dell’ufficio insostenibile) - attraverso cui creare fastidio e problemi alla vittima. Il/la mobber italiano/a cerca di evitare i rischi insiti nell’attacco diretto attraverso una strategia più articolata e complessa, utilizzando mezzi esterni in modo da non scoprirsi del tutto e risultare estraneo alla vicenda. 203 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 204. LA SITUAZIONE IN ITALIA La vittima scarica la sua rabbia inizialmente su tale mezzo esterno e il/la mobber riesce a guadagnare tempo, tanto che nel momento in cui la vittima si rende conto di chi sia il vero colpevole è troppo tardi per cercare alleati e per difendersi. In tutti questi casi la strategia mobbizzante è altamente subdola e praticamente infallibile e mira a rendere le condizioni di lavoro fastidiose o insopportabili per la vittima designata. 204 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 205. DIFENDERSI DAL MOBBING: PREVENZIONE E INTERVENTI 205 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 206. COME REAGIRE AL MOBBING Non esistono formule magiche che liberino dal mobbing e, prima di dare qualsiasi tipo di consiglio è fondamentale attuare una analisi puntuale del fenomeno per far si che la diagnosi e la terapia siano il più possibile aderenti alla situazione. Se viene saltato questo passo, ossia l’analisi delle caratteristiche e delle motivazioni che hanno portato al mobbing, si rischia di peggiorare la situazione, invece che risolverla. 206 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 207. COME REAGIRE AL MOBBING E’ consigliabile attuare una valida opera di prevenzione che sia indirizzata da un lato all’azienda e dall’altro ai singoli individui, con l’obiettivo di impedire che un banale conflitto irrisolto possa diventare un vero caso di mobbing. Nel caso dell’intervento mirato all’azienda, si dovrebbe attuare una formazione mirata che corregga ed indirizzi adeguatamente il lavoro dell’Ufficio Risorse Umane, oltre che creare la cosiddetta «cultura del litigio» (Ege, 2001). 207 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 208. COME REAGIRE AL MOBBING La cultura del litigio è un programma formativo rivolto alle aziende che deve partire dall’alto ed essere diretto dall’ufficio risorse umane o dai vertici dirigenziali. L’obiettivo della cultura del litigio è rendere trasparente e chiaro il conflitto in modo da poterlo riconoscere e averne una visione obiettiva ed imparziale. Questa strategia va a beneficio non solo dell’azienda ma anche dei singoli lavoratori. 208 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 209. COME REAGIRE AL MOBBING Il primo passo da fare per attuare la cultura del litigio è de-emozionare il conflitto (Ege, 2001), ossia togliervi ogni elemento emozionale che può risultare scomodo e fuori luogo in determinate circostanze, in modo da affrontarlo con lucidità e sangue freddo. 209 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 210. COME REAGIRE AL MOBBING Nella cultura del litigio le risorse dei contendenti lavorano insieme ed in sinergia, venendo impiegate per la creazione di nuove e creative soluzioni. Il punto di vista dell’altro non è più una minaccia, ma diviene una opportunità di crescita e di arricchimento personale, i problemi sono risolti più velocemente ed il clima organizzativo è più sereno, per cui i dipendenti lavorano meglio e sono più produttivi. 210 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 211. COME REAGIRE AL MOBBING Altro modo di reagire al mobbing è partecipare ai corsi di autodifesa verbale. I corsi di autodifesa verbale sono dei corsi di formazione personale che si rivolgono alle singole persone per insegnare ad affrontare e gestire meglio la conflittualità della vita quotidiana (Ege, 2001). Questi corsi intendono fortificare la persona dentro per cambiare il loro atteggiamento fuori. 211 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 212. COME REAGIRE AL MOBBING La vittima, acquisendo la capacità di rispondere adeguatamente in qualsiasi circostanza, si sente più sicura di se stessa e nei rapporti interpersonali, ispirando rispetto e considerazione; in tal modo riesce a salvaguardare la sua dignità ed evita che gli attacchi costituiscano delle premesse per disturbi psicosomatici (l’aumento dell’autostima e della fiducia in se stessi risulta un ottimo immunizzante). 212 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 213. Se il medico riscontra una situazione di ansia, stress o depressione è consigliabile assentarsi dal lavoro per recuperare le energie. Non bisogna sentirsi in colpa, è un nostro diritto, anche perché la nostra prima preoccupazione deve essere la nostra salute. 213 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 214. COME REAGIRE AL MOBBING Fare formazione ed informazione è l’unica metodologia che consente di far prendere coscienza dei danni che il mobbing può provocare, in modo da riconoscere il fenomeno. La formazione diventa quindi una missione che ha l’obiettivo di prevenire, curare, assistere ed intervenire sul mobbing in modo che questo causi il minor numero di danni possibili. La conoscenza del mobbing deve essere inculcata ad ogni vertice e grado della scala gerarchica, e le aziende dovrebbero essere dotate di figure professionali in grado di mediare le situazioni di conflitto (Ascenzi e Bergagio, 2000). 214 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 215. Il/la mobber, quando è consapevole, non è stupido/a, e solitamente attacca in assenza di testimoni perché sa che ciò che fa non è lecito. Per questo motivo è buon consiglio mettere per iscritto tutto ciò che succede in ufficio raccogliendo la documentazione delle vessazioni subite: 215 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 216. Tenere un diario di ogni azione mobbizzante contenente data, ora, luogo, autore, descrizione, persone presenti, testimoni; tenere un resoconto delle conseguenze psico-fisiche che le azioni mobbizzati hanno avuto sul nostro organismo (questo faciliterà la documentazione del danno biologico che il mobbing ha determinato per la richiesta di risarcimento dei danni psicofisici) e di tutta la documentazione medica e delle cure seguite; 216 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 217. Mettere in forma scritta e fare protocollare o spedire per raccomandata R.R. ogni richiesta, trasformando qualsiasi ordine verbale ricevuto in interrogazione scritta («a voce mi è stato detto di fare questo, chiedo conferma scritta») ed esigere l’ordine di servizio che attesti il cambiamento di mansioni, il trasferimento o lo straordinario. Molto spesso non si riceve risposta: ciò sarà un’ulteriore prova di azione mobbizzate. 217 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 218. Sarebbe molto utile cercare degli alleati, ma è forse la cosa più difficile. Infatti, non sempre i colleghi sono coraggiosi. È fondamentale non isolarsi, ma coltivare le relazioni sociali, frequentare gli amici, rinsaldare i rapporti familiari. Si può andare a cena fuori, fare una bella vacanza, o dedicarsi ad un hobby; insomma, tutto ciò che può costituire una utile valvola di sfogo è ben accetto. 218 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 219. Se si decide di ricorrere alle vie legali non bisogna essere impazienti. La durata di una causa di lavoro è lunga e anche in caso di vittoria in primo grado, ci si deve aspettare un ricorso in appello da parte dell’azienda; quindi si può calcolare da un minimo di quattro anni fino ad otto-dieci anni. Nella scelta tra procedimento penale e/o civile (causa di lavoro, risarcimento del danno biologico), è meglio preferire dapprima il procedimento civile. 219 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 220. Ci si deve rivolgere ad un buon avvocato cha abbia già trattato cause di mobbing, che sicuramente non abbia legami con la propria azienda. Bisogna chiarire subito gli obiettivi che si intendono raggiungere (danno biologico, demansionamento, reintegra nel posto di lavoro, patteggiamento, risarcimento dei danni, ecc.) e cercare di coinvolgere il minor numero di persone (possibilmente solo l’azienda). In caso contrario il nostro avvocato si troverà a dover lottare contro eserciti di avvocati di controparte che si coalizzeranno contro di noi. Solo dopo si può procedere anche contro gli autori materiali del mobbing. 220 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 221. Conoscere e intervenire adeguatamente sul fenomeno del mobbing porta indubbi vantaggi ai molteplici soggetti che vi sono implicati: le persone, divenendo maggiormente coscienti della loro situazione, potrebbero adottare migliori strategie difensive contro gli aggressori e combattere il loro malessere; 221 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 222. Le aziende potrebbero risparmiarsi onerosi costi di un personale così problematico; la mutua non dovrebbe caricarsi degli onerosi costi per terapie mediche e/o addirittura ricoveri nei casi più gravi; infine, lo Stato eviterebbe gravosi oneri sociali collettivi con premature pensioni di invalidità. 222 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 223. A seguito di un’indagine della Fondazione Europea per il Miglioramento delle Condizioni di Vita e di Lavoro (Dublino) che individua nell’8% la percentuale dei lavoratori dell’Unione colpiti da mobbing negli ultimi 12 mesi, il Parlamento Europeo, in data 20 settembre 2001, emette la “Risoluzione sul mobbing nel posto di lavoro”. 223 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 224. Il Parlamento, tra l’altro, “esorta gli Stati membri a rivedere e, se del caso, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing…” 224 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 225. LA SITUAZIONE ITALIANA 225 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 226. In Italia non esiste una normativa specifica contro il fenomeno del mobbing. Tuttavia ci sembra di poter individuare nelle disposizioni in vigore strumenti legislativi in grado di tutelare la salute fisica e psicologica dei lavoratori. Vediamo in rapida sintesi il quadro normativo cui si può fare riferimento: 226 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 227. Costituzione (art. 32) la salute è un diritto dell'individuo e della collettività; (art. 42) l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. 227 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 228. CODICE PENALE PREVEDE SANZIONI SPECIFICHE IN CASO DI OMISSIONE DOLOSA (art. 437) e colposa (art. 451) di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Inoltre punisce con la reclusione da tre mesi a tre anni “chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente (art. 582)” e punisce con l’arresto chiunque “reca molestie o disturbo” a qualcuno (art. 660). 228 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 229. Legge 300/ 1970 - Statuto dei Lavoratori (art. 13) al dipendente non possono essere date mansioni di livello professionale inferiore a quello d’inquadramento. 229 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 230. D.Lgs 626/1994 riguardante il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro - (art. 4, punto 5) il datore di lavoro adotta le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori; (at 17, punto 1, comma a) il medico competente collabora …alla predisposizione dell’attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità psicofisica dei lavoratori. 230 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 231. In relazione invece alle anomalie organizzative in Italia l’INAIL ha utilizzato il termine “costrittività organizzative” per definire le condizioni di anomalie ed incongruenze organizzative i cui elementi essenziali riguardano “la sottrazione di compiti lavorativi adeguati, l’inadeguatezza degli strumenti di lavoro, l’attribuzione di carichi eccessivi, le distorsioni sul piano delle comunicazioni interne e le forme di iper-controllo (Circolare INAIL 71 del 17.12.2003)”. 231 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 232. L'Inail considera il mobbing come malattia professionale: infatti è stato inserito nella categoria delle malattie professionali non tabellari, cioè non comprese nelle tabelle. Il lavoratore o la lavoratrice devono dimostrare con una documentazione appropriata il nesso tra la malattia contratta e le attività professionali svolte. Quindi il lavoratore potrà chiedere il risarcimento del danno anche al suddetto Istituto. 232 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 233. Secondo la direttiva Inail, l’Istituto come per ogni altra malattia professionale denunciata dal lavoratore, procede per il caso del mobbing ad una serie di verifiche e di controlli in ordine alla veridicità di quanto lamentato dall'assicurato che deve provare, con la presentazione di documenti probatori, ai sensi dell'art. 38, D.Lgs. n. 38/ 2000: • l'esistenza della malattia professionale; • le caratteristiche morbigene della lavorazione (in questo caso la sussistenza dei comportamenti mobbizanti); • il nesso causale intercorrente tra la malattia stessa e il lavoro concretamente svolto. 233 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 234. Poiché però in questi casi è spesso difficile per il lavoratore produrre prove documentali sufficienti, la circolare prevede che l'Inail effettui delle indagini ispettive, per raccogliere le prove testimoniali dei colleghi di lavoro, del datore di lavoro, del responsabile dei servizi di prevenzione e protezione delle aziende e di ogni persona informata sui fatti allo scopo di: • acquisire riscontri oggettivi di quanto dichiarato dall'assicurato; • integrare gli elementi probatori prodotti dall'assicurato. 234 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 235. L'Inail, nella sua valutazione, può anche utilizzare ulteriori elementi derivanti da precedenti accertamenti dei fatti eventualmente emersi in sede giudiziale o in sede di vigilanza ispettiva da parte della Direzione provinciale del lavoro, nonché delle Asl. 235 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 236. Secondo una sentenza della Corte di Cassazione, numero 685 del gennaio 2011, non è ancora possibile ricondurre il mobbing a sanzioni di tipo penale, nonostante ci siano alcuni comportamenti riconducibili a un trattamento vessatorio. Il vuoto legislativo, infatti, fa sì che ad oggi si possa procedere solamente con procedimenti civili. 236 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 237. LIMITI E DIFFICOLTA’ DI INTERPRETAZIONE 237 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 238. L’intento persecutorio è il più complesso fra gli elementi che caratterizzano la fattispecie. La difficoltà di provare che sotteso ai comportamenti del datore di lavoro vi sia un simile intento rappresenta uno dei nodi più spinosi della materia. 238 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 239. In alcuni studi viene enfatizzata, come possibile elemento di discrimine tra il mobbing e le anomalie organizzative, la presenza o meno dell’intenzionalità dell’azione lesiva e della volontà esplicita di allontanare la vittima dal contesto lavorativo. In realtà tale elemento di differenziazione appare, per quanto riguarda «l’intenzionalità», non sempre oggettivabile 239 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 240. QUESTIONARI Oggi esistono alcuni “questionari auto- somministrati tesi alla valutazione delle condizioni mobbizzanti vissute e che esprimono, quindi, la prospettiva soggettiva della vittima. Il capostipite di questi strumenti è rappresentato dal Leymann Inventory of Psychological Terror (LIPT) elaborato da Leymann negli anni ’90”. 240 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 241. Esistono poi altri questionari: il Negative Acts Questionnaire (NAQ), il CDL-2.0 ed il Val.Mob. 241 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 242. UN NUOVO STRUMENTO PER VALUTARE IL MOBBING E LE ANOMALIE ORGANIZZATIVE 242 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro
  • 243. Un studio, presentato sul numero di aprile/giugno 2013 del Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia, dal titolo “Mobbing, costrittività organizzative ed effetti bio-psico-sociali: una valutazione integrata. Dati preliminari di validazione del Questionario-napoletano sul Disagio Lavorativo (Qn-DL)”, ha avuto l’obiettivo di validare un nuovo strumento di valutazione delle condizioni di disagio percepite nell’ambito lavorativo. 243 Nicola Armenise - Psicologo del lavoro