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BLAST
BLASTMATERIALI PER UN’ESTETICA DELLE ROVINE
© Lorenzo Amaduzzi 2008
INDICE
MAPPA DI TRANSITI
Introduzione
STATEMENT
La storia di AZOUZ l'Africano in 2367 parole
CONSIDERAZIONI A MARGINE
FLANERIE
LA FOTOGRAFIA COME INTERFACCIA COGNITIVA
NELL'EPOCA DELL'ARTE DIGITALE
CONCLUSIONI
FOTOGRAFIE
Bibliografia
Filmografia
Sitografia
MAPPA DI TRANSITI
Mappa di transiti
Nel disegno toponomastico immaginato, nominare luoghi ed aree di traffico della pro-
duzione e del lavoro dismessi equivale rappresentare, nell’attualità del tempo d’og-
gi, la mappa di eventi occorsi nel silenzio dei margini. Ecco che piazza Romania o
via Tunisi, piuttosto che piazza Algeria, oltrepassano il senso puramente descritti-
vo, per connotare vite in fuga da infausti destini verso ignoti orizzonti di speranza.
INTRODUZIONE
Introduzione
BLAST è un’area industriale dismessa della costa Adriatica, a nord di Ancona. Su una superficie di
oltre 18 ettari, incuneata tra la statale 16 e la ferrovia, scorrono i monumentali edifici che ospitavano
la produzione di concimi chimici, avviata all’inizio dello scorso secolo (1). Come la gran parte degli
insediamenti industriali dell’epoca, la collocazione geografica assumeva un valore strategico in
relazione al sistema viario di cui entrava a far parte (2).La via marittima da un lato e quella ferroviaria,
dall’altro, garantivano la fluidità dei trasporti delle materie prime, in entrata, e dei prodotti finiti, in
uscita. Attiva fino alla fine degli anni ’80, la fabbrica giace ora in stato di abbandono, in attesa venga
definitivamente portata a termine l’azione di bonifica del terreno e definiti i criteri di recupero di
alcune strutture lignee di alto pregio architettonico. Se i tempi della riqualificazione urbanistica
si sono dilatati oltre ogni sensata misura di valorizzazione sociale, turistica ed economica del
territorio, occorre rilevare che, frattanto, gli edifici più facilmente abitabili, come la palazzina della
Direzione o le residenze operaie oltre il perimetro sud, sono stati, in più occasioni e ripetutamente
nel tempo, utilizzati come dimora provvisoria da sbandati, nomadi e migranti clandestini. Il
fenomeno dell’occupazione abusiva,quanto mai di attualità in questi tempi di profonde e complesse
trasformazioni socio-economiche a carattere globale (3), in cui alla condizione di precarietà
esistenziale assunta da fasce sempre più ampie di popolazione nazionale – estromessa o rigettata,
a diverso titolo, dal lavoro attivo - si vanno ad aggiungere i poveri del mondo (4), attratti dallo
sfavillio delle merci d’Occidente, è diventata una diffusa modalità abitativa, specie nelle periferie
metropolitane.Tanto che non è difficile riconoscervi, oltre i sintomi di un malessere sociale diffuso,
pure il luogo di invenzione e produzione di nuove forme-categorie culturali, specificatamente
legate all’universo giovanile, anch’esso travolto, sia pure con effetti di prospettiva, dal disagio
della condizione post-modena (5). Entro questo quadro, dai contorni assai incerti, liquidi direbbe
Bauman (6),si colloca il lavoro di ricerca in chiave antropologico-visiva (7) qui rappresentato da una
selezione di immagini fotografiche che raccontano, attraverso la specificità del proprio linguaggio,
il fascino estetico del manufatto industriale dismesso e le vicende di quanti, frequentandolo alla
stregua di un hotel per derelitti, vi hanno lasciato traccia di sé. Il termine BLAST – graffito che
compare su una parete interna, al piano terra di quel che resta del reparto impasto – è di natura
polisemica poiché,oltre a significare combustione di processo nel gergo tecnico (8),rappresenta la
grafia chiusa di un asciutto simbolo di ribellione giovanile ad ascendenza metropolitana (9). E ciò,
nella nostra visione, mette in risalto il valore estetico delle rovine. Solo in esse perdiamo l’illusione
di possedere il nostro tempo.Il dramma è:come non esserne schiavi? Ovvero,come essere padroni
del nostro tempo, senza che altri, od altro, se ne approprino? La risposta non è univoca, ma a noi
piace pensare,e dire,che nell’effrazione della lingua e nella rivoluzione sensibile dei significati sia
contenuto il segreto individuale - questo sì - di tale ricerca. Altrettanto individuale sarà la risposta,
ma diffonderla e condividerla significa attuare un processo di comunicazione senza barriere di
luogo, di tempo e di spazio. L’azione, come un colpo di teatro, si compie qui ed ora, ma dilata le sue
energie ovunque ci sia un recettore capace di captarne le mosse. E’ l’invisibile ma attivo potere
dell’intelligenza collettiva (10) della Rete, luogo virtuale dove anche la nostra sensibilità estetica
ha scovato delle affinità (11) e ricavato un’area di connessioni identitarie (12) che confermano
l’opportunità di una ricerca analitica sull’attualità di un’Estetica delle Rovine (13).
NOTE
(1) Campana Giuseppe, Giacomini Ruggero, Il sito ex Montedison.Storia, situazione, prospettove di recupero, Comune
di Falconara Marittima, 2006
(2) AAVV, La macchina arrugginita, Feltrinelli, 1983
(3) Bauman Zigmunt, Dentro la globalizzazione, Editori Laterza, 1999
(4) Bauman Zygmunt, Vite di scarto, Editori Laterza, 2005
(5) Bauman Zigmunt, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, 2002
(6) Bauman Zigmunt, Modernità liquida, Editori Laterza, 2004
Bauman Zigmunt, Modus vivendi.Inferno e utopia nel mondo liquido, Editori Laterza, 2007
(7) Canevacci Massimo, Antropologia della comunicazione visuale, costa&nolan, 1995
(8) Sui significati del termine inglese BLAST, si veda: http://en.thinkexist.com/
Blast Meaning and Definition
1. (v. t.) To rend open by any explosive agent, as gunpowder, dynamite, etc.; to shatter; as, to blast rocks.
2. (n.) A flatulent disease of sheep.
3. (n.) A violent gust of wind.
4. (n.) The exhaust steam from and engine, driving a column of air out of a boiler chimney, and thus creating an intense
draught through the fire; also, any draught produced by the blast.
5. (v. t.) To injure, as by a noxious wind; to cause to wither; to stop or check the growth of, and prevent from fruit-
bearing, by some pernicious influence; to blight; to shrivel.
6. (n.) A sudden, pernicious effect, as if by a noxious wind, especially on animals and plants; a blight.
7. (v. i.) To blow; to blow on a trumpet.
8. (v. t.) Hence, to affect with some sudden violence, plague, calamity, or blighting influence, which destroys or causes
to fail; to visit with a curse; to curse; to ruin; as, to blast pride, hopes, or character.
9. (v. t.) To confound by a loud blast or din.
10. (n.) A forcible stream of air from an orifice, as from a bellows, the mouth, etc. Hence:The continuous blowing to
which one charge of ore or metal is subjected in a furnace; as, to melt so many tons of iron at a blast.
11. (n.) The sound made by blowing a wind instrument; strictly, the sound produces at one breath.
12. (n.) The act of rending, or attempting to rend, heavy masses of rock, earth, etc., by the explosion of gunpowder,
dynamite, etc.; also, the charge used for this purpose.
13. (v. i.) To be blighted or withered; as, the bud blasted in the blossom.
(9) Branzaglia Carlo, Marginali, Iconografia delle culture alternative, Castelvecchi, 2004 http://www.bbc.co.uk/blast/
(10) Lévi Pierre, L’intelligenza collettiva.Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, 1996
Lévy Pierre, Cybercultura, Gli usi sociali delle nuove tecnologie, Feltrinelli, 1997
Dewdney Christopher (a cura di),Derrick de Kerckhove.La pelle della cultura.Un’indagine sulla nuova realtà elettronica,
Feltrinelli, 1996
(11) http://www.99rooms.com
(12) Per connessioni identitarie, magari suggestionati da titolo di una delle rare esposizioni italiane di net-art
(Connessioni Leggendarie, Mediateca di Santa teresa, Milano, 2005), facciamo riferimento alla biblioteca di link che,
in appendice, va sotto il nome, per l’appunto, di connessioni identitarie.
(13) La riflessione filosofica sulla materia estetica data pochi secoli della nostra storia e non è che fossero
mancati, già dalle origini, pretesti o spunti concreti cui attribuire dignità accademica, se non rigore scientifico.
Basti pensare alla fortuna degli studi storico-archeologici. Tuttavia, si vuole qui rimarcare come sia stato
di scarsa rilevanza per la disciplina Estetica moderna e contemporanea il tema delle rovine industriali. Da
alcuni anni, però, in ragione anche dei rapidi mutamenti indotti dal progesso tecnologico, fioriscono più
numerosi i tentativi di rendere sistematica l’emergenza strabordante delle nuove forme artificiali. In ogni
caso, il riferimento teorico imprescindibile è e rimane ancora oggi il contributo datato (1966) del breve
saggio di Walter Benjamin sulla “Fotografia nell’Epoca della sua riproducibilità tecnica” edito da Einaudi.
Ricordiamo: Ave Appiano, Estetica del rottame, Meltemi, 1999; Lea Vergine, Quando i rifiuti diventano arte, TRASH
rubbish mongo, Skira, 2006
STATEMENT
Statement (*)
Sebbene la presenza umana sia accuratamente evitata nell’immagine di architetture industriali del-
la serie BLAST (1), ciò non significa che il protagonista di quanto vi si narra siano le inerti cose
ritratte. Tutt’altro: sono proprio loro, le cose, anche nei dettagli formalmente più estremi, a parlarci
dell’azione dell’uomo e dei sentimenti esperiti durante il transito in quel luogo. Oggetti come un
casco di protezione, un segnale di attenzione, un armadietto od anche un residuo di macchina qua-
lunque evocano,senza nominarla,la presenza di vita operaia,con tutto il fardello di emozioni indivi-
duali e collettive che si porta appresso. Per condizione, per storia. In ultima analisi, per definizione.
E ciò basta, a noi, per giustificare la motivazione a darne testimonianza. Ma c’è dell’altro: il taglio
spesso frontale dell’inquadratura diventa dato di stile, topos privilegiato di una visione certamente
influenzata dalla mediazione culturale - esercitata con discrezione nell’arco di un lungo tempo bio-
grafico - dalla Storia dell’Arte. Quella di schiacciare il soggetto, appiattendolo sulla superficie bi-
dimensionale del supporto non è altro, dunque, che un’inclinazione poietica derivata dalle affinità
compositive con la Pittura e col progetto d’Architettura, cui spesso ci si compiace di somigliare. Di
fotografico rimane tutto il resto, che non è poco. La tecnica innanzitutto, tanto analogica che digitale.
La post-produzione numerica, per quanto consente di adattare alle proprie esigenze espressive i
vincoli ottico-compositivi dell’azione di ripresa. S’intravede, in questo lavoro di mappatura visuale
dell’universo industriale in disuso, il tentativo di rendere esteticamente gradevole, se non bello, il
soggetto in rovina, nella consapevolezza, però, del rischio di manifestare una certa ambiguità ideo-
logica durante la fase ermeneutica di attribuzione di senso al prodotto fotografico. Queste ed altre
parole intendono darne conto.Nel ribadire la predilezione per il soggetto-oggetto,l’attenzione della
nostra ricerca visiva si concentra, con prevalenza, sui luoghi più frequentati della metropoli diffusa
(2), gli o le sprawls. Qui, assumendo la fortunata definizione di origine antropologica - ormai parte
della vulgata corrente - cioè nei cosidddetti “non luoghi” (3), si concentra quanto di più maledetta-
mente indispensabile a descrivere la condizione contemporanea (4). Intendiamo proprio dire che
la tragedia dell’essere si consuma proprio qui, tra gli scaffali di un ipermercato, in una stazione fer-
roviaria,in una zona industriale,in un motel,in un autogrill,in una stazione di servizio e via dicendo.
Abbiamo citato esclusivamente luoghi pubblici. Sì, perché quelli privati, per quanto spiati possano
essere, sono raggiungibili dall’occhio del fotografo solo per via di complicità o di simulazione. Poi,
quando succede, è al prezzo di una violenza che noi non ci sentiamo di condividere. Basta il mezzo
televisivo a documentare,in quantità industriale peraltro,l’orrore segreto delle vicende intime.A chi,
come noi, utilizza il mezzo fotografico per interpretare la realtà, non resta che indirizzare lo sguardo
sugli uomini per via metonimica. Fissare una scarpa slacciata per dichiarare la morte del soggetto.
Evocare senza nominare, dunque. Se non altro, per non uccidere (5) una seconda volta i propri testi-
moni.Insomma,dobbiamo al linguaggio fotografico (6),alla sua resa immediata l’occasione per tra-
durre in immagine i percetti (7) di una visione personale, ma assolutamente disincantata. La nostra.
Le fotografie che compongono il racconto fotografico denominato BLAST, fanno parte di un archivio
di immagini,in parte digitalizzate da pellicola,in parte direttamente riprese in formato digitale,che
fu concepito ed iniziò ad essere costruito a partire dal 2005. La selezione qui raccolta testimonia il
periodo più recente – Maggio-Ottobre 2007 – pertanto non può dare conto di ambienti dove erano
ancora presenti le tracce del lavoro consumato come,ad esempio,attrezzi da falegnameria,scaffali di
archiviazione,caschi di protezione,armadietti metallici e tanti altri oggetti di derivazione produttiva.
(*) Anziché utilizzare la dizione inglese artist statement per specificare la nostra dichiarazione di intenti, cioè il
movente intellettuale che sostiene la lunga e complessa azione di documentazione fotografica intrapresa già
dal 2005, preferiamo contare unicamente sul termine statement. Con esso, oltre alla funzione poietica, credia-
mo di dover esprimere con la necessaria efficacia il portato emozionale scaturito dalla frequentazione del luo-
go come delle persone che, sia pure con finalità differenti, vi si sono temporaneamente rifugiate in stile nomadico.
NOTE
(1) Blast è il primo segmento di un ciclo, denominato mainbody, dedicato al rilievo fotografico con modalità e finalità
estetiche di architetture in disuso, industriali e non solo.
(2) Il concetto di metropoli diffusa illustra bene il carattere densamente urbano (http://www.blasttheory.co.uk/) di va-
ste aree di terrritorio, tanto che discipline accademic-progettuali come sociologia urbana ed urbanistica non possono
fare a meno di utilizzarlo nelle rispettive descrizioni della città post-moderna.
(3) Marc Augè, Nonluoghi.Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, 1993
(4) Tutta l’opera di Jean Baudrillard, dal “Sistema degli oggetti”, passando per “Lo scambio simbolico e la morte”
fino all’ultima opera ,“Il patto di lucidità o l’intelligenza del Male” dove, tra l’altro, si sofferma a lungo a considerare
l’”avventura dell’arte moderna” e “la violenza fatta all’immagine” - parlando di fotografia - si nutre con intensità delle
simbologie virtualizzate e virtualizzanti dell’essere contemporaneo.
(5) Che l’atto fotografico si compia attraverso un “delitto”, è stato rilevato a più riprese dalla critica fotografica colta.
Due nomi su tutti: Roland Barthes nella “Camera chiara” e Susan Sontag nel suo “Saggio sulla Fotografia”, entrambi di
recente riediti da Einaudi. In altre parole, l’istantanea fissa un frammento del continuum temporale congelandone la
forma in un passato che non esiste più. Dunque, morto.
(6) La fotografia in quanto linguaggio iconico è entrato di diritto al centro dell’interesse di analisi da parte della cate-
goria intellettuale dei semiologi,già agli esordi della disciplina in ambito accademico,intorno agli anni ’60 del secolo
scorso.
(7) Arnheim Rudolf, Il pensiero visivo, Einaudi, 1974
La storia di Azouz l’Africano in 2367 parole (*)
Ho incontrato per la prima volta Azouz (1) nel mese di maggio 2007 durante un mio periodico so-
pralluogo fotografico. Avevo da poco assestato il cavalletto sul pavimento terroso di quello che fu
il reparto acido solforico quando, nel cercare l’inquadratura, mi sono comparse in lontananza nello
spazio ottico del mirino due sagome scure. Bisogna precisare che l’ambiente, lungo e stretto (2)
è di per sé poco luminoso, rischiarato soltanto dalle fenditure di luce provenienti da delle spe-
cie di lucernari e dal portone di ingresso divelto. Ho avuto qualche istante di esitazione prima di
decidere di comportarmi come se nulla fosse. Certo è che non era quello il luogo migliore per un
incontro imprevisto. Quando fummo a poca distanza tra noi, visto che loro – due giovani uomini di
colore - frattanto si erano avvicinati, rivolsi la parola a quello più prossimo. Mi sembrava avesse
difficoltà alla postura eretta e nemmeno capiva le parole che gli rivolgevo. Non mi è servito molto
tempo per capire che potevo essermi cacciato in un antipatico – suoni come un eufemismo – pa-
sticcio. Fortunatamente, l’amico che lo seguiva a breve distanza si proponeva come traduttore fino
a restare interlocutore unico. Era Azouz.Viveva in un minuscolo bunker-abitacolo a forma di cripta
(3), con finestra sul lato mare. L’idea di tale soluzione abitativa potrebbe apparire anche suggestiva
per quel periodo climatico, se non fosse, tra l’altro, che quello spazio era stato ricavato all’interno
di un ex stabilimento chimico, nell’area dove più che certa è la presenza di polvere di pirite, pur
se dispersa in anni di abbandono, sul terreno. Avevo già sperimentato in prima persona la cono-
scenza di analoghe condizioni di vita (4), ma ciò che mi colpì in questa circostanza, fu l’ordine e la
cura delle povere cose disposte tra il pavimento in terra battuta e le precarie mensole delle pareti
a ferro di cavallo. E questo – il bisogno di un riscatto da un’esistenza più misera e fragile della più
comune povertà – fu il tema della conversazione con quello che mi appariva un uomo sconfitto dal
proprio destino. Già, perché avevo frattanto accettato l’invito di Azouz a bere un caffè nella sua tana.
La ragione di tanta nostalgia per una casa vera stava forse nella presenza, nello stesso luogo, della
sua fidanzata rumena, Alina. Fu lei a prepararci la bevanda calda su un fornello da campeggio ed a
versarcelo dentro bicchieri di plastica. Sentimenti di misti di inquietudine, imbarazzo e pena scuo-
tevano la mia comoda sensibilità di indigeno benestante,dinnanzi a tanta dignità ed umile ospitalità
tanto che, per un ingiustificabile senso di colpa, mi sono reso disponibile ad aiutarlo a trovare un
lavoro. Dopotutto, il mio rapporto di amicizia con il dirigente dell’ufficio del lavoro della mia citta,
avrebbe potuto risultare utile,se non decisivo.Prima di salutarlo,promisi ad Azouz che avrei avviato
un contatto per fissargli un incontro. Non ci sarebbero stati ostacoli di natura formale, essendo egli
in possesso di regolare permesso di soggiorno e potendo esibire le prove dell’attività di carpen-
tiere svolta, in un recente passato, presso un’impresa edile della zona. Fu così, con quest’accordo,
cioè, che ci salutammo. Mi sono sentito obbligato da un insolito imperativo morale ed intuivo che la
mia disponibilità avrebbe potuto contribuire a strappare quelle due miserabili esistenze alla con-
dizione disumana di reietti. Con tale spirito, l’indomani stesso concordai le modalità di un incotro
a breve, ma già dal primo contatto telefonico con Azouz – qualche giorno dopo – percepivo una
imperscrutabile forma di resistenza verbale ad onorare l’appuntamento che avevo fissato. Falliti i
successivi tentativi di comunicazione, mi sono arreso al tarlo di un faticoso pensiero che mi sorgeva
da dentro: quella vita da esclusi indubbiamente favorisce, quando non esige, per mere esigenze di
sopravvivenza, il transito attivo nell'illegalità. Non mi restava che dimenticare quest’episodio che,
indubbiamente, per il tono di simpatia umana che mi aveva suscitato, tornava alla mia mente ogni-
qualvolta le cronache quotidiane si fossero occupate del tema immigrazione. Data la stagione, la
frequenza con cui apparivano sui media era pressochè quotidiana. Perciò, nonostante la rimozione
sia stata lucida e fredda, non potevo eliminare del tutto l’occorrenza, in ragione di quel vissuto squi-
sitamente emotivo, di dover connettere mentalmente un qualunque episodio indiretto alla vicenda
umana di Azouz. I mesi passarono, finchè ad Agosto non decisi un ulteriore sopralluogo fotografi-
co nell’area BLAST. Quel giorno, come in precedenza, parcheggiai l’auto sul ciglio della statale in
prossimità della fermata degli autobus urbani e di linea, di fronte allo stabilimento. Qui sostava in
attesa un uomo che, per come appariva dall’aspetto – cioè di etnia Africana – lasciava intuire che
avesse provvisoria dimora all’interno di qualche edificio industriale, proprio come Azouz.Visto che
mi osservava insistentemente, gli rivolsi la parola chedendogli se vivesse “là dentro” e se vi avesse
conosciuto Azouz. La risposta fu affermativa e si offerse pure, dopo aver saputo che lo conoscevo, di
accompagnarmi da lui. Accettai di buon grado, dal momento che avrei finalmente potuto chiarire,
almeno in parte, gli interrogativi che mi ero posto e non avevano ancora ricevuto risposta. Lui pure
– non ne ricordo il nome – mi descrisse la propria condizione di immigrato in cerca di lavoro mentre
percorrevamo il sentiero per giungere al luogo dove Azouz viveva. Erano le nove di mattino di una
limpida giornata di mare. L’incontro avvenne appena fuori dalla sua tana, ma subito m’esortò ad en-
trare. Dell’ambiente non era cambiato nulla da quando vi entrai la prima volta. C’erano, accomodati
sul bordo del letto, alcuni ospiti, che volle presentarmi: un nordafricano e due polacchi, oltrechè il
mio accompagnatore e la propria compagna, che se ne stava appartata in un angolo della piccola
stanza. Immediatamente si giustificò del lungo silenzio e del telefono tenuto spento così a lungo,
mostrandomi una lunga cicatrice sul lato esterno dell’avambraccio sinistro. Si trattava, a sua detta,
della conseguenza di una caduta dallo scooter. Non potevo, date le circostanze in cui mi trovavo, di-
chiarargli la mia incredulità rispetto alle affermazioni fatte. Era evidente che si trattava di una vera
e propria ferita da taglio. Mi limitai a manifestare una cordialità di circostanza, per poi salutare ed
iniziare il mio lavoro di ripresa che, dopotutto, era la ragione per la quale mi trovavo in quel luogo.
Dunque, i sospetti iniziali diventavano, ai miei occhi, una specie di prova - non provata
però - che in quell’area si governassero affari poco leciti. Con questo stato d’animo in cor-
po percorsi, cavalletto alla mano, le restanti zone che volevo ri-esplorare con la fotocamera.
Fu così che decisi di interrompere le mie incursioni fotografiche, pago anche della consistena
quantitative del materiale accumulato nei mesi precedenti. In effetti, mi dispiaceva non proseguire
il lavoro di “ricerca”, poichè mi rendevo conto che col tempo, oltre a mutare lo scenario ambienta-
le – vuoi per interventi materiali della proprietà, vuoi per il transito costante di senzatetto d’ogni
origine etnica, oltrechè di bande giovanili locali – la mia personale visione acquistava una con-
fidenza privilegiata con le cose (5). Cose che sono tracce, ma anche impronte (6) vere e proprie
di erranti presenze umane. Erano – e sono – frammenti di vita disseminati nello spazio secondo
criteri di occupazione territoriale molto simile alle forme di marcatura animale; equivalgono a ca-
ratteristiche abitative provvisorie, certamente nomadi, senza vincoli stanziali. Nei segni deposti
all’abbandono, si leggono i significati di passaggi plurimi, a volte sovrapposti, ma con in commune
la condizione marginale di chi vuole od è costretto a trasgredire le più elementari regole di convi-
venza. Le diversità etniche, generazionali e culturali che qui si confrontano, aniziche svolgere un
ruolo di rafforzamento dei legami di solidarietà per comunanza di status, che pure esistono, fini-
scono con l’alimentare il conflitto e la spartizione fisica del territorio con modalità di tipo catasta-
le. Frequentare i luoghi dell’abbandono, specie metropolitani, esige la coscienza di compiere uno
sconfinamento. E’ solitamente l’atteggiamento di cui mi servo per attraversarli, il medesimo adot-
tato nei confronti degli occupanti incontrati nell’area BLAST. Oltre ad Azouz, erano presenti, in quel
periodo, una numerosa famiglia di Rom rumeni ed un piccolo gruppo, 4 o 5, di giovani polacchi.
I primi scandagliavano il sito nelle zone dove più probabile era la presenza di rame,sotto forma di fili
elettrici. Una volta, proprio il giorno che conobbi Azouz, mi capitò di vederli all’opera con un lungo
coltello mentre tranciavano un fascio di cavi sotterraneo.Alla mia vista non si scomposero per nulla,
se non per affermare:“rumeni poveri”. Mi vennero alla mente allora le immagini del cortometrag-
gio di Claudio Bozzatello “Foku” (7) che racconta di un’analoga storia di sopravvivenza ambientata
nell’ex stabilimento Falk di Sesto San Giovanni. Se si riflette sulle dinamiche di interazione sociale
(8) che possono instaurarsi tra le mura scomposte di una vecchia fabbrica come BLAST, non basta
l’immaginazione per metterne a fuoco proprietà e modalità di espressione. Ci soccorrono i fatti di
cronaca che vi si verificano periodicamente, quando la locale Questura, magari sollecitata dalla
proprietà, esegue uno sgombero. Sta di fatto che, fino a quando perdurerà la condizione di abban-
dono, sia pure vigilato, i flussi ciclici di occupazione temporanea da parte, soprattutto, di immigrati
clandestini, proseguirà senza sosta perchè l’area possiede un vasto perimetro facilmente vulnera-
bile in qualunque punto: confina sul lato longitudinale est con la ferrovia e la spiaggia, è collocata
geograficamente a breve distana dal porto di Ancona,scalo tutt’altro che immune dall’arrembaggio
dei disperati del Sud-Est affamato. Per tutto il periodo, circa un anno, in cui Azouz ha vissuto nella
tana di BLAST deve aver assistito e partecipato a numerosi e pesanti episodi di coesistenza forzata.
Di uno in particolare è stato involontario e sfortunato protagonista:l’aggressione subita per mano di
quegli stessi Rom rumeni che,sin dalla prim’ora,m’aveva confidato essere pericolosamente aggres-
sivi. Fatto sta che quando il conflitto tra loro sfociò in rissa, a farne le spese fu, come già detto, il suo
avambraccio sinistro lacerato dal violento colpo di una barra di ferro. Mai sarei venuto a conoscen-
za dell’accaduto, se non avessi composto il suo numero telefonico mentre mi trovavo casualmente a
passare da quelle parti. Era l’Ottobre scorso. Rispondendo alla mia chiamata, ho subito capito che
aveva conservato il mio numero di telefono in agenda e che,in qualche misura,la sua condizione era
cambiata in meglio.Si trovava a fare il custode-guardiano in un Albergo per cani a pochi chilometri di
distanza dal vecchio luogo di residenza.Non mi fu difficile raggiungerlo subito e venire a conoscen-
za che dopo un breve periodo trascorso in ospedale per curare la ferita patita ed essere rientrato
nella tana di BLAST, dallo stesso luogo era stato costretto ad allontanarsi in seguito all’incendio del-
le sue povere cose perpretato dagli stessi autori dell’aggressione fisica.Era evidente che lo scontro
era stato di drammatica intensità tra le due parti. Non mi sono occupato di conoscerne le ragioni,
ma è facilmente ipotizzabile che sia scoppiato per una reciproca quanto incompatibile volontà di
controllo del territorio. Persa la propria battaglia, anche perchè si trovava, solo, ad affrontare un ne-
mico molto più numeroso, si rifugiò in una casa abbandonata nei pressi del sottovia dell’autostrada.
Qui, dopo pochi giorni venne sorpreso dal proprietario dell’immobile il quale, constatatene le mi-
serabili condizioni di vita,gli offerse di lavorare nel proprio canile che si trova a pochi passi.Fu così
che la sua vita da cani si trasformò in vita con i cani. Da questo punto inizia un nuovo racconto, meno
tragico certo,ma altrettanto amaro,con un‘ombra davanti al futuro,però.Azouz ha 35 anni,non conta
di rivedere mai più i propri genitori, ha una fidanzata rumena da cui aspetta un figlio, ma è quasi
certo che verrà lasciato solo perchè, dice, le donne rumene “trattano i figli come stracci da buttare.”
NOTE
(1) Azouz è il nome di comodo attribuito al protagonista di questo racconto breve,avendo egli espressamente richiesto
che non venisse citato il suo vero nome, per il timore di essere riconosciuto nell’eventualità lo scritto fosse stato dato
alle stampe.La testimonianza che egli mi ha reso sulla propria vicenda - tra l’altro ricca di inquietanti dettagli sul viatico
migratorio che,attraverso la nazione libica,lo condusse a vivere l’accoglienza del nostro paese a Pantelleria,intorno al
2001 – costituisce lo sfondo entro il quale ho potuto dare corpo e sostanza ad una sequenza di immagini che altrimenti
avrebbero trattenuto celati i fantasmi da cui erano e sono ancora popolate.Le parole possono,dunque,arricchire di sen-
so lo loro visione,di per sé scarnificata dall’occhio crudo ed impassibile della fotocamera.Almeno nel nostro auspicio.
(2) Immagine_49.tif
(3) Immagine_53.tif
(4) Ricordo,tanto per citare un episodio ancora una volta personale,il piano interrato dell’ex Colonia Bolognese a Ric-
cione (http://holiday-campus.blogspot.com) dove in più occasioni mi è stato dato incontrare giovani extracomunitari
sopiti su giacigli di fortuna in pieno giorno.
(5) “E’ prassi normale dell’etnografia partire dal presupposto che tutti i beni materiali siano dotati di significati sociali
e concentrare la parte principale dell’analisi di una cultura sul loro uso come strumenti per la comunicazione.” Dou-
glas Mary – Baron Isherwood, Il mondo delle cose,Oggetti,valori,consumo, il Mulino, 1984
(6) La fotografia come impronta (index) del reale sostiene l’architettura teorica di molti studi semiotici contemporanei,
tra i quali occorre segnalare l’ampio saggio di Philippe Dubois sull’Atto fotografico, pubblicato in Francia da Nathan,
nel 1990 e tradotto in italiano da Quattroventi, nel 1997.
(7) v.Filmografia essenziale
(8) Erwin Goffmann, L’interazione strategica, Il Mulino, 1971
(*) Trattandosi di una vicenda umana legata alla memoria di un luogo che mi trasmette, più di altri, reali sensazioni di
familiarità con gli oggetti che lo abitano e le persone che l’attraversano, non potevo non descriverla che adottando la
prima persona singolare.
CONSIDERAZIONI A MARGINE
Flanerie
Indossato lo spirito del flaneur, (1) abbiamo girovagato nel labirinto (2) della Rete Internet alla ri-
cerca di curiose affinità. Ce n’è di che selezionare, nello scenario virtuale di nicchie nascoste tra le
pieghe dell’immensa ragnatela in continuo ed incessante progress.Culto per le rovine industriali,
opera per lo più dei cosiddetti esploratori urbani, vere e proprie bande di incursionisti dell’obiet-
tivo (3), i siti che ne rappresentano le vestigia arrugginite vengono quasi sempre classificati dai
motori di ricerca nelle categorie, in prevalenza di lingua inglese, di industrial archaeology urban
culture, urban decay. Quanto, invece, all’universo fotografico, nelle accezioni più prossime al nostro
campo di indagine – ovvero il versante estetico-artistico - la scelta di una traccia disciplinare (4)
stabile e certa è quanto mai problematica per la sconfinata mole di informazioni che, nell’andirivie-
ni quotidiano, si agitano lungo le autostrade di bit. Non resta che darne conto secondo una cornice
di riferimento assai soggettiva, peraltro anch’essa destinata a mutare continuamente di forma nel
tempo, anche breve. Il flusso di dati che entrano in circolo in quel superorganismo (5) collettivo è
tale che le competenze che vengono richeste per accedervi con maestria sono sempre più sofisti-
cate, dunque appannaggio prioritario delle generazioni più giovani. Ciò non toglie, però, che l’oc-
correnza critica richiesta per esplorare con efficacia cognitiva gli archivi spontanei che di continuo
si formano sulla Rete, non esiga - di proprio - il possesso di strumenti analitici che vanno ben oltre
la padronanza delle pur impegnative tools d’accesso o di gestione. Ci riferiamo ad ambiti disci-
plinari come la filosofia, l’estetica, la sociologia, l’antropologia e la storia dell’arte. In quest’ordine
metodologico oltrechè gnoseologico, il vecchio e caldo supporto cartaceo – il libro – resta anco-
ra ineliminabile per il contributo che continua garantire al progresso della conoscenza. Appunto.
NOTE
(1) Nuvolati Giampaolo, Lo sguardo vagabondo,Il flaneur e la città da Baudelaire ai postmoderni, il Mulino, 2006
(2) Sambo Marco Maria, Labirinti,da Cnosso ai videogames, Castelvecchi, 2004
(3) http://www.urbanexplorers.net/
(4) Che l’oggetto della ricerca riguardi artisti, festivals o gallerie specializzate, occorre scendere in profondità tra le
maglie dei contenuti e dei riferimenti ipertestuali cui rimandano per individuare un percorso di lettura logico – in ogni
caso, individuale, unico, irripetibile - anche dallo stesso autore della ricerca.
(5) Lévy Pierre, Le tecnologie dell’intelligenza, A/Traverso, 1990
La fotografia come interfaccia cognitiva nell’epoca dell’Arte Digitale.
Col termine fotografia, ci si intende riferire al fenomeno contemporaneo della riproduzione mec-
canica della realtà: oltre alle immagini fisse, esso contempla quelle in movimento di cinema e tele-
visione, nonché la sintesi di entrambe operata, ormai diffusamente su scala planetaria, dal proces-
so di simulazione digitale (1), che trova nella Rete il luogo virtuale di più torrenziale espansione.
Nell’arco degli ultimi tre decenni è totalmente mutato il nostro rapporto percettivo col mondo e le
generazioni che sono nate e cresciute in quest’intervallo di tempo hanno sviluppato capacità co-
gnitive, qualità etiche e morali già assai diverse da quelle degli immediati predecessori. Il quadro
culturale di riferimento, in Occidente come in Oriente, si chiama Globalizzazione. Tutto origina da
un’applicazione tecnologica elementare: il codice binario. La possibilità tecnica di tradurre qualun-
que dato analogico in forma numerica e quindi di elaborarne lo statuto ontologico, espande oltre
ogni limite di realtà preesistente le attribuzioni della nostra fantasia e della nostra immaginazione.
Eccolo, dunque, l’esito antropologico meno considerato di questa rivoluzione tecnico-culturale an-
cora in corso, ma forse destinata a diventare permanente, proprio in ragione del principio gene-
ratore che la sostiene: la mutazione di genere (2), i cui esiti sono oggi difficilmente prevedibili. Le
nostre vite sembrano scorrere, seppure faticosamente, sul binario imperturbabile della Storia. Non
riusciamo a leggere i segni delle trasformazioni in atto se non come disagio esistenziale o fobia
dell’altro, senza renderci conto che questi sentimenti sono la conseguenza di un profondo muta-
mento di paradigma. Rinunciando ad avventurarci nell’infausta pratica della congettura, conside-
riamo più da vicino, magari anche nel dettaglio morboso della marginalità epistemologica - come
potrebbe essere considerato, ad esempio, il riferimento all’uso sociale della videofonino - gli ele-
menti che compongono la mappa degli atti comunicativi agiti attraverso la strumentazione digitale.
In quest’ambito, denso di costante innovazione tecnologica da un lato e rapida evoluzione merce-
ologica dall’altro, le pratiche hanno finito per condizionarne le modalità progettuali sia di conte-
nuto (scopi) che di forma (design), in una circolarità di reazioni che va sotto il nome di marketing
virale (3). Se ciò interviene è perché le modificazioni neurologiche del cervello indotte dall’utilizzo
delle protesi tecnologiche (4) producono, a loro volta, vere e proprie rivoluzioni culturali, che non
sempre sono socialmente indolori. Entro questo quadro, che contiene la somma dei segni attivi
nell’universo animato, la fotografia svolge un ruolo spesso inconscio (5) di appercezione del reale.
Proviamo a pensare cosa succederebbe alla nostra psiche se dovesse improvvisamente rinunciare
a conoscere il mondo attraverso la mediazione delle immagini (fotografiche), quando da queste
siamo investiti e spesso travolti in ogni istante del nostro quotidiano essere. Di più: il mondo oniri-
co, rispecchiando il vissuto, tende a riprodurre, tenendone traccia mestica, il simulacro visivo della
realtà durante il riposo notturno. Che mondo ci si presenterebbe senza l’apparizione di quell’im-
menso e fantasmatico archivio di immagini cui tutti i giorni ci riferiamo per condurre una esistenza
di relazione con il resto dei nostri simili e delle cose che ci circondano? Non v’è dubbio che do-
vremmo riferirci ad un genere di civiltà completamente diversa da quella che stiamo vivendo. La
potremmo immaginare - la letteratura di fantascienza più noir (6) ce l’ha suggerito – ponendo men-
te ad un passato storico anche recente, quando l’esistenza degli uomini, anche nei grandi centri
urbani, si nutriva prevalentemente di sensazioni naturali, od al futuro dopo la catastrofe descritto in
molte opere cult (7) della cinematografia contemporanea. Fatto sta che la conoscenza, intesa come
necessità per l‘essere, quindi già nel suo stadio più elementare, è indissolubilmente vincolata al
corretto utilizzo delle strumentazioni o degli apparati tecnici presenti nel momento storico in cui
essa prende forma.Se si affronta il problema da un punto di vista sociologico,si rendono necessarie
delle distinzioni nette nelle differenze di accesso all’uso delle tecnologie tra generazioni diverse,
dapprima, tra classi sociali ed aree geografiche del mondo (8), in ultima istanza.Va da sé che tanto
più è elevata la soglia anagrafica, tanto più ostico risulta l’apprendimento delle funzioni digitali,
sia pure nella semplice forma delle interfacce (9) facilitate. Mentre, per contro, l’approccio, anche
nei comandi più complessi, non è di ostacolo alle menti giovani che si disimpegnano con estrema
disinvoltura in operazioni non sempre di routine. Ma l’urgenza più allarmante è di ordine politico-
sociale, cioè investe le differenze di alfabetizzazione informatica tra Nord e Sud del mondo, insom-
ma tra ricchi e poveri. Anche se l’altlante geo-politico va mutando molto in fretta proprio questi
tempi, la traiettoria del progresso resta immutata e la storia tende a ripetersi tale e quale: le civiltà,
come le società, nascono, crescono e muoiono (10) nello sviluppo circolare della funzione ciclica.
NOTE
(1) Di Caro Giuliano, Tecnogenerazioni.Intelligenze artificiali,emergenti e simulate, Le Mani, 2005
(2)Yehya Naief, Homo Cyborg.Il corpo postumano tra realtà e fantascienza, Elèutera, 2004
(3) Il consumatore come vettore della comunicazione.Siamo al colmo dell’iperrealtà della merce,direbbe Baudrillard.
Per rifarsi lo spirito: Bauman Zygmunt, Homo consumens, Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi,
Erickson,2007.Per assecondarne le mosse,di Fulvio Carmagnola eVanni Codeluppi,rispettivamente:Il consumo delle
immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction economy, Bruno Mondadori, 2006; La vetrinizzazione sociale, Il processo
di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, 2007
(4) A partire da: Marshall Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, 1967
(5) Vaccari Franco, L’inconscio tecnologico, Punto & Virgola, 1979
(6) Kuhn Tomas, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, 1969
(6) Si pensi a tutta l’opera di Philip K. Dick (http://www.philipkdick.com/)
(7) Uno fra tutti: Blade Runner, di Ridley Scott (http://www.blade-runner.it/)
(8) Norris Pippa,Digital Divide, Civic Engagement,Information Poverty,and the InternetWorldwide,Communication,
Society and PoliticsHarvard University,Massachusett, http://www.digital-divide.it/
(9) Raskin Jef, Interfacce a misura d’uomo, Apogeo, 2003
(10) Diamond Jared, Collasso.Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, 2005
CONCLUSIONI
Conclusioni
Superato il millennio ed oltepassata la fase infantile dell’era digitale la fotografia, in quanto Sistema,
estende il proprio dominio all’intero universo simbolico della comunicazione individuale e di mas-
sa. Diviene linguaggio universale, ovunque esercitato con le medesime regole. Fatto salvo il vincolo
ottico dell’inquadratura, tutto ciò che finisce col rientrarvi altro non è che il prodotto di una cultura
e di una visione individuale, ma anche sociale del mondo. Nella stanca arena delle Arti Figurative,
la fotografia ha prodotto un varco poietico tanto ampio da aver favorito fiduce mercantili spesso in-
comprensibili quanto immeritate.Ma,contrariamente alle Arti tradizionali,è priva di un solido sitema
teorico di riferimento - chiamiamolo pure Estetica - e stenta, almeno nel nostro paese, a farsi strada
una seria prospettiva di analisi critica, non importa quali siano gli strumenti critici adottati. Il nostro
compito, qui, è stato quello di aver indicato un possibile campo di indagine sistematico, quello delle
Rovine Industriali, elemento e materia sempre più ingombranti nel modello contemporaneo d’uso
politico delle aree urbane.
INDICE IMMAGINI
FOTOGRAFIE
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SITOGRAFIA
Archeologia Industriale-Cultura Urbana
Abandonalia
Lugares abandonados en España.
Los lugares abandonados tienen un encanto especial...
http://www.abandonalia.blogspot.com/
Abandoned Britain
This Website is dedicated to documenting and recording the vanishing Industry's of Britain
http://www.abandoned-britain.com/
Abandoned places
Old buildings,abandoned hospitals,industrial palaces overgrown with plants and trees,the remaining walls decorated
with graffiti, smashed windows, rain dripping through the roof... These places have become hard to find, difficult (or
illegal) to access, dangerous to explore ... great to spend the day!
http://www.abandoned-places.com/
Action Squad
In a nutshell, Action Squad explores. This generally occurs late at night, to aid in avoiding other people, particu-
larly those with badges and funny blue uniforms. We climb buildings, sneak into factories, crawl through all kin-
ds of tunnels, spelunk old brewery caves, poke around abandoned buildings, and run across the rooftops.
Sometimes we get in full gear, consult maps, make backup plans, and launch major missions into unknown and often
dangerous terrain; other times, we'll just happen to see some minor location that begs to be explored and we'll take
a casual stroll through the place right then. Anyplace that is challenging to get to or is off limits to be in is a potential
target, particularly underground, abandoned, or historic sites. We usually employ no fancy equipment, and having a
good time is our first priority. Which brings us to the next hypothetical question ...
http://www.actionsquad.org/
Ars Subterranea:The Society for Creative Preservation.
Ars Subterranea is comprised of artists, historians, and urban explorers working to create an intersection between art
and architectural relics in the NewYork City area.
Our aim is to instigate unique perceptions of New York's history by constructing narratives around the city's forgotten
relics. Ars Subterranea encourages its audiences to interact with the city's neglected and ruinous locations by recre-
ating obscure but fascinating aspects of its urban development. Our projects include art installations, history-based
scavenger hunts, unusual preservation campaigns, and much more.
http://www.creativepreservation.org/
ArtInRuins
We at ArtInRuins believe that decay is beautiful, but not necessary. Artists live and work in the buildings that the city
or developers have often forgotten, and now that Providence is becoming a hip town (or a suburb of Boston) these bu-
ildings and the artists, musicians and businesses who lived and worked in them are getting used for purposes that do
not contribute to the community in the same way.We are not against new development, we are only opposed to unsu-
stainable or irresponsible development.
Before you get all up in arms,let us define a heated buzz word;Yuppies:(noun and sometimes four-letter word) Conspi-
cuous consumers.. they are not an age group, they are a state of mind.Yuppies aren't all bad, as they buy art and spend
money at expensive restaurants.The problem is when there are too many of them, because, by our definition,Yuppies
consume, they do not contribute to the larger culture.
http://www.artinruins.com/about/
Associazione Aree Urbane Dimesse
For years albums of travel photos have occupied a shelf in my California home, unused save infrequent attempts to
amuse family and friends with a tedious slide show. Now, thanks to the internet, I can attempt to amuse you. It's vain to
think that you would have any interest in my photos of the places I 've been, but vanity is the only excuse I offer. I like
my photographs. After all the effort it's comforting to know they are available to others - much more comforting than
the thought that, left on the shelf, they may become just another heirloom destined for the trash.
http://www.audis.it/index.htm
Associazione Assi
L'ASSI è un organismo di ricerca sorto per coordinare le attività di un gruppo di studiosi, di varia estrazione e forma-
zione disciplinare, accomunati dall'interesse per la storia e l'analisi diacronica dell'impresa. La sua area di riferimento
preminente è quella della business history,con un'attenzione specifica rivolta a tutte le dimensioni dell'agire d'impresa
(dalle strategie alle strutture manageriali, fino alle dinamiche di mercato, dalle relazioni industriali ai modelli cultura-
li). L'impegno maggiore dell'ASSI è posto nella realizzazione di cicli seminariali e di convegni internazionali di studi,
oltre che nell'attività editoriale svolta sia attraverso pubblicazioni periodiche (gli "Annali di storia dell'impresa" e "Im-
prese e storia") sia attraverso volumi monografici.
http://www.associazioneassi.it/User/index.php
Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale
L'Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale (AIPAI),la sola operante in quest'ambito a livello na-
zionale,è stata fondata nel 1997 da un gruppo di specialisti del patrimonio industriale e da alcune tra le più importanti
istituzioni del settore nel Paese.
L'Associazione conta oggi oltre 300 soci attivi nelle sezioni regionali presenti in tutto il Paese ed interagisce proficua-
mente con università, centri di ricerca, fondazioni, musei, organi centrali e periferici dello Stato.
http://www.patrimonioindustriale.it/
Asvaip. Associazione per lo Studio e la valorizzazione dell’Archeologia Industriale Pratese.
Il 21 gennaio 2004 si è ufficialmente costituita l’Associazione per lo Studio eValorizzazione dell’Archeologia Industria-
le Pratese (ASVAIP).
L’obbiettivo principale di questa associazione è appunto quello della valorizzazione del patrimonio industriale, da un
livello di carattere squisitamente culturale ad uno più operativo, volendosi porre come punto di riferimento per gli
operatori del settore e proprietari e al contempo come cerniera tra quest’ultimi ed enti e amministrazioni.
L’ambizioso programma è quello di trovare sinergie tra valenze culturali ed economiche, ovvero attraverso la “cono-
scenza” elevare i vari siti a “patrimonio culturale”, in modo da riscattarne il crescente oblio e degrado, rovesciando
così l’attuale processo facendoli divenire da problema a vera e propria risorsa.
Si tratta quindi di valorizzare l’enorme patrimonio esistente in tutta la provincia pratese,con una particolare attenzione
alla Val del Bisenzio ove queste emergenze del territorio sono ancora integre ma in gran parte sconosciute, per farlo
divenire risorsa essenziale nei processi di governo del territorio, in linea con i principi di sostenibilità. Il riscatto dalla
possibile distruzione di questi siti potrebbe quindi fornire da una parte risposte a problematiche attuali e dall’altra far
recuperare la memoria di quell’identità storica su cui il territorio pratese è fondato,affinché la si possa trasmettere alle
prossime generazioni che altrimenti ne verrebbero private.
Ma l’altro elemento di forte novità di questa associazione è il coinvolgimento diretto dei proprietari degli stessi siti sto-
rici che s’intende valorizzare, ovvero gli attori principali nei processi di trasformazione, e che per primi sono convinti
che tra l’abbandono e la completa cancellazione esista una terza strada culturalmente ed economicamente percorri-
bile.
http://asvaip.it/?page=home
Bane
The clicks in this web-site are about my research in abandoned places, forgotten by everyone. Inside there are tracks
of people who worked or lived there, where time seemed to stop.
My wish to dicover bring me to know what is hidden behind a rotten wall.
Through my photos I tried to give new life at something which died many years ago.You can feel an atmosphere which
bring you back in the past into old memories.
http://www.ban3.it/
Bernd and Hilla Becher
Vernacular industrialized architecture has been the sole subject of Bernd and Hilla Becher's work for some forty years.
Their vast photographic inventory now ranges geographically from western Europe through North America and taxo-
nomically across an enormous array of heterogeneous building types, many verging on obsolescence—mine shafts,
lime kilns, silos, cooling towers, blast furnaces, tipples, gasometers—all classified by reference to function.The initial
impetus that led the young Bernd Becher to begin photographing such subjects in the late 1950s was purely practical:
he wanted to use his recordings as raw material for the paintings he was then making in a Neue Sachlichkeit style.
In those same years Hilla Becher, née Wobeser, apprenticed and briefly worked in a professional advertising studio,
where she developed a passion for photographing technical and mechanistic subjects.Once husband and wife started
working together, in 1957, they assumed identical roles: tasks are not separately assigned to one or the other; both are
involved in scouting sites, negotiating with the owners and other authorities, setting up the cameras, and printing.The
art they have produced does not fall within conventional categories of documentary photography, though it has many
affiliations with that long-standing tradition. The disciplined ethic with which this dedicated German couple defined,
then refined, their project of recording for posterity the increasingly neglected relics of the industrial era, with its do-
mestic offshoots, has yielded not just an aesthetic but a vision.
From their earliest publication, titled tellingly Anonyme Skulpturen: Eine Typologie technischer Bauten (Anonymous
Sculpture:A Typology of Technical Buildings),1970,the Bechers' work has circulated within the realm of contemporary
art practice and discourse.Certain features of their art,the hallmark of which is,in CharlesWright's felicitous phrase,"a
controlled beauty," make this positioning particularly apt—though the Bechers themselves do not regard the issue as
of great import.1 Typically, their works present each industrial motif in what soon evolved into a rigorous, disciplined
signature manner whose focus is an exploration of the relation between the subject's function and the resulting photo-
graphic representation.Isolated,centered,and frontally framed,each motif is shot in as objective a manner as possible.
The combination of large-format cameras and finely grained black-and-white film ensures a remarkable tonal range
in each print. By working only under slightly overcast skies and early in the morning during the seasons of spring and
fall, the Bechers are ensured of an even, diffuse light with minimal shadows, a lambent ambience that enhances their
intensive focus on the motif, which is revealed in crystalline detail, grounded in a formal factual clarity. All anecdotal
incident, such as intrusive foliage, stray animals, and humans, is sedulously avoided: nothing disturbs the systematic
ascetic neutrality. Tellingly, the vantage point tends to be subtly elevated. "Looking at an object from a point half way
up it [causes] it to appear before you in its full reach and free of distortion," they explain.2 The raised camera position
also causes the horizon to appear to recede,the surroundings to become more panoramic,and the object to stand forth
prominently so that, while clearly related to its environment, it simultaneously appears somewhat removed, apart, an
effect enhanced by the expansive neutral skies. The results evidence a brilliant understanding of scale relations—of
how a vast structure can be made to fit a small-sized pictorial format—without rhetoric or expressive distortion.
By the mid-1960s the Bechers had also settled on a preferred presentational mode: the grid. Groupings of prints, each
print measuring sixteen by twelve inches or smaller, either framed discretely or encased within a single large frame,
facilitate direct, immediate comparison between motifs, which are arrayed without hierarchy, according to type, fun-
ction, and/or material. Juxtaposition permits industrial structures that at first might appear prevailingly similar, even
uniform,to register as significantly different one from another.Given that most viewers know little about the economic,
engineering, and functional requirements that determine the generic forms and characters of these structures, com-
parison of the several components in any of these multipartite works operates primarily at a formal level—that is,in an
aesthetic dimension. Differences and similarities among related motifs consequently appear as variations on an ideal
form, given that the structures are family members from the same species. Specific subjects are interpreted as anony-
mous plastic forms—as anonymous sculpture.
In 1989–91, for an exhibition at Dia in New York, the Bechers introduced a second format into their oeuvre: single ima-
ges that are larger in size—twenty-four by twenty inches—and presented individually rather than as gridded table-
aux. Several galleries within this extensive exhibition were devoted to a specific subject, a strategy that allowed new
typologies to cohere. This presentational strategy was heralded in part by a series of finely printed publications that
they had begun to produce, beginning with Framework Houses, in 1977.This was soon followed by, among others,Wa-
ter Towers (1988), Blast Furnaces (1990), and Pennsylvania Coal Mine Tipples (1991), the latter timed to mark the Dia
show.Devoted to one kind of industrialized plant,this ongoing series of books constitutes a type-by-type corpus docu-
menting a rapidly dying industrial age.The brief texts that the artists wrote to accompany the first books in the series
provided information on the genesis of the various typologies, offering a historical positioning that corresponded to
the inclusion, in the captions, of the date on which each building was constructed together with the year in which the
photograph was taken. In more recent publications this approach has been superseded by accounts that concentrate
on how the plants function, an approach paralleled by the elimination of the plants' dates from the captions. Taken to-
gether, these decisions further abstract the subjects from their sociohistorical ambience in favor of a concentration on
the typological relation of the individual instance to the generic, of the single member to the species or class.
For Dia:Beacon the Bechers ring further changes on their presentational modalities by capitalizing on the fact that the
gallery they selected for their work is divided into two equal parts. All the photographs in one half of the space are
partial views, which are relatively unusual in their oeuvre. Some of these are sequenced by type into small subsets. For
example, three of the Winding Towers are installed on one wall; the Blast Furnaces hang on another. A diptych—a for-
mat they rarely employ—occupies one of the two short walls that bisect the gallery. Most of these images, which have
seldom been exhibited, were recorded in the late 1980s and early 1990s, reflecting a subtle shift of focus in their work.
The one "vintage" image, from 1968, is formally no different, testimony both to the roots of this reorientation in certain
early forays and to the remarkable consistency and cohesion of their methodology and aesthetic.
The other half of the gallery is devoted to Aggregates, that is, to details of large-scale machinery, pipes, conduits, and
metallic containers that belong to a diverse range of plants. A suite of eight lime kilns, vessels of one of the oldest and
most commonplace processes long proceeding the onset of the industrial age, and hence frequently found in their ar-
chive, are counterpointed by images of plants that involve what are, for them, unusually contemporary procedures and
proces-ses—notably, Styrofoam and petrochemical production.
Tracing the history of a rapidly declining industrial era many of whose older technical processes and functions are now
defunct, and of individual buildings decaying or threatened with destruction, is an important impulse in the Bechers'
practice.Well aware of the fine-art and commercial portrayal of industry by previous specialists and by trade photo-
graphers alike, they have gradually assembled a second archive to probe and survey the recording of this thematic
from other perspectives.Primarily heuristic in function,the counterarchive both expands and focuses their knowledge
of their subject matter. In contrast to those predecessors whose work constitutes a traditional industrial archaeology, a
particular level of self-conscious awareness and reflexivity defines and distinguishes their enterprise.
While foregrounding the urgency of their archival mission, the Bechers also stress their concern for canonical docu-
mentary procedures, such as ensuring the legibility of the image: "The photographs should always show all the de-
tails and the textures of the materials," they insist,3 adding that they let "the forms speak for themselves and become
readable," that they refuse "to hide or exaggerate or depict anything in an untrue fashion."4 Viewed in this light, their
work may be placed in a lineage stemming from such early modernist luminaries as Eugène Atget and August Sander,
rather than in relation to artisanal modes of the kind that subtend industrial archaeology. Sander sought to classify into
a pictorial catalogue, in a "style devoid of style," the professional and social types that made up modern Germany.The
resonant formal uniformity of his lifelong project Menschen des 20.Jahrhunderts (Man in the Twentieth Century) exce-
eds the strictly documentary, becoming a cornerstone in the history of twentieth-century modernism.The Bechers are
today the foremost exponents of that revered legacy.
They are nonetheless fully attuned to the contemporaneous practices of many fellow artists who, in the 1960s, began to
use the camera as a convenient tool for recording and documenting. Notable among these artists were Robert Smith-
son, whom they assisted when he arrived in the Ruhr district in 1968 to explore the demise of the industrial era from a
very different perspective,and Hanne Darboven,whose project engaging collective cultural memory,Kulturgeschichte
1880–1983 (Cultural History 1880–1983),1980–83,shares certain impulses,methodologies,and techniques with the Be-
chers. Other parallels may be drawn with such artists as Sol LeWitt, Donald Judd, Carl Andre, and Ed Ruscha (with his
deadpan early book projects), who based their compositional and structural modalities on seriality and permutation.
In addition, Judd and many of his peers shared the Bechers' appreciation for and knowledge of anonymous industrial
structures, vernacular building types, and early modern as well as contemporary engineering.5 These affinities and
confluences generated the discursive context for the initial reception of their work,one that subsumed archaeological,
sociological, and strictly photography-based critiques into a late modernist agenda centered in formal, structural, and
serial procedures.Highly influential as teachers,the Bechers have in turn shaped another generation of artists both or-
thodox and aberrant, notable among them Thomas Struth, Candida Höfer, and Thomas Ruff, their former students from
the Kunstakademie Düsseldorf.
Notes
1. Charles Wright, "Foreword," in Bernd and Hilla Becher, Pennsylvania Coal Mine Tipples (New York: Dia Center for
the Arts, 1991), n.p. "The question if this is a work of [fine] art or not is not very interesting for us," Hilla Becher has
stated on a number of occasions. See, for example, Carl Andre, "A Note on Bernhard and Hilla Becher," Artforum 11,
no. 5 (December 1972), p. 59.
2. Bernd and Hilla Becher, quoted in "Interview mit Bernd und Hilla Becher," in Bernd und Hilla Becher (Munich:WB
Verlag, 1989), p. 14.
3. Bernd and Hilla Becher, quoted in Angela Grauerholz and Anne Ramsden, "Photographing Industrial Architecture:
An Interview with Bernd and Hilla Becher," Parachute 22 (Spring 1981), p. 15.
4. Ibid., p. 18.
5. Donald Judd's review of the 1964 exhibition "Twentieth Century Engineering" at the Museum of Modern Art, New
York, is telling here. See Judd, "Month in Review," Arts Magazine 39, no. 1 (October 1964), reprinted in Donald Judd:
Complete Writings 1959–1975 (Halifax: The Press of Nova Scotia College of Art and Design, and New York: New York
University Press, 1975), pp. 136–39.
Essay by Lynne Cooke
http://www.diacenter.org/exhibs_b/becher/
Blue Tea
Almost, but not quite, entirely unrelated to tea.
http://bluewyverntea.blogspot.com/
Bryan Papciak & Jeff Sias
An experimental, feature-length filmic journey through the rapidly vanishing relics and ruins of Abandoned America.
http://www.americanruins.com/
Buffalo Urban Exploration
http://buffaloexploration.com/
Carcoke
The last complete and historically valuable coke plant in Flanders is Located in the inner harbour of Zeebrugge. The
Flemish government 'inherited' the site from the former Cockerill-Sambre Company.
OVAM, the Public Waste Agency of Flanders has receivd control of the site, with the purpose to clean it up and to con-
vert it into new industrial area. Although many techniques do exist to conciliate conservation of the unique buildings
with the cleaning up of the soil, conservation of any trace of the histry and heritage is not taken into consideration.
OVAM plans to demolish all the buildings and to destroy all its fixtures and fittings.
The Flemish Association for Industrial Archaeology ( Vlaamse Vereniging voor Industriële Archeologie ), the overall
oranisation of private and volunteer industrial heritage organisations in Flanders, does vigorously protest against the-
se destruction plans and has formed a platform of individuals and associations to resist the plans of OVAM. The VVIA
has also asked the lgal protection of the site under the Flemish monument protection act.
http://www.carcoke.be/
Carmen’s Castle
Beyond urban exploration photography
http://www.carmenscastle.be/
Centro per la cultura d’impresa
Associazione sorta presso la Camera di commercio di Milano nell’ottobre 1991 allo scopo di promuovere:
* la tutela e la valorizzazione del patrimonio documentale dei propri associati
* la cultura d'impresa attraverso l'acquisizione, la tutela diretta e la valorizzazione delle fonti documentali storiche e
contemporanee prodotte dalle imprese e dagli altri soggetti economici
* la costituzione di archivi economici territoriali e di musei d'impresain collaborazione con le istituzioni locali e con il
sistema di rappresentanza degli interessi
* la formazione di operatori culturali in grado di intervenire sul patrimonio documentale delle imprese assicurando-
ne la tutela e la valorizzazione
* la pubblicazione dei risultati della propria attività
Il Centro è un’associazione no-profit di diritto privato riconosciuta dal Ministero per i beni e le attività culturali con
decreto del 5 novembre 1997 n.258.
L'attività di collaborazione con il Ministero è regolata da una convenzione stipulata con la Direzione generale per gli
archivi che consente al Centro di operare in stretto raccordo con le locali Soprintendenze archivistiche. Inoltre, al fine
di perseguire le proprie finalità istituzionali, il Centro ha stipulato convenzioni con l’Università degli studi di Milano,
con il Politecnico di Milano, con la Libera Università di Lingue e Comunicazione (IULM) e con l'Università degli studi
di Urbino.
Il Centro per la cultura d’impresa ha certificato il proprio Sistema di Gestione per la Qualità in conformità alla norma
ISO 9001:2000 a partire dal gennaio 2004 per tutti i settori d’attività.
http://www.culturadimpresa.org/
Centro Studi Politici e Sociali F.M: Malfatti
Terni archeologia industriale
http://www.archeologiaindustriale.org/
Centro Studi sull’Impresa e sul Patrimonio Industriale
Scopo del Centro (Vi) è la promozione e lo svolgimento di studi e di ricerche pluridisciplinari sulla storia, la cultura e
le realizzazioni imprenditoriali nell'industria, nell'artigianato, nella finanza, nel commercio e nell'agricoltura.
http://www.studimpresa.vi.it/
Chris Smart
Sito personale
http://cydonian.com
Christian Brünig
Foto- Galerie Industrie- und Kulturlandschaften
http://www.christian-bruenig.de/
Coal Mining in the Netherlands
This website provides a detailed historic overview of the former coal mines that dominated the South Limburg area in
the Netherlands from the beginning of the 20th century to the midst of the 1970's .The mining area was located in the
south of the Netherlands, bordering Germany and Belgium.
http://www.citg.tudelft.nl/live/pagina.jsp?id=f15cfa0f-f1fc-4b4c-a2e1-c65c75208047&lang=en
Christoph Lingg
SHUT DOWN - Industrial Ruins in the East
http://www.christophlingg.com/
Crace
CRACE - Centro Ricerche Ambiente Cultura Economia è una società cooperativa costituitasi nel 1998 per iniziativa di
professionisti operanti nel campo della tutela, valorizzazione e promozione di beni culturali, della ricerca storica, eco-
nomica e ambientale, dell’archivistica e documentalistica, dell’editoria e della comunicazione.
Essa si occupa particolarmente di:
* redazione di progetti museali riguardanti i beni demo-etnografici, archeologico-industriali e ambientali;
* progetti di fattibilità riguardanti sistemi museali e itinerari turistici;
* redazione di itinerari tematici e territoriali;
* progettazione di corsi di formazione professionale, qualificazione e aggiornamento nel settore dei beni culturali;
* editoria, comunicazione e divulgazione culturale.
http://www.crace.it/
Chris Jordan
Intolerable Beauty: Portraits of American Mass Consumption
Exploring around our country’s shipping ports and industrial yards, where the accumulated detritus of our consum-
ption is exposed to view like eroded layers in the Grand Canyon, I find evidence of a slow-motion apocalypse in pro-
gress. I am appalled by these scenes, and yet also drawn into them with awe and fascination.The immense scale of our
consumption can appear desolate, macabre, oddly comical and ironic, and even darkly beautiful; for me its consistent
feature is a staggering complexity.
The pervasiveness of our consumerism holds a seductive kind of mob mentality. Collectively we are committing a vast
and unsustainable act of taking,but we each are anonymous and no one is in charge or accountable for the consequen-
ces. I fear that in this process we are doing irreparable harm to our planet and to our individual spirits.
As an American consumer myself, I am in no position to finger wag; but I do know that when we reflect on a difficult
question in the absence of an answer, our attention can turn inward, and in that space may exist the possibility of some
evolution of thought or action. So my hope is that these photographs can serve as portals to a kind of cultural self-
inquiry. It may not be the most comfortable terrain, but I have heard it said that in risking self-awareness, at least we
know that we are awake.
http://www.chrisjordan.com/
Culture e Impresa
Rivista on-line
http://www.cultureimpresa.it/
Dark Oassage
A NewYork-based organization providing blind archaeologist with the finest quality flashlights
http://darkpassage.com
Derelict London
This site is obviously not taken to illustrate London at its most beautiful or most successful.The name derelict London is
a memorable name for a website though not everything within this site is of derelict areas and everyone has their own
definition of derelict......99% of these pictures were taken by myself (mainly within the last 3 years) during many miles
of walkabouts around the great capital.After years of travelling via car or public transport I realised just how littleI had
seen of London.
http://www.derelictlondon.com/
DetroitYes
Forums on Detroit
http://www.detroityes.com/
Dezafekt
Dezafekt is about disused places in,around,and under urban areas,mostly around Paris and the suburbs.The pictures
are the result of several urban explorations and night trips with friends
http://dezafekt.free.fr/introeng.html
Disused Structures
Remains of civilization
http://www.disused-structures.tk/
Dubtown
Industriekultur
http://www.dubtown.de/
Dylan Trigg
Dylan Trigg is a doctoral student and associate tutor at the University of Sussex. He has published on space and place,
continental philosophy, and aesthetics. His interests includes: the philosophy of architecture (in particular the pheno-
menology of space and place, place and memory, and the aesthetics of urban ruins); phenomenology (in particular
Bachelard,Husserl,Merleau-Ponty,and Heidegger);and the ethical and epistemological limits of representing trauma.
Trigg is the author of The Aesthetics of Decay: Nothingness, Nostalgia and the Absence of Reason (New York: Peter
Lang, 2006) He has been a visiting scholar at Duquesne University and a guest lecturer at the University of Montana.
http://www.dylantrigg.com/
Edifici abbandonati
Le idee che le rovine destano in me sono grandi.Tutto si annienta,tutto perisce, tutto passa. Il mondo soltanto resta. Il
tempo soltanto dura.
Denis Diderot
http://www.edificiabbandonati.com/
European Route of Industrial Heritage
Europe’s industrial heritage.
Where was the first ever factory on Earth? Where was the largest steam engine built? And where can you find the most
up-to-date colliery of its time? Industrialisation changed the face of Europe.Consequently it has left us a rich industrial
heritage. A gigantic network of sites spread all over the continent. It only has to be brought back to life. That is what
the European Route of Industrial Heritage (ERIH) is doing. Come with us on an exciting journey of discovery along the
milestones of European industrial history.
http://en.erih.net/
Euthanasia
Abandoned, industrial, unfinished, different
http://design.mykurkino.ru/euth/index.php
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  • 3.
  • 4. INDICE MAPPA DI TRANSITI Introduzione STATEMENT La storia di AZOUZ l'Africano in 2367 parole CONSIDERAZIONI A MARGINE FLANERIE LA FOTOGRAFIA COME INTERFACCIA COGNITIVA NELL'EPOCA DELL'ARTE DIGITALE CONCLUSIONI FOTOGRAFIE Bibliografia Filmografia Sitografia
  • 6. Mappa di transiti Nel disegno toponomastico immaginato, nominare luoghi ed aree di traffico della pro- duzione e del lavoro dismessi equivale rappresentare, nell’attualità del tempo d’og- gi, la mappa di eventi occorsi nel silenzio dei margini. Ecco che piazza Romania o via Tunisi, piuttosto che piazza Algeria, oltrepassano il senso puramente descritti- vo, per connotare vite in fuga da infausti destini verso ignoti orizzonti di speranza.
  • 7.
  • 9. Introduzione BLAST è un’area industriale dismessa della costa Adriatica, a nord di Ancona. Su una superficie di oltre 18 ettari, incuneata tra la statale 16 e la ferrovia, scorrono i monumentali edifici che ospitavano la produzione di concimi chimici, avviata all’inizio dello scorso secolo (1). Come la gran parte degli insediamenti industriali dell’epoca, la collocazione geografica assumeva un valore strategico in relazione al sistema viario di cui entrava a far parte (2).La via marittima da un lato e quella ferroviaria, dall’altro, garantivano la fluidità dei trasporti delle materie prime, in entrata, e dei prodotti finiti, in uscita. Attiva fino alla fine degli anni ’80, la fabbrica giace ora in stato di abbandono, in attesa venga definitivamente portata a termine l’azione di bonifica del terreno e definiti i criteri di recupero di alcune strutture lignee di alto pregio architettonico. Se i tempi della riqualificazione urbanistica si sono dilatati oltre ogni sensata misura di valorizzazione sociale, turistica ed economica del territorio, occorre rilevare che, frattanto, gli edifici più facilmente abitabili, come la palazzina della Direzione o le residenze operaie oltre il perimetro sud, sono stati, in più occasioni e ripetutamente nel tempo, utilizzati come dimora provvisoria da sbandati, nomadi e migranti clandestini. Il fenomeno dell’occupazione abusiva,quanto mai di attualità in questi tempi di profonde e complesse trasformazioni socio-economiche a carattere globale (3), in cui alla condizione di precarietà esistenziale assunta da fasce sempre più ampie di popolazione nazionale – estromessa o rigettata, a diverso titolo, dal lavoro attivo - si vanno ad aggiungere i poveri del mondo (4), attratti dallo sfavillio delle merci d’Occidente, è diventata una diffusa modalità abitativa, specie nelle periferie metropolitane.Tanto che non è difficile riconoscervi, oltre i sintomi di un malessere sociale diffuso, pure il luogo di invenzione e produzione di nuove forme-categorie culturali, specificatamente legate all’universo giovanile, anch’esso travolto, sia pure con effetti di prospettiva, dal disagio della condizione post-modena (5). Entro questo quadro, dai contorni assai incerti, liquidi direbbe Bauman (6),si colloca il lavoro di ricerca in chiave antropologico-visiva (7) qui rappresentato da una
  • 10. selezione di immagini fotografiche che raccontano, attraverso la specificità del proprio linguaggio, il fascino estetico del manufatto industriale dismesso e le vicende di quanti, frequentandolo alla stregua di un hotel per derelitti, vi hanno lasciato traccia di sé. Il termine BLAST – graffito che compare su una parete interna, al piano terra di quel che resta del reparto impasto – è di natura polisemica poiché,oltre a significare combustione di processo nel gergo tecnico (8),rappresenta la grafia chiusa di un asciutto simbolo di ribellione giovanile ad ascendenza metropolitana (9). E ciò, nella nostra visione, mette in risalto il valore estetico delle rovine. Solo in esse perdiamo l’illusione di possedere il nostro tempo.Il dramma è:come non esserne schiavi? Ovvero,come essere padroni del nostro tempo, senza che altri, od altro, se ne approprino? La risposta non è univoca, ma a noi piace pensare,e dire,che nell’effrazione della lingua e nella rivoluzione sensibile dei significati sia contenuto il segreto individuale - questo sì - di tale ricerca. Altrettanto individuale sarà la risposta, ma diffonderla e condividerla significa attuare un processo di comunicazione senza barriere di luogo, di tempo e di spazio. L’azione, come un colpo di teatro, si compie qui ed ora, ma dilata le sue energie ovunque ci sia un recettore capace di captarne le mosse. E’ l’invisibile ma attivo potere dell’intelligenza collettiva (10) della Rete, luogo virtuale dove anche la nostra sensibilità estetica ha scovato delle affinità (11) e ricavato un’area di connessioni identitarie (12) che confermano l’opportunità di una ricerca analitica sull’attualità di un’Estetica delle Rovine (13). NOTE (1) Campana Giuseppe, Giacomini Ruggero, Il sito ex Montedison.Storia, situazione, prospettove di recupero, Comune di Falconara Marittima, 2006 (2) AAVV, La macchina arrugginita, Feltrinelli, 1983 (3) Bauman Zigmunt, Dentro la globalizzazione, Editori Laterza, 1999 (4) Bauman Zygmunt, Vite di scarto, Editori Laterza, 2005 (5) Bauman Zigmunt, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, 2002
  • 11. (6) Bauman Zigmunt, Modernità liquida, Editori Laterza, 2004 Bauman Zigmunt, Modus vivendi.Inferno e utopia nel mondo liquido, Editori Laterza, 2007 (7) Canevacci Massimo, Antropologia della comunicazione visuale, costa&nolan, 1995 (8) Sui significati del termine inglese BLAST, si veda: http://en.thinkexist.com/ Blast Meaning and Definition 1. (v. t.) To rend open by any explosive agent, as gunpowder, dynamite, etc.; to shatter; as, to blast rocks. 2. (n.) A flatulent disease of sheep. 3. (n.) A violent gust of wind. 4. (n.) The exhaust steam from and engine, driving a column of air out of a boiler chimney, and thus creating an intense draught through the fire; also, any draught produced by the blast. 5. (v. t.) To injure, as by a noxious wind; to cause to wither; to stop or check the growth of, and prevent from fruit- bearing, by some pernicious influence; to blight; to shrivel. 6. (n.) A sudden, pernicious effect, as if by a noxious wind, especially on animals and plants; a blight. 7. (v. i.) To blow; to blow on a trumpet. 8. (v. t.) Hence, to affect with some sudden violence, plague, calamity, or blighting influence, which destroys or causes to fail; to visit with a curse; to curse; to ruin; as, to blast pride, hopes, or character. 9. (v. t.) To confound by a loud blast or din. 10. (n.) A forcible stream of air from an orifice, as from a bellows, the mouth, etc. Hence:The continuous blowing to which one charge of ore or metal is subjected in a furnace; as, to melt so many tons of iron at a blast. 11. (n.) The sound made by blowing a wind instrument; strictly, the sound produces at one breath. 12. (n.) The act of rending, or attempting to rend, heavy masses of rock, earth, etc., by the explosion of gunpowder, dynamite, etc.; also, the charge used for this purpose. 13. (v. i.) To be blighted or withered; as, the bud blasted in the blossom. (9) Branzaglia Carlo, Marginali, Iconografia delle culture alternative, Castelvecchi, 2004 http://www.bbc.co.uk/blast/ (10) Lévi Pierre, L’intelligenza collettiva.Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, 1996 Lévy Pierre, Cybercultura, Gli usi sociali delle nuove tecnologie, Feltrinelli, 1997 Dewdney Christopher (a cura di),Derrick de Kerckhove.La pelle della cultura.Un’indagine sulla nuova realtà elettronica, Feltrinelli, 1996
  • 12. (11) http://www.99rooms.com (12) Per connessioni identitarie, magari suggestionati da titolo di una delle rare esposizioni italiane di net-art (Connessioni Leggendarie, Mediateca di Santa teresa, Milano, 2005), facciamo riferimento alla biblioteca di link che, in appendice, va sotto il nome, per l’appunto, di connessioni identitarie. (13) La riflessione filosofica sulla materia estetica data pochi secoli della nostra storia e non è che fossero mancati, già dalle origini, pretesti o spunti concreti cui attribuire dignità accademica, se non rigore scientifico. Basti pensare alla fortuna degli studi storico-archeologici. Tuttavia, si vuole qui rimarcare come sia stato di scarsa rilevanza per la disciplina Estetica moderna e contemporanea il tema delle rovine industriali. Da alcuni anni, però, in ragione anche dei rapidi mutamenti indotti dal progesso tecnologico, fioriscono più numerosi i tentativi di rendere sistematica l’emergenza strabordante delle nuove forme artificiali. In ogni caso, il riferimento teorico imprescindibile è e rimane ancora oggi il contributo datato (1966) del breve saggio di Walter Benjamin sulla “Fotografia nell’Epoca della sua riproducibilità tecnica” edito da Einaudi. Ricordiamo: Ave Appiano, Estetica del rottame, Meltemi, 1999; Lea Vergine, Quando i rifiuti diventano arte, TRASH rubbish mongo, Skira, 2006
  • 14. Statement (*) Sebbene la presenza umana sia accuratamente evitata nell’immagine di architetture industriali del- la serie BLAST (1), ciò non significa che il protagonista di quanto vi si narra siano le inerti cose ritratte. Tutt’altro: sono proprio loro, le cose, anche nei dettagli formalmente più estremi, a parlarci dell’azione dell’uomo e dei sentimenti esperiti durante il transito in quel luogo. Oggetti come un casco di protezione, un segnale di attenzione, un armadietto od anche un residuo di macchina qua- lunque evocano,senza nominarla,la presenza di vita operaia,con tutto il fardello di emozioni indivi- duali e collettive che si porta appresso. Per condizione, per storia. In ultima analisi, per definizione. E ciò basta, a noi, per giustificare la motivazione a darne testimonianza. Ma c’è dell’altro: il taglio spesso frontale dell’inquadratura diventa dato di stile, topos privilegiato di una visione certamente influenzata dalla mediazione culturale - esercitata con discrezione nell’arco di un lungo tempo bio- grafico - dalla Storia dell’Arte. Quella di schiacciare il soggetto, appiattendolo sulla superficie bi- dimensionale del supporto non è altro, dunque, che un’inclinazione poietica derivata dalle affinità compositive con la Pittura e col progetto d’Architettura, cui spesso ci si compiace di somigliare. Di fotografico rimane tutto il resto, che non è poco. La tecnica innanzitutto, tanto analogica che digitale. La post-produzione numerica, per quanto consente di adattare alle proprie esigenze espressive i vincoli ottico-compositivi dell’azione di ripresa. S’intravede, in questo lavoro di mappatura visuale dell’universo industriale in disuso, il tentativo di rendere esteticamente gradevole, se non bello, il soggetto in rovina, nella consapevolezza, però, del rischio di manifestare una certa ambiguità ideo- logica durante la fase ermeneutica di attribuzione di senso al prodotto fotografico. Queste ed altre parole intendono darne conto.Nel ribadire la predilezione per il soggetto-oggetto,l’attenzione della nostra ricerca visiva si concentra, con prevalenza, sui luoghi più frequentati della metropoli diffusa (2), gli o le sprawls. Qui, assumendo la fortunata definizione di origine antropologica - ormai parte della vulgata corrente - cioè nei cosidddetti “non luoghi” (3), si concentra quanto di più maledetta-
  • 15. mente indispensabile a descrivere la condizione contemporanea (4). Intendiamo proprio dire che la tragedia dell’essere si consuma proprio qui, tra gli scaffali di un ipermercato, in una stazione fer- roviaria,in una zona industriale,in un motel,in un autogrill,in una stazione di servizio e via dicendo. Abbiamo citato esclusivamente luoghi pubblici. Sì, perché quelli privati, per quanto spiati possano essere, sono raggiungibili dall’occhio del fotografo solo per via di complicità o di simulazione. Poi, quando succede, è al prezzo di una violenza che noi non ci sentiamo di condividere. Basta il mezzo televisivo a documentare,in quantità industriale peraltro,l’orrore segreto delle vicende intime.A chi, come noi, utilizza il mezzo fotografico per interpretare la realtà, non resta che indirizzare lo sguardo sugli uomini per via metonimica. Fissare una scarpa slacciata per dichiarare la morte del soggetto. Evocare senza nominare, dunque. Se non altro, per non uccidere (5) una seconda volta i propri testi- moni.Insomma,dobbiamo al linguaggio fotografico (6),alla sua resa immediata l’occasione per tra- durre in immagine i percetti (7) di una visione personale, ma assolutamente disincantata. La nostra. Le fotografie che compongono il racconto fotografico denominato BLAST, fanno parte di un archivio di immagini,in parte digitalizzate da pellicola,in parte direttamente riprese in formato digitale,che fu concepito ed iniziò ad essere costruito a partire dal 2005. La selezione qui raccolta testimonia il periodo più recente – Maggio-Ottobre 2007 – pertanto non può dare conto di ambienti dove erano ancora presenti le tracce del lavoro consumato come,ad esempio,attrezzi da falegnameria,scaffali di archiviazione,caschi di protezione,armadietti metallici e tanti altri oggetti di derivazione produttiva. (*) Anziché utilizzare la dizione inglese artist statement per specificare la nostra dichiarazione di intenti, cioè il movente intellettuale che sostiene la lunga e complessa azione di documentazione fotografica intrapresa già dal 2005, preferiamo contare unicamente sul termine statement. Con esso, oltre alla funzione poietica, credia- mo di dover esprimere con la necessaria efficacia il portato emozionale scaturito dalla frequentazione del luo- go come delle persone che, sia pure con finalità differenti, vi si sono temporaneamente rifugiate in stile nomadico.
  • 16. NOTE (1) Blast è il primo segmento di un ciclo, denominato mainbody, dedicato al rilievo fotografico con modalità e finalità estetiche di architetture in disuso, industriali e non solo. (2) Il concetto di metropoli diffusa illustra bene il carattere densamente urbano (http://www.blasttheory.co.uk/) di va- ste aree di terrritorio, tanto che discipline accademic-progettuali come sociologia urbana ed urbanistica non possono fare a meno di utilizzarlo nelle rispettive descrizioni della città post-moderna. (3) Marc Augè, Nonluoghi.Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, 1993 (4) Tutta l’opera di Jean Baudrillard, dal “Sistema degli oggetti”, passando per “Lo scambio simbolico e la morte” fino all’ultima opera ,“Il patto di lucidità o l’intelligenza del Male” dove, tra l’altro, si sofferma a lungo a considerare l’”avventura dell’arte moderna” e “la violenza fatta all’immagine” - parlando di fotografia - si nutre con intensità delle simbologie virtualizzate e virtualizzanti dell’essere contemporaneo. (5) Che l’atto fotografico si compia attraverso un “delitto”, è stato rilevato a più riprese dalla critica fotografica colta. Due nomi su tutti: Roland Barthes nella “Camera chiara” e Susan Sontag nel suo “Saggio sulla Fotografia”, entrambi di recente riediti da Einaudi. In altre parole, l’istantanea fissa un frammento del continuum temporale congelandone la forma in un passato che non esiste più. Dunque, morto. (6) La fotografia in quanto linguaggio iconico è entrato di diritto al centro dell’interesse di analisi da parte della cate- goria intellettuale dei semiologi,già agli esordi della disciplina in ambito accademico,intorno agli anni ’60 del secolo scorso. (7) Arnheim Rudolf, Il pensiero visivo, Einaudi, 1974
  • 17. La storia di Azouz l’Africano in 2367 parole (*) Ho incontrato per la prima volta Azouz (1) nel mese di maggio 2007 durante un mio periodico so- pralluogo fotografico. Avevo da poco assestato il cavalletto sul pavimento terroso di quello che fu il reparto acido solforico quando, nel cercare l’inquadratura, mi sono comparse in lontananza nello spazio ottico del mirino due sagome scure. Bisogna precisare che l’ambiente, lungo e stretto (2) è di per sé poco luminoso, rischiarato soltanto dalle fenditure di luce provenienti da delle spe- cie di lucernari e dal portone di ingresso divelto. Ho avuto qualche istante di esitazione prima di decidere di comportarmi come se nulla fosse. Certo è che non era quello il luogo migliore per un incontro imprevisto. Quando fummo a poca distanza tra noi, visto che loro – due giovani uomini di colore - frattanto si erano avvicinati, rivolsi la parola a quello più prossimo. Mi sembrava avesse difficoltà alla postura eretta e nemmeno capiva le parole che gli rivolgevo. Non mi è servito molto tempo per capire che potevo essermi cacciato in un antipatico – suoni come un eufemismo – pa- sticcio. Fortunatamente, l’amico che lo seguiva a breve distanza si proponeva come traduttore fino a restare interlocutore unico. Era Azouz.Viveva in un minuscolo bunker-abitacolo a forma di cripta (3), con finestra sul lato mare. L’idea di tale soluzione abitativa potrebbe apparire anche suggestiva per quel periodo climatico, se non fosse, tra l’altro, che quello spazio era stato ricavato all’interno di un ex stabilimento chimico, nell’area dove più che certa è la presenza di polvere di pirite, pur se dispersa in anni di abbandono, sul terreno. Avevo già sperimentato in prima persona la cono- scenza di analoghe condizioni di vita (4), ma ciò che mi colpì in questa circostanza, fu l’ordine e la cura delle povere cose disposte tra il pavimento in terra battuta e le precarie mensole delle pareti a ferro di cavallo. E questo – il bisogno di un riscatto da un’esistenza più misera e fragile della più comune povertà – fu il tema della conversazione con quello che mi appariva un uomo sconfitto dal proprio destino. Già, perché avevo frattanto accettato l’invito di Azouz a bere un caffè nella sua tana. La ragione di tanta nostalgia per una casa vera stava forse nella presenza, nello stesso luogo, della
  • 18. sua fidanzata rumena, Alina. Fu lei a prepararci la bevanda calda su un fornello da campeggio ed a versarcelo dentro bicchieri di plastica. Sentimenti di misti di inquietudine, imbarazzo e pena scuo- tevano la mia comoda sensibilità di indigeno benestante,dinnanzi a tanta dignità ed umile ospitalità tanto che, per un ingiustificabile senso di colpa, mi sono reso disponibile ad aiutarlo a trovare un lavoro. Dopotutto, il mio rapporto di amicizia con il dirigente dell’ufficio del lavoro della mia citta, avrebbe potuto risultare utile,se non decisivo.Prima di salutarlo,promisi ad Azouz che avrei avviato un contatto per fissargli un incontro. Non ci sarebbero stati ostacoli di natura formale, essendo egli in possesso di regolare permesso di soggiorno e potendo esibire le prove dell’attività di carpen- tiere svolta, in un recente passato, presso un’impresa edile della zona. Fu così, con quest’accordo, cioè, che ci salutammo. Mi sono sentito obbligato da un insolito imperativo morale ed intuivo che la mia disponibilità avrebbe potuto contribuire a strappare quelle due miserabili esistenze alla con- dizione disumana di reietti. Con tale spirito, l’indomani stesso concordai le modalità di un incotro a breve, ma già dal primo contatto telefonico con Azouz – qualche giorno dopo – percepivo una imperscrutabile forma di resistenza verbale ad onorare l’appuntamento che avevo fissato. Falliti i successivi tentativi di comunicazione, mi sono arreso al tarlo di un faticoso pensiero che mi sorgeva da dentro: quella vita da esclusi indubbiamente favorisce, quando non esige, per mere esigenze di sopravvivenza, il transito attivo nell'illegalità. Non mi restava che dimenticare quest’episodio che, indubbiamente, per il tono di simpatia umana che mi aveva suscitato, tornava alla mia mente ogni- qualvolta le cronache quotidiane si fossero occupate del tema immigrazione. Data la stagione, la frequenza con cui apparivano sui media era pressochè quotidiana. Perciò, nonostante la rimozione sia stata lucida e fredda, non potevo eliminare del tutto l’occorrenza, in ragione di quel vissuto squi- sitamente emotivo, di dover connettere mentalmente un qualunque episodio indiretto alla vicenda umana di Azouz. I mesi passarono, finchè ad Agosto non decisi un ulteriore sopralluogo fotografi- co nell’area BLAST. Quel giorno, come in precedenza, parcheggiai l’auto sul ciglio della statale in prossimità della fermata degli autobus urbani e di linea, di fronte allo stabilimento. Qui sostava in
  • 19. attesa un uomo che, per come appariva dall’aspetto – cioè di etnia Africana – lasciava intuire che avesse provvisoria dimora all’interno di qualche edificio industriale, proprio come Azouz.Visto che mi osservava insistentemente, gli rivolsi la parola chedendogli se vivesse “là dentro” e se vi avesse conosciuto Azouz. La risposta fu affermativa e si offerse pure, dopo aver saputo che lo conoscevo, di accompagnarmi da lui. Accettai di buon grado, dal momento che avrei finalmente potuto chiarire, almeno in parte, gli interrogativi che mi ero posto e non avevano ancora ricevuto risposta. Lui pure – non ne ricordo il nome – mi descrisse la propria condizione di immigrato in cerca di lavoro mentre percorrevamo il sentiero per giungere al luogo dove Azouz viveva. Erano le nove di mattino di una limpida giornata di mare. L’incontro avvenne appena fuori dalla sua tana, ma subito m’esortò ad en- trare. Dell’ambiente non era cambiato nulla da quando vi entrai la prima volta. C’erano, accomodati sul bordo del letto, alcuni ospiti, che volle presentarmi: un nordafricano e due polacchi, oltrechè il mio accompagnatore e la propria compagna, che se ne stava appartata in un angolo della piccola stanza. Immediatamente si giustificò del lungo silenzio e del telefono tenuto spento così a lungo, mostrandomi una lunga cicatrice sul lato esterno dell’avambraccio sinistro. Si trattava, a sua detta, della conseguenza di una caduta dallo scooter. Non potevo, date le circostanze in cui mi trovavo, di- chiarargli la mia incredulità rispetto alle affermazioni fatte. Era evidente che si trattava di una vera e propria ferita da taglio. Mi limitai a manifestare una cordialità di circostanza, per poi salutare ed iniziare il mio lavoro di ripresa che, dopotutto, era la ragione per la quale mi trovavo in quel luogo. Dunque, i sospetti iniziali diventavano, ai miei occhi, una specie di prova - non provata però - che in quell’area si governassero affari poco leciti. Con questo stato d’animo in cor- po percorsi, cavalletto alla mano, le restanti zone che volevo ri-esplorare con la fotocamera. Fu così che decisi di interrompere le mie incursioni fotografiche, pago anche della consistena quantitative del materiale accumulato nei mesi precedenti. In effetti, mi dispiaceva non proseguire il lavoro di “ricerca”, poichè mi rendevo conto che col tempo, oltre a mutare lo scenario ambienta- le – vuoi per interventi materiali della proprietà, vuoi per il transito costante di senzatetto d’ogni
  • 20. origine etnica, oltrechè di bande giovanili locali – la mia personale visione acquistava una con- fidenza privilegiata con le cose (5). Cose che sono tracce, ma anche impronte (6) vere e proprie di erranti presenze umane. Erano – e sono – frammenti di vita disseminati nello spazio secondo criteri di occupazione territoriale molto simile alle forme di marcatura animale; equivalgono a ca- ratteristiche abitative provvisorie, certamente nomadi, senza vincoli stanziali. Nei segni deposti all’abbandono, si leggono i significati di passaggi plurimi, a volte sovrapposti, ma con in commune la condizione marginale di chi vuole od è costretto a trasgredire le più elementari regole di convi- venza. Le diversità etniche, generazionali e culturali che qui si confrontano, aniziche svolgere un ruolo di rafforzamento dei legami di solidarietà per comunanza di status, che pure esistono, fini- scono con l’alimentare il conflitto e la spartizione fisica del territorio con modalità di tipo catasta- le. Frequentare i luoghi dell’abbandono, specie metropolitani, esige la coscienza di compiere uno sconfinamento. E’ solitamente l’atteggiamento di cui mi servo per attraversarli, il medesimo adot- tato nei confronti degli occupanti incontrati nell’area BLAST. Oltre ad Azouz, erano presenti, in quel periodo, una numerosa famiglia di Rom rumeni ed un piccolo gruppo, 4 o 5, di giovani polacchi. I primi scandagliavano il sito nelle zone dove più probabile era la presenza di rame,sotto forma di fili elettrici. Una volta, proprio il giorno che conobbi Azouz, mi capitò di vederli all’opera con un lungo coltello mentre tranciavano un fascio di cavi sotterraneo.Alla mia vista non si scomposero per nulla, se non per affermare:“rumeni poveri”. Mi vennero alla mente allora le immagini del cortometrag- gio di Claudio Bozzatello “Foku” (7) che racconta di un’analoga storia di sopravvivenza ambientata nell’ex stabilimento Falk di Sesto San Giovanni. Se si riflette sulle dinamiche di interazione sociale (8) che possono instaurarsi tra le mura scomposte di una vecchia fabbrica come BLAST, non basta l’immaginazione per metterne a fuoco proprietà e modalità di espressione. Ci soccorrono i fatti di cronaca che vi si verificano periodicamente, quando la locale Questura, magari sollecitata dalla proprietà, esegue uno sgombero. Sta di fatto che, fino a quando perdurerà la condizione di abban- dono, sia pure vigilato, i flussi ciclici di occupazione temporanea da parte, soprattutto, di immigrati
  • 21. clandestini, proseguirà senza sosta perchè l’area possiede un vasto perimetro facilmente vulnera- bile in qualunque punto: confina sul lato longitudinale est con la ferrovia e la spiaggia, è collocata geograficamente a breve distana dal porto di Ancona,scalo tutt’altro che immune dall’arrembaggio dei disperati del Sud-Est affamato. Per tutto il periodo, circa un anno, in cui Azouz ha vissuto nella tana di BLAST deve aver assistito e partecipato a numerosi e pesanti episodi di coesistenza forzata. Di uno in particolare è stato involontario e sfortunato protagonista:l’aggressione subita per mano di quegli stessi Rom rumeni che,sin dalla prim’ora,m’aveva confidato essere pericolosamente aggres- sivi. Fatto sta che quando il conflitto tra loro sfociò in rissa, a farne le spese fu, come già detto, il suo avambraccio sinistro lacerato dal violento colpo di una barra di ferro. Mai sarei venuto a conoscen- za dell’accaduto, se non avessi composto il suo numero telefonico mentre mi trovavo casualmente a passare da quelle parti. Era l’Ottobre scorso. Rispondendo alla mia chiamata, ho subito capito che aveva conservato il mio numero di telefono in agenda e che,in qualche misura,la sua condizione era cambiata in meglio.Si trovava a fare il custode-guardiano in un Albergo per cani a pochi chilometri di distanza dal vecchio luogo di residenza.Non mi fu difficile raggiungerlo subito e venire a conoscen- za che dopo un breve periodo trascorso in ospedale per curare la ferita patita ed essere rientrato nella tana di BLAST, dallo stesso luogo era stato costretto ad allontanarsi in seguito all’incendio del- le sue povere cose perpretato dagli stessi autori dell’aggressione fisica.Era evidente che lo scontro era stato di drammatica intensità tra le due parti. Non mi sono occupato di conoscerne le ragioni, ma è facilmente ipotizzabile che sia scoppiato per una reciproca quanto incompatibile volontà di controllo del territorio. Persa la propria battaglia, anche perchè si trovava, solo, ad affrontare un ne- mico molto più numeroso, si rifugiò in una casa abbandonata nei pressi del sottovia dell’autostrada. Qui, dopo pochi giorni venne sorpreso dal proprietario dell’immobile il quale, constatatene le mi- serabili condizioni di vita,gli offerse di lavorare nel proprio canile che si trova a pochi passi.Fu così che la sua vita da cani si trasformò in vita con i cani. Da questo punto inizia un nuovo racconto, meno tragico certo,ma altrettanto amaro,con un‘ombra davanti al futuro,però.Azouz ha 35 anni,non conta
  • 22. di rivedere mai più i propri genitori, ha una fidanzata rumena da cui aspetta un figlio, ma è quasi certo che verrà lasciato solo perchè, dice, le donne rumene “trattano i figli come stracci da buttare.” NOTE (1) Azouz è il nome di comodo attribuito al protagonista di questo racconto breve,avendo egli espressamente richiesto che non venisse citato il suo vero nome, per il timore di essere riconosciuto nell’eventualità lo scritto fosse stato dato alle stampe.La testimonianza che egli mi ha reso sulla propria vicenda - tra l’altro ricca di inquietanti dettagli sul viatico migratorio che,attraverso la nazione libica,lo condusse a vivere l’accoglienza del nostro paese a Pantelleria,intorno al 2001 – costituisce lo sfondo entro il quale ho potuto dare corpo e sostanza ad una sequenza di immagini che altrimenti avrebbero trattenuto celati i fantasmi da cui erano e sono ancora popolate.Le parole possono,dunque,arricchire di sen- so lo loro visione,di per sé scarnificata dall’occhio crudo ed impassibile della fotocamera.Almeno nel nostro auspicio. (2) Immagine_49.tif (3) Immagine_53.tif (4) Ricordo,tanto per citare un episodio ancora una volta personale,il piano interrato dell’ex Colonia Bolognese a Ric- cione (http://holiday-campus.blogspot.com) dove in più occasioni mi è stato dato incontrare giovani extracomunitari sopiti su giacigli di fortuna in pieno giorno. (5) “E’ prassi normale dell’etnografia partire dal presupposto che tutti i beni materiali siano dotati di significati sociali e concentrare la parte principale dell’analisi di una cultura sul loro uso come strumenti per la comunicazione.” Dou- glas Mary – Baron Isherwood, Il mondo delle cose,Oggetti,valori,consumo, il Mulino, 1984 (6) La fotografia come impronta (index) del reale sostiene l’architettura teorica di molti studi semiotici contemporanei, tra i quali occorre segnalare l’ampio saggio di Philippe Dubois sull’Atto fotografico, pubblicato in Francia da Nathan, nel 1990 e tradotto in italiano da Quattroventi, nel 1997. (7) v.Filmografia essenziale (8) Erwin Goffmann, L’interazione strategica, Il Mulino, 1971 (*) Trattandosi di una vicenda umana legata alla memoria di un luogo che mi trasmette, più di altri, reali sensazioni di familiarità con gli oggetti che lo abitano e le persone che l’attraversano, non potevo non descriverla che adottando la prima persona singolare.
  • 24. Flanerie Indossato lo spirito del flaneur, (1) abbiamo girovagato nel labirinto (2) della Rete Internet alla ri- cerca di curiose affinità. Ce n’è di che selezionare, nello scenario virtuale di nicchie nascoste tra le pieghe dell’immensa ragnatela in continuo ed incessante progress.Culto per le rovine industriali, opera per lo più dei cosiddetti esploratori urbani, vere e proprie bande di incursionisti dell’obiet- tivo (3), i siti che ne rappresentano le vestigia arrugginite vengono quasi sempre classificati dai motori di ricerca nelle categorie, in prevalenza di lingua inglese, di industrial archaeology urban culture, urban decay. Quanto, invece, all’universo fotografico, nelle accezioni più prossime al nostro campo di indagine – ovvero il versante estetico-artistico - la scelta di una traccia disciplinare (4) stabile e certa è quanto mai problematica per la sconfinata mole di informazioni che, nell’andirivie- ni quotidiano, si agitano lungo le autostrade di bit. Non resta che darne conto secondo una cornice di riferimento assai soggettiva, peraltro anch’essa destinata a mutare continuamente di forma nel tempo, anche breve. Il flusso di dati che entrano in circolo in quel superorganismo (5) collettivo è tale che le competenze che vengono richeste per accedervi con maestria sono sempre più sofisti- cate, dunque appannaggio prioritario delle generazioni più giovani. Ciò non toglie, però, che l’oc- correnza critica richiesta per esplorare con efficacia cognitiva gli archivi spontanei che di continuo si formano sulla Rete, non esiga - di proprio - il possesso di strumenti analitici che vanno ben oltre la padronanza delle pur impegnative tools d’accesso o di gestione. Ci riferiamo ad ambiti disci- plinari come la filosofia, l’estetica, la sociologia, l’antropologia e la storia dell’arte. In quest’ordine metodologico oltrechè gnoseologico, il vecchio e caldo supporto cartaceo – il libro – resta anco- ra ineliminabile per il contributo che continua garantire al progresso della conoscenza. Appunto.
  • 25. NOTE (1) Nuvolati Giampaolo, Lo sguardo vagabondo,Il flaneur e la città da Baudelaire ai postmoderni, il Mulino, 2006 (2) Sambo Marco Maria, Labirinti,da Cnosso ai videogames, Castelvecchi, 2004 (3) http://www.urbanexplorers.net/ (4) Che l’oggetto della ricerca riguardi artisti, festivals o gallerie specializzate, occorre scendere in profondità tra le maglie dei contenuti e dei riferimenti ipertestuali cui rimandano per individuare un percorso di lettura logico – in ogni caso, individuale, unico, irripetibile - anche dallo stesso autore della ricerca. (5) Lévy Pierre, Le tecnologie dell’intelligenza, A/Traverso, 1990
  • 26. La fotografia come interfaccia cognitiva nell’epoca dell’Arte Digitale. Col termine fotografia, ci si intende riferire al fenomeno contemporaneo della riproduzione mec- canica della realtà: oltre alle immagini fisse, esso contempla quelle in movimento di cinema e tele- visione, nonché la sintesi di entrambe operata, ormai diffusamente su scala planetaria, dal proces- so di simulazione digitale (1), che trova nella Rete il luogo virtuale di più torrenziale espansione. Nell’arco degli ultimi tre decenni è totalmente mutato il nostro rapporto percettivo col mondo e le generazioni che sono nate e cresciute in quest’intervallo di tempo hanno sviluppato capacità co- gnitive, qualità etiche e morali già assai diverse da quelle degli immediati predecessori. Il quadro culturale di riferimento, in Occidente come in Oriente, si chiama Globalizzazione. Tutto origina da un’applicazione tecnologica elementare: il codice binario. La possibilità tecnica di tradurre qualun- que dato analogico in forma numerica e quindi di elaborarne lo statuto ontologico, espande oltre ogni limite di realtà preesistente le attribuzioni della nostra fantasia e della nostra immaginazione. Eccolo, dunque, l’esito antropologico meno considerato di questa rivoluzione tecnico-culturale an- cora in corso, ma forse destinata a diventare permanente, proprio in ragione del principio gene- ratore che la sostiene: la mutazione di genere (2), i cui esiti sono oggi difficilmente prevedibili. Le nostre vite sembrano scorrere, seppure faticosamente, sul binario imperturbabile della Storia. Non riusciamo a leggere i segni delle trasformazioni in atto se non come disagio esistenziale o fobia dell’altro, senza renderci conto che questi sentimenti sono la conseguenza di un profondo muta- mento di paradigma. Rinunciando ad avventurarci nell’infausta pratica della congettura, conside- riamo più da vicino, magari anche nel dettaglio morboso della marginalità epistemologica - come potrebbe essere considerato, ad esempio, il riferimento all’uso sociale della videofonino - gli ele- menti che compongono la mappa degli atti comunicativi agiti attraverso la strumentazione digitale. In quest’ambito, denso di costante innovazione tecnologica da un lato e rapida evoluzione merce- ologica dall’altro, le pratiche hanno finito per condizionarne le modalità progettuali sia di conte-
  • 27. nuto (scopi) che di forma (design), in una circolarità di reazioni che va sotto il nome di marketing virale (3). Se ciò interviene è perché le modificazioni neurologiche del cervello indotte dall’utilizzo delle protesi tecnologiche (4) producono, a loro volta, vere e proprie rivoluzioni culturali, che non sempre sono socialmente indolori. Entro questo quadro, che contiene la somma dei segni attivi nell’universo animato, la fotografia svolge un ruolo spesso inconscio (5) di appercezione del reale. Proviamo a pensare cosa succederebbe alla nostra psiche se dovesse improvvisamente rinunciare a conoscere il mondo attraverso la mediazione delle immagini (fotografiche), quando da queste siamo investiti e spesso travolti in ogni istante del nostro quotidiano essere. Di più: il mondo oniri- co, rispecchiando il vissuto, tende a riprodurre, tenendone traccia mestica, il simulacro visivo della realtà durante il riposo notturno. Che mondo ci si presenterebbe senza l’apparizione di quell’im- menso e fantasmatico archivio di immagini cui tutti i giorni ci riferiamo per condurre una esistenza di relazione con il resto dei nostri simili e delle cose che ci circondano? Non v’è dubbio che do- vremmo riferirci ad un genere di civiltà completamente diversa da quella che stiamo vivendo. La potremmo immaginare - la letteratura di fantascienza più noir (6) ce l’ha suggerito – ponendo men- te ad un passato storico anche recente, quando l’esistenza degli uomini, anche nei grandi centri urbani, si nutriva prevalentemente di sensazioni naturali, od al futuro dopo la catastrofe descritto in molte opere cult (7) della cinematografia contemporanea. Fatto sta che la conoscenza, intesa come necessità per l‘essere, quindi già nel suo stadio più elementare, è indissolubilmente vincolata al corretto utilizzo delle strumentazioni o degli apparati tecnici presenti nel momento storico in cui essa prende forma.Se si affronta il problema da un punto di vista sociologico,si rendono necessarie delle distinzioni nette nelle differenze di accesso all’uso delle tecnologie tra generazioni diverse, dapprima, tra classi sociali ed aree geografiche del mondo (8), in ultima istanza.Va da sé che tanto più è elevata la soglia anagrafica, tanto più ostico risulta l’apprendimento delle funzioni digitali, sia pure nella semplice forma delle interfacce (9) facilitate. Mentre, per contro, l’approccio, anche nei comandi più complessi, non è di ostacolo alle menti giovani che si disimpegnano con estrema
  • 28. disinvoltura in operazioni non sempre di routine. Ma l’urgenza più allarmante è di ordine politico- sociale, cioè investe le differenze di alfabetizzazione informatica tra Nord e Sud del mondo, insom- ma tra ricchi e poveri. Anche se l’altlante geo-politico va mutando molto in fretta proprio questi tempi, la traiettoria del progresso resta immutata e la storia tende a ripetersi tale e quale: le civiltà, come le società, nascono, crescono e muoiono (10) nello sviluppo circolare della funzione ciclica. NOTE (1) Di Caro Giuliano, Tecnogenerazioni.Intelligenze artificiali,emergenti e simulate, Le Mani, 2005 (2)Yehya Naief, Homo Cyborg.Il corpo postumano tra realtà e fantascienza, Elèutera, 2004 (3) Il consumatore come vettore della comunicazione.Siamo al colmo dell’iperrealtà della merce,direbbe Baudrillard. Per rifarsi lo spirito: Bauman Zygmunt, Homo consumens, Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Erickson,2007.Per assecondarne le mosse,di Fulvio Carmagnola eVanni Codeluppi,rispettivamente:Il consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction economy, Bruno Mondadori, 2006; La vetrinizzazione sociale, Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, 2007 (4) A partire da: Marshall Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, 1967 (5) Vaccari Franco, L’inconscio tecnologico, Punto & Virgola, 1979 (6) Kuhn Tomas, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, 1969 (6) Si pensi a tutta l’opera di Philip K. Dick (http://www.philipkdick.com/) (7) Uno fra tutti: Blade Runner, di Ridley Scott (http://www.blade-runner.it/) (8) Norris Pippa,Digital Divide, Civic Engagement,Information Poverty,and the InternetWorldwide,Communication, Society and PoliticsHarvard University,Massachusett, http://www.digital-divide.it/ (9) Raskin Jef, Interfacce a misura d’uomo, Apogeo, 2003 (10) Diamond Jared, Collasso.Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, 2005
  • 30. Conclusioni Superato il millennio ed oltepassata la fase infantile dell’era digitale la fotografia, in quanto Sistema, estende il proprio dominio all’intero universo simbolico della comunicazione individuale e di mas- sa. Diviene linguaggio universale, ovunque esercitato con le medesime regole. Fatto salvo il vincolo ottico dell’inquadratura, tutto ciò che finisce col rientrarvi altro non è che il prodotto di una cultura e di una visione individuale, ma anche sociale del mondo. Nella stanca arena delle Arti Figurative, la fotografia ha prodotto un varco poietico tanto ampio da aver favorito fiduce mercantili spesso in- comprensibili quanto immeritate.Ma,contrariamente alle Arti tradizionali,è priva di un solido sitema teorico di riferimento - chiamiamolo pure Estetica - e stenta, almeno nel nostro paese, a farsi strada una seria prospettiva di analisi critica, non importa quali siano gli strumenti critici adottati. Il nostro compito, qui, è stato quello di aver indicato un possibile campo di indagine sistematico, quello delle Rovine Industriali, elemento e materia sempre più ingombranti nel modello contemporaneo d’uso politico delle aree urbane.
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  • 118. Cusano Valentina, Fotografia e Arte.Evoluzione del linguaggio fotografico dalla nascita della fotografia alla Digital Art, Clueb, 2006 D’Autilia Gabriele, L’indizio e la prova.La storia nella fotografia, Bruno Mondadori, 2005 Davidson Lowe Sue, Stieglitz.Biography, MFA Publications, 2002 De Paz Alfredo, L’immagine fotografica.Storia,estetica, ideologie, Clueb, 1985 De Paz Alfredo, L’occhio della modernità.Pittura e fotografia dalle origini alle avanguardie storiche, Clueb, 1987 Deren Coke Van, Avanguardia fotografica in Germania 1919-1939, Il Saggiatore, 1982 Doesneau Robert, A l’imparfait de l’objectif.Souvenirs et portrait, Pierre Belfond, 1989 DuboisPhilippe, L’acte photographique, Nathan, 1990 Dyer Geoff, The ongoing moment, Abacus, 2005 Dyer Geoff, L’infinito istante.Saggio sulla fotografia, Einaudi, 2007 Eletti Luciano, Lo sguardo oscillante.Oltre l’occhio fotografico, O barra O edizioni, 2003 Faccioli Davide (a cura di), 100 al 2000: il secolo della Fotoarte, Photology, 2000 Ferrarotti Franco, Dal documento alla testimonianza.La fotografia nelle scienze sociali, Liguori Editore, 1984 Fiorentino Giovanni, L’occhio che uccide.La fotografia e la guerra: immaginario,torture,orrori, Meltemi, 2004 Fiorentino Giovanni, L’Ottocento fatto immagine, Sellerio Editore, 2007 Floch Jean-Marie, Sémiotique poètique ed discours mythique en photographie.Analyse d’un “Nu” d’Edouard Boubat, Università di Urbino, 1980 Floch Jean-Marie, Forme dell’impronta, Meltemi, 2003 Flusser Vilelm, Per una filosofia della fotografia, Agorà Editrice, 1987 Freund Gisele, Fotografia e società, Einaudi, 1976 Frillici Pier Francesco, Sulle strade del reportage.L’’odissea fotografica diWalker Evans Robert Frank e Lee Friedlander, Editrice Quinlan, 2007 Frongia Antonello, L’occhio del fotografo e l’agenda del planner.Studio su Jacob A.Riis,Toletta Editore, 2000 Galassi Peter, Prima della fotografia.La pittura e l’invenzione della fotografia. Bollati Boringhieri, 1989 Galassi Peter, Walker Evans & Company,The Museum of Modern Art, NewYork., 2000 Galbiati Marisa, Lo sguardo discreto.Habitat e fotografia,Tranchida Editori, Garner Gretchen, Disappearing witness.Chane in Twentieth-Century American Photography,The Johns Hopkins Uni- versity Press, 2003
  • 119. Genovali Sandro, Mario Giacomelli.L’evocazione dell’Ombra, Charta, 2002 Gilardi Ando, Meglio ladro che fotografo.Tutto quello che dovreste sapere sulla fotografia ma preferirete non aver mai saputo, Bruno Mondadori, 2007 Gilardi Ando, Storia sociale della fotografia, Feltrinelli, 1976 Gilardi Ando, Muybridge.Il magnifico voyeur, Gabriele Mazzotta Editore, 1980 Gilardi Ando,Wanted! Storia,tecnica e estetica della fotografia criminale,segnaletica e giudiziaria, Mazzotta, 1978 Giusti Sergio, La caverna chiara.Fotografia e campo immaginario ai tempi della tecnologia digitale, Lupetti, 2006 Guerra Simona, Parlami di lui,Mediateca delle Marche, 2007 Guibert Hervè, L’image fantome, Les Editions du Minuit, 1981 Guido Guidi, La Lunga Posa. Fotografie dall’archivio di Italo Zannier, Alinari, 2006 Howarth Sophie (a cura di), Essays on Remarkable Photographs,Tate Publishing, 2005 Keim Jean A., La photographie et l’homme, Casterman, 1971 Keim Jean A., Breve storia della fotografia, Einaudi, 1976 Koetzie Hans-Michael. Photo Icons.The story behind the picture,Taschen, 2005 Krauss Rosalind, Reinventare il medium.Cinque saggi sull’arte d’oggi, Bruno Mondadori, 2006 Krauss Rosalind, Le photographique.Pour une thèorie des Ecarts, Macula, 1990 Levi Strauss David, Between the Eyes.Essays on Photography and Politics, Aperture, 2003 (trad. it. Postmedia, 2007) Lindekens Renè, Elèments pour une sèmiotique de la photographie, Didier, 1981 Lucas Uliano, Emigranti in Europa, Einaudi, 1977 Lyons Nathan (a cura di), Fotografi sulla fotografia, Agorà Editrice, 1990 Maddow Ben, EdwardWeston.His Life, Aperture, 2000 Maffioli Monica, Il belvedere.Fotografi e architetti nell’Italia dell’Ottocento, SEI, 1996 Maggiani Maurizio, Mi sono perso a Genova.Una guida, Feltrinelli, 2007 Maharidge Dale e Williamson Michael, Homeland.Viaggio nella madrepatria americana, il Saggiatore, 2004 Manovich Lev, Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, 2002 Marcenaro Giuseppe, Fotografia come letteratura, Bruno Mondadori, 2004 Marra Claudio, Bersaglio mobile, Edizioni Essegi, 1984 Marra Claudio, Scene da camera.L’identità concettuale della fotografia, Essegi, 1990 Marra Claudio, Pensare la fotografia.Teorie dominanti dagli anni sessanta ad oggi, Zanichelli, 1992
  • 120. Marra Claudio, Fotografia e pittura nel Novecento.Una storia “senza combattimento”, Bruno Mondadori, 1999 Marra Claudio, Le idee della fotografia.La riflessione teorica dagli anni sessanta ad oggi, Bruno Mondadori, 2001 Marra Claudio, L’immagine infedele.La falsa rivoluzione della fotografia digitale, Bruno Mondadori, 2006 Martinez Romeo, Erich Salomon, Mondadori, 1980 Martinez Romeo (a cura di), Eugène Atget, Electa Editrice, 1979 Mauro Alessandra, Il mestiere di fotografo, L’Ancora, 2004 Mele Rino, Tropici di carta.La fotografia, 10/17, 1991 Mellow James R., Walker Evans, Basic Books, 1999 Migliore Tiziana, Trattato del segno visivo.Per una retorica dell’immagine, Bruno Mondadori, 2007 Mikhailov Boris, Salt Lake, Steidi Pace/MacGill Gallery, 1986 Mina Attilio/Modica Giovanni, L’arte della fotografia.La stampa d’arte negli antichi procedimenti fotografici, Hoepli, 1987 Miraglia Marina, Francesco Paolo Michetti Fotografo, Einaudi, 1975 Mormorio Diego e Verdone Mario (a cura di), Il mestiere di fotografo, Romana Libri Alfabeto, 1984 Mormorio Diego, Una invenzione fatale.Breve genealogia della fotografia, Sellerio Editore, 1985 Mormorio Diego, Gli scrittori e la fotografia, Editori Riuniti Albatros, 1988 Mormorio Diego, Un’altra lontananza, Sellerio Editore, 1997 Mulas Ugo, La fotografia, Einaudi, 1973 Muzzarelli Federica, Le origini contemporanee della fotografia.Esperienze e prospettive delle pratiche ottocentesche, Quinlan, 2007 Palazzoli Daniela, Ignoto a me stesso.Ritratti di scrittori da Edgar Allan Poe a Jorge Luis Borges, Bompiani, 1987 Paltrinieri Elisa, Tina Modotti.Fotografa irregolare, Selene Edizioni, 2004 Papi Giacomo, Accusare. Storia del Novecento in 366 foto segnaletiche, ISBN. 2004 Parquer marcel (a cura di), Renè Magritte.Fotografie, Jaca Book, 1982 Phèline Christian, L’image accusatrice (17), Les Cahiers de la Photographie, 1985 Pieroni Augusto, Fototensioni.Arte ed estetica delle ricerche fotografiche di inizio millennio, Castelvecchi, 1999 Pieroni Augusto, Leggere la fotografia.Osservazione e analisi delle immagini fotografiche, Edup, 2003 Pinto de Almeida Bernardo, Immagine della fotografia, Jouvence, 2005 Porretta Sebastiano, Ignazio Cugnoni Fotografo, Einaudi, 1976
  • 121. Prieto J. Luis, Saggi si semiotica.II.Sull’arte e sul soggetto, Pratiche Editrice, 1991 Quintavalle A.C., Messa a fuoco.Studi sulla fotografia, Feltrinelli, 1983 Quintavalle A.C., Farm Security Administration (La fotografia sociale americana del New Deal), Regione Emilia-Roma- gna, 1975 Rago Michele (a cure di), Nadar.Quando ero fotografo, Editore Riuniti, 1982 Ray Man, I 50 volti di Juliet, Gabriele Mazzotta Editore, 1981 Recuperati Gianluigi (a cura di), Fucked Up, Rizzoli, 2006 Rositani Niccolò e Zannier Italo, La fotografia.Dall’immagine all’illecito nel diritto d’autore, Skira, 2005 Rosselli Paolo, Architecture in Photography, Skira, 2001 Roth Franz, Foto-auge, Liguori Editore, 2007 Sagne Jean, Delacroix et la photographie, Herscher, 1982 Schaeffer Jean-Marie, L’immagine precaria.Sul dispositivo fotografico, Clueb, 2006 Schwarz Angelo, La fotografia tra comunicazione e mistificazione, Priluli & Verlucca, 1980 Schwarz Angelo, Mario Giacomelli,fotografie, Priuli&Verlucca, 1980 Schwarz Angelo (a cura di), Trenta voci sulla fotografia, Gruppo Editoriale Forma, 1983 Schwarz Heinrich, Arte e fotografia.Precursori e influenze, Bollati Boringhieri, 1982 Schwarzenbach Annemarie, Oltre NewYork.Reportage e fotografie 1936-1938, il Saggiatore, 2004 Scimè Giuliana, Il fotografo mestiere d’arte, Il Saggiatore, 2003 Signorini Roberto, Arte del fotografico.I confini della fotografia e la riflessione teorica degli ultimi vent’anni, Editrice C.R.T., 2001 Sontag Susan, Sulla fotografia.Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, 1978 Sontag Susan, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, 2003 Sternberger Paul Spencer, Between Amateur & Aesthete.The Legitimization of Photography as Art in America 1880- 1900, Universsity of New Mexico Press, 2001 Stock Denis, Americana, Jaca Book, 1980 Syberberg H.J. (a cura di), Fotografia degli anni ‘30, Gabriele Mazzotta Editore,1980 Szarkowski John, L’occhio del fotografo, 5 Continents, 2007 Szarkowski John (by), Mirrors andWindows.American Photography since 1960,The Museum of Modern Art- NewYork, 1978
  • 122. Tausk Peter, Storia delle fotografia del XX° secolo, Mazzotta, 1980 Termine Liborio, PaulValery e la mosca sul vetro.Fotografia e modernità, Aleph, 1991 Vaccari Franco, Fotografia e inconscio tecnologico, Punto e Virgola, 1979 Valèry Paul, Discorso sulla fotografia, Filema Edizioni, 2005 Valtorta Roberta (a cura di), E’ contemporanea la fotografia?, Lupetti, 2004 Vanlier Henri, Philosophie de la photographie, Les Cahiers de la Photographie, 1983 Volker Kahmen, Fotografia come Arte, Gorlich Editore, 1974 Weiermair Peter, Il nudo maschile nela fotografia del XIX e del XX secolo, Edizioni Essegi, 1987 Wells Liz, Photography: a critical introduction, Routledge, London and NewYork, 2004 Williams Gilda, Boris Mikhailov, Phaidon, 2001 Wolf Sylvia, EdRuscha and Photography,Whitney Museum, 2004 Zannier Italo, 70 anni di fotografia in Italia, Punto e Virgola, 1978 Zannier Italo, Storia e tecnica della fotografia, Laterza, 1982 Zannier Italo, Il dopoguerra dei fotografi, Grafis Edizioni, 1985 Zannier Italo, La fotografia italiana.Critica e storia, Jaca Book, 1994 Zannier Italo, Il sogno della fotografia, Skira, 2006 Zola-Emile Francois e Massin, Emile Zola fotografo, Gabriele Mazzotta Editore, 1979
  • 124. Antonioni Michelangelo, Regia di, L’avventura, 1960 Antonioni Michelangelo, Regia di, L’eclisse, 1962 Antonioni Michelangelo, Regia di, Deserto rosso, 1964 Antonioni Michelangelo, Regia di, Blow-Up, 1966 Antonioni Michelangelo, Regia di, Zabriskie Point, 1970 Antonioni Michelangelo, Regia di, Professione: reporter, 1975 Bozzatello Claudio, Regia di, Foku, Indi, 2005 Carnè Marcel, Regia di, Alba tragica, 1939 Ceste Armando, Regia di, Porca miseria, 2006 Gans Cristophe, Regia di, Silent Hill, 2006 Greenaway Peter, Regia di, Il ventre dell’architetto, 1987 Greenaway Peter, Regia di, Le valigie di Tulse Luper, 2002 Labate Wilma, Regia di, Signorinaeffe, 2008 Rasoulof Mohammed, Regia di, L’sola di ferro, 2005 Reggio Godfrey, Regia di, Naqoyaqatsi, 2002 Reggio Godfrey, Regia di, Koyaanisqatsi - Powaqqatsi, 2003 Rosi Francesco, Regia di, Le mani sulla città, 1963 Rossellini Roberto, Regia di, Germania anno zero,1948 Tarantino Quentin, Regia di, Pulp Fiction, 1994 Tarantino Quentin, Regia di, Kill Bill,Voliume 1, 2003 Tarantino Quentin, Regia di, Kill Bill,Volume 2, 2004 Tarantino Quentin, Regia di, Grindhouse - A prova di morte, 2007 Tarkovskij Andreij, Regia di, Stalker, 1979 Tarkovskij Andreij, Regia di, Nostalghia, 1983 Veerhoeven Paul, Regia di, Robocop, 1987 Wahidi Mohammad Amin, Regia di, Treasure in ruins, 2007, (http://www.aminwahidi.blogspot.com/) Wenders Wim, Regia di ,Nel corso del tempo, 1978 Wenders Wim, Regia di, Paris, Texas, 1984 Wenders Wim, Regia di, Il cielo sopra Berlino, 1987
  • 126. Archeologia Industriale-Cultura Urbana Abandonalia Lugares abandonados en España. Los lugares abandonados tienen un encanto especial... http://www.abandonalia.blogspot.com/ Abandoned Britain This Website is dedicated to documenting and recording the vanishing Industry's of Britain http://www.abandoned-britain.com/ Abandoned places Old buildings,abandoned hospitals,industrial palaces overgrown with plants and trees,the remaining walls decorated with graffiti, smashed windows, rain dripping through the roof... These places have become hard to find, difficult (or illegal) to access, dangerous to explore ... great to spend the day! http://www.abandoned-places.com/ Action Squad In a nutshell, Action Squad explores. This generally occurs late at night, to aid in avoiding other people, particu- larly those with badges and funny blue uniforms. We climb buildings, sneak into factories, crawl through all kin- ds of tunnels, spelunk old brewery caves, poke around abandoned buildings, and run across the rooftops. Sometimes we get in full gear, consult maps, make backup plans, and launch major missions into unknown and often dangerous terrain; other times, we'll just happen to see some minor location that begs to be explored and we'll take a casual stroll through the place right then. Anyplace that is challenging to get to or is off limits to be in is a potential target, particularly underground, abandoned, or historic sites. We usually employ no fancy equipment, and having a good time is our first priority. Which brings us to the next hypothetical question ... http://www.actionsquad.org/
  • 127. Ars Subterranea:The Society for Creative Preservation. Ars Subterranea is comprised of artists, historians, and urban explorers working to create an intersection between art and architectural relics in the NewYork City area. Our aim is to instigate unique perceptions of New York's history by constructing narratives around the city's forgotten relics. Ars Subterranea encourages its audiences to interact with the city's neglected and ruinous locations by recre- ating obscure but fascinating aspects of its urban development. Our projects include art installations, history-based scavenger hunts, unusual preservation campaigns, and much more. http://www.creativepreservation.org/ ArtInRuins We at ArtInRuins believe that decay is beautiful, but not necessary. Artists live and work in the buildings that the city or developers have often forgotten, and now that Providence is becoming a hip town (or a suburb of Boston) these bu- ildings and the artists, musicians and businesses who lived and worked in them are getting used for purposes that do not contribute to the community in the same way.We are not against new development, we are only opposed to unsu- stainable or irresponsible development. Before you get all up in arms,let us define a heated buzz word;Yuppies:(noun and sometimes four-letter word) Conspi- cuous consumers.. they are not an age group, they are a state of mind.Yuppies aren't all bad, as they buy art and spend money at expensive restaurants.The problem is when there are too many of them, because, by our definition,Yuppies consume, they do not contribute to the larger culture. http://www.artinruins.com/about/ Associazione Aree Urbane Dimesse For years albums of travel photos have occupied a shelf in my California home, unused save infrequent attempts to amuse family and friends with a tedious slide show. Now, thanks to the internet, I can attempt to amuse you. It's vain to think that you would have any interest in my photos of the places I 've been, but vanity is the only excuse I offer. I like my photographs. After all the effort it's comforting to know they are available to others - much more comforting than the thought that, left on the shelf, they may become just another heirloom destined for the trash. http://www.audis.it/index.htm
  • 128. Associazione Assi L'ASSI è un organismo di ricerca sorto per coordinare le attività di un gruppo di studiosi, di varia estrazione e forma- zione disciplinare, accomunati dall'interesse per la storia e l'analisi diacronica dell'impresa. La sua area di riferimento preminente è quella della business history,con un'attenzione specifica rivolta a tutte le dimensioni dell'agire d'impresa (dalle strategie alle strutture manageriali, fino alle dinamiche di mercato, dalle relazioni industriali ai modelli cultura- li). L'impegno maggiore dell'ASSI è posto nella realizzazione di cicli seminariali e di convegni internazionali di studi, oltre che nell'attività editoriale svolta sia attraverso pubblicazioni periodiche (gli "Annali di storia dell'impresa" e "Im- prese e storia") sia attraverso volumi monografici. http://www.associazioneassi.it/User/index.php Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale L'Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale (AIPAI),la sola operante in quest'ambito a livello na- zionale,è stata fondata nel 1997 da un gruppo di specialisti del patrimonio industriale e da alcune tra le più importanti istituzioni del settore nel Paese. L'Associazione conta oggi oltre 300 soci attivi nelle sezioni regionali presenti in tutto il Paese ed interagisce proficua- mente con università, centri di ricerca, fondazioni, musei, organi centrali e periferici dello Stato. http://www.patrimonioindustriale.it/ Asvaip. Associazione per lo Studio e la valorizzazione dell’Archeologia Industriale Pratese. Il 21 gennaio 2004 si è ufficialmente costituita l’Associazione per lo Studio eValorizzazione dell’Archeologia Industria- le Pratese (ASVAIP). L’obbiettivo principale di questa associazione è appunto quello della valorizzazione del patrimonio industriale, da un livello di carattere squisitamente culturale ad uno più operativo, volendosi porre come punto di riferimento per gli operatori del settore e proprietari e al contempo come cerniera tra quest’ultimi ed enti e amministrazioni. L’ambizioso programma è quello di trovare sinergie tra valenze culturali ed economiche, ovvero attraverso la “cono- scenza” elevare i vari siti a “patrimonio culturale”, in modo da riscattarne il crescente oblio e degrado, rovesciando così l’attuale processo facendoli divenire da problema a vera e propria risorsa. Si tratta quindi di valorizzare l’enorme patrimonio esistente in tutta la provincia pratese,con una particolare attenzione alla Val del Bisenzio ove queste emergenze del territorio sono ancora integre ma in gran parte sconosciute, per farlo
  • 129. divenire risorsa essenziale nei processi di governo del territorio, in linea con i principi di sostenibilità. Il riscatto dalla possibile distruzione di questi siti potrebbe quindi fornire da una parte risposte a problematiche attuali e dall’altra far recuperare la memoria di quell’identità storica su cui il territorio pratese è fondato,affinché la si possa trasmettere alle prossime generazioni che altrimenti ne verrebbero private. Ma l’altro elemento di forte novità di questa associazione è il coinvolgimento diretto dei proprietari degli stessi siti sto- rici che s’intende valorizzare, ovvero gli attori principali nei processi di trasformazione, e che per primi sono convinti che tra l’abbandono e la completa cancellazione esista una terza strada culturalmente ed economicamente percorri- bile. http://asvaip.it/?page=home Bane The clicks in this web-site are about my research in abandoned places, forgotten by everyone. Inside there are tracks of people who worked or lived there, where time seemed to stop. My wish to dicover bring me to know what is hidden behind a rotten wall. Through my photos I tried to give new life at something which died many years ago.You can feel an atmosphere which bring you back in the past into old memories. http://www.ban3.it/ Bernd and Hilla Becher Vernacular industrialized architecture has been the sole subject of Bernd and Hilla Becher's work for some forty years. Their vast photographic inventory now ranges geographically from western Europe through North America and taxo- nomically across an enormous array of heterogeneous building types, many verging on obsolescence—mine shafts, lime kilns, silos, cooling towers, blast furnaces, tipples, gasometers—all classified by reference to function.The initial impetus that led the young Bernd Becher to begin photographing such subjects in the late 1950s was purely practical: he wanted to use his recordings as raw material for the paintings he was then making in a Neue Sachlichkeit style. In those same years Hilla Becher, née Wobeser, apprenticed and briefly worked in a professional advertising studio, where she developed a passion for photographing technical and mechanistic subjects.Once husband and wife started working together, in 1957, they assumed identical roles: tasks are not separately assigned to one or the other; both are involved in scouting sites, negotiating with the owners and other authorities, setting up the cameras, and printing.The
  • 130. art they have produced does not fall within conventional categories of documentary photography, though it has many affiliations with that long-standing tradition. The disciplined ethic with which this dedicated German couple defined, then refined, their project of recording for posterity the increasingly neglected relics of the industrial era, with its do- mestic offshoots, has yielded not just an aesthetic but a vision. From their earliest publication, titled tellingly Anonyme Skulpturen: Eine Typologie technischer Bauten (Anonymous Sculpture:A Typology of Technical Buildings),1970,the Bechers' work has circulated within the realm of contemporary art practice and discourse.Certain features of their art,the hallmark of which is,in CharlesWright's felicitous phrase,"a controlled beauty," make this positioning particularly apt—though the Bechers themselves do not regard the issue as of great import.1 Typically, their works present each industrial motif in what soon evolved into a rigorous, disciplined signature manner whose focus is an exploration of the relation between the subject's function and the resulting photo- graphic representation.Isolated,centered,and frontally framed,each motif is shot in as objective a manner as possible. The combination of large-format cameras and finely grained black-and-white film ensures a remarkable tonal range in each print. By working only under slightly overcast skies and early in the morning during the seasons of spring and fall, the Bechers are ensured of an even, diffuse light with minimal shadows, a lambent ambience that enhances their intensive focus on the motif, which is revealed in crystalline detail, grounded in a formal factual clarity. All anecdotal incident, such as intrusive foliage, stray animals, and humans, is sedulously avoided: nothing disturbs the systematic ascetic neutrality. Tellingly, the vantage point tends to be subtly elevated. "Looking at an object from a point half way up it [causes] it to appear before you in its full reach and free of distortion," they explain.2 The raised camera position also causes the horizon to appear to recede,the surroundings to become more panoramic,and the object to stand forth prominently so that, while clearly related to its environment, it simultaneously appears somewhat removed, apart, an effect enhanced by the expansive neutral skies. The results evidence a brilliant understanding of scale relations—of how a vast structure can be made to fit a small-sized pictorial format—without rhetoric or expressive distortion. By the mid-1960s the Bechers had also settled on a preferred presentational mode: the grid. Groupings of prints, each print measuring sixteen by twelve inches or smaller, either framed discretely or encased within a single large frame, facilitate direct, immediate comparison between motifs, which are arrayed without hierarchy, according to type, fun- ction, and/or material. Juxtaposition permits industrial structures that at first might appear prevailingly similar, even uniform,to register as significantly different one from another.Given that most viewers know little about the economic, engineering, and functional requirements that determine the generic forms and characters of these structures, com-
  • 131. parison of the several components in any of these multipartite works operates primarily at a formal level—that is,in an aesthetic dimension. Differences and similarities among related motifs consequently appear as variations on an ideal form, given that the structures are family members from the same species. Specific subjects are interpreted as anony- mous plastic forms—as anonymous sculpture. In 1989–91, for an exhibition at Dia in New York, the Bechers introduced a second format into their oeuvre: single ima- ges that are larger in size—twenty-four by twenty inches—and presented individually rather than as gridded table- aux. Several galleries within this extensive exhibition were devoted to a specific subject, a strategy that allowed new typologies to cohere. This presentational strategy was heralded in part by a series of finely printed publications that they had begun to produce, beginning with Framework Houses, in 1977.This was soon followed by, among others,Wa- ter Towers (1988), Blast Furnaces (1990), and Pennsylvania Coal Mine Tipples (1991), the latter timed to mark the Dia show.Devoted to one kind of industrialized plant,this ongoing series of books constitutes a type-by-type corpus docu- menting a rapidly dying industrial age.The brief texts that the artists wrote to accompany the first books in the series provided information on the genesis of the various typologies, offering a historical positioning that corresponded to the inclusion, in the captions, of the date on which each building was constructed together with the year in which the photograph was taken. In more recent publications this approach has been superseded by accounts that concentrate on how the plants function, an approach paralleled by the elimination of the plants' dates from the captions. Taken to- gether, these decisions further abstract the subjects from their sociohistorical ambience in favor of a concentration on the typological relation of the individual instance to the generic, of the single member to the species or class. For Dia:Beacon the Bechers ring further changes on their presentational modalities by capitalizing on the fact that the gallery they selected for their work is divided into two equal parts. All the photographs in one half of the space are partial views, which are relatively unusual in their oeuvre. Some of these are sequenced by type into small subsets. For example, three of the Winding Towers are installed on one wall; the Blast Furnaces hang on another. A diptych—a for- mat they rarely employ—occupies one of the two short walls that bisect the gallery. Most of these images, which have seldom been exhibited, were recorded in the late 1980s and early 1990s, reflecting a subtle shift of focus in their work. The one "vintage" image, from 1968, is formally no different, testimony both to the roots of this reorientation in certain early forays and to the remarkable consistency and cohesion of their methodology and aesthetic.
  • 132. The other half of the gallery is devoted to Aggregates, that is, to details of large-scale machinery, pipes, conduits, and metallic containers that belong to a diverse range of plants. A suite of eight lime kilns, vessels of one of the oldest and most commonplace processes long proceeding the onset of the industrial age, and hence frequently found in their ar- chive, are counterpointed by images of plants that involve what are, for them, unusually contemporary procedures and proces-ses—notably, Styrofoam and petrochemical production. Tracing the history of a rapidly declining industrial era many of whose older technical processes and functions are now defunct, and of individual buildings decaying or threatened with destruction, is an important impulse in the Bechers' practice.Well aware of the fine-art and commercial portrayal of industry by previous specialists and by trade photo- graphers alike, they have gradually assembled a second archive to probe and survey the recording of this thematic from other perspectives.Primarily heuristic in function,the counterarchive both expands and focuses their knowledge of their subject matter. In contrast to those predecessors whose work constitutes a traditional industrial archaeology, a particular level of self-conscious awareness and reflexivity defines and distinguishes their enterprise. While foregrounding the urgency of their archival mission, the Bechers also stress their concern for canonical docu- mentary procedures, such as ensuring the legibility of the image: "The photographs should always show all the de- tails and the textures of the materials," they insist,3 adding that they let "the forms speak for themselves and become readable," that they refuse "to hide or exaggerate or depict anything in an untrue fashion."4 Viewed in this light, their work may be placed in a lineage stemming from such early modernist luminaries as Eugène Atget and August Sander, rather than in relation to artisanal modes of the kind that subtend industrial archaeology. Sander sought to classify into a pictorial catalogue, in a "style devoid of style," the professional and social types that made up modern Germany.The resonant formal uniformity of his lifelong project Menschen des 20.Jahrhunderts (Man in the Twentieth Century) exce- eds the strictly documentary, becoming a cornerstone in the history of twentieth-century modernism.The Bechers are today the foremost exponents of that revered legacy. They are nonetheless fully attuned to the contemporaneous practices of many fellow artists who, in the 1960s, began to use the camera as a convenient tool for recording and documenting. Notable among these artists were Robert Smith- son, whom they assisted when he arrived in the Ruhr district in 1968 to explore the demise of the industrial era from a very different perspective,and Hanne Darboven,whose project engaging collective cultural memory,Kulturgeschichte
  • 133. 1880–1983 (Cultural History 1880–1983),1980–83,shares certain impulses,methodologies,and techniques with the Be- chers. Other parallels may be drawn with such artists as Sol LeWitt, Donald Judd, Carl Andre, and Ed Ruscha (with his deadpan early book projects), who based their compositional and structural modalities on seriality and permutation. In addition, Judd and many of his peers shared the Bechers' appreciation for and knowledge of anonymous industrial structures, vernacular building types, and early modern as well as contemporary engineering.5 These affinities and confluences generated the discursive context for the initial reception of their work,one that subsumed archaeological, sociological, and strictly photography-based critiques into a late modernist agenda centered in formal, structural, and serial procedures.Highly influential as teachers,the Bechers have in turn shaped another generation of artists both or- thodox and aberrant, notable among them Thomas Struth, Candida Höfer, and Thomas Ruff, their former students from the Kunstakademie Düsseldorf. Notes 1. Charles Wright, "Foreword," in Bernd and Hilla Becher, Pennsylvania Coal Mine Tipples (New York: Dia Center for the Arts, 1991), n.p. "The question if this is a work of [fine] art or not is not very interesting for us," Hilla Becher has stated on a number of occasions. See, for example, Carl Andre, "A Note on Bernhard and Hilla Becher," Artforum 11, no. 5 (December 1972), p. 59. 2. Bernd and Hilla Becher, quoted in "Interview mit Bernd und Hilla Becher," in Bernd und Hilla Becher (Munich:WB Verlag, 1989), p. 14. 3. Bernd and Hilla Becher, quoted in Angela Grauerholz and Anne Ramsden, "Photographing Industrial Architecture: An Interview with Bernd and Hilla Becher," Parachute 22 (Spring 1981), p. 15. 4. Ibid., p. 18. 5. Donald Judd's review of the 1964 exhibition "Twentieth Century Engineering" at the Museum of Modern Art, New York, is telling here. See Judd, "Month in Review," Arts Magazine 39, no. 1 (October 1964), reprinted in Donald Judd: Complete Writings 1959–1975 (Halifax: The Press of Nova Scotia College of Art and Design, and New York: New York University Press, 1975), pp. 136–39.
  • 134. Essay by Lynne Cooke http://www.diacenter.org/exhibs_b/becher/ Blue Tea Almost, but not quite, entirely unrelated to tea. http://bluewyverntea.blogspot.com/ Bryan Papciak & Jeff Sias An experimental, feature-length filmic journey through the rapidly vanishing relics and ruins of Abandoned America. http://www.americanruins.com/ Buffalo Urban Exploration http://buffaloexploration.com/ Carcoke The last complete and historically valuable coke plant in Flanders is Located in the inner harbour of Zeebrugge. The Flemish government 'inherited' the site from the former Cockerill-Sambre Company. OVAM, the Public Waste Agency of Flanders has receivd control of the site, with the purpose to clean it up and to con- vert it into new industrial area. Although many techniques do exist to conciliate conservation of the unique buildings with the cleaning up of the soil, conservation of any trace of the histry and heritage is not taken into consideration. OVAM plans to demolish all the buildings and to destroy all its fixtures and fittings. The Flemish Association for Industrial Archaeology ( Vlaamse Vereniging voor Industriële Archeologie ), the overall oranisation of private and volunteer industrial heritage organisations in Flanders, does vigorously protest against the- se destruction plans and has formed a platform of individuals and associations to resist the plans of OVAM. The VVIA has also asked the lgal protection of the site under the Flemish monument protection act. http://www.carcoke.be/
  • 135. Carmen’s Castle Beyond urban exploration photography http://www.carmenscastle.be/ Centro per la cultura d’impresa Associazione sorta presso la Camera di commercio di Milano nell’ottobre 1991 allo scopo di promuovere: * la tutela e la valorizzazione del patrimonio documentale dei propri associati * la cultura d'impresa attraverso l'acquisizione, la tutela diretta e la valorizzazione delle fonti documentali storiche e contemporanee prodotte dalle imprese e dagli altri soggetti economici * la costituzione di archivi economici territoriali e di musei d'impresain collaborazione con le istituzioni locali e con il sistema di rappresentanza degli interessi * la formazione di operatori culturali in grado di intervenire sul patrimonio documentale delle imprese assicurando- ne la tutela e la valorizzazione * la pubblicazione dei risultati della propria attività Il Centro è un’associazione no-profit di diritto privato riconosciuta dal Ministero per i beni e le attività culturali con decreto del 5 novembre 1997 n.258. L'attività di collaborazione con il Ministero è regolata da una convenzione stipulata con la Direzione generale per gli archivi che consente al Centro di operare in stretto raccordo con le locali Soprintendenze archivistiche. Inoltre, al fine di perseguire le proprie finalità istituzionali, il Centro ha stipulato convenzioni con l’Università degli studi di Milano, con il Politecnico di Milano, con la Libera Università di Lingue e Comunicazione (IULM) e con l'Università degli studi di Urbino. Il Centro per la cultura d’impresa ha certificato il proprio Sistema di Gestione per la Qualità in conformità alla norma ISO 9001:2000 a partire dal gennaio 2004 per tutti i settori d’attività. http://www.culturadimpresa.org/ Centro Studi Politici e Sociali F.M: Malfatti Terni archeologia industriale http://www.archeologiaindustriale.org/
  • 136. Centro Studi sull’Impresa e sul Patrimonio Industriale Scopo del Centro (Vi) è la promozione e lo svolgimento di studi e di ricerche pluridisciplinari sulla storia, la cultura e le realizzazioni imprenditoriali nell'industria, nell'artigianato, nella finanza, nel commercio e nell'agricoltura. http://www.studimpresa.vi.it/ Chris Smart Sito personale http://cydonian.com Christian Brünig Foto- Galerie Industrie- und Kulturlandschaften http://www.christian-bruenig.de/ Coal Mining in the Netherlands This website provides a detailed historic overview of the former coal mines that dominated the South Limburg area in the Netherlands from the beginning of the 20th century to the midst of the 1970's .The mining area was located in the south of the Netherlands, bordering Germany and Belgium. http://www.citg.tudelft.nl/live/pagina.jsp?id=f15cfa0f-f1fc-4b4c-a2e1-c65c75208047&lang=en Christoph Lingg SHUT DOWN - Industrial Ruins in the East http://www.christophlingg.com/ Crace CRACE - Centro Ricerche Ambiente Cultura Economia è una società cooperativa costituitasi nel 1998 per iniziativa di professionisti operanti nel campo della tutela, valorizzazione e promozione di beni culturali, della ricerca storica, eco- nomica e ambientale, dell’archivistica e documentalistica, dell’editoria e della comunicazione. Essa si occupa particolarmente di: * redazione di progetti museali riguardanti i beni demo-etnografici, archeologico-industriali e ambientali;
  • 137. * progetti di fattibilità riguardanti sistemi museali e itinerari turistici; * redazione di itinerari tematici e territoriali; * progettazione di corsi di formazione professionale, qualificazione e aggiornamento nel settore dei beni culturali; * editoria, comunicazione e divulgazione culturale. http://www.crace.it/ Chris Jordan Intolerable Beauty: Portraits of American Mass Consumption Exploring around our country’s shipping ports and industrial yards, where the accumulated detritus of our consum- ption is exposed to view like eroded layers in the Grand Canyon, I find evidence of a slow-motion apocalypse in pro- gress. I am appalled by these scenes, and yet also drawn into them with awe and fascination.The immense scale of our consumption can appear desolate, macabre, oddly comical and ironic, and even darkly beautiful; for me its consistent feature is a staggering complexity. The pervasiveness of our consumerism holds a seductive kind of mob mentality. Collectively we are committing a vast and unsustainable act of taking,but we each are anonymous and no one is in charge or accountable for the consequen- ces. I fear that in this process we are doing irreparable harm to our planet and to our individual spirits. As an American consumer myself, I am in no position to finger wag; but I do know that when we reflect on a difficult question in the absence of an answer, our attention can turn inward, and in that space may exist the possibility of some evolution of thought or action. So my hope is that these photographs can serve as portals to a kind of cultural self- inquiry. It may not be the most comfortable terrain, but I have heard it said that in risking self-awareness, at least we know that we are awake. http://www.chrisjordan.com/ Culture e Impresa Rivista on-line http://www.cultureimpresa.it/ Dark Oassage A NewYork-based organization providing blind archaeologist with the finest quality flashlights
  • 138. http://darkpassage.com Derelict London This site is obviously not taken to illustrate London at its most beautiful or most successful.The name derelict London is a memorable name for a website though not everything within this site is of derelict areas and everyone has their own definition of derelict......99% of these pictures were taken by myself (mainly within the last 3 years) during many miles of walkabouts around the great capital.After years of travelling via car or public transport I realised just how littleI had seen of London. http://www.derelictlondon.com/ DetroitYes Forums on Detroit http://www.detroityes.com/ Dezafekt Dezafekt is about disused places in,around,and under urban areas,mostly around Paris and the suburbs.The pictures are the result of several urban explorations and night trips with friends http://dezafekt.free.fr/introeng.html Disused Structures Remains of civilization http://www.disused-structures.tk/ Dubtown Industriekultur http://www.dubtown.de/ Dylan Trigg Dylan Trigg is a doctoral student and associate tutor at the University of Sussex. He has published on space and place,
  • 139. continental philosophy, and aesthetics. His interests includes: the philosophy of architecture (in particular the pheno- menology of space and place, place and memory, and the aesthetics of urban ruins); phenomenology (in particular Bachelard,Husserl,Merleau-Ponty,and Heidegger);and the ethical and epistemological limits of representing trauma. Trigg is the author of The Aesthetics of Decay: Nothingness, Nostalgia and the Absence of Reason (New York: Peter Lang, 2006) He has been a visiting scholar at Duquesne University and a guest lecturer at the University of Montana. http://www.dylantrigg.com/ Edifici abbandonati Le idee che le rovine destano in me sono grandi.Tutto si annienta,tutto perisce, tutto passa. Il mondo soltanto resta. Il tempo soltanto dura. Denis Diderot http://www.edificiabbandonati.com/ European Route of Industrial Heritage Europe’s industrial heritage. Where was the first ever factory on Earth? Where was the largest steam engine built? And where can you find the most up-to-date colliery of its time? Industrialisation changed the face of Europe.Consequently it has left us a rich industrial heritage. A gigantic network of sites spread all over the continent. It only has to be brought back to life. That is what the European Route of Industrial Heritage (ERIH) is doing. Come with us on an exciting journey of discovery along the milestones of European industrial history. http://en.erih.net/ Euthanasia Abandoned, industrial, unfinished, different http://design.mykurkino.ru/euth/index.php