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APPUNTI DI STUDIO LIBRO CONTINI MOLTE INFANZIE MOLTE FAMIGLIE INTERPRETARE I CONTESTI IN
PEDAGOGIA
Introduzione
Osservando bambini di etnie diverse in una pubblicità si osservano quasi tutti uguali:come a dire che per
rendere la diversità accessibile occorre sempre e ancora attutirla, camuffarla. Ma l’ostacolo riguarda anche
gli italiani figli di italiani usati dalle organizzazioni malavitose, esibiti e sfruttati come forza lavoro dello
spettacolo, fotocopie dei rispettivi personaggi adulti famosi. Tutti questi bambini abitano i nostri luoghi,
non intravediamo segnali di diversità sotto l’apparenza omogenea. Dobbiamo indagare cercare di
comprendere le loro infanzie, l’insieme connesso delle condizioni (socioculturali, psicologiche, affettive e
relazionali) al cui interno si colloca e si snoda il loro essere bambini e bambine. Si colgono due
considerazioni inquietanti:scoprire che accanto alle infanzie accudite e curate , ci sono sia quelle troppo
curate, iperprotette, private della stessa possibilità del desiderio (esaudito in anticipo) sia le infanzie
affamate e lasciate morire;inoltre domandarsi se le infanzie siano molte e contemporaneamente non lo
siano affatto. Cosa hanno da spartire con l’infanzia quelle condizioni sopra nominate? Adultizzati inseriti
nella promiscuità dei grandi:sono bambini e bambine, ma non c’è infanzia, è stata loro rubata da una
cultura che l’aveva elaborata da poco e la sta smarrendo. Partendo da una diffusa denuncia di scomparsa
della famigliari perviene alla scoperta di molte famiglie che nella loro eterogeneità possono comunque
essere impegnate ad elaborare e realizzare una comune progettualità, costruire relazioni di cura educativa
nei confronti dei figli. Va inoltre sottolineata la possibilità che hanno al pari della famiglia tradizionale, di
impegnarsi e di perseguire uno sviluppo ricco e sereno. Certo i problemi di crisi culturale ed economicofinanziaria gravano sulle famiglie. Così si fa strada la convinzione che la problematicità derivi e coincida
con la tipologia della struttura familiare: i bambini hanno problemi perché i genitori sono separati o perché
mamma è da sola o perché ci sono i figli del nuovo marito e della nuova moglie. Bisogna imparare a
conoscerle, le molte famiglie e collaborare con esse a favore delle molte infanzie e famiglie in un’ottica di
reciproco alleanza educativa empowerment. Otto donne si rivolgono intrecciandosi tra di loro ai mondi
complessi delle molte infanzie e delle molte famiglie.
Mariagrazia Contini Molte infanzie o nessuna infanzia? Implicazioni riguardo le infanzie al plurale in più
modi violate.
Paola Manuzzi Corpi bambini tra cura e incuria. Tentativo di leggere le relazioni dei bambini con il loro
mondo provando a fare della corporeità un dispositivo del pensiero, una via di alfabetizzazione empatica
verso quella speciale normalità che sono i bambini.
Silvia Leonelli Costruzioni di identità e pedagogia di genere. Partendo dal testo dalla parte delle bambine di
Gianini Belotti si rifletterà sul senso di una costruzione di identità di genere per chi è bambino o bambina
oggi.
Quando l’infanzia incontra una malattia di Silvia Demozzoni parte da una domanda:cosa succede quando
l’infanzia curata si ammala? Paura del dolore fisico, paura senso di colpa e di abbandono
Alessandra Gigli Molte famiglie:quelle “normali” e le altre. Si assume come modello la famiglia tradizionale
al paradigma della deviazione secondo cui sono classificate le altre. Si vuol riflettere sulla possibilità che a
determinate condizioni di consapevolezza ed impegno avendo come obiettivo comune il benessere
familiare per tutte le molte famiglie oltre le differenze.
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Stefania Lorenzini Genitori e figli che arrivano da lontano:l’adozione internazionale, cammino a più tappe e
complesso.
Ivana Bolognesi stranieri al nido, il nido straniero. Il dialogo interculturale di una cultura educativa che ne
incontra un’altra.
Sandra Benedetti Servizi educativi per le infanzie e famiglie:latitudini e longitudini di un sistema:tracciando
la trama socio- politica e culturale degli ultimi 40 anni, si delinea il percorso di nascita e di sviluppo dei
servizi educativi per la prima infanzia.
CAP 1 MOLTE INFANZIE O NESSUNA INFANZIA?
1.1 premessa
la considerazione di famiglie al plurale provoca nei più un senso di fastidio che alimenta le nostre
rigidità cognitive fino a renderci violentemente centrati sulle nostre certezze. È capitato all’autrice di
chiedere agli studenti di giocare con il brainstorming intorno all’espressione infanzie al plurale. Si sono
riempite tre lavagne per indicare diverse condizioni dell’infanzia:infanzia italiana, infanzia africana,
infanzia afgana…con esperienze in qualche modo già individuabili e riconoscibili. In Italia ci sono milioni
di bambini, ma quante infanzie ci sono? Poichè ci sono molte tipologie di organizzazione familiare in
cui crescono bambini e bambine il vederle per fare ricerca e per ipotizzare e verificare buone pratiche
di cura è doveroso. Non è ideologico non richiede schierarsi a favore o contro, ma vanno conosciute e
comprese nelle dinamiche di funzionamento per cogliere gli elementi di criticità. Se le molte famiglie
vanno viste, le molte infanzie vanno scoperte scovate insegnate e ricercate;abitano luoghi che la
maggioranza di noi non frequenta. Il non essere individuate può coincidere con l’azzerarsi di ogni
possibilità. Il rischio altrimenti è di credere di lavorare con, per l’infanzia mentre ci si occupa di una sola
infanzia, magari la più vicina e familiare e nulla si sa delle altre, delle molte altre.
1.2 certi bambini nel mondo
certi bambini è il titolo di un romanzo di Diego de Silva che ci obbliga a scoprire che certi bambini vanno
dolorosamente scoperti per come sono. I dati e le immagini con cui veniamo a contatto in certi siti ad
es. quello di save the children possono portare ad uno choc cognitivo-emozionale e significativo, che
produce nuovi occhiali per guardare il mondo, la vita degli altri e la nostra. Kon era un bambino soldato
sudanese. Attraverso un training era progressivamente stato sradicato dalla vita precedente e condotto
su quelli della violenza. Così si è trovato con un fucile in mano. Poi è riuscito a fuggire e chissà quale
impronta positiva scolpita nella plasticità del suo giovane cervello ha potuto far scattare in lui la
misteriosa, resiliente volontà di salvarsi. Racconta che alla ripresa della scuola non riusciva a fidarsi di
nessuno, usava la violenza fino a quando è riuscito a vedersi sotto una luce nuova grazie alle insegnanti
e ai compagni. Somaly una bambina cambogiana senza genitori viene adottata da un vecchio;per
andare a scuola si alza alle tre di notte cucina e dopo la scuola lavora per pagare il sostentamento.
Viene poi violentata e venduta ad un bordello. Non si è mai ribellata perché era stata allevata come
schiava e si sentiva in balia di chi l’aveva nutrita anche se questo era stato procurato col proprio lavoro.
Rene boy vive in una bidonville alla periferia di manila. Ogni giorno raccoglie rifiuti da rivendere e sogna
di diventare autista dei camion. Una tempesta tropicale provoca una frana;lui e la sua famiglia si
salvano e vorrebbero andarsene da lì. Ma dove?
Una bambina africana viene preparata per una festa…ma è la mutilazione genitale. Il dopo è
drammatico:la bambina non è più lei, il suo cuore si indurirà a tal punto che da grande sarà pronta a
promettere a sua figlia la stessa festa.
1.2.1 perché noi dall’altra parte del mondo dobbiamo sapere
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Siamo interpellati come cittadini del mondo globalizzato;inoltre le nostre scelte personali implicano
un’etica della cura che dovrebbe emergere nei contesti in cui operiamo. Saremmo colpiti da dissonanza
se vedessimo qualcuno che strappa fiori o maltratta un animale. Dobbiamo sapere perché dobbiamo
prenderci cura , pensandoci con sofferenza ed indignazione. Poi va considerato l’esercizio critico delle
emozioni:a chi agisce nel campo educativo è richiesta attenzione contro il conformismo stereotipato, il
pensiero unico, l’emozione unica che è l’indifferenza. Dobbiamo conoscere le dirette conseguenze di
questo modo di pensare. La resistenza pedagogica deve aprire altre strade, incontri rispettosi e curiosi.
Il secondo riguarda il tema dell’empatia. Fra i compiti di chi educa vi è quello di approssimarsi alla soglia
dei bambini e delle bambine con cui opera. Questo percorso che si nutre di ascolto ed interesse
equivale ad esercitarsi all’empatia.
1.3 i nostri bambini e bambine in Italia anno 2010
Nei focus group di ins. di ins. di asili nido e materne sono stati proposti cinque aggettivi per i bambini di
oggi. Sono uscite le rappresentazioni dei loro comportamenti ed atteggiamenti. L’ISTAT dice che dei 6
milioni di bimbi italiani da 0 a 10 anni una delle caratteristiche è la multiculturalità. Noi e loro…è un
problema sociale. Intanto per ora li vogliamo sanissimi li iperproteggiamo in tutti i modi. Sono talmente
protetti che sono la prima generazione senza le ginocchia sbucciate. Sono belli sani soprattutto preziosi,
talvolta figli di genitori “anziani”. Preziosi anche per il carico di energie fisiche e psichiche che viene
sacrificato sull’altare della loro presenza in famiglia da parte di genitori sempre affannati. Questi
genitori non sono nelle condizioni materiali (contratti di lavoro precari) di scegliere tempi lavorativi
perciò sono ridotti i tempi della quotidianità. Viene loro chiesta una dedizione senza limiti. Poi vi sono
i genitori con problemi organizzativi ed economici con figli nati da unioni precedenti. Ma questi preziosi
bimbi come vivono la loro quotidianità? Stanno a scuola 8 ore, poi palestra, piscina, prelevati la sera e
portati a casa per la cena, collocati davanti ad uno schermo durante e dopo cena. Se poi vanno a letto
senza il rito della buonanotte, della presenza fisica si addormentano con quel fardello addosso. Manca
loro il tempo di distendersi, di perdersi, dei tempi vuoti e silenziosi di stare per conto proprio. Winnicott
ha valorizzato la capacità del bimbo di stare bene solo alla presenza della madre, magari in un'altra
stanza. In entrambi i casi si sottolinea l’importanza che i bambini e le bambine abbiano la possibilità di
imparare ad esplorare, scoprire, organizzare qualche attività anche da soli, concentrandosi,
fantasticando, distraendosi, divertendosi e perché no annoiandosi.
1.4 bambini, bambine al crocevia:di contesti, di stili educativi, di reciproche rappresentazioni
due precisazioni riguardo ai bambini davanti allo schermo. È negativa tra i pochi mesi e i 3-4 anni. Se nei
primi tre anni di vita vengono sistematicamente esposti al piccolo schermo a sei anni avranno
competenze linguistiche inferiori ai coetanei. Inoltre ciò interferisce con lo sviluppo dell’intelligenza
senso motoria, con la formazione dello schema corporeo. Nessuno motivo per inorgoglirsi del piccolo
che conosce i personaggi dei cartoni animati, non sta dando prova di intelligenza precoce ma della
portata del condizionamento a cui è sottoposto quotidianamente. La seconda precisazione riguarda gli
stili educativi familiari rispetto ai valori di riferimento: molti genitori non fanno vedere la tv ai filgi e a
turno giocano con loro. Altri vedono la tv come male necessario, altri li lasciano così anche per loro c’è
un po’ di pace. Gli stili educativi sono spesso oggetto di critica di educatori e insegnanti (e viceversa).
Una loro reciproca alleanza sarebbe auspicabile conoscendosi un po’ meno superficialmente,
valorizzando le reciproche competenze e comprendersi,favorire momenti di incontro per riflettere
insieme, per offrirsi feed-back di chiarimento. Bambini spavaldi e fragili, apparentemente autonomi, ma
forse poco contenuti, incapaci di tollerare la frustrazione, di accettare l’attesa di provare desideri,
bambini che pretendono l’adulto tutto per sé e non sanno rapportarsi con i compagni sordi alle regole
con problemi di alimentazione e di sonno. Sono solo alcune criticità che pur intrecciate a molte
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competenze (di linguaggio di conoscenze di abilità) delineano l’immagine dei nostri bambini. Suona
preoccupante la risposta scherzosa delle educatrici:il problema di questi bambini sono i loro genitori. A
questo punto va fatta un’analisi di questa incomprensione.
1.5 se l’infanzia scompare, se l’umanità continua ad abbandonare i Pollicini nel Bosco
Dopo aver osservato l’omogeneità dei nostri bambini, uno sguardo più attento ci pone verso piste
meno abituali e familiari. Allo sguardo di certi bambini si incontrano due tipologie: la prima dal mondo
dei devianti, la seconda dal modi dei normali con qualcosa in più da mettere in mostra. Si parte dal
protagonista del testo di De Silva. Forse la città è Napoli, il ragazzo vive in un grande caseggiato con la
nonna anziana ed intontita dagli ipnotici di cui fa uso. Prepara la colazione poi va a compiere il suo
primo delitto,come gli è stato ordinato dai capi dell’associazione malavitosa di cui fa parte a cui vuole
mostrare di essere degni di farne parte. Sulla metropolitana è un ragazzino come tanti altri, gellato ben
vestito, ma nessuno si prende cura di lui, la borsa che sembra essere della palestra contiene un’arma,
ma lui non prova niente (come Kon ). Ha avuto un incontro con una ragazza che poi è morta, ma anche
qui nessuna emozione. L’inconsapevolezza sembra la dominante nella sua storia. Alla fine del romanzo
incotnra un uomo ben vestito che scende dal pullman dei pendolari. Rosario pensa che da grande gli
vorrebbe assomigliare, gli chiede l’ora, ma l’uomo gli risponde distrattamente il bambino cerca di
odorarlo fin tanto che gli è vicino poi lo segue con gli occhi mentre si allontana. Forse quell’incontro
casuale per l’autore rappresenta la flebile possibilità di identificazione per Rosario, ma non viene
accolta. La storia di Rosario assomiglia a quella di molti ragazzi della periferia di Napoli di cui si
occupano i maestri di strada. Il lavoro di Cesare Moreno mira all’alfabetizzazione non solo di
istruzione, ma anche di appartenenza al tessuto sociale, di progettualità della propria vita. le difficoltà
che incontrano riguardano le azioni devianti dei piccoli che grazie a queste guadagnano e si sentono
grandi e rispettati da tutti. Poi vi sono le resistenze dei genitori e infine le difficoltà delle istituzioni che
considerano eccessivi i costi di quei progetti. Ma se anche un numero ridotto di questi si riappropria del
proprio futuro il risultato è importante e di gran rilievo. La seconda tipologia sono i bambini e bambine
che sarebbero normali ma hanno qualche dote ritenuta degna di essere esibita spettacolarizzata
(cantanti, ballerini, indossatori). Da quanto tempo si stanno addestrando? Sono in genere vestiti da
grandi, senza goffaggine stanno sul palco. Qualcuno gliel’ha insegnato o i genitori o qualcuno a cui
hanno abdicato il ruolo riducendosi a sfruttatori dei loro figli e del loro talento. Abbondano e
aumentano trasmissioni televisive e spot con i bambini come protagonisti. Osservando la stessa
trasmissione di genere in una puntata del 1999 e in una odierna si nota un cambio di setting di
abbigliamento e di comunicazione. Ora è una aspirante velina allora una bomba coi codini che cantava
una canzoncina. Sembra davvero configurarsi la scomparsa dell’infanzia profetizzata da Postman? Era
appena stata acquisita come categoria culturale, si era da poco legiferato su di essa. Sembravano tutti
segnali di conquiste realizzate, quasi non dovessero più rendersi necessarie le metaforiche briciole per
Polllicino, perché nessuno l’avrebbe più abbandonato nel bosco. E invece nel bosco continuano ad
essere abbandonati. In tutti i casi devono imparare a difendersi dalle figure adulte più care e in genere
utilizzano le briciole per non soccombere: si adeguano e corrispondono ai desideri dei genitori. Occorre
un salto qualitativo accettando di tramontare per l’avvento di un’altra umanità e d altre scale di valori.
Noi abbiamo scelto ambiti di studio di ricerca professionali che hanno una deontologia precisa. A noi
spetta aprire spazi possibilità orizzonti per ciascun interlocutore. Resistenza dunque fedeltà alla nostra
deontologia. Il nostro sguardo deve porsi alla ricerca di molte infanzie, intercettandone le più flebili
tracce di resilienza (viene vista come la capacità dell'uomo di affrontare le avversità della vita, di
superarle e di uscirne rinforzato e addirittura trasformato positivamente), in una relazione in cui si
possano fidare accogliere una carezza senza ritrarre il volto.
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CAP.2 CORPI BAMBINI TRA CURA E INCURIA
2.1interrogare il mondo a partire dai corpi
Nella società della comunicazione dove tutto comunica ed è comunicazione, stiamo venendo meno alle
relazioni faccia a faccia. Ci stiamo abituando a una vita caratterizzata da forme di assenza della
corporeità: i nostri corpi di volta in volta diventano così una malattia, una immagine esteriore, un indisciplinata interferenza, un bip terminale situato in un non luogo, non il soggetto incarnato che noi
siamo. La mancanza di pensiero oggi potrebbe essere legata anche a questo passaggio dalla
tridimensionalità alla bidimensionalità della rappresentazione. Viste come scatole biologiche chimiche,
pressoché identificate con l’organismo, traversati da processi di omologazione e forme di corporeità
coatta (atteggiamenti corporei aderenti a modelli precostituiti), modellati al punto tale da diventare
talora nudi corpi, in cui cioè la nostra dimensione di significatività e profondità umana sbiadisce, i nostri
corpi privi di parola diventano sofferenti. Il disagio la deviazione alla norma sembrano forme di
riappropriazione del sé. È sempre più raro vedere momenti di attenzione congiunta, dato che i genitori
alle prese con la vita convulsa , difficilmente chiudono la porta al mondo anche quando sono con i loro
figli. L’assedio delle funzioni multitasking unito ad una difficoltà di attenzione multipla del cervello
umano, stressa e mette a dura prova l’adulto e a maggior ragione il bambino. Sempre più esposti a
disturbi dell’attenzione, manifestano ritardi nel linguaggio:almeno un bambino su sei ha difficoltà nel
parlare e ascoltare. Noi in questo processo di cambiamento ne avvertiamo lo spaesamento, ma
dobbiamo scoprire le potenzialità e assumere un atteggiamento di vigile riflessione. Un genitore che
promette un naso nuovo alla figlia se andrà bene a scuola sta assecondando una giusta aspirazione a
una bellezza o collaborando a minare invece la radice di una serena accettazione di se stessa nella
ragazzina? In una rivista medica nel 2009 è comparso un articolo che ironizza su Santa Claus. Sarebbe il
caso di farne nascere un altro non più alticcio, finalmente magro e sobrio con un’immagine più positiva
e al passo con i tempi. Si parla di quelle forme di igienismo autoritario in cui esperti ci dicono in maniera
criminalizzante di campagne antifumo. Sembra proprio che un’armata di esperti sia lì pronta a dirci
cosa mangiare, fare, pensare, vivere. Se siamo grassi è una colpa, se ci ammaliamo è una colpa se siamo
depressi è una colpa. Dimenticando che siamo costretti ad una vita sedentaria ad inalare smog, a
mangiare cibo adulterato, in perenne comunicazione con il mondo, ma spesso ammalati di solitudine. I
bambini non vivono più nel piccolo mondo:il mondo del cortile, dei giochi per le strade del paese, le
sfide tra bande di bambini, le ore di noia passate a giocare in casa con le ombre sui muri. Oggi si vive in
spazi sempre più chiusi, in forme solitarie piuttosto che con i pari, virtuali più che reali, simboliche più
che senso motorie; a tre quattro anni sanno usare il mouse, il cellulare, il telecomando, conoscono
parole difficili come tirannosauro, ma vanno in crisi appena li si contraddice, dormono a lungo insieme
ai genitori, usano il biberon a volte fino ai sette otto anni. È un modo saturo di giocattoli, ma povero
della dimensione gratuita del gioco spontaneo fra pari e di adulti in ascolto, dei progressivi sbiadimenti
dell’esperienza del corpo divenuta piuttosto una serie di simulazioni d’esperienza in spazi-tempi
sempre organizzati da adulti con eccesso di protezione. Leggiamo allora le relazioni partendo dai corpi
e dal nostro sguardo mutato su di essi. Il che significa l’incontro con il corpo ipercinetico di un bambino
ci pone interrogativi anche su quel mondo fatto di troppo pieno che caratterizza le nostre quotidianità,
l’incontro con i corpi stanchi e furenti degli immigrati di Rosarno ci mostra come si diventa nudi corpi
spogliati di una storia da raccontare della propria lingua, immigrati da espellere. Su un quotidiano in un
articolo si parla delle giovani generazioni che non fanno sport o attività fisica. In risposta un
antropologo si chiede ma i ragazzi della Via Paal facevano sport. Non va identificato lo sport con
l’attività fisica. Gli adulti identificano l’attività fisica con lo stare chiuso tra 4 mura a pedalare
ascoltando musica. Stiamo portando i nostri giovani verso un mondo sempre più istituzionalizzato e
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saturato dagli adulti. Parlare di pigrizia non è un rifugio nell’ovvietà e scaricare sui giovani
responsabilità di un mondo adulto che propone loro e pratica per sé stili di vita decisamente tossici?
All’autrice piacerebbe stimolare un atteggiamento di curiosità e ricerca per imparare a vedere quanta
parte del nostro sapere forma la nostra capacità di conoscere e riconoscere un’idea di corpo. Si
proporranno brevi storie di corpi bambini per evidenziare quella speciale normalità che essi sono
evidenziando nell’ordinario lo straordinario dei loro modi di essere e di dire di sé. Normalità perché si
tratta di episodi che ciascuno può avere occasione di incontrare speciale per sottolinearne la
significatività di un disagio che non fa rumore: il mondo dell’infanzia di chi è in fans senza parola.
Martha Nussbaum invita a un rinnovamento dei diritti umani e a trovare un minico comun
denominatore tra le culture e questo orientamento di ascolto e cura dei corpi è solo il punto zero.
2.1 se amare è ri-sonare
Lo scrittore daniel Stern racconta in un libro il diario di vita di suo figlio Joey da 1 mese a 4 anni. Lo
sconvolgimento che avviene nel neonato quando ha fame è tale da spazzare momentaneamente il suo
sistema nervoso e portare il caos al suo flusso temporale. La tempesta di fame imprime un ritmo
accelerato al pianto e al respiro. Strillando ha l’impressione di gettare via le sensazioni del dolore. È
travolto da un tempo emotivo frammentato. Ma se la mamma arriva nella stanza e si prende cura del
piccolo allora è probabile che il tempo sconvolto si ricompatti. Così il suono il tocco il movimento il
cambio di posizione l’insieme di questi gesti crea una sorta di coperta emozionale avvolgente che
riporta ad un tempo condiviso. Mentre lo accosta al seno il suo tocco fa da argine contro il corpo in
frantumi di Joey, il battito cardiaco e la presenza rotonda dell’abbraccio materno regalano la più
potente forma di rassicurazione che esista. Ma non sempre c’è la mamma. Michael di due anni frutto di
uno stupro, con madre drogata non si occupa di lui. Egli piange poi trova a suo modo una sorta di
bizzarro equilibrio iniziando a giocare con la gru che lavora nel cantiere davanti casa sua. Sostituisce al
silenzio dell’abbandono quel rispecchiamento che gli dà la possibilità di sopravvivere nella solitudine
affettiva, ri-sonando con chi ama:cerca a tal punto l’altro che egli stesso diventa bambino-gru. Mirabile
e non convenzionale costruzione dell’identità fondata su una tensione desiderante verso l’oggetto
d’amore sulla straordinaria capacità dei mirror neurons (neuroni a specchio) del nostro cervello. (Essi si
attivano selettivamente sia quando si compie un’azione sia quando la si osserva compiere da altri: in
quest’ultimo caso i neuroni dell’osservatore rispecchiano ciò che avviene nella mente del soggetto
osservato come se fosse l’osservatore stesso a compiere l’azione. Alcuni scienziati considerano la
scoperta dei neuroni a specchio una delle più importanti degli ultimi 10 anni:costituirebbe per la
psicologia quello che il dna è stato per la biologia). Quando Michael viene portato via dai servizi sociali
si dispera, scalcia, nulla sembra fermarlo e finisce in un istituto speciale per handicappati, perché si
muoveva come una gru, faceva i rumori di una gru. Epilogo triste di una storia vera. Il bambino cerca
disperatamente e trova ciò che può amare:qualunque sia la cosa che amiamo è quella che noi siamo.
(Leavitt la lingua perduta della gru). L’amore inizia con un ri-sonare insieme. I primi processi di risonanza emotiva e sintonizzazione madre-bambino sono punto nevralgico dello sviluppo psichico
infantile. Il fatto ad es che un adulto amplifichi l’espressione di certe emozioni e ne ignori o riduca altre,
produce nel bambino veri e propri schemi affettivo motori che ne connoteranno lo stile comunicativo.
L’adulto costella il repertorio emozionale attraverso la selezione e il ritmo con cui lo fa. Se un bambino
quando è allegro riceve sempre una risposta a livello corporeo dalla madre, ma non la riceve mai
quando è arrabbiato (l’adulto non vuol vedere) tenderà a sviluppare gli schemi affettivo motori che
esprimono gioia e meno rabbia il che non significa che non sarà mai arrabbiato ma che quell’emozione
in lui resta inespressa o espressa male.
2.3 corpi trasparenti
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Luca di 4 anni oscilla tra comportamenti aggressivi e atteggiamenti da bambino piccolo. Viene
osservato fare con la madre un gioco che a lui piace molto:quello del cagnolino arrabbiato. Nella
casetta con la mamma fa questo gioco. La mamma lo abbraccia e lui fa il cagnolino arrabbiato che vuole
scappare. Il suo sguardo dice che ci tiene che lei lo vada a cercare. Il bambino non sa regolare la propria
aggressività ogni volta che viene ritrovato dalla mamma. Tira fuori i denti… allora la mamma dice: “Sei
cattivo non si fa così vieni che giochiamo alle coccole”. Luca cambia ruolo ora torna a fare il cagnolino
cucciolo. Poi dopo diverse scene ripetute si nota in fase affettiva una perdita di interesse per il gioco.
Non è più il suo gioco ma quello della madre. Il linguaggio del corpo infantile non trova ascolto, non è
colto:è corpo trasparente. La ripetuta mancanza di sintonizzazione da parte della madre ( o della figura
di riferimento) crea nel bambino una stortura tra il vissuto personale (bisogno di adgredior di opporsi) e il mondo esterno che lo rappresenta (ribadire un legame affettivo) mentre con il
gioco del cagnolino arrabbiato tenta di portare la relazione con la madre su un piano di
sperimentazione di allontanamenti/avvicinamenti, la reazione materna fa in modo di ricondurlo
all’essere piccoli. È la mamma che ha difficoltà a separarsi , è lei che lo colpevolizza se esprime un
desiderio di opposizione o rabbia. Il bambino vive una sfasatura tra il suo mondo emotivo e quello
esterno rappresentato dalla madre. Dato che non viene riconosciuto nella sua espressione originaria e
genuina, non gli resta che abbandonare il proprio vissuto e adattarsi a fare il bimbo cucciolo per
salvaguardare il legame affettivo primario. Lasciato in una sorta di solitudine emotiva si estranea da sé,
abbandona il desiderio profondo di ad-gredior (andare verso…) e non può che stare al gioco di stare al
gioco della madre. Stern descrive in modo approfondito come nuclei psicodinamici rilevanti della
madre riescano a passare al figlio attraverso una serie di comportamenti che ripetendosi nel tempo
diventano incisivi per l’identità personale del bambino. L’unica possibilità per Luca è incontrare un
adulto in grado di vederlo, di sentire insieme a lui le sue emozioni, capace di non spaventarsi, di porsi in
una risonanza tonico emozionale capace di non spaventarsi, di porsi in una risonanza tonico emozionale
che dia credito al suo mondo interno. Non c’è un percorso stabilito a priori e uguale per tutti. Ciò che
importa è che il corpo bambino non diventi trasparente, incasellato in schemi prefissati, non colto cioè
nel suo disagio, nelle sue rabbie, nei suoi desideri e non perché questi non vadano sempre e comunque
assecondati, ma affinchè gli adulti non poggino sui bambini le loro personali ansie. Greta dopo le
vacanze torna al nido e la madre comunica che le ha tolto il pannolino e di non metterglielo per nessun
motivo. Quando la mamma se ne va le maestre si complimentano con le che inizia un pianto
sommesso. La mamma le aveva detto a casa di non piangere perché i bambini grandi non piangono.
Greta poi vien rimessa giù anche se continua a piangere poi viene accolta da una tirocinante che la
coccola;lei non smette e dice io sono piccola però io non sono grande. Poi tenta di fermare il pianto ma
le scappa anche la pipì che non fa. Poi però non cela fa più e se la fa addosso. Quando la mamma arriva
viene informata dell’andamento della giornata e lei si complimenta con el educatrici che non le hanno
messo il pannolino. Che fine faranno i sentimenti di tristezza umiliazione rabbia di fronte alla certezza
inossidabile e spavalda della madre. Come far capire alla madre che prendersi cura del processo di
crescita di un bambino non significa costringerlo in schemi di comportamento prederminati e forzosi.
Per far elaborare a Greta la situazione emotivamente vissuta si userà il potere ripartivo delle parole e
della narrazione. A volte la crescita è anche tempo di tornare indietro di masticare con lentezza. Ce lo
ricorda Giacomo raccontando del suo arrivo l’anno precedente in prima elementare. “ero disorientato,
non riconoscevo nulla e allora mi nascondevo e annusavo le cose”. Balza viva la sensazione di
estraneità rispetto a un luogo non conosciuto e il bisogno di lasciarvi una traccia, un segno perché
possa essere da lui riconosciuto e fatto proprio. Al di là del modello di sviluppo infantile esiste una tale
originalità dei percorsi evolutivi che invece di una normalità evolutiva dovremmo parlare piuttosto di
percorso sghembi di crescita. Il che richiede di dotarsi più che di una pedagogia ortopedica tesa a
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raddrizzare le storture, di un capace ascolto dei corpi dei bambini che stanno facendo manovra nel
mondo. Andrebbe recuperato il concetto di cura nella sua forza originaria al di là del primato cognitivo,
nella vibrazione etica con quella tenerti che non è romantico sentimentalismo ma una morbidezza
capace di accettare le fragilità aver cura dei corpi bambini è una considerazione dell’anima che sa
accogliere e guidare.
2.4 corpi sopra le righe
Interrompono, parlano ad alta voce, non sanno stare seduti, hanno difficoltà di attenzione, bambini che
impegnano in continui bracci di ferro. Richiedono spesso l’attenzione dell’adulto e diventano piccoli
tiranni: i bambini iperattivi. Questa etichetta funge da generico contenitore di fenomeni più o meno
lievi, molto diversi fra loro. Si può intendere una motricità troppo esuberante oppure una difficoltà
nell’attenzione o nel regolare le proprie emozioni. Sono fenomeni talmente diversi fra loro che sorge il
dubbio che si parli della stessa cosa. Di solito si parla di bambini iperattivi con superficialità , essi creano
situazioni difficili da gestire sia per gli adulti, sia per lui stesso, che, ricordiamolo, non si diverte a
comportarsi così. Il temine rinvia al ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Desorder). È stato
formalizzato come patologia nel DSM-IV (principale testo di riferimento per la diagnosi di carattere
psichiatrico). In pochi anni i casi sono cresciuti in maniera esponenziale. La terapia farmacologica è
diffusa negli USA mentre incontra un approccio più prudente in Italia, per i rischi di effetti collaterali sia
per il fatto che il suo meccanismo d’azione è tuttora poco conosciuto; ma soprattutto si scivola in forme
di precoce patologizzazione dell’infanzia. Giù le mani dai bambini è un consorzio nazionale di
farmacovigilanza. L’ONU stessa si è pronunciata sulla sovra prescrizione in atto, raccomandando di
limitare l’uso di sostanze eccitanti a scopo terapeutico. Sull’affidabilità scientifica delle ricerche
americane si sono scatenate fin dall’inizio le polemiche perché per diagnosticarla non si fa riferimento a
esami di tipo clinico, ma a descrizioni di comportamenti individuali. Per giungere alla diagnosi ADHD i
sintomi si devono presentare contemporaneamente e in gran numero. I tre elementi chiave della
sindrome sono:deficit di attenzione, iperattività e impulsività. Questi possono essere anche non molto
evidenti in situazioni fortemente strutturate o quando il bambino si trovi coinvolto in attività che lo
interessano. Per parlare di Elena si userà un registro più espressivo. Elena ha tutti i sintomi sopra
esposti e le insegnanti hanno deciso di proporre una laboratorio di psicomotricità condotto da una
esperta, come strategia a sostegno di una espressività motoria problematica per una migliore
integrazione di Elena nel gruppo. Un modo per accogliere un disagio così manifesto senza espellerlo. Al
quarto incontro vuole costruirsi una casa. Pare insolitamente maldestra e impacciata; di fronte all’aiuto
della psicomotricista accetta ma vuol fallire e decide poi che un materassino è la sua barca che la
porterà alla casa dei malati:allora l’esperta le chiede di provare a riposare. Per un attimo la bambina
appoggia la testa al corpo di lei con un tono morbido ma poi schizza via. Poi si mette sotto ad un tavolo
e dice che lì si può riposare. Prende la mano della psicomotricista ma solo per un attimo. Elena è stata
adottata, il gioco simbolico che sta proponendo sembra toccare il buco nero della sua ansia che la fa
girare a vuoto. Quel gesto simbolico di tentativo di costruzione di una casa si delinea come primo
tentativo di costruirsi un posto sicuro. L’esperienza di una condivisione di senso con un altro in ascolto,
che mobilita le proprie energie per condividere l’attesa crea un legame e aiuta Elena. Magici effetti del
gioco, espressione originale ed unica del mondo immaginario infantile con i suoi fantasmi che fanno
paura e i desideri che fanno da battistrada.
2.5 prendersi cura di una bambina o di un bambino
Per cura o incuria intendiamo quell’insieme di comportamenti e atteggiamenti che quotidianamente
contribuiscono a creare in famiglia a scuola un clima di calore o di freddezza di vicinanza o lontananza
emotiva. Le cure educative sono pensate come selezione di una opportunità, cioè come tutte quelle
scelte che creano occasione di crescita del bambino. La parola scelta non significa che non occorre
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stimolare il più possibile un bambino, ma viceversa fare da filtro ad un eccesso di stimoli,
selezionandoli. Infine va coltivata quella capacità di sintonizzarsi e di reciprocare il cui l’adulto è capace
di attesa e di negoziazione. Vanno coltivate queste forme di cura facendo della propria emotività una
competenza professionale. Anche attraverso i legami affettivi del piacere del movimento e del gioco. Il
registro empatico della narrazione di microstorie si fonda su presupposto che l’empatia possa costituire
una via privilegiata per la comprensione umana. Alcune scoperte nel campo della biologia e delle
neuroscienze degli ultimi decenni hanno ampiamente dimostrato che gli esseri umani manifestano fin
dalla più tenera età la capacità di relazionarsi in maniera empatica. La struttura profonda dei nostri
cervelli oggi non è più adeguata all’ambiente attuale. L’umanità sta affrontando una mutazione senza
precedenti. Se nel mondo agricolo la coscienza umana era governata dalla fede e in quello industriale
dalla ragio, con la globalizzazione della vita economica, sociale, culturale, la nostra coscienza si fonderà
sulla capacità di immedesimarsi nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona. A noi fare in
modo che questo accada il prima possibile.
CAP. 3 COSTRUZIONI DI IDENTITA’ E PEDAGOGIA DI GENERE
3.1 essere bambine negli anni 70. Elena Gianini Belotti
Siamo nel 1973 in una scuola materna. Le bambine sono composte, in silenzio, portano enormi fiocchi
candidi. Sanno di non poter correre urlare litigare. Sono piccole donnine apprezzate e servizievoli,
leziose,pulite, statiche. Devono provvedere a qualche necessità dei maschi, dei compagni più piccoli e
dell’educatrice medesima, finanche dei loro stessi genitori. Un maestra di scuola montessoriana, Elena
Gianini Belotti con le bambine dentro alle scuole materne gioca, parla, disegna. Nota così piccole
angherie, micro-limitazioni striscianti, svalutazioni a tutto svantaggio delle bambine rispetto ai bambini,
messe in atto dalle educatrici senza neppure essere consapevoli. L’autrice allarga lo sguardo scoprendo
una continuità tra scuola e casa:si demolisce l’autostima e l’autonomia delle bambine. Lo si fa
proponendo giochi o giocattoli ciò per dimostrare la loro posizione subalterna rispetto ai bambini.
Studia l’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di
vita. Dalla parte delle bambine mostra che le bambine sono instradate dalla nascita verso l’immagine
tradizionale della donna d’epoca…la donna tradizionale. Nell’avvinghiarsi alle consuetudini i contesti
educativi esprimono appunto la paura del cambiamento delle donne. Per collocarsi dalla parte delle
bambine Gianini Belotti considera che l’operazione da compiere non è quella di tentare di formare le
bambine ad immagine e somiglianza dei maschi, ma di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità
di svilupparsi in modo congeniale indipendentemente dal sesso a cui appartiene. Ci si interroga dunque
sull’assenza delle donne nei contesti del sapere ufficiale. In parallelo nella letteratura scientifica si
sviluppano in parallelo e in contrapposizione teorie che si concentrano sulla differenza sessuale
(soprattutto in ambito psicologico, neurobiologico, genetico) e altre che si concentrano sulla
differenza di genere. Chi si occupa della differenza sessuale utilizza la diversità dei corpi tra donne e
uomini (geni, cromosomi ecc.)come indicatrice della diversità delle visioni del mondo e delle
problematiche esistenziali. Essere femmina o essere maschio condizionerebbe e orienterebbe il
tragitto della vita verso itinerari stabiliti in larga parte dalla natura. La possibilità di generare figli è
ritenuta decisiva:a essa sono associate automaticamente caratteristiche della personalità quali
dolcezza, pazienza, e capacità di cura. Una donna è biologicamente propensa a dedicarsi all’altro,
donarsi sacrificarsi. Chi si occupa della differenza di genere si interessa invece del processo che
conduce il soggetto a interpretare i dati biologici di cui sopra. L’assunto principale è che ciascuno viva
l’essere femmina e maschio in modi altamente differenziati, negoziando con gli altri e con la società.
Gli studi analizzano così la dimensione storico-culturale del genere. Nel caso delle donne in generale
esse sono affettuose, dolci ecc. solo perché sono state educate ad esserlo. Gianini Belotti afferma che
le differenze tra femmine e maschi potrebbero derivare anche da questioni biologiche (posizione
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centrata sul sesso) e forse la scienza le identificherà con il progredire degli studi, ma ora, ammonisce,
concentriamoci sulle cause sociali e culturali che creano e sviluppano differenze. L’autrice parla di
momento storico di cambiamento. In quale modo la scuola e i contesti educativi hanno accolto le
analisi di Gianini Belotti sulla condizione delle bambine?
3.2 quattro decenni di pedagogia di genere:snodi e passaggi
L’educazione di genere e la pedagogia di genere hanno compiuto molti progressi. Con educazione di
genere intendo gli insiemi dei comportamenti delle azioni delle attenzioni messe in atto
quotidianamente da chi ha responsabilità educativa in merito al vissuto di genere ai ruoli e alle
relazioni. Talvolta in questo senso esteso, l’educazione di genere sconfina nella socializzazione di
genere. Educazione di genere indica qui i piani di lavoro agiti da famiglie, scuole enti del sistema
formativo integrato. Con pedagogia di genere ci si riferisce alla riflessione sull’educazione di genere
condotta da pedagogisti ecc. Le famiglie agiscono una qualche forma di educazione di genere i
professionisti analizzano le caratteristiche le linee guida che riguardano l’agire. Oggetto d’interesse
della pedagogia di genere sono il rilevamento dei modelli impliciti, l’osservazione di come quei modelli
si traducono nella pratica, il confronto tra l’educazione di genere contemporanea e le istanze della
tradizione, lo studio dei legami tra educazione di genere contemporanea e le istanze della tradizione, lo
studio dei legami tra educazione di genere agita oggi comunemente e il mondo globale dell’educazione.
La pedagogia di genere ha carattere prepositivo, continua ricognizione dei condizionamenti di genere
serve a promuovere una riflessione in grado di anticipare le emergenze. Ha una storia quarantennale.
Ecco gli snodi principali:
-dal 1970 al 1990 studi pedagogici sull’uguaglianza tra i sessi. La donna viene Educata a non istruirsi nel
corso della storia. Al modo sottile in cui la cultura, la religione la società passano il messaggio
dell’inferiorità delle bambine. Si origina una fase di rinnovamento della scuola. La parola d’ordine è
uguaglianza e si esaurisce verso la fine degli anni 80.
-dal 1990 al 2000 e oltre studi sulla differenza. Secondo Ulivieri al concetto di emancipazione va
sostituito quello di differenza come concetto guida, categoria progettuale, poiché non si tratta di
liberare le donne dentro un universo ancora e tutto maschile, ma di affermare la specificità, di
consolidarla e di farla vivere dialetticamente nel sociale, nella cultura introducendovi il dualismo
conflittuale dei generi. Si studia l’approccio alla conoscenza delle donne ribadendo la necessità di
partire da sé da uno sguardo femminile sul mondo e si incoraggiano le insegnanti a porsi come autorità
femminili per le giovani generazioni. Vogliono esprimere un simbolico femminile positivo valorizzare la
differenza a vantaggio delle bambine. Gli studi sulle differenze sono importanti, come reazione alla
conoscenza al maschile e al neutro. Tuttavia anche questa fase si va chiudendo, le donne nel settore
della cura educativa come vestali esclusive non permette loro di sganciarsi dal pensiero del materno. Le
donne che curano il mondo armoniosamente, del materno non si basa su alcun dato oggettivo ma su
un desiderio valoriale di essere riconosciute nella specificità femminile. Significa naturalizzare le
differenze, riposizionarle nel dualismo oppositivo maschio femmina, allontanando la discussione
dall’unica evidenza documentabile:ciò che accomuna le donne è di aver ricevuto un’educazione diversa
da quella degli uomini: “in ogni sistema sociale le bambine e i bambini ricevono un’educazione diversa”
(S. Ulivieri).
-dal 2001 ad oggi sembra ora in atto una fase- periodo preparatorio al superamento del pensiero della
differenza. Il temine più adatto pare quello di molteplicità. Si tratta di attenzione nuova alle
molteplicità insita nell’educazione di genere, accentuata dal confronto con fenomeni che aggiungono e
stratificano diversità e diversità. Insomma si tratta di una complessificazione della categoria di genere.
Il decennio che volge al termine è stato caratterizzato dalla necessità di aprire lo sguardo , di
pluralizzare, di riferirsi alle relazioni di genere non solo ala questione delle donne. La categoria
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esplicativa della complessità inizia ad affacciarsi perché solo l’attenzione all’intreccio delle varie
dimensioni può dare conto dei fenomeni articolati. Ognuno ri-costruisce il proprio maschilefemminile;considera gli stereotipi di genere situazionali il cui asservimento è legato allo specifico
contesto di comportamento;incarna all’interno della propria storia vincoli e significati proposti dalle
diverse sfere di appartenenza indossando il proprio paio di occhiali. Ognuno per concludere performa la
propria appartenenza di genere. La variabile educativa è dunque centrale perché plasma tale
interpretazione personale della propria appartenenza di genere del corpo sessuato. Difficile prevedere
quale sarà l’esito perché si deve trovare una trasposizione educativa. Nel panorama pedagogico
italiano contemporaneo si individuano 5 filoni principali:
-studi storici: collegano i femminismo del 900 alle ricadute educative della scuola e della formazione
delle maestre-analisi del ruolo delle donne pioniere
-studi che si occupano del corpo vissuto e della sua cittadinanza all’interno dei contesti educativi
-studi sulla soggettività mediante approcci di pedagogia narrativa, recupero di un femminile finalmente
narrato dalle donne medesime
-studi sulle donne migranti
-studi sul processo di costruzione della professionalità educativa. Questo discorso deve essere
articolato sulle relazioni di genere e trasversale in tutti i contesti della formazione. Due testi da
consultare: il primo veline, nyokke e cilici di Campani trasporta il concetto di backlash dall’America: si
tratta di una serie di manifestazioni che rendono peggiore la vita delle donne attraverso l’imposizione
di ruoli determinati dalla cultura (televisiva soprattutto) dalla religione e dagli uomini. Il secondo testo
di Gamberi-Maio-Selmi dal titolo Educare al genere Riflessioni e strumenti per articolare la complessità
propone percorsi interdisciplinari in grado di decostruire efficacemente la categoria dell’educaizone di
genere tradizionale. Si verifica nel paragrafo successivo se i pregiudizi sessisti sono lontani dai contesti
educativi.
3.3 ricerche e dati tra stereotipi e trappole di genere dal 2000 ad oggi
Nel 2003 Francesca Bellafronte in Bambine (mal)educate. L’identità di genere 30 anni dopo, dà conto
di una ricerca svolta nelle scuole elementari pugliesi classi IV e V. Il risultato è un pugno allo stomaco:le
bambine ed i bambini già a questa età fanno un costante riferimento a stereotipi sessisti e soprattutto
al loro futuro:estetista, commessa, parrucchiera… le bambine che desiderano diventare pilota di aereo
e i bambini che collaborano nei lavori domestici son sanzionati mediante la disconferma relazionale; le
bambine si comportano da maschiaccio e i bambini da femminuccia. I controllori di genere sono la
famiglia e gli insegnanti che li rimproverano in egual misura se non corrispondono alla categoria del
femminile. I padri invece sgridano i maschi e lo stesso fanno gli altri amici maschi. Sorprende che si
faccia ancora riferimento alla tradizione bi polarizzata maschio/femmina. I maestri e maestre si irritano
se le bambine sono disordinate, disobbedienti, troppo esuberanti, prepotenti, distratte e sono
disturbati dai maschi piagnucolosi, mammoni, che non sanno difendersi da soli e pettegoli. Insomma gli
insengnanti no tollerano i comportamenti che contraddicono gli stereotipi di genere. Nel 2007
Loredana Lupperini in Ancora dalla parte delle bambine dimostra che il clichè di genere son mutati nelle
forme e nelle strategie persuasive, ma sono ancora intatti. Anche nel marketing per l’infanzia ciò è
evidente, anche nel gioco del Sapientino con domande per il maschio di cultura generale, per la
femmina di look bellezza. Anche un programma come la pupa e il secchione propone il medesimo
modello. Nel 2008 una ricerca di Irene Biemmi, Sesso e sessismo nei testi scolastici. La
rappresentazione dei generi nei libri di lettura delle elementari, dimostra che nella scuola circolano
ancora materiali didattici che non prestano alcuna attenzione ai modelli identificativi di genere offerti a
bambine e bambini. Molti più protagonisti maschili che femminili nei testi, poi cinquanta professioni
raffigurate per i maschi (da dottore a scultore, meccanico) e solo 15 per le donne 8casalinga, maestra
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principessa e via andare). Essi non forniscono pari opportunità lavorative. Che senso ha si chiede
l’autrice presentare modelli di bambine come Pippi destinate a diventare mamme e donne di casa
dipendenti economicamente dal marito? Permangono volumi francamente pessimi.
3.4 ereditiere irriconoscenti?Per una ri-negoziazione generazionale della questione di genere
Le insegnanti oltre a non rendersi conto degli atteggiamenti sessisti, non guardano tra i parametri del
libro di testo da adottarsi anche l’aspetto sessista. Insomma non praticano una educazione di genere
pensata ed arricchente per tutti, ma neppure si fermano a documentarsi sulla pedagogia di genere. Le
spiegazioni possono essere diverse:il dare per scontato il discorso sul genere avendo avuto esperienze
esistenziali negli anni 70 80. Ma le giovani maestre? Vengono definite ereditiere irriconoscenti poiché
non si rendono conto che il contesto in cui vivono cambiato in meglio potrebbe essere reversibile. Il
mondo dell’educazione deve riferirsi alle bambine e ai bambini concreti, con l’obiettivo di renderli
sempre più in grado di progettare autonomamente la loro esistenza, comprendendo i condizionamenti
e di problematizzare anche il dato che sembra più ovvio ed è invece costruito
socialmente:l’appartenenza al genere. Per una nuova maestra educatrice va fatta una riflessione sui
concetti cardine esposti da Ulivieri
1. Lo stereotipo mater et magistra al fine di annettere velorizzare gli uomini nel settore
dell’educazione
2. L’immaginario di genere:quale lavoro sia opportuno per uomini e donne. È paradossale come la
conoscenza e il linguaggio sono ancora connotati da un maschile che pretende di essere universale,
ma la professione è esercitata principalmente da donne
3. La riduzione a modelli identitari (maestra-maestro unico)
CAP.4 QUANDO L’INFANZIA INCONTRA UNA MALATTIA
4.1 Premessa:giochi, colori, luci e …ombre
I ns bambini sono curati nelle scelte che gli adulti fanno per loro. Conoscono l’igiene e i profumi, ma
anche le minacce delle siringhe dei vaccini e le presenze degli esperti della crescita. I nostri bambini
curati non mancano di nulla. Ma se soffiamo sulla superficie, anche loro, nonostante le campane di
vetro sotto cui sono fatti crescere, possono soffrire. Soffrono quotidianamente per un capriccio non
soddisfatto, per una scaramuccia, per la paura di perdere i genitori, per i sensi di colpa di fronte ad un
adulto che li sgrida. Affinchè le nostre infanzie conducano percorsi in nome della ricerca del benessere
è giusto che gli adulti che li accompagnano riconoscano questa componente difficile e si impegnino a
dar voce alle sue molteplici forme quella del dolore è una dimensione di fatto. Col tempo si sono
raggiunte maggiori conoscenze. Ancora oggi però capita che bambini e bambine rimangano inascoltati.
La sofferenza infantile va oltre le piccole frustrazioni de quotidiano, per ciò spesso si preferisce non
vedere, non capire, lasciar passare o più cercare di compensare la proposta di esperienze extra
ordinarie. Quello che le bambine e i bambini che soffrono chiedono agli adulti è un più di coraggio per
affacciarsi al loro dolore, ad una relazione che sia nel segno della cura e dell’aiuto. Si cercano figure
adulte che li accompagnino nell’attraversamento del dolore, non che li aspetti al di là dopo che la loro
forza, la loro creatività la loro resilienza l’hanno fatto loro superare.
4.2 quando l’infanzia curata si ammala
I nostri bambini sono immersi in una società e in una cultura in cui spesso per meccanismi psicologici di
negazione da parte degli adulti, non sono previsti percorsi di educazione al dolore e alla sofferenza
secondo la pedagogia delle emozioni. Il dolore turba, dinnanzi al dolore si fugge. È la reazione più
naturale ed istintiva (S. Natoli filosofo) nell’epoca delle passioni tristi, quando si tratta del dolore
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bambino la società tutta subisce una battuta d’arresto. Quale dolore appare più pericoloso ed ingiusto
di quello che colpisce i nostri bambini e le nostre bambine quando nascono cardiopatici, diabetici,
emofiliaci…che chiede loro di fare i conti con l’inesorabilità di una fine che si annuncia troppo presto. La
malattia fa paura:agli adulti, ai bambini sani e a maggior ragione ai bambini malati. I bambini associano
la malattia a emozioni quali la tristezza, stanchezza e delusione per cui alla sofferenza fisica si
accompagna anche una sofferenza di tipo psichico da loro ben riconosciuta. Sono spaventati:fino ad
una certa età non hanno ben chiari i concetti di malattia e salute. Da ciò nasce il timore che il
cambiamento sia stabile o che siano state le loro disubbidienze a scatenare il male. L’insorgere di una
malattia significa straniamento. La situazione di disagio si amplifica laddove si presenti la necessità di
un ricovero ospedaliero. La cura considerata appunto come meritata, finisce per rappresentare una
vera e propria aggressione:non esiste una chiara differenza tra un soffrire di disturbo lieve o di una
malattia grave ed incurabile. I bambini sono assaliti da paure ancestrali e gli interventi e le manovre
possono essere confusi con i pericoli fantastici che risiedono nel loro inconscio. Sono state individuate
alcune fasi in cui si presentano meccanismi di risposta simili. In una prima fase si assiste ad una sorta di
chiusura che spesso è testimoniata da inappetenza, scarsa comunicazione,disinteresse anche verso
giochi che prima attraevano. Si tratta un assestamento emotivo. Le modalità regressive si attenuano via
via che la cura fa il suo corso e i bambini si avvicinano alla guarigione;se invece tali modalità persistono
può voler dire che la malattia è stata vissuta come un evento che ha inficiato, a volte demolito le
sicurezze acquisite. Esistono invece casi in cui i bambini si oppongono alle cure con tutte le loro forze.
In questo caso i bambini negano la propria condizione di malattia, per l’incapacità di gestire la
disperazione conseguente all’accettazione. Anche la troppa passività nell’accettare le cure può far
supporre un’immagine di sé così svalutata da rendere il bambino passivo e inibito e preoccupare
l’adulto. Una delle paure più comuni è quella di essere abbandonati. Ad aumentare l’angoscia
contribuisce il fatto di dover dormire in un letto non proprio, mangiare cibi spesso insipidi, odiati…in
tutto questo la paura più grande sembra non essere quella del dolore, ma quella di perdere la madre. Il
timore è quella di dover affrontare da soli l’esperienza dolorosa e di soccombere a minacce esterne. A
volte accanto al diffuso sentimento di paura è possibile incontrare stati d’animo di depressione,
soprattutto nei bambini ospedalizzati. In seguito un ruolo decisivo è giocato dai genitori nei confronti
dell’evento malattia e nella gestione della relazione con il proprio figlio. I bambini e le bambine malate
se adeguatamente presi per mano possono affrontare meno faticosamente la propria malattia,
acquisendo la capacità di tollerarne almeno in parte l’attraversamento.
4.3 tutti i bambini tranne il mio:il crollo dell’onnipotenza
Tutti i bambini tranne uno crescono:cominciano così le avventure di Peter Pan. I bambini e le bambine
che incontrano la malattia, come Peter Pan, per un certo lasso di tempo non crescono più. I bambini e
le bambine che si ammalano non l’hanno scelto. Si tratta di una momentanea fase di arresto (se non di
regressione) nell’evoluzione. Ma tutti i bambini tranne uno (il mio aggiungiamo noi) rappresenta anche
un sorta di auto convincimento che accompagna i pensieri di ciascun genitore. Ciò per un meccanismo
psicologico di negazione, per una cornice culturale (“infanzia curata”) e infine perché in una società in
cui, attraverso il dominio della tecnica, il genere umano presume la propria onnipotenza sulla natura, la
malattia, qualora si dovesse presentare non può non essere sconfitta. Si utilizzano scienza e tecnologia
per contrastare la sofferenza. Quindi gli adulti della nostra società spesso non sono alfabetizzati alle
dimensioni più dolorose dell’esistenza. Questa tendenza non riguarda tutte le culture: differenti
concezioni del dolore caratterizzano per esempio le civiltà orientali. In contrapposizione con la teologia
della colpa le dottrine orientali considerano il dolore una caratteristica intrinseca dell’esistenza. “La
nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la separazione da ciò che si ama è dolore,
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non ottenere ciò che si ama è dolore” (Morin). Quindi gli adulti del mondo occidentale sono in questo
percorso poco o affatto agevolati dalle cornici culturali e dai loro contesti. La malattia in una società
che sprona alla spettacolarizzazione fasulla dei sentimenti in realtà tanto più è grade quanto più tende
a nascondersi. E nessuno lo va a cercare perché la sua vista inquieta (G Galimberti-in la repubblica delle
donne 21 nov 2009). E così la nostra esistenza si rende immune dalla presenza anche massiccia della
sofferenza (di quella vera). A maggior ragione se la spietatezza è tale da portare alla morte di un
bambino o di una bambina la malattia diviene ormai insopportabile. La nostra società lavora per
portare a rimozione l’idea che i bambini non muoiono più. Così i genitori del bambino o bambina malati
si ritrovano al buio. Quello della sofferenza che si nasconde è l’inganno del giorno. Di fronte all’infanzia
curata che si ammala nemmeno la più forte delle cornici può restare inalterata. Gli studi in merito sono
concordi nel riportare una prima reazione in cui i genitori preferiscono, sperano, credono…che il
proprio figlio non sappia, non capisca. Mentre i loro figli per tutta risposta avendondolo chiaramente in
mente o inconsciamente, in uno slancio di protezione dei genitori, tacciono la rivelazione del proprio
sapere e della propria sofferenza. Philippe Forest racconta attraverso i suoi occhi di un padre, la
terribile malattia della figlia di quattro anni. Per non farli star male al momento di salutarli per passare
da sola la notte all’ospedale “una bambina saluta con allegria coloro che l’abbandonano in un mondo
sconosciuto di paura dove nessuna faccia è nota. È il grazie con cui fa quello che può per assolverli dal
delitto dell’andarsene, suona alle loro orecchie come una nota d’ironia terribile, crudele. I bambini e le
bambine ammalati anche molto piccoli sono in grado di capire cosa sta succedendo loro. Ci si chiede
spesso quanto i bambini debbano sapere e si finisce per decidere al posto loro. Si reagisce impedendo
ai figli di porre le proprie domande. I genitori chiudono la porta principale della comunicazione con le
ansie e le paure infantili. Non conta il tipo di risposta che viene data, ciò che conta è la legittimità che,
attraverso di essa,viene riconosciuta alle domande dei bambini. La reazione dei genitori ai figli
ammalati passa attraverso cinque fasi dolorose e complesse (così come accade in seguito alla notizia
della nascita di un figlio disabile). Una prima fase è caratterizzata da un vissuto di ansia acuta
(preferisco non sapere);poi subentra quella dei sentimenti di negazione che evidenziano le difficoltà
dei genitori ad accettare la diagnosi ricevuta. La terza fase è dominata dal dolore della disperazione,
dalla rabbia e a tratti dall’aggressività. Si sussegue poi una fase di apertura all’ambiente, consapevoli
di richiesta d’aiuto. Una quinta fase infine è denominata di chiusura, si verifica quando i genitori
riescono a sintonizzarsi sulla malattia del figlio in un dialogo di cura che non sia solamente clinico è
evidente che devono aver superato le ansie derivanti dalla malattia stessa:pronti ad ascoltare senza
temere di non essere in grado di reggere il coinvolgimento emotivo che tale comunicazione
comporta.
4.4 non chiedermi come sto ma dimmi cosa c’è fuori
È stata detta da una bimba malata:in questa unica frase apparentemente semplice è racchiusa una
grande possibilità per il soggetto malato, quello di reagire alla propria malattia. Serve una mano tesa a
portarla fuori:esiste almeno una possibilità di proteggersi dalle frange più dannose della sofferenza. Si è
sviluppato il filone di studi sulla resilienza che ci permette di prevedere uno sviluppo positivo anche per
coloro che soffrono, sono meno fortunati, deboli, senza famiglia e senza cultura. Può esistere un aiuto
ex post, per tornare alla vita. La parola resilienza è usata nel campo della fisica per designare la capacità
di un metallo di riprendere la propria forma dopo aver ricevuto un colpo non abbastanza forte da
provocarne la rottura. La nozione secondo cui un trauma passibile di provocare angoscia psichica, la
persona ferita può ritornare alla vita. Per ragionare secondo un’ottica della resilienza è necessario però
abbandonare gli schemi concettuali della causalità lineare per orientarsi in tal modo:laddove, a seguito
di uno scacco esistenziale traumatico i soggetti riprendono a vivere si rialzano e riiniziano a progettare,
15
non si può non ricercare una spiegazione solo biologica o di personalità,ciò non è sufficiente. Secondo
Cyrulnik quell’individuo ha affrontato meglio la sparizione della sua famiglia, perché in precedenza
aveva acquisito la fiducia che hanno in sé tutti coloro che sono stati cresciuti in modo da sviluppare un
attaccamento sicuro. Ha trovato intorno a sé un sostegno affettivo, delle strutture sociali e dei discorsi
culturali che gli hanno offerto una possibilità che ha saputo sfruttare. Intraprendere un cammino di
relisienza parte da vari fattori e la loro interazione non è affatto indifferente. Possiamo permetterci di
parlare di possibilità di reazione leggendo i diari dei sopravvissuti ai lager nazisti. Quelli che si sono
salvati son riusciti a salvaguardare la propria identità umana e sono coloro che hanno avuto la capacità
di riscattare la sofferenza dall’insensatezza attribuendole un significato e considerandola come una
domanda che l’esistenza poneva loro in quel determinato momento. Possiamo credere (e forse adulti
sgomenti ed inermi di fronte al dolore bambino abbiamo bisogni di crederlo) che simili condizioni si
realizzino talvolta anche nel caso in cui un bambino o una bambina si ammalano, quando sono
sostenuti nei loro percorsi di vita da solide relazioni di aiuto dalla sicurezza e della fiducia che nutrono
verso i contesti che abitano. L’infanzia di una bambina scandita da continui ricoveri ospedalieri,
nonostante ciò, esprime gratitudine alla vita che le ha fatto incontrare medici, infermieri, insegnanti
pazienti, che ama e dai quali si sente riamata. È felice di aver incontrato e conosciuto bambini che poi
se ne sono andati e porta avanti nel tempo il suo dialogo con loro. Un’altra testimonianza significativa è
quella di una bambina Alice Sturiale (malata di una malattia progressiva degenerativa che la costringe
su una sedia a rotelle) che nel suo diario esprime il suo spirito trascinatore ironico tenace brillante, non
immune da momenti di rabbia, tristezza insoddisfazione, ma cerca sempre la chiave per superarli
atraversarli, spesso re- investirli. Una volta vinse ad un concorso una bicicletta e il suo promo pensiero
fu che scarogna. Poi però ripensandoci bene l’importante era che avesse vinto la sua gara. Questa di
Alice non è un’ironia che nega la felicità, ma neppure dolore. Tutto questo non significa affatto che non
soffra, potrebbe essere nascosta dietro una patina fragile. Si è detto che tanta difficoltà di accettazione
della sofferenza caratterizza il mondo adulto, soprattutto in un contesto che tende ad occultarla:non ci
è permesso ora affermare che le infanzie invece nonostante le testimonianze riportate e pur nelle
migliori condizioni, possano essere forti mature resilienti adulte. Non ci è permesso affermarlo perché
anche nel caso in cui ciò si verifichi in fondo non è giusto… potremmo dire infatti che è giusto che un
bambino o una bambina si ammala il suo dimostrarsi forte?il suo sorridere nel dolore…non possiamo. È
un’attitudine che non possiamo definire. Si tratta di resilienza?Forse. all’apparenza le bambine di cui
abbiamo riportato le testimonianze hanno dimostrato straordinarie capacità di reazione; c’è da
chiedersi sempre cosa si nasconda dietro questa evidenza. La sofferenza o si è annidata o è stata
elaborata, ma di fronte a un solido sostegno esterno. Per questo sono gli adulti e non le infanzie a
dover essere educati affinchè le proprie risposte e i propri comportamenti siano a favore della
resilienza;affinchè i loro bambini e bambine malati possano sentire la possibilità e lo spazio di
manifestare le proprie emozioni, le proprie paure (senza nasconderle) condividere i sentimenti
all’interno della famiglia e in tutti i contesti significativi, accettare e far accettare la tristezza, poter
canalizzare le reazioni di rabbia in un contesto che lo accolga e lo controlli anziché evitarla,
stroncandola o abolendola.
4.5 da una società indolore ad una rete in-dolore
Di fronte ad una società indolore che anestetizza il dolore dinanzi alla spettacolarizzazione della
sofferenza, dove sentimenti come la compassione, e la solidarietà sono relegati ai tempi minimi e
competenze come l’empatia sempre più difficili da realizzare , la malattia infantile può essere un
territorio in cui sperimentare e attuare trame di reti:fili che si tessono prima durante e dopo:servizi,
persone che fanno forza assieme per costruire una base presente costante sicura che sostine
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l’eventuale caduta. Entrare nei contesti del dolore (in-dolore) significa entrare nei contesti delle singole
fragilità dove le maglie se prese singolarmente sono precarie e facilmente solvibili. La loro forza è quella
dei legami. Essi non devono essere visti come fallimenti o successi ma come possibilità di una vita
condivisa. Tra i corridoi degli spedali si incontrano storie di persone come noi che in altri contesti, quelli
della normale quotidianità sono passanti o estranei al nostro cammino. Quei moneti significa
condividere e provare quel sentimento di comunanza, di immedesimazione, di legame che allevia per
quanto è possibile il peso della sofferenza. La nostra civiltà non ci aiuta invece a praticare la
compassione che viene spesso relegata ad ambiti specialistici. La studiosa americana Nussbaum ci
sprona a rivalutare questo sentimento anche al di fuori della nostra cerchia sociale. Quensto
sentimento richiama lo scomodo princium individuationis :perché è successo a loro e non a me?
Fatichiamo noi occidentali a rispondere. Sandro Veronesi nel suo articolo su la repubblica dice che la
risposta a questa domanda c’è:NOI SIAMO LORO. In questo altrove praticato così laico ma anche così
lontano dall’impianto razionale che limita la nostra civiltà che dobbiamo cercare al buio con gli occhi
chiusi se vogliamo ritrovare la forza vera della nostra umanità. Quando si smuove la compassione
emerge un bisogno profondo di raccontare se stessi anche nei contesti di sofferenza. Gli studi di Bruner
sulla narrazione hanno insegnato che il racconto è un modo per conoscere la realtà e per dare ordine
ad essa e alla propria storia, per realizzare le condizioni di resilienza. Così negli ospedali si sono
introdotti strumenti e linguaggi espressivi per promuovere nei piccoli pazienti spazi e possibilità di
narrazione. È inoltre proprio il lavoro di rete che permette a questi bambini e alle loro famiglie di
affrontare con maggiore serenità l’esperienza della malattia. Permette di costruire un racconto
socialmente condiviso. Come ha scritto la bibliotecaria del centro di riferimento oncologico di Aviano:
“quello della malattia è anche il tempo degli incontri. Il cuore vorrebbe essere da un'altra parte, fuori, a
vivere;ma succede all’improvviso che il tuo sguardo ne incontri un altro che emerga da sotto un velo di
scontrosità e timidezza. E nel loro incontro la malattia diventa meno pesante e più leggera la vita
dentro, al di qua delle grandi vetrate che ci separano dal cielo”
CAP. 5 MOLTE FAMIGLIE:QUELLE NORMALI E…LE ALTRE
5.1 il benessere familiare:un obiettivo comune oltre le differenze
Si deve prendere atto che la situazione non testimonia sol il perdurare di una carenza linguistica, ma
mette in evidenza come vi sia ancora uno scarto tra le famiglie reali e i dispositivi con cui esse vengono
definite, riconosciute e comprese nella nostra società. Ultimamente si affianca al termine famiglia un
aggettivo che la definisce:nucleare, ricomposta, monogenitoriale, monoparentale…non si assiste ancora
però una effettiva trasformazione dei paradigmi (ossia dei modelli di riferimento, dei termini di
paragone) con cui essi vengono definiti, interpretati e giudicati. Cosa può definirsi famiglia e cosa no?
Quali sono i suoi confini? Queste domande sono lo specchio di quanto affermato prima. Possiamo
pensare alla famiglia come ad un palcoscenico in cui interagiscono la dimensione individuale, quella
del piccolo gruppo e quella sociale come cechi concentrici connessi. Per comprendere cosa può
definirsi normale e cosa no in ambito familiare è necessario allargare lo sguardo dal singolo soggetto al
contesto in cui vivono e si sviluppano i legami sociali:analizzare il momento storico. Nei paesi
occidentali sono avvenute vere e proprie rivoluzioni antropologiche che hanno trasformato la base
delle coordinate familiari e prodotto fenomeni fino ad ora inediti. Sono cambiate le caratteristiche
morfologiche strutturali 8più tipologie di famiglie possibili),il piano relazionale (famiglia come unità di
affetti e come scenario della realizzazione esistenziale), le modalità con cui vengono interpretate le
differenze di genere (maggiore parità di rapporto uomo donna) gli stili genitoriali (affermarsi del
genitore autorevole e non autoritario) e l’idea stessa di educazione (come processo finalizzato a
facilitare l’espressione delle potenzialità dei soggetti). La discontinuità con cui il modello di famiglia
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unica produce indecifrabilità e disorientamento. Ciò è dovuto al fatto che alcuni modelli culturali,
eredità di un passato recente, persistono immutati nella mentalità dei cittadini. Un papà che utilizza il
congedo parentale invece della moglie viene ancora deriso e provoca riprovazione. Un bambino che
racconta di avere 8 nonni può rischiare di non essere preso sul serio. Certo che le avanguardie
provocano sconcerto e vengono digerite e normalizzate solo con il tempo. I segnali di crisi sono
riscontrabili in alcune coordinate che definiscono la qualità delle relazioni:le modalità con cui si
realizzano le funzioni educative e di cura:la tendenza a considerare il benessere individuale come un
fatto privato e non come un prodotto di relazioni sociali;l’insostenibile carenza di concrete misure di
sostegno che potrebbero facilitare il compito dei genitori. Le famiglie contemporanee esprimono una
debolezza sul piano formativo: “i genitori non sanno educare e lasciano fare ai figli quello che
vogliono”, i figli sono viziati ed individualisti, non hanno il senso di responsabilità e non tollerano il
fallimento. Essi esprimono la logica del capro espiatorio e omettono le responsabilità sociali, politiche
ed economiche di quanto sta accadendo. Evitare la banalizzazione per riportare i problemi nella loro
giusta dimensione, però non significa negarli. Ai genitori contemporanei si pone con forza il problema
di esercitare positivamente le funzioni genitoriali di salvare la a-simmetria del rapporto con i figli. Come
si può decidere se la famiglia funziona bene? Essa può funzionare bene a prescindere dalla propria
struttura o forma. Quello che conta davvero è la qualità delle relazioni che essi hanno fra loro. Per
lungo tempo si è affermata la tendenza di prendere come punto di riferimento una forma familiare
standard che veniva identificata come quella normale e in quanto tale la migliore, la più rassicurante la
più efficace. È il pilastro della nostra cultura e come tale per lungo tempo è stato sostenuto e validato
da argomenti di carattere ideologico, religioso, culturale. L’ideale di famiglia nucleare tradizionale si è
inscritto talmente in profondità nel sentire comune che non è percepito come frutto di processi sociali,
ma è stato naturalizzato ossia ritenuto l’unica forma giusta. L’altra faccia del paradigma della normalità
è quello della deviazione secondo cui sono classificati come devianti o anormali tutte quelle situazioni
che no rispecchiano tale ideale. Il cambiamento dei modelli di analisi è avvenuto dal momento in cui
l’attenzione dei ricercatori si è rivolta anche ai processi di innovazione, di cambiamento, di gestione dei
conflitti. Gli studi sulla famiglia hanno stabilito il bisogno di rispettare la relatività e di scardinare il
principio dell’universalità. Come definire allora la normalità in un panorama così sfaccettato? Il primo
luogo è necessario adottare una nuova concezione di concetto di benessere. Una visione dinamica del
benessere si accompagna a quella della famiglia come soggetto attivo, in grado di produrre significati e
risposte idonee a fronteggiare momenti transitori di disorganizzazione e di produrre nuove forme di
funzionamento soddisfacenti. Due caratteristiche di una famiglia che funziona bene sono dunque la
capacità di produrre benessere per tutti i suoi membri e quella di far adeguatamente fronte agli eventi
critici che caratterizzano i cicli di vita individuali e familiari che producono destabilizzazione. La capacità
di coping (capacità reattiva di fronte a fattori che potenzialmente potrebbero produrre malessere è
considerata competenza fondamentale per ogni famiglia funzionale. Non bisogna arrestarsi all’analisi
della loro superficie (struttura morfologica) ma entrare nei processi di relazione e trasformativi
(integrazione, stabilità, crescita, interazione con l’ambiente). A ogni famiglia è riconosciuta la possibilità
di individuare i propri percorsi. Ora ci si approccia all’analisi di alcune particolari situazioni familiari.
5.2 quando la coppia si separa:il complesso compito dei genitori separati
Si registra un costante numero di divorzi,ciò può anche essere vista come un’opportunità di alleviare
situazioni di malessere, di infelicità. In tal senso sono caduti i pregiudizi negativi, esse non sono più la
deviazione della norma. Nonostante questo non si può dire che si sia diffusa una buona cultura .
Separazione e divorzi hanno in comune di essere processi complessi;qui ci si occupa di separazione che
è l’atto iniziale, evento molto difficile di più per le coppie con figli. A determinare un buon risultato
18
entrano in gioco molti fattori di natura psicologica, emozionale, relazionale, sociale, economica e non
ultimo giuridica. Si possono individuare tre elementi cruciali:la prima è legata al cosiddetto divorzio
emozionale, la seconda all’affidamento dei figli, la terza alla capacità di instaurare una relazione di
cooperazione per l’educazione dei figli (co-genitorialità). Il divorzio emozionale segna il distacco
affettivo e sentimentale di entrambi i partner, o soltanto di uno dei due. È un evento che può essere
vissuto in modo differente dai due partner:in molti casi uno dei due non lo accetta e anzi lo ostacola. Ci
sono poi casi in cui la separazione emozionale non avviene mai:ciò sfocia spesso in una situazione di
accesa conflittualità protratta nel tempo. Il divorzio emozionale è necessario affinchè si possa stabilire
una relazione di cooperazione, devono essere vissuti dei passaggi, superati degli ostacoli in un tempo
soggettivo non definibile a priori. Tuttavia spesso si assiste a una sorta di accelerazione del processo di
separazione. La scissione di un sistema familiare provoca comunque in chi la vive destabilizzazione e
perdita di equilibrio. Tuttavia vi è una costante:il vissuto di fallimento. Provare questo particolare stato
d’animo senza avere la capacità di esaminare obiettivamente la realtà e guardare avanti con fiducia per
lasciare campo libero a fenomeni di rimozione proiezione sull’altro delle responsabilità, frustrazione e
aggressività repressa. Anche la gestione delle controversie di coppia risente fortemente delle influenze
culturali e dei comportamenti delle persone esterne al nucleo familiare. Nella società attuale domina
una bassa cultura del conflitto (contrapposizione vincitori-vinti, attacco-difesa…) e non come eventi
complessi che se ben gestiti possono avere un valore maieutico, rivelatore e innovativo. Sappiamo bene
che il buon esito di un conflitto la possibilità di mediare richiedono pre-requisiti, soprattutto la capacità
dei singoli di accettare la frustrazione, di mettersi nei panni dell’altro. Questi requisiti e capacità però
richiedono uno sforzo di volontà;devono essere conquistati giorno per giorno, accettazione dei propri
limiti e possibilità di riconoscere anche i propri errori. Son processi che richiedono una tranquillità di
fondo che a sua volta dipende dalla possibilità di non provare paura , di vivere il cambiamento senza
essere in preda al timore della perdita. Fino a quando però ci si trova in fase di contrattazione, quando
si deve decidere l’affidamento dei figli, il timore della perdita è uno stato quasi inevitabile, ma spesso si
trasforma in atteggiamenti aggressivi. Nono è la separazione a creare disagio, ma i suoi effetti
collaterali:lo stato di incertezza, le fantasie di riconciliazione, l’aggressività dei genitori…il benessere dei
figli quindi passa dalla capacità degli adulti di farsi carico in modo responsabile di gestire
adeguatamente il processo di cambiamento; esiste una sorta di decalogo:
-rispondere al bisogno dei figli di essere informati su quello che sta accadendo e su come cambierà la
loro vita
-non coinvolgere i minori in dinamiche conflittuali, non chiedendo loro di schierarsi.
-non proiettare sui figli i sentimenti che si provano per l’ex coniuge.
-i figli hanno il diritto di non sentirsi responsabili delle decisioni dolorose prese dai genitori:bisogna
aiutarli a gestire e neutralizzare il senso di colpa. La valutazione di quanto sta accadendo non può
essere facilmente effettuata con strumenti razionali dai bambini:la tendenza sarà quella di dare origine
a distorsioni interpretative. Ciò può essere esternati con sintomi psicosomatici (mal di testa, febbre…).
Essi hanno carattere transitorio e vanno considerati una reazione ad uno stress prodotto dal sistema. È
importante non drammatizzare né ignorare, ma considerarle come richieste di attenzione e cura che
vanno soddisfatte senza mettere in atto comportamenti compensatori di varia natura (es. assecondare i
capricci). È possibile che il comportamento problematico dei figli faccia aumentare nei genitori il livello
conflittuale e le difficoltà comunicative che li spinga a colpevolizzarsi a vicenda. È questa una situaizone
da evitare.
19
-ricordare che per i figli di qualsiasi età è fondamentale poter trascorrere una quantità adeguata di
tempo con entrambi i genitori.
-nel caso di affido condiviso andrebbe ridotto il più possibile lo sforzo di adattamento chiesto ai figli per
adeguarsi ai contesti di vita paralleli, per non trasformarli nei bambini con la valigia. Il segno distintivo
di una buona genitorialità è quello della consapevolezza e della pratica costante della cura del
minore;quello di una buona relazione bi- genitoriale sta nel concetto di integrazione (delle diversità).
Come dato confortante possiamo ricordare che superate le difficoltà iniziali solitamente il processo di
separazione rappresenta un’ opportunità. Dal 2006 vige in Italia la legge sull’affido condiviso. Essa
prescrive ai genitori di trovare un accordo su tutti gli aspetti che riguardano la gestione quotidiana dei
figli e della loro educazione;nel caso in cui questo accordo non si trovi il giudice prescrive un
mediazione. La mediazione familiare è uno strumento di grande valore che però richiede la
motivazione, l’impegno e la volontà e la maturità degli ex coniugi. Si basa sull’attivazione diretta dei
contendenti che devono tornare a parlarsi, a comprendersi e concedere una chance di ristrutturazione.
Gestire un conflitto è un insieme di azioni diverse (counseling, negoziazione, mediazione…)che
richiedono luoghi e modalità specifici di realizzazione. La Legge 54/2006 ha introdotto la mediazione
come prassi, ma ad oggi i centri di mediazione pubblica sono attivi solo in minima parte nel nostro
paese e solo per iniziativa di alcune regioni. Bisogna specificare che la presenza di entrambe le figure
genitoriali non è di per sé positiva:devono essere figure equilibrate, disponibili, serene. Anche la
presenza di palesi difficoltà di uno dei due genitori, l’affido prevalente oggi è un’opzione che può
essere scelta solo di fronte alla comprovata inadeguatezza di uno dei due genitori. Questa legge è
positiva nei suoi intenti, ma in qualche modo incompiuta:in assenza di un contesto culturale adeguato e
di misure specifiche di sostegno diretto e indiretto alle famiglie, essa può rivelarsi alquanto rischiosa e
specialmente diventare un boomerang.
5.3 famiglie ricomposte:dalla sfida iniziale all’integrazione dei nuovi nuclei familiari
Per ricostruire o ricomporre un nuovo nucleo familiare ci sono diversi percorsi possibili. Secondo l’ISTAT
una famiglia ricostruita è “una coppia sposata o non ,con o senza fili, in cui almeno uno dei due partner
provenga da una precedente unione di fatto o matrimonio”. Si adotta qui questo criterio:le famiglie a
struttura più semplice sono quelle in cui uno dei due coniugi ha un matrimonio o convivenza alle spalle
senza figli: quelle a struttura più complessa sono costituite da adulti che hanno avuto una o più unioni
in cui hanno generato uno o più figli e magari se ne aggiungono altri dall’unione attuale. Se sono
famiglie di fatto subiscono la ben nota mancanza di riconoscimento legale. Se sono suggellate da nuovo
matrimonio allora i rapporti tra coniugi sono riconosciuti legalmente ma le relazioni tra gli altri membri
non sono regolate da norme specifiche. Si è nell’impossibilità di definire le nuove figure genitoriali
acquisite. La possibilità di vivere bene in una famiglia ricomposta però dipende in massima parte dalla
capacità e dall’intelligenza degli adulti, dalle loro emozioni, ai loro sentimenti, dalle loro problematiche,
più o meno risolte o coscienti. Un elemento basilare che determina il successo della relazione futura è
che sia avvenuta realmente la separazione emotiva con gli ex partner e che sia ritrovato un equilibrio e
un rapporto cooperativo nella gestione di eventuali figli.
a. Deve essere ben condotto e portato a termine il processo di integrazione, devono compiere alcune
tappe fondamentali:conoscersi, interagire, sviluppare un senso di interdipendenza reciproca e
altro…Saltare anche uno solo di questi passaggi può significare ono arrivare mai ad un senso di
appartenenza familiare
b. Devono essere rispettati i tempi di tutti, ma in particolare dei minori. Le forzature sono nemiche
delle famiglie ricomposte.
20
c. Aumentano i membri e aumentano i bisogni
Una bambina, narrando il suo incontro con i l patrigno mette in evidenza di come per potersi fidare,
dopo aver vissuto un’altra esperienza negativa con un altro partner della madre, ha bisogno di
metterlo alla prova con comportamenti trasgressivi. Comunque il racconto finisce bene. Diffidenza
e ostilità sono le azioni più probabili dei figli di fronte ai nuovi partner dei genitori. Se la qualità
della relazione tra ex coniugi non è ottimale nei figli possono anche apparire conflitti di lealtà. Il
compito può essere più arduo per i single senza figli che si scelgono un compagno/a con figli:nel
loro caso si parla di instant mother o instant father, in virtù della repentinità con cui passano da
uno stato all’altro. Essere un genitore sociale in una società che fa fatica ad accettare culturalmente
e materialmente il valore di questo ruolo è tutt’altro che semplice.. le famiglie ricomposte
rappresentano una vera e propria sfida sociale che se vinta può consentire l’integrazione pacifica
delle diversità. Esse sono veri e propri laboratori sociali di sperimentazione relazionale. La famiglia
extra large quindi può far bene a patto che gli adulti siano in grado di creare le condizioni in cui si
possa sviluppare la coesione, ossia storia comune, senso di appartenenza, identità collettiva.
5.4 la famiglia con un solo genitore: ma sono davvero taglie small
Esse sono originate prevalentemente da scelte,prese in prima persona da un genitore presente o subite.
Per molto tempo si è guardato a queste situazioni ipotizzando che la mancanza di un genitore costituisse
uno squilibrio insanabile. Dobbiamo ricordare che il fenomeno assume prevalentemente una connotazione
femminile:l’80% delle famiglie monoparentali è donna figlio. Un ruolo fondamentale viene giocato dalle
famiglie di origine sia per il sostegno dato per la cura dei figli nei tempi lavorativi del genitore, sia per il
sostegno economico. Molte madri inoltre si sono re-inglobate nella famiglia di origine. Così si entra in
conflitto con nonne e nonni sull’educazione dei bambini e i nodi irrisolti vengono a galla investendo
ingiustamente i minori. I genitori single conoscono bene l’importanza di offrire ai figli maggiori opportunità
relazionali. La presenza di una rete sociale può veramente fare la differenza. I problemi di una famiglia
monogenitoriale possono essere acuiti da una mancanza di una o più figure che possono mediare. Prima di
etichettare i figli di famiglie monogenitoriali come soggetti a cui è stato tolto qualcosa è bene ricordare
l’esistenza di una genitorialità sociale. Uno scrittore ben descrive la sua situazione bambina: le suore
orsoline alla scuola materna mi hanno fatto da babbo…i libri mi hanno fatto da babbo…in quelle pagine
avevo trovato i modelli perfetti e le parole giuste.
5.5 famiglie omoparentali:diverse normalità possibili
Quelle caratterizzate dalla presenza di genitori omosessuali sono galassie sconosciute, anche per la
presenza di pregiudizi derivati da precetti ideologici, religiosi, culturali. Queste famiglie sono in aumento
anche in Italia. Tuttavia essere genitori e essere omosessuali sono caratteristiche spesso ritenute
difficilmente conciliabili dal senso comune. Come crescono i bambini in queste famiglie? In primo luogo
bisogna rilevare che le pressioni ideologiche hanno comunque limitato lo sviluppo degli studi in questo
campo. Raccogliere dati demografici che diano una rappresentazione realistica della diffusione delle
famiglie omogenitoriali è molto difficile;sono davvero pochi i genitori omosessuali che dichiarano
apertamente di esserlo. La maggior parte delle rilevazioni ha riguardato la maternità lesbica scaturita però
per la maggioranza dei casi da coming out e poi la ricostruzione di un altro nucleo. Non si rilevano nelle
famiglie omoparentali maggiori condizioni di rischio, né di esposizione a carenze educative, né la possibilità
che si sviluppino soggetti in qualche modo disturbati sul piano psicologico e sociale. I figli degli omosessuali
non sono esposti a questa eventualità in modo maggiore dei figli degli eterosessuali. Che gli omosessuali
possano essere genitori attenti, motivati, consapevoli, presenti, è un dato poco discutibile. Si può però
affermare che il vero rischio per la serenità di questi bambini risieda soprattutto nel pericolo della stigma
21
sociale e della totale assenza di diritti riconosciuti. Ma anche se la nostra società non fosse per così dire
pronta ad accogliere serenamente queste famiglie, questo non rappresenta un motivo sensato per
ostacolarle e per opporsi al loro riconoscimento. Seppur partendo da minoranze sociali alcuni pionieri
hanno il coraggio di uscire allo scoperto e dichiararsi apertamente. Nidi d’infanzia e scuole di ogni genere di
vario ordine e grado hanno invece il preciso compito di accogliere i bambini portatrici di differenze in tutte
le sue forme combattere la discriminazione e pertanto ricevere adeguatamente anche i figli di genitori
omosessuali. Su cosa significhi accogliere adeguatamente c’è ancora molta confusione:anche in questo
casso si tratta di un terreno in cui c’è ancora molta ignoranza. La riflessione pedagogica si sta recentemente
e timidamente affacciando in questo scenario.
CAP. 6 Genitori e figli che arrivano da lontano:l’adozione internazionale
6.1 metter su famiglia con l’adozione internazionale:una responsabilità globale
Ci sono eventi che più di altri dovrebbero rendere evidente l’interdipendenza globale. Siamo nel gennaio
2010 ad Haiti la terra ha tremato violentemente. Oltre 200 mila vittime con molti ragazzino rimasti soli in
strada orfanatrofi, soli o in compagni di adulti non adatti a crescerli. Haiti è il paese più povero d’America,
così in Italia si sono moltiplicate le offerte di adozione. Medici senza frontiere, Unicef, Save the children
Terres des Hommes sostengono che l’adozione internazionale non può essere la risposta all’emergenza,
anzi rischia di essere una procedura affrettata, che no tutelerebbe i bambini. Piuttosto incentivare adozioni
a distanza, assistenza in loco, ricostruzione di luoghi di accoglienza, ricongiungimento con i parenti
dispersi…ma molti chiedono che si agisca in fretta e si porti i piccoli haitiani in luoghi sicuri. Dunque in
questa prospettiva si trova la richiesta di adozione internazionale e di affido internazionale (portando
temporaneamente e immediatamente questi bambini in paesi sicuri). Mancano però normative nazionali e
internazionali che regolino tale specifica possibilità. Magari saranno fatte delle normative al fine di eludere
pericoli reali tra i quali anche l’elusione di queste norme e dunque a questi bambini potrebbe arrivare
chiunque anche adulti non animati da buone intenzioni. Quindi vanno modulate le spinte emotive
dell’azione affrettata che non sempre è quella adatta. Da UNICEF è giunta la notizia che da ospedali haitiani
sarebbero spariti dei bambini, tuttavia si continua ad affermare la necessità di rispettare le procedure
necessarie al ricongiungimento familiare. In queste situazioni non esiste un’univoca soluzione:contare i
bambini, individuarli, delimitare spazi sicuri in cui custodirli,curarli. Inoltre sostener gli adulti locali in grado
di farsi carico di questa infanzia. si devono distinguere i bambini adottabili già prima del sisma;per questi
varrebbe la pena di accelerare le procedure. Ci si chiede come vivrebbe l’adozione un bambino specie se
grandicello che lascia nei luoghi di origine persone importanti di cui non ha potuto conoscerne le sorti. Per
questi varrebbe la pena utilizzare l’affido internazionale. Poche sono le possibilità di adozione dei bambini
haitiani da parte degli italiani, anche per difficoltà a trovare prassi condivise tra i due governi. Ciò
comunque riguarderebbe coppie già dichiarate idonee. Il fatto che tante regioni del globo si siano aperte
all’adozione internazionale ha strettamente a che fare con i disequilibri mondiali sul piano economico,
sociale, demografico. I bambini sono le principali vittime delle problematiche connesse. Può sembrare
strano parlare si responsabilità globale sui bambini da coloro che semplicemente si sentono spinti dall’idea
di metter su famiglia;eppure la possibilità di divenire famiglia con l’adozione internazionale comincia
proprio da lì. Sono impegnati individui, stati autorità e operatori specifici del territorio. Riguarda la
disponibilità ad accogliere, educare, amare di adulti/genitori.
6.2 breve storia e cenni legislativi
L’aver affermato l’esigenza di collaborazione tra paesi di provenienza poveri e quelli ricchi nella reciprocità
e nell’adesione a principi comuni condivisi, ha costituito un fondamentale passo avanti negli interventi volti
22
a garantire, su piani diversi, protezione e cura ai bambini. Chiede di ascoltare la realtà dei paesi di origine
dei minori. Queste però sono conquiste recenti. La pratica dell’adozione ha una storia lunghissima
mostrando si sé differenti potenzialità e limiti e seguendo obiettivi diversi. Nell’antichità e ancora sino ai
primi decenni del socolo scorso, l’adozione ha risposto anzitutto ai fini successori, bisogno di compensare
l’assenza di figli. Ha mantenuto a lungo il carattere di utilità economica e materiale per la famiglia del
bambino. In Italia ci sono voluti decenni perché si superasse la prospettiva adulto centrica, il loro bisogno di
garantirsi una discendenza. Ci sono voluti decenni anche per modificare un tessuto culturale e sociale in cui
le madri sole e i figli nati fuori dal matrimonio erano rifiutati ed emarginati, lasciati dalle madri sole e nubili
alle porte delle chiese e dei conventi. Lentamente l’adozione cessa di essere un contratto tra adulti e
comincia a porsi come obiettivo prioritario il benessere del bambino. È dalla fine degli anni 60 infatti la
prima legge sull’adozione (legge 4 giugno 1967). In essa per la prima volta i diritti dei bambini vengono
anteposti a quelli degli adulti, affermando inoltre il superamento de legame di sangue, è come i legami
affettivi ed educativi siano prioritari. Aspetti questi che a volte faticano a radicarsi pienamente nella
mentalità diffusa. Nel corso degli anni 70 si sono sviluppate trasformazioni culturali e sociali: la vendita
della pillola a scopo contraccettivo, la riforma del diritto di famiglia che nel 1975 ha consentito il
riconoscimento dei figli naturali, la legge sull’aborto del 1978. Queste situazioni riducono il numero dei
bambini abbandonati e adottabili. Contemporaneamente andava aumentando il fenomeno dell’infertilità le
cui cause sono complesse e non del tutto conosciute. Si sa che a questi fenomeni si possono associare
situazioni come scelta di non avere figli o di averli in età matura o avere un solo figlio da far nascere dopo lo
sviluppo di una carriera professionale. Di conseguenza si è assistito ad un calo delle nascite, nello stesso
tempo si diffonde la cultura dell’adozione e la consapevolezza dei danni causati da dalle carenze affettive
ed educative subite nell’infanzia. pur aumentando la richiesta di adozioni esse non potevano essere
soddisfatte a causa anche delle limitazioni della legge del 1967 che fissava a 8 anni il limite massimo di
adottabilità. Quindi l’unica via possibile è quella dell’adozione internazionale. Esse prendono avvio per
motivi umanitari ed erano in origine riservate ad una elite di genitori già con figli prevalentemente
dell’Italia del Nord. Negli anni seguenti l’adozione internazionale assume una dimensione mondiale. Alle
motivazioni umanitarie iniziale si sostituiscono quelle di coppie prive di figli biologici scoraggiate dalle
difficoltà di adottare un bambino in ambito nazionale. Così nascono le adozioni di bambini di origine
straniera. Per parecchi anni con le adozioni internazionali è stato possibile accogliere bambini in età
precoce e con percorsi semplici. Ma l’assenza di norme ha causato non pochi problemi. Consentendo,
fuori da ogni controllo, agli aspiranti genitori la ricerca dei figli, a organizzazioni spinte a fin idi lucro
intermediazioni che non tenevano conto dei diritti dei bambini. La mancanza di controllo sulle coppie ha
fatto sì che giungessero all’adozione anche persone che non possedevano i requisiti formali stabiliti dalla
legge, impreparate alle motivazioni profonde che sottendono la scelta adottiva e alle difficoltà che
comporta l’accogliere un bimbo di origine etnica e culturale diversa. Solo dopo 16 anni sono state definite
norme specificamente volte a riconoscere e tutelare i diritti del minore straniero. La legge 184 del 1983
afferma il principio dell’equità di garanzie tra minori italiani e stranieri. Qui si regolamentano
l’accertamento dei requisiti degli aspiranti genitori adottivi e dei bimbi adottabili. Questi principi non hanno
però trovato applicazione efficace:per i minori stranieri non si accerta lo stato di abbandono;non si verifica
se siano stati attuati interventi per risolvere i problemi nel loro paese d’origine; non è richiesto l’esame
comparativo per coppie idonee né la conoscenza delle storie e delle caratteristiche del minore. Con la
convenzione internazionale sulla protezione dei minori dell’AIA (1993)sono state definite norme giuridiche
vincolanti per le adozioni transnazionali, proteggerli verso adozioni fatte a frode e a scopo di lucro;non
ultimo armonizzare le legislazioni degli stati ratificanti. Con la legge del 31 dic 1998 l’Italia ha ratificato la
convenzione dell’Aia segnando un passaggio nodale nel modo di concepire l’adozione che coinvolge
genitori e figli di diversa provenienza etnica e socioculturale. Il tutto ruota intorno al principio di
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  • 1. 1 APPUNTI DI STUDIO LIBRO CONTINI MOLTE INFANZIE MOLTE FAMIGLIE INTERPRETARE I CONTESTI IN PEDAGOGIA Introduzione Osservando bambini di etnie diverse in una pubblicità si osservano quasi tutti uguali:come a dire che per rendere la diversità accessibile occorre sempre e ancora attutirla, camuffarla. Ma l’ostacolo riguarda anche gli italiani figli di italiani usati dalle organizzazioni malavitose, esibiti e sfruttati come forza lavoro dello spettacolo, fotocopie dei rispettivi personaggi adulti famosi. Tutti questi bambini abitano i nostri luoghi, non intravediamo segnali di diversità sotto l’apparenza omogenea. Dobbiamo indagare cercare di comprendere le loro infanzie, l’insieme connesso delle condizioni (socioculturali, psicologiche, affettive e relazionali) al cui interno si colloca e si snoda il loro essere bambini e bambine. Si colgono due considerazioni inquietanti:scoprire che accanto alle infanzie accudite e curate , ci sono sia quelle troppo curate, iperprotette, private della stessa possibilità del desiderio (esaudito in anticipo) sia le infanzie affamate e lasciate morire;inoltre domandarsi se le infanzie siano molte e contemporaneamente non lo siano affatto. Cosa hanno da spartire con l’infanzia quelle condizioni sopra nominate? Adultizzati inseriti nella promiscuità dei grandi:sono bambini e bambine, ma non c’è infanzia, è stata loro rubata da una cultura che l’aveva elaborata da poco e la sta smarrendo. Partendo da una diffusa denuncia di scomparsa della famigliari perviene alla scoperta di molte famiglie che nella loro eterogeneità possono comunque essere impegnate ad elaborare e realizzare una comune progettualità, costruire relazioni di cura educativa nei confronti dei figli. Va inoltre sottolineata la possibilità che hanno al pari della famiglia tradizionale, di impegnarsi e di perseguire uno sviluppo ricco e sereno. Certo i problemi di crisi culturale ed economicofinanziaria gravano sulle famiglie. Così si fa strada la convinzione che la problematicità derivi e coincida con la tipologia della struttura familiare: i bambini hanno problemi perché i genitori sono separati o perché mamma è da sola o perché ci sono i figli del nuovo marito e della nuova moglie. Bisogna imparare a conoscerle, le molte famiglie e collaborare con esse a favore delle molte infanzie e famiglie in un’ottica di reciproco alleanza educativa empowerment. Otto donne si rivolgono intrecciandosi tra di loro ai mondi complessi delle molte infanzie e delle molte famiglie. Mariagrazia Contini Molte infanzie o nessuna infanzia? Implicazioni riguardo le infanzie al plurale in più modi violate. Paola Manuzzi Corpi bambini tra cura e incuria. Tentativo di leggere le relazioni dei bambini con il loro mondo provando a fare della corporeità un dispositivo del pensiero, una via di alfabetizzazione empatica verso quella speciale normalità che sono i bambini. Silvia Leonelli Costruzioni di identità e pedagogia di genere. Partendo dal testo dalla parte delle bambine di Gianini Belotti si rifletterà sul senso di una costruzione di identità di genere per chi è bambino o bambina oggi. Quando l’infanzia incontra una malattia di Silvia Demozzoni parte da una domanda:cosa succede quando l’infanzia curata si ammala? Paura del dolore fisico, paura senso di colpa e di abbandono Alessandra Gigli Molte famiglie:quelle “normali” e le altre. Si assume come modello la famiglia tradizionale al paradigma della deviazione secondo cui sono classificate le altre. Si vuol riflettere sulla possibilità che a determinate condizioni di consapevolezza ed impegno avendo come obiettivo comune il benessere familiare per tutte le molte famiglie oltre le differenze.
  • 2. 2 Stefania Lorenzini Genitori e figli che arrivano da lontano:l’adozione internazionale, cammino a più tappe e complesso. Ivana Bolognesi stranieri al nido, il nido straniero. Il dialogo interculturale di una cultura educativa che ne incontra un’altra. Sandra Benedetti Servizi educativi per le infanzie e famiglie:latitudini e longitudini di un sistema:tracciando la trama socio- politica e culturale degli ultimi 40 anni, si delinea il percorso di nascita e di sviluppo dei servizi educativi per la prima infanzia. CAP 1 MOLTE INFANZIE O NESSUNA INFANZIA? 1.1 premessa la considerazione di famiglie al plurale provoca nei più un senso di fastidio che alimenta le nostre rigidità cognitive fino a renderci violentemente centrati sulle nostre certezze. È capitato all’autrice di chiedere agli studenti di giocare con il brainstorming intorno all’espressione infanzie al plurale. Si sono riempite tre lavagne per indicare diverse condizioni dell’infanzia:infanzia italiana, infanzia africana, infanzia afgana…con esperienze in qualche modo già individuabili e riconoscibili. In Italia ci sono milioni di bambini, ma quante infanzie ci sono? Poichè ci sono molte tipologie di organizzazione familiare in cui crescono bambini e bambine il vederle per fare ricerca e per ipotizzare e verificare buone pratiche di cura è doveroso. Non è ideologico non richiede schierarsi a favore o contro, ma vanno conosciute e comprese nelle dinamiche di funzionamento per cogliere gli elementi di criticità. Se le molte famiglie vanno viste, le molte infanzie vanno scoperte scovate insegnate e ricercate;abitano luoghi che la maggioranza di noi non frequenta. Il non essere individuate può coincidere con l’azzerarsi di ogni possibilità. Il rischio altrimenti è di credere di lavorare con, per l’infanzia mentre ci si occupa di una sola infanzia, magari la più vicina e familiare e nulla si sa delle altre, delle molte altre. 1.2 certi bambini nel mondo certi bambini è il titolo di un romanzo di Diego de Silva che ci obbliga a scoprire che certi bambini vanno dolorosamente scoperti per come sono. I dati e le immagini con cui veniamo a contatto in certi siti ad es. quello di save the children possono portare ad uno choc cognitivo-emozionale e significativo, che produce nuovi occhiali per guardare il mondo, la vita degli altri e la nostra. Kon era un bambino soldato sudanese. Attraverso un training era progressivamente stato sradicato dalla vita precedente e condotto su quelli della violenza. Così si è trovato con un fucile in mano. Poi è riuscito a fuggire e chissà quale impronta positiva scolpita nella plasticità del suo giovane cervello ha potuto far scattare in lui la misteriosa, resiliente volontà di salvarsi. Racconta che alla ripresa della scuola non riusciva a fidarsi di nessuno, usava la violenza fino a quando è riuscito a vedersi sotto una luce nuova grazie alle insegnanti e ai compagni. Somaly una bambina cambogiana senza genitori viene adottata da un vecchio;per andare a scuola si alza alle tre di notte cucina e dopo la scuola lavora per pagare il sostentamento. Viene poi violentata e venduta ad un bordello. Non si è mai ribellata perché era stata allevata come schiava e si sentiva in balia di chi l’aveva nutrita anche se questo era stato procurato col proprio lavoro. Rene boy vive in una bidonville alla periferia di manila. Ogni giorno raccoglie rifiuti da rivendere e sogna di diventare autista dei camion. Una tempesta tropicale provoca una frana;lui e la sua famiglia si salvano e vorrebbero andarsene da lì. Ma dove? Una bambina africana viene preparata per una festa…ma è la mutilazione genitale. Il dopo è drammatico:la bambina non è più lei, il suo cuore si indurirà a tal punto che da grande sarà pronta a promettere a sua figlia la stessa festa. 1.2.1 perché noi dall’altra parte del mondo dobbiamo sapere
  • 3. 3 Siamo interpellati come cittadini del mondo globalizzato;inoltre le nostre scelte personali implicano un’etica della cura che dovrebbe emergere nei contesti in cui operiamo. Saremmo colpiti da dissonanza se vedessimo qualcuno che strappa fiori o maltratta un animale. Dobbiamo sapere perché dobbiamo prenderci cura , pensandoci con sofferenza ed indignazione. Poi va considerato l’esercizio critico delle emozioni:a chi agisce nel campo educativo è richiesta attenzione contro il conformismo stereotipato, il pensiero unico, l’emozione unica che è l’indifferenza. Dobbiamo conoscere le dirette conseguenze di questo modo di pensare. La resistenza pedagogica deve aprire altre strade, incontri rispettosi e curiosi. Il secondo riguarda il tema dell’empatia. Fra i compiti di chi educa vi è quello di approssimarsi alla soglia dei bambini e delle bambine con cui opera. Questo percorso che si nutre di ascolto ed interesse equivale ad esercitarsi all’empatia. 1.3 i nostri bambini e bambine in Italia anno 2010 Nei focus group di ins. di ins. di asili nido e materne sono stati proposti cinque aggettivi per i bambini di oggi. Sono uscite le rappresentazioni dei loro comportamenti ed atteggiamenti. L’ISTAT dice che dei 6 milioni di bimbi italiani da 0 a 10 anni una delle caratteristiche è la multiculturalità. Noi e loro…è un problema sociale. Intanto per ora li vogliamo sanissimi li iperproteggiamo in tutti i modi. Sono talmente protetti che sono la prima generazione senza le ginocchia sbucciate. Sono belli sani soprattutto preziosi, talvolta figli di genitori “anziani”. Preziosi anche per il carico di energie fisiche e psichiche che viene sacrificato sull’altare della loro presenza in famiglia da parte di genitori sempre affannati. Questi genitori non sono nelle condizioni materiali (contratti di lavoro precari) di scegliere tempi lavorativi perciò sono ridotti i tempi della quotidianità. Viene loro chiesta una dedizione senza limiti. Poi vi sono i genitori con problemi organizzativi ed economici con figli nati da unioni precedenti. Ma questi preziosi bimbi come vivono la loro quotidianità? Stanno a scuola 8 ore, poi palestra, piscina, prelevati la sera e portati a casa per la cena, collocati davanti ad uno schermo durante e dopo cena. Se poi vanno a letto senza il rito della buonanotte, della presenza fisica si addormentano con quel fardello addosso. Manca loro il tempo di distendersi, di perdersi, dei tempi vuoti e silenziosi di stare per conto proprio. Winnicott ha valorizzato la capacità del bimbo di stare bene solo alla presenza della madre, magari in un'altra stanza. In entrambi i casi si sottolinea l’importanza che i bambini e le bambine abbiano la possibilità di imparare ad esplorare, scoprire, organizzare qualche attività anche da soli, concentrandosi, fantasticando, distraendosi, divertendosi e perché no annoiandosi. 1.4 bambini, bambine al crocevia:di contesti, di stili educativi, di reciproche rappresentazioni due precisazioni riguardo ai bambini davanti allo schermo. È negativa tra i pochi mesi e i 3-4 anni. Se nei primi tre anni di vita vengono sistematicamente esposti al piccolo schermo a sei anni avranno competenze linguistiche inferiori ai coetanei. Inoltre ciò interferisce con lo sviluppo dell’intelligenza senso motoria, con la formazione dello schema corporeo. Nessuno motivo per inorgoglirsi del piccolo che conosce i personaggi dei cartoni animati, non sta dando prova di intelligenza precoce ma della portata del condizionamento a cui è sottoposto quotidianamente. La seconda precisazione riguarda gli stili educativi familiari rispetto ai valori di riferimento: molti genitori non fanno vedere la tv ai filgi e a turno giocano con loro. Altri vedono la tv come male necessario, altri li lasciano così anche per loro c’è un po’ di pace. Gli stili educativi sono spesso oggetto di critica di educatori e insegnanti (e viceversa). Una loro reciproca alleanza sarebbe auspicabile conoscendosi un po’ meno superficialmente, valorizzando le reciproche competenze e comprendersi,favorire momenti di incontro per riflettere insieme, per offrirsi feed-back di chiarimento. Bambini spavaldi e fragili, apparentemente autonomi, ma forse poco contenuti, incapaci di tollerare la frustrazione, di accettare l’attesa di provare desideri, bambini che pretendono l’adulto tutto per sé e non sanno rapportarsi con i compagni sordi alle regole con problemi di alimentazione e di sonno. Sono solo alcune criticità che pur intrecciate a molte
  • 4. 4 competenze (di linguaggio di conoscenze di abilità) delineano l’immagine dei nostri bambini. Suona preoccupante la risposta scherzosa delle educatrici:il problema di questi bambini sono i loro genitori. A questo punto va fatta un’analisi di questa incomprensione. 1.5 se l’infanzia scompare, se l’umanità continua ad abbandonare i Pollicini nel Bosco Dopo aver osservato l’omogeneità dei nostri bambini, uno sguardo più attento ci pone verso piste meno abituali e familiari. Allo sguardo di certi bambini si incontrano due tipologie: la prima dal mondo dei devianti, la seconda dal modi dei normali con qualcosa in più da mettere in mostra. Si parte dal protagonista del testo di De Silva. Forse la città è Napoli, il ragazzo vive in un grande caseggiato con la nonna anziana ed intontita dagli ipnotici di cui fa uso. Prepara la colazione poi va a compiere il suo primo delitto,come gli è stato ordinato dai capi dell’associazione malavitosa di cui fa parte a cui vuole mostrare di essere degni di farne parte. Sulla metropolitana è un ragazzino come tanti altri, gellato ben vestito, ma nessuno si prende cura di lui, la borsa che sembra essere della palestra contiene un’arma, ma lui non prova niente (come Kon ). Ha avuto un incontro con una ragazza che poi è morta, ma anche qui nessuna emozione. L’inconsapevolezza sembra la dominante nella sua storia. Alla fine del romanzo incotnra un uomo ben vestito che scende dal pullman dei pendolari. Rosario pensa che da grande gli vorrebbe assomigliare, gli chiede l’ora, ma l’uomo gli risponde distrattamente il bambino cerca di odorarlo fin tanto che gli è vicino poi lo segue con gli occhi mentre si allontana. Forse quell’incontro casuale per l’autore rappresenta la flebile possibilità di identificazione per Rosario, ma non viene accolta. La storia di Rosario assomiglia a quella di molti ragazzi della periferia di Napoli di cui si occupano i maestri di strada. Il lavoro di Cesare Moreno mira all’alfabetizzazione non solo di istruzione, ma anche di appartenenza al tessuto sociale, di progettualità della propria vita. le difficoltà che incontrano riguardano le azioni devianti dei piccoli che grazie a queste guadagnano e si sentono grandi e rispettati da tutti. Poi vi sono le resistenze dei genitori e infine le difficoltà delle istituzioni che considerano eccessivi i costi di quei progetti. Ma se anche un numero ridotto di questi si riappropria del proprio futuro il risultato è importante e di gran rilievo. La seconda tipologia sono i bambini e bambine che sarebbero normali ma hanno qualche dote ritenuta degna di essere esibita spettacolarizzata (cantanti, ballerini, indossatori). Da quanto tempo si stanno addestrando? Sono in genere vestiti da grandi, senza goffaggine stanno sul palco. Qualcuno gliel’ha insegnato o i genitori o qualcuno a cui hanno abdicato il ruolo riducendosi a sfruttatori dei loro figli e del loro talento. Abbondano e aumentano trasmissioni televisive e spot con i bambini come protagonisti. Osservando la stessa trasmissione di genere in una puntata del 1999 e in una odierna si nota un cambio di setting di abbigliamento e di comunicazione. Ora è una aspirante velina allora una bomba coi codini che cantava una canzoncina. Sembra davvero configurarsi la scomparsa dell’infanzia profetizzata da Postman? Era appena stata acquisita come categoria culturale, si era da poco legiferato su di essa. Sembravano tutti segnali di conquiste realizzate, quasi non dovessero più rendersi necessarie le metaforiche briciole per Polllicino, perché nessuno l’avrebbe più abbandonato nel bosco. E invece nel bosco continuano ad essere abbandonati. In tutti i casi devono imparare a difendersi dalle figure adulte più care e in genere utilizzano le briciole per non soccombere: si adeguano e corrispondono ai desideri dei genitori. Occorre un salto qualitativo accettando di tramontare per l’avvento di un’altra umanità e d altre scale di valori. Noi abbiamo scelto ambiti di studio di ricerca professionali che hanno una deontologia precisa. A noi spetta aprire spazi possibilità orizzonti per ciascun interlocutore. Resistenza dunque fedeltà alla nostra deontologia. Il nostro sguardo deve porsi alla ricerca di molte infanzie, intercettandone le più flebili tracce di resilienza (viene vista come la capacità dell'uomo di affrontare le avversità della vita, di superarle e di uscirne rinforzato e addirittura trasformato positivamente), in una relazione in cui si possano fidare accogliere una carezza senza ritrarre il volto.
  • 5. 5 CAP.2 CORPI BAMBINI TRA CURA E INCURIA 2.1interrogare il mondo a partire dai corpi Nella società della comunicazione dove tutto comunica ed è comunicazione, stiamo venendo meno alle relazioni faccia a faccia. Ci stiamo abituando a una vita caratterizzata da forme di assenza della corporeità: i nostri corpi di volta in volta diventano così una malattia, una immagine esteriore, un indisciplinata interferenza, un bip terminale situato in un non luogo, non il soggetto incarnato che noi siamo. La mancanza di pensiero oggi potrebbe essere legata anche a questo passaggio dalla tridimensionalità alla bidimensionalità della rappresentazione. Viste come scatole biologiche chimiche, pressoché identificate con l’organismo, traversati da processi di omologazione e forme di corporeità coatta (atteggiamenti corporei aderenti a modelli precostituiti), modellati al punto tale da diventare talora nudi corpi, in cui cioè la nostra dimensione di significatività e profondità umana sbiadisce, i nostri corpi privi di parola diventano sofferenti. Il disagio la deviazione alla norma sembrano forme di riappropriazione del sé. È sempre più raro vedere momenti di attenzione congiunta, dato che i genitori alle prese con la vita convulsa , difficilmente chiudono la porta al mondo anche quando sono con i loro figli. L’assedio delle funzioni multitasking unito ad una difficoltà di attenzione multipla del cervello umano, stressa e mette a dura prova l’adulto e a maggior ragione il bambino. Sempre più esposti a disturbi dell’attenzione, manifestano ritardi nel linguaggio:almeno un bambino su sei ha difficoltà nel parlare e ascoltare. Noi in questo processo di cambiamento ne avvertiamo lo spaesamento, ma dobbiamo scoprire le potenzialità e assumere un atteggiamento di vigile riflessione. Un genitore che promette un naso nuovo alla figlia se andrà bene a scuola sta assecondando una giusta aspirazione a una bellezza o collaborando a minare invece la radice di una serena accettazione di se stessa nella ragazzina? In una rivista medica nel 2009 è comparso un articolo che ironizza su Santa Claus. Sarebbe il caso di farne nascere un altro non più alticcio, finalmente magro e sobrio con un’immagine più positiva e al passo con i tempi. Si parla di quelle forme di igienismo autoritario in cui esperti ci dicono in maniera criminalizzante di campagne antifumo. Sembra proprio che un’armata di esperti sia lì pronta a dirci cosa mangiare, fare, pensare, vivere. Se siamo grassi è una colpa, se ci ammaliamo è una colpa se siamo depressi è una colpa. Dimenticando che siamo costretti ad una vita sedentaria ad inalare smog, a mangiare cibo adulterato, in perenne comunicazione con il mondo, ma spesso ammalati di solitudine. I bambini non vivono più nel piccolo mondo:il mondo del cortile, dei giochi per le strade del paese, le sfide tra bande di bambini, le ore di noia passate a giocare in casa con le ombre sui muri. Oggi si vive in spazi sempre più chiusi, in forme solitarie piuttosto che con i pari, virtuali più che reali, simboliche più che senso motorie; a tre quattro anni sanno usare il mouse, il cellulare, il telecomando, conoscono parole difficili come tirannosauro, ma vanno in crisi appena li si contraddice, dormono a lungo insieme ai genitori, usano il biberon a volte fino ai sette otto anni. È un modo saturo di giocattoli, ma povero della dimensione gratuita del gioco spontaneo fra pari e di adulti in ascolto, dei progressivi sbiadimenti dell’esperienza del corpo divenuta piuttosto una serie di simulazioni d’esperienza in spazi-tempi sempre organizzati da adulti con eccesso di protezione. Leggiamo allora le relazioni partendo dai corpi e dal nostro sguardo mutato su di essi. Il che significa l’incontro con il corpo ipercinetico di un bambino ci pone interrogativi anche su quel mondo fatto di troppo pieno che caratterizza le nostre quotidianità, l’incontro con i corpi stanchi e furenti degli immigrati di Rosarno ci mostra come si diventa nudi corpi spogliati di una storia da raccontare della propria lingua, immigrati da espellere. Su un quotidiano in un articolo si parla delle giovani generazioni che non fanno sport o attività fisica. In risposta un antropologo si chiede ma i ragazzi della Via Paal facevano sport. Non va identificato lo sport con l’attività fisica. Gli adulti identificano l’attività fisica con lo stare chiuso tra 4 mura a pedalare ascoltando musica. Stiamo portando i nostri giovani verso un mondo sempre più istituzionalizzato e
  • 6. 6 saturato dagli adulti. Parlare di pigrizia non è un rifugio nell’ovvietà e scaricare sui giovani responsabilità di un mondo adulto che propone loro e pratica per sé stili di vita decisamente tossici? All’autrice piacerebbe stimolare un atteggiamento di curiosità e ricerca per imparare a vedere quanta parte del nostro sapere forma la nostra capacità di conoscere e riconoscere un’idea di corpo. Si proporranno brevi storie di corpi bambini per evidenziare quella speciale normalità che essi sono evidenziando nell’ordinario lo straordinario dei loro modi di essere e di dire di sé. Normalità perché si tratta di episodi che ciascuno può avere occasione di incontrare speciale per sottolinearne la significatività di un disagio che non fa rumore: il mondo dell’infanzia di chi è in fans senza parola. Martha Nussbaum invita a un rinnovamento dei diritti umani e a trovare un minico comun denominatore tra le culture e questo orientamento di ascolto e cura dei corpi è solo il punto zero. 2.1 se amare è ri-sonare Lo scrittore daniel Stern racconta in un libro il diario di vita di suo figlio Joey da 1 mese a 4 anni. Lo sconvolgimento che avviene nel neonato quando ha fame è tale da spazzare momentaneamente il suo sistema nervoso e portare il caos al suo flusso temporale. La tempesta di fame imprime un ritmo accelerato al pianto e al respiro. Strillando ha l’impressione di gettare via le sensazioni del dolore. È travolto da un tempo emotivo frammentato. Ma se la mamma arriva nella stanza e si prende cura del piccolo allora è probabile che il tempo sconvolto si ricompatti. Così il suono il tocco il movimento il cambio di posizione l’insieme di questi gesti crea una sorta di coperta emozionale avvolgente che riporta ad un tempo condiviso. Mentre lo accosta al seno il suo tocco fa da argine contro il corpo in frantumi di Joey, il battito cardiaco e la presenza rotonda dell’abbraccio materno regalano la più potente forma di rassicurazione che esista. Ma non sempre c’è la mamma. Michael di due anni frutto di uno stupro, con madre drogata non si occupa di lui. Egli piange poi trova a suo modo una sorta di bizzarro equilibrio iniziando a giocare con la gru che lavora nel cantiere davanti casa sua. Sostituisce al silenzio dell’abbandono quel rispecchiamento che gli dà la possibilità di sopravvivere nella solitudine affettiva, ri-sonando con chi ama:cerca a tal punto l’altro che egli stesso diventa bambino-gru. Mirabile e non convenzionale costruzione dell’identità fondata su una tensione desiderante verso l’oggetto d’amore sulla straordinaria capacità dei mirror neurons (neuroni a specchio) del nostro cervello. (Essi si attivano selettivamente sia quando si compie un’azione sia quando la si osserva compiere da altri: in quest’ultimo caso i neuroni dell’osservatore rispecchiano ciò che avviene nella mente del soggetto osservato come se fosse l’osservatore stesso a compiere l’azione. Alcuni scienziati considerano la scoperta dei neuroni a specchio una delle più importanti degli ultimi 10 anni:costituirebbe per la psicologia quello che il dna è stato per la biologia). Quando Michael viene portato via dai servizi sociali si dispera, scalcia, nulla sembra fermarlo e finisce in un istituto speciale per handicappati, perché si muoveva come una gru, faceva i rumori di una gru. Epilogo triste di una storia vera. Il bambino cerca disperatamente e trova ciò che può amare:qualunque sia la cosa che amiamo è quella che noi siamo. (Leavitt la lingua perduta della gru). L’amore inizia con un ri-sonare insieme. I primi processi di risonanza emotiva e sintonizzazione madre-bambino sono punto nevralgico dello sviluppo psichico infantile. Il fatto ad es che un adulto amplifichi l’espressione di certe emozioni e ne ignori o riduca altre, produce nel bambino veri e propri schemi affettivo motori che ne connoteranno lo stile comunicativo. L’adulto costella il repertorio emozionale attraverso la selezione e il ritmo con cui lo fa. Se un bambino quando è allegro riceve sempre una risposta a livello corporeo dalla madre, ma non la riceve mai quando è arrabbiato (l’adulto non vuol vedere) tenderà a sviluppare gli schemi affettivo motori che esprimono gioia e meno rabbia il che non significa che non sarà mai arrabbiato ma che quell’emozione in lui resta inespressa o espressa male. 2.3 corpi trasparenti
  • 7. 7 Luca di 4 anni oscilla tra comportamenti aggressivi e atteggiamenti da bambino piccolo. Viene osservato fare con la madre un gioco che a lui piace molto:quello del cagnolino arrabbiato. Nella casetta con la mamma fa questo gioco. La mamma lo abbraccia e lui fa il cagnolino arrabbiato che vuole scappare. Il suo sguardo dice che ci tiene che lei lo vada a cercare. Il bambino non sa regolare la propria aggressività ogni volta che viene ritrovato dalla mamma. Tira fuori i denti… allora la mamma dice: “Sei cattivo non si fa così vieni che giochiamo alle coccole”. Luca cambia ruolo ora torna a fare il cagnolino cucciolo. Poi dopo diverse scene ripetute si nota in fase affettiva una perdita di interesse per il gioco. Non è più il suo gioco ma quello della madre. Il linguaggio del corpo infantile non trova ascolto, non è colto:è corpo trasparente. La ripetuta mancanza di sintonizzazione da parte della madre ( o della figura di riferimento) crea nel bambino una stortura tra il vissuto personale (bisogno di adgredior di opporsi) e il mondo esterno che lo rappresenta (ribadire un legame affettivo) mentre con il gioco del cagnolino arrabbiato tenta di portare la relazione con la madre su un piano di sperimentazione di allontanamenti/avvicinamenti, la reazione materna fa in modo di ricondurlo all’essere piccoli. È la mamma che ha difficoltà a separarsi , è lei che lo colpevolizza se esprime un desiderio di opposizione o rabbia. Il bambino vive una sfasatura tra il suo mondo emotivo e quello esterno rappresentato dalla madre. Dato che non viene riconosciuto nella sua espressione originaria e genuina, non gli resta che abbandonare il proprio vissuto e adattarsi a fare il bimbo cucciolo per salvaguardare il legame affettivo primario. Lasciato in una sorta di solitudine emotiva si estranea da sé, abbandona il desiderio profondo di ad-gredior (andare verso…) e non può che stare al gioco di stare al gioco della madre. Stern descrive in modo approfondito come nuclei psicodinamici rilevanti della madre riescano a passare al figlio attraverso una serie di comportamenti che ripetendosi nel tempo diventano incisivi per l’identità personale del bambino. L’unica possibilità per Luca è incontrare un adulto in grado di vederlo, di sentire insieme a lui le sue emozioni, capace di non spaventarsi, di porsi in una risonanza tonico emozionale capace di non spaventarsi, di porsi in una risonanza tonico emozionale che dia credito al suo mondo interno. Non c’è un percorso stabilito a priori e uguale per tutti. Ciò che importa è che il corpo bambino non diventi trasparente, incasellato in schemi prefissati, non colto cioè nel suo disagio, nelle sue rabbie, nei suoi desideri e non perché questi non vadano sempre e comunque assecondati, ma affinchè gli adulti non poggino sui bambini le loro personali ansie. Greta dopo le vacanze torna al nido e la madre comunica che le ha tolto il pannolino e di non metterglielo per nessun motivo. Quando la mamma se ne va le maestre si complimentano con le che inizia un pianto sommesso. La mamma le aveva detto a casa di non piangere perché i bambini grandi non piangono. Greta poi vien rimessa giù anche se continua a piangere poi viene accolta da una tirocinante che la coccola;lei non smette e dice io sono piccola però io non sono grande. Poi tenta di fermare il pianto ma le scappa anche la pipì che non fa. Poi però non cela fa più e se la fa addosso. Quando la mamma arriva viene informata dell’andamento della giornata e lei si complimenta con el educatrici che non le hanno messo il pannolino. Che fine faranno i sentimenti di tristezza umiliazione rabbia di fronte alla certezza inossidabile e spavalda della madre. Come far capire alla madre che prendersi cura del processo di crescita di un bambino non significa costringerlo in schemi di comportamento prederminati e forzosi. Per far elaborare a Greta la situazione emotivamente vissuta si userà il potere ripartivo delle parole e della narrazione. A volte la crescita è anche tempo di tornare indietro di masticare con lentezza. Ce lo ricorda Giacomo raccontando del suo arrivo l’anno precedente in prima elementare. “ero disorientato, non riconoscevo nulla e allora mi nascondevo e annusavo le cose”. Balza viva la sensazione di estraneità rispetto a un luogo non conosciuto e il bisogno di lasciarvi una traccia, un segno perché possa essere da lui riconosciuto e fatto proprio. Al di là del modello di sviluppo infantile esiste una tale originalità dei percorsi evolutivi che invece di una normalità evolutiva dovremmo parlare piuttosto di percorso sghembi di crescita. Il che richiede di dotarsi più che di una pedagogia ortopedica tesa a
  • 8. 8 raddrizzare le storture, di un capace ascolto dei corpi dei bambini che stanno facendo manovra nel mondo. Andrebbe recuperato il concetto di cura nella sua forza originaria al di là del primato cognitivo, nella vibrazione etica con quella tenerti che non è romantico sentimentalismo ma una morbidezza capace di accettare le fragilità aver cura dei corpi bambini è una considerazione dell’anima che sa accogliere e guidare. 2.4 corpi sopra le righe Interrompono, parlano ad alta voce, non sanno stare seduti, hanno difficoltà di attenzione, bambini che impegnano in continui bracci di ferro. Richiedono spesso l’attenzione dell’adulto e diventano piccoli tiranni: i bambini iperattivi. Questa etichetta funge da generico contenitore di fenomeni più o meno lievi, molto diversi fra loro. Si può intendere una motricità troppo esuberante oppure una difficoltà nell’attenzione o nel regolare le proprie emozioni. Sono fenomeni talmente diversi fra loro che sorge il dubbio che si parli della stessa cosa. Di solito si parla di bambini iperattivi con superficialità , essi creano situazioni difficili da gestire sia per gli adulti, sia per lui stesso, che, ricordiamolo, non si diverte a comportarsi così. Il temine rinvia al ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Desorder). È stato formalizzato come patologia nel DSM-IV (principale testo di riferimento per la diagnosi di carattere psichiatrico). In pochi anni i casi sono cresciuti in maniera esponenziale. La terapia farmacologica è diffusa negli USA mentre incontra un approccio più prudente in Italia, per i rischi di effetti collaterali sia per il fatto che il suo meccanismo d’azione è tuttora poco conosciuto; ma soprattutto si scivola in forme di precoce patologizzazione dell’infanzia. Giù le mani dai bambini è un consorzio nazionale di farmacovigilanza. L’ONU stessa si è pronunciata sulla sovra prescrizione in atto, raccomandando di limitare l’uso di sostanze eccitanti a scopo terapeutico. Sull’affidabilità scientifica delle ricerche americane si sono scatenate fin dall’inizio le polemiche perché per diagnosticarla non si fa riferimento a esami di tipo clinico, ma a descrizioni di comportamenti individuali. Per giungere alla diagnosi ADHD i sintomi si devono presentare contemporaneamente e in gran numero. I tre elementi chiave della sindrome sono:deficit di attenzione, iperattività e impulsività. Questi possono essere anche non molto evidenti in situazioni fortemente strutturate o quando il bambino si trovi coinvolto in attività che lo interessano. Per parlare di Elena si userà un registro più espressivo. Elena ha tutti i sintomi sopra esposti e le insegnanti hanno deciso di proporre una laboratorio di psicomotricità condotto da una esperta, come strategia a sostegno di una espressività motoria problematica per una migliore integrazione di Elena nel gruppo. Un modo per accogliere un disagio così manifesto senza espellerlo. Al quarto incontro vuole costruirsi una casa. Pare insolitamente maldestra e impacciata; di fronte all’aiuto della psicomotricista accetta ma vuol fallire e decide poi che un materassino è la sua barca che la porterà alla casa dei malati:allora l’esperta le chiede di provare a riposare. Per un attimo la bambina appoggia la testa al corpo di lei con un tono morbido ma poi schizza via. Poi si mette sotto ad un tavolo e dice che lì si può riposare. Prende la mano della psicomotricista ma solo per un attimo. Elena è stata adottata, il gioco simbolico che sta proponendo sembra toccare il buco nero della sua ansia che la fa girare a vuoto. Quel gesto simbolico di tentativo di costruzione di una casa si delinea come primo tentativo di costruirsi un posto sicuro. L’esperienza di una condivisione di senso con un altro in ascolto, che mobilita le proprie energie per condividere l’attesa crea un legame e aiuta Elena. Magici effetti del gioco, espressione originale ed unica del mondo immaginario infantile con i suoi fantasmi che fanno paura e i desideri che fanno da battistrada. 2.5 prendersi cura di una bambina o di un bambino Per cura o incuria intendiamo quell’insieme di comportamenti e atteggiamenti che quotidianamente contribuiscono a creare in famiglia a scuola un clima di calore o di freddezza di vicinanza o lontananza emotiva. Le cure educative sono pensate come selezione di una opportunità, cioè come tutte quelle scelte che creano occasione di crescita del bambino. La parola scelta non significa che non occorre
  • 9. 9 stimolare il più possibile un bambino, ma viceversa fare da filtro ad un eccesso di stimoli, selezionandoli. Infine va coltivata quella capacità di sintonizzarsi e di reciprocare il cui l’adulto è capace di attesa e di negoziazione. Vanno coltivate queste forme di cura facendo della propria emotività una competenza professionale. Anche attraverso i legami affettivi del piacere del movimento e del gioco. Il registro empatico della narrazione di microstorie si fonda su presupposto che l’empatia possa costituire una via privilegiata per la comprensione umana. Alcune scoperte nel campo della biologia e delle neuroscienze degli ultimi decenni hanno ampiamente dimostrato che gli esseri umani manifestano fin dalla più tenera età la capacità di relazionarsi in maniera empatica. La struttura profonda dei nostri cervelli oggi non è più adeguata all’ambiente attuale. L’umanità sta affrontando una mutazione senza precedenti. Se nel mondo agricolo la coscienza umana era governata dalla fede e in quello industriale dalla ragio, con la globalizzazione della vita economica, sociale, culturale, la nostra coscienza si fonderà sulla capacità di immedesimarsi nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona. A noi fare in modo che questo accada il prima possibile. CAP. 3 COSTRUZIONI DI IDENTITA’ E PEDAGOGIA DI GENERE 3.1 essere bambine negli anni 70. Elena Gianini Belotti Siamo nel 1973 in una scuola materna. Le bambine sono composte, in silenzio, portano enormi fiocchi candidi. Sanno di non poter correre urlare litigare. Sono piccole donnine apprezzate e servizievoli, leziose,pulite, statiche. Devono provvedere a qualche necessità dei maschi, dei compagni più piccoli e dell’educatrice medesima, finanche dei loro stessi genitori. Un maestra di scuola montessoriana, Elena Gianini Belotti con le bambine dentro alle scuole materne gioca, parla, disegna. Nota così piccole angherie, micro-limitazioni striscianti, svalutazioni a tutto svantaggio delle bambine rispetto ai bambini, messe in atto dalle educatrici senza neppure essere consapevoli. L’autrice allarga lo sguardo scoprendo una continuità tra scuola e casa:si demolisce l’autostima e l’autonomia delle bambine. Lo si fa proponendo giochi o giocattoli ciò per dimostrare la loro posizione subalterna rispetto ai bambini. Studia l’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita. Dalla parte delle bambine mostra che le bambine sono instradate dalla nascita verso l’immagine tradizionale della donna d’epoca…la donna tradizionale. Nell’avvinghiarsi alle consuetudini i contesti educativi esprimono appunto la paura del cambiamento delle donne. Per collocarsi dalla parte delle bambine Gianini Belotti considera che l’operazione da compiere non è quella di tentare di formare le bambine ad immagine e somiglianza dei maschi, ma di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi in modo congeniale indipendentemente dal sesso a cui appartiene. Ci si interroga dunque sull’assenza delle donne nei contesti del sapere ufficiale. In parallelo nella letteratura scientifica si sviluppano in parallelo e in contrapposizione teorie che si concentrano sulla differenza sessuale (soprattutto in ambito psicologico, neurobiologico, genetico) e altre che si concentrano sulla differenza di genere. Chi si occupa della differenza sessuale utilizza la diversità dei corpi tra donne e uomini (geni, cromosomi ecc.)come indicatrice della diversità delle visioni del mondo e delle problematiche esistenziali. Essere femmina o essere maschio condizionerebbe e orienterebbe il tragitto della vita verso itinerari stabiliti in larga parte dalla natura. La possibilità di generare figli è ritenuta decisiva:a essa sono associate automaticamente caratteristiche della personalità quali dolcezza, pazienza, e capacità di cura. Una donna è biologicamente propensa a dedicarsi all’altro, donarsi sacrificarsi. Chi si occupa della differenza di genere si interessa invece del processo che conduce il soggetto a interpretare i dati biologici di cui sopra. L’assunto principale è che ciascuno viva l’essere femmina e maschio in modi altamente differenziati, negoziando con gli altri e con la società. Gli studi analizzano così la dimensione storico-culturale del genere. Nel caso delle donne in generale esse sono affettuose, dolci ecc. solo perché sono state educate ad esserlo. Gianini Belotti afferma che le differenze tra femmine e maschi potrebbero derivare anche da questioni biologiche (posizione
  • 10. 10 centrata sul sesso) e forse la scienza le identificherà con il progredire degli studi, ma ora, ammonisce, concentriamoci sulle cause sociali e culturali che creano e sviluppano differenze. L’autrice parla di momento storico di cambiamento. In quale modo la scuola e i contesti educativi hanno accolto le analisi di Gianini Belotti sulla condizione delle bambine? 3.2 quattro decenni di pedagogia di genere:snodi e passaggi L’educazione di genere e la pedagogia di genere hanno compiuto molti progressi. Con educazione di genere intendo gli insiemi dei comportamenti delle azioni delle attenzioni messe in atto quotidianamente da chi ha responsabilità educativa in merito al vissuto di genere ai ruoli e alle relazioni. Talvolta in questo senso esteso, l’educazione di genere sconfina nella socializzazione di genere. Educazione di genere indica qui i piani di lavoro agiti da famiglie, scuole enti del sistema formativo integrato. Con pedagogia di genere ci si riferisce alla riflessione sull’educazione di genere condotta da pedagogisti ecc. Le famiglie agiscono una qualche forma di educazione di genere i professionisti analizzano le caratteristiche le linee guida che riguardano l’agire. Oggetto d’interesse della pedagogia di genere sono il rilevamento dei modelli impliciti, l’osservazione di come quei modelli si traducono nella pratica, il confronto tra l’educazione di genere contemporanea e le istanze della tradizione, lo studio dei legami tra educazione di genere contemporanea e le istanze della tradizione, lo studio dei legami tra educazione di genere agita oggi comunemente e il mondo globale dell’educazione. La pedagogia di genere ha carattere prepositivo, continua ricognizione dei condizionamenti di genere serve a promuovere una riflessione in grado di anticipare le emergenze. Ha una storia quarantennale. Ecco gli snodi principali: -dal 1970 al 1990 studi pedagogici sull’uguaglianza tra i sessi. La donna viene Educata a non istruirsi nel corso della storia. Al modo sottile in cui la cultura, la religione la società passano il messaggio dell’inferiorità delle bambine. Si origina una fase di rinnovamento della scuola. La parola d’ordine è uguaglianza e si esaurisce verso la fine degli anni 80. -dal 1990 al 2000 e oltre studi sulla differenza. Secondo Ulivieri al concetto di emancipazione va sostituito quello di differenza come concetto guida, categoria progettuale, poiché non si tratta di liberare le donne dentro un universo ancora e tutto maschile, ma di affermare la specificità, di consolidarla e di farla vivere dialetticamente nel sociale, nella cultura introducendovi il dualismo conflittuale dei generi. Si studia l’approccio alla conoscenza delle donne ribadendo la necessità di partire da sé da uno sguardo femminile sul mondo e si incoraggiano le insegnanti a porsi come autorità femminili per le giovani generazioni. Vogliono esprimere un simbolico femminile positivo valorizzare la differenza a vantaggio delle bambine. Gli studi sulle differenze sono importanti, come reazione alla conoscenza al maschile e al neutro. Tuttavia anche questa fase si va chiudendo, le donne nel settore della cura educativa come vestali esclusive non permette loro di sganciarsi dal pensiero del materno. Le donne che curano il mondo armoniosamente, del materno non si basa su alcun dato oggettivo ma su un desiderio valoriale di essere riconosciute nella specificità femminile. Significa naturalizzare le differenze, riposizionarle nel dualismo oppositivo maschio femmina, allontanando la discussione dall’unica evidenza documentabile:ciò che accomuna le donne è di aver ricevuto un’educazione diversa da quella degli uomini: “in ogni sistema sociale le bambine e i bambini ricevono un’educazione diversa” (S. Ulivieri). -dal 2001 ad oggi sembra ora in atto una fase- periodo preparatorio al superamento del pensiero della differenza. Il temine più adatto pare quello di molteplicità. Si tratta di attenzione nuova alle molteplicità insita nell’educazione di genere, accentuata dal confronto con fenomeni che aggiungono e stratificano diversità e diversità. Insomma si tratta di una complessificazione della categoria di genere. Il decennio che volge al termine è stato caratterizzato dalla necessità di aprire lo sguardo , di pluralizzare, di riferirsi alle relazioni di genere non solo ala questione delle donne. La categoria
  • 11. 11 esplicativa della complessità inizia ad affacciarsi perché solo l’attenzione all’intreccio delle varie dimensioni può dare conto dei fenomeni articolati. Ognuno ri-costruisce il proprio maschilefemminile;considera gli stereotipi di genere situazionali il cui asservimento è legato allo specifico contesto di comportamento;incarna all’interno della propria storia vincoli e significati proposti dalle diverse sfere di appartenenza indossando il proprio paio di occhiali. Ognuno per concludere performa la propria appartenenza di genere. La variabile educativa è dunque centrale perché plasma tale interpretazione personale della propria appartenenza di genere del corpo sessuato. Difficile prevedere quale sarà l’esito perché si deve trovare una trasposizione educativa. Nel panorama pedagogico italiano contemporaneo si individuano 5 filoni principali: -studi storici: collegano i femminismo del 900 alle ricadute educative della scuola e della formazione delle maestre-analisi del ruolo delle donne pioniere -studi che si occupano del corpo vissuto e della sua cittadinanza all’interno dei contesti educativi -studi sulla soggettività mediante approcci di pedagogia narrativa, recupero di un femminile finalmente narrato dalle donne medesime -studi sulle donne migranti -studi sul processo di costruzione della professionalità educativa. Questo discorso deve essere articolato sulle relazioni di genere e trasversale in tutti i contesti della formazione. Due testi da consultare: il primo veline, nyokke e cilici di Campani trasporta il concetto di backlash dall’America: si tratta di una serie di manifestazioni che rendono peggiore la vita delle donne attraverso l’imposizione di ruoli determinati dalla cultura (televisiva soprattutto) dalla religione e dagli uomini. Il secondo testo di Gamberi-Maio-Selmi dal titolo Educare al genere Riflessioni e strumenti per articolare la complessità propone percorsi interdisciplinari in grado di decostruire efficacemente la categoria dell’educaizone di genere tradizionale. Si verifica nel paragrafo successivo se i pregiudizi sessisti sono lontani dai contesti educativi. 3.3 ricerche e dati tra stereotipi e trappole di genere dal 2000 ad oggi Nel 2003 Francesca Bellafronte in Bambine (mal)educate. L’identità di genere 30 anni dopo, dà conto di una ricerca svolta nelle scuole elementari pugliesi classi IV e V. Il risultato è un pugno allo stomaco:le bambine ed i bambini già a questa età fanno un costante riferimento a stereotipi sessisti e soprattutto al loro futuro:estetista, commessa, parrucchiera… le bambine che desiderano diventare pilota di aereo e i bambini che collaborano nei lavori domestici son sanzionati mediante la disconferma relazionale; le bambine si comportano da maschiaccio e i bambini da femminuccia. I controllori di genere sono la famiglia e gli insegnanti che li rimproverano in egual misura se non corrispondono alla categoria del femminile. I padri invece sgridano i maschi e lo stesso fanno gli altri amici maschi. Sorprende che si faccia ancora riferimento alla tradizione bi polarizzata maschio/femmina. I maestri e maestre si irritano se le bambine sono disordinate, disobbedienti, troppo esuberanti, prepotenti, distratte e sono disturbati dai maschi piagnucolosi, mammoni, che non sanno difendersi da soli e pettegoli. Insomma gli insengnanti no tollerano i comportamenti che contraddicono gli stereotipi di genere. Nel 2007 Loredana Lupperini in Ancora dalla parte delle bambine dimostra che il clichè di genere son mutati nelle forme e nelle strategie persuasive, ma sono ancora intatti. Anche nel marketing per l’infanzia ciò è evidente, anche nel gioco del Sapientino con domande per il maschio di cultura generale, per la femmina di look bellezza. Anche un programma come la pupa e il secchione propone il medesimo modello. Nel 2008 una ricerca di Irene Biemmi, Sesso e sessismo nei testi scolastici. La rappresentazione dei generi nei libri di lettura delle elementari, dimostra che nella scuola circolano ancora materiali didattici che non prestano alcuna attenzione ai modelli identificativi di genere offerti a bambine e bambini. Molti più protagonisti maschili che femminili nei testi, poi cinquanta professioni raffigurate per i maschi (da dottore a scultore, meccanico) e solo 15 per le donne 8casalinga, maestra
  • 12. 12 principessa e via andare). Essi non forniscono pari opportunità lavorative. Che senso ha si chiede l’autrice presentare modelli di bambine come Pippi destinate a diventare mamme e donne di casa dipendenti economicamente dal marito? Permangono volumi francamente pessimi. 3.4 ereditiere irriconoscenti?Per una ri-negoziazione generazionale della questione di genere Le insegnanti oltre a non rendersi conto degli atteggiamenti sessisti, non guardano tra i parametri del libro di testo da adottarsi anche l’aspetto sessista. Insomma non praticano una educazione di genere pensata ed arricchente per tutti, ma neppure si fermano a documentarsi sulla pedagogia di genere. Le spiegazioni possono essere diverse:il dare per scontato il discorso sul genere avendo avuto esperienze esistenziali negli anni 70 80. Ma le giovani maestre? Vengono definite ereditiere irriconoscenti poiché non si rendono conto che il contesto in cui vivono cambiato in meglio potrebbe essere reversibile. Il mondo dell’educazione deve riferirsi alle bambine e ai bambini concreti, con l’obiettivo di renderli sempre più in grado di progettare autonomamente la loro esistenza, comprendendo i condizionamenti e di problematizzare anche il dato che sembra più ovvio ed è invece costruito socialmente:l’appartenenza al genere. Per una nuova maestra educatrice va fatta una riflessione sui concetti cardine esposti da Ulivieri 1. Lo stereotipo mater et magistra al fine di annettere velorizzare gli uomini nel settore dell’educazione 2. L’immaginario di genere:quale lavoro sia opportuno per uomini e donne. È paradossale come la conoscenza e il linguaggio sono ancora connotati da un maschile che pretende di essere universale, ma la professione è esercitata principalmente da donne 3. La riduzione a modelli identitari (maestra-maestro unico) CAP.4 QUANDO L’INFANZIA INCONTRA UNA MALATTIA 4.1 Premessa:giochi, colori, luci e …ombre I ns bambini sono curati nelle scelte che gli adulti fanno per loro. Conoscono l’igiene e i profumi, ma anche le minacce delle siringhe dei vaccini e le presenze degli esperti della crescita. I nostri bambini curati non mancano di nulla. Ma se soffiamo sulla superficie, anche loro, nonostante le campane di vetro sotto cui sono fatti crescere, possono soffrire. Soffrono quotidianamente per un capriccio non soddisfatto, per una scaramuccia, per la paura di perdere i genitori, per i sensi di colpa di fronte ad un adulto che li sgrida. Affinchè le nostre infanzie conducano percorsi in nome della ricerca del benessere è giusto che gli adulti che li accompagnano riconoscano questa componente difficile e si impegnino a dar voce alle sue molteplici forme quella del dolore è una dimensione di fatto. Col tempo si sono raggiunte maggiori conoscenze. Ancora oggi però capita che bambini e bambine rimangano inascoltati. La sofferenza infantile va oltre le piccole frustrazioni de quotidiano, per ciò spesso si preferisce non vedere, non capire, lasciar passare o più cercare di compensare la proposta di esperienze extra ordinarie. Quello che le bambine e i bambini che soffrono chiedono agli adulti è un più di coraggio per affacciarsi al loro dolore, ad una relazione che sia nel segno della cura e dell’aiuto. Si cercano figure adulte che li accompagnino nell’attraversamento del dolore, non che li aspetti al di là dopo che la loro forza, la loro creatività la loro resilienza l’hanno fatto loro superare. 4.2 quando l’infanzia curata si ammala I nostri bambini sono immersi in una società e in una cultura in cui spesso per meccanismi psicologici di negazione da parte degli adulti, non sono previsti percorsi di educazione al dolore e alla sofferenza secondo la pedagogia delle emozioni. Il dolore turba, dinnanzi al dolore si fugge. È la reazione più naturale ed istintiva (S. Natoli filosofo) nell’epoca delle passioni tristi, quando si tratta del dolore
  • 13. 13 bambino la società tutta subisce una battuta d’arresto. Quale dolore appare più pericoloso ed ingiusto di quello che colpisce i nostri bambini e le nostre bambine quando nascono cardiopatici, diabetici, emofiliaci…che chiede loro di fare i conti con l’inesorabilità di una fine che si annuncia troppo presto. La malattia fa paura:agli adulti, ai bambini sani e a maggior ragione ai bambini malati. I bambini associano la malattia a emozioni quali la tristezza, stanchezza e delusione per cui alla sofferenza fisica si accompagna anche una sofferenza di tipo psichico da loro ben riconosciuta. Sono spaventati:fino ad una certa età non hanno ben chiari i concetti di malattia e salute. Da ciò nasce il timore che il cambiamento sia stabile o che siano state le loro disubbidienze a scatenare il male. L’insorgere di una malattia significa straniamento. La situazione di disagio si amplifica laddove si presenti la necessità di un ricovero ospedaliero. La cura considerata appunto come meritata, finisce per rappresentare una vera e propria aggressione:non esiste una chiara differenza tra un soffrire di disturbo lieve o di una malattia grave ed incurabile. I bambini sono assaliti da paure ancestrali e gli interventi e le manovre possono essere confusi con i pericoli fantastici che risiedono nel loro inconscio. Sono state individuate alcune fasi in cui si presentano meccanismi di risposta simili. In una prima fase si assiste ad una sorta di chiusura che spesso è testimoniata da inappetenza, scarsa comunicazione,disinteresse anche verso giochi che prima attraevano. Si tratta un assestamento emotivo. Le modalità regressive si attenuano via via che la cura fa il suo corso e i bambini si avvicinano alla guarigione;se invece tali modalità persistono può voler dire che la malattia è stata vissuta come un evento che ha inficiato, a volte demolito le sicurezze acquisite. Esistono invece casi in cui i bambini si oppongono alle cure con tutte le loro forze. In questo caso i bambini negano la propria condizione di malattia, per l’incapacità di gestire la disperazione conseguente all’accettazione. Anche la troppa passività nell’accettare le cure può far supporre un’immagine di sé così svalutata da rendere il bambino passivo e inibito e preoccupare l’adulto. Una delle paure più comuni è quella di essere abbandonati. Ad aumentare l’angoscia contribuisce il fatto di dover dormire in un letto non proprio, mangiare cibi spesso insipidi, odiati…in tutto questo la paura più grande sembra non essere quella del dolore, ma quella di perdere la madre. Il timore è quella di dover affrontare da soli l’esperienza dolorosa e di soccombere a minacce esterne. A volte accanto al diffuso sentimento di paura è possibile incontrare stati d’animo di depressione, soprattutto nei bambini ospedalizzati. In seguito un ruolo decisivo è giocato dai genitori nei confronti dell’evento malattia e nella gestione della relazione con il proprio figlio. I bambini e le bambine malate se adeguatamente presi per mano possono affrontare meno faticosamente la propria malattia, acquisendo la capacità di tollerarne almeno in parte l’attraversamento. 4.3 tutti i bambini tranne il mio:il crollo dell’onnipotenza Tutti i bambini tranne uno crescono:cominciano così le avventure di Peter Pan. I bambini e le bambine che incontrano la malattia, come Peter Pan, per un certo lasso di tempo non crescono più. I bambini e le bambine che si ammalano non l’hanno scelto. Si tratta di una momentanea fase di arresto (se non di regressione) nell’evoluzione. Ma tutti i bambini tranne uno (il mio aggiungiamo noi) rappresenta anche un sorta di auto convincimento che accompagna i pensieri di ciascun genitore. Ciò per un meccanismo psicologico di negazione, per una cornice culturale (“infanzia curata”) e infine perché in una società in cui, attraverso il dominio della tecnica, il genere umano presume la propria onnipotenza sulla natura, la malattia, qualora si dovesse presentare non può non essere sconfitta. Si utilizzano scienza e tecnologia per contrastare la sofferenza. Quindi gli adulti della nostra società spesso non sono alfabetizzati alle dimensioni più dolorose dell’esistenza. Questa tendenza non riguarda tutte le culture: differenti concezioni del dolore caratterizzano per esempio le civiltà orientali. In contrapposizione con la teologia della colpa le dottrine orientali considerano il dolore una caratteristica intrinseca dell’esistenza. “La nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la separazione da ciò che si ama è dolore,
  • 14. 14 non ottenere ciò che si ama è dolore” (Morin). Quindi gli adulti del mondo occidentale sono in questo percorso poco o affatto agevolati dalle cornici culturali e dai loro contesti. La malattia in una società che sprona alla spettacolarizzazione fasulla dei sentimenti in realtà tanto più è grade quanto più tende a nascondersi. E nessuno lo va a cercare perché la sua vista inquieta (G Galimberti-in la repubblica delle donne 21 nov 2009). E così la nostra esistenza si rende immune dalla presenza anche massiccia della sofferenza (di quella vera). A maggior ragione se la spietatezza è tale da portare alla morte di un bambino o di una bambina la malattia diviene ormai insopportabile. La nostra società lavora per portare a rimozione l’idea che i bambini non muoiono più. Così i genitori del bambino o bambina malati si ritrovano al buio. Quello della sofferenza che si nasconde è l’inganno del giorno. Di fronte all’infanzia curata che si ammala nemmeno la più forte delle cornici può restare inalterata. Gli studi in merito sono concordi nel riportare una prima reazione in cui i genitori preferiscono, sperano, credono…che il proprio figlio non sappia, non capisca. Mentre i loro figli per tutta risposta avendondolo chiaramente in mente o inconsciamente, in uno slancio di protezione dei genitori, tacciono la rivelazione del proprio sapere e della propria sofferenza. Philippe Forest racconta attraverso i suoi occhi di un padre, la terribile malattia della figlia di quattro anni. Per non farli star male al momento di salutarli per passare da sola la notte all’ospedale “una bambina saluta con allegria coloro che l’abbandonano in un mondo sconosciuto di paura dove nessuna faccia è nota. È il grazie con cui fa quello che può per assolverli dal delitto dell’andarsene, suona alle loro orecchie come una nota d’ironia terribile, crudele. I bambini e le bambine ammalati anche molto piccoli sono in grado di capire cosa sta succedendo loro. Ci si chiede spesso quanto i bambini debbano sapere e si finisce per decidere al posto loro. Si reagisce impedendo ai figli di porre le proprie domande. I genitori chiudono la porta principale della comunicazione con le ansie e le paure infantili. Non conta il tipo di risposta che viene data, ciò che conta è la legittimità che, attraverso di essa,viene riconosciuta alle domande dei bambini. La reazione dei genitori ai figli ammalati passa attraverso cinque fasi dolorose e complesse (così come accade in seguito alla notizia della nascita di un figlio disabile). Una prima fase è caratterizzata da un vissuto di ansia acuta (preferisco non sapere);poi subentra quella dei sentimenti di negazione che evidenziano le difficoltà dei genitori ad accettare la diagnosi ricevuta. La terza fase è dominata dal dolore della disperazione, dalla rabbia e a tratti dall’aggressività. Si sussegue poi una fase di apertura all’ambiente, consapevoli di richiesta d’aiuto. Una quinta fase infine è denominata di chiusura, si verifica quando i genitori riescono a sintonizzarsi sulla malattia del figlio in un dialogo di cura che non sia solamente clinico è evidente che devono aver superato le ansie derivanti dalla malattia stessa:pronti ad ascoltare senza temere di non essere in grado di reggere il coinvolgimento emotivo che tale comunicazione comporta. 4.4 non chiedermi come sto ma dimmi cosa c’è fuori È stata detta da una bimba malata:in questa unica frase apparentemente semplice è racchiusa una grande possibilità per il soggetto malato, quello di reagire alla propria malattia. Serve una mano tesa a portarla fuori:esiste almeno una possibilità di proteggersi dalle frange più dannose della sofferenza. Si è sviluppato il filone di studi sulla resilienza che ci permette di prevedere uno sviluppo positivo anche per coloro che soffrono, sono meno fortunati, deboli, senza famiglia e senza cultura. Può esistere un aiuto ex post, per tornare alla vita. La parola resilienza è usata nel campo della fisica per designare la capacità di un metallo di riprendere la propria forma dopo aver ricevuto un colpo non abbastanza forte da provocarne la rottura. La nozione secondo cui un trauma passibile di provocare angoscia psichica, la persona ferita può ritornare alla vita. Per ragionare secondo un’ottica della resilienza è necessario però abbandonare gli schemi concettuali della causalità lineare per orientarsi in tal modo:laddove, a seguito di uno scacco esistenziale traumatico i soggetti riprendono a vivere si rialzano e riiniziano a progettare,
  • 15. 15 non si può non ricercare una spiegazione solo biologica o di personalità,ciò non è sufficiente. Secondo Cyrulnik quell’individuo ha affrontato meglio la sparizione della sua famiglia, perché in precedenza aveva acquisito la fiducia che hanno in sé tutti coloro che sono stati cresciuti in modo da sviluppare un attaccamento sicuro. Ha trovato intorno a sé un sostegno affettivo, delle strutture sociali e dei discorsi culturali che gli hanno offerto una possibilità che ha saputo sfruttare. Intraprendere un cammino di relisienza parte da vari fattori e la loro interazione non è affatto indifferente. Possiamo permetterci di parlare di possibilità di reazione leggendo i diari dei sopravvissuti ai lager nazisti. Quelli che si sono salvati son riusciti a salvaguardare la propria identità umana e sono coloro che hanno avuto la capacità di riscattare la sofferenza dall’insensatezza attribuendole un significato e considerandola come una domanda che l’esistenza poneva loro in quel determinato momento. Possiamo credere (e forse adulti sgomenti ed inermi di fronte al dolore bambino abbiamo bisogni di crederlo) che simili condizioni si realizzino talvolta anche nel caso in cui un bambino o una bambina si ammalano, quando sono sostenuti nei loro percorsi di vita da solide relazioni di aiuto dalla sicurezza e della fiducia che nutrono verso i contesti che abitano. L’infanzia di una bambina scandita da continui ricoveri ospedalieri, nonostante ciò, esprime gratitudine alla vita che le ha fatto incontrare medici, infermieri, insegnanti pazienti, che ama e dai quali si sente riamata. È felice di aver incontrato e conosciuto bambini che poi se ne sono andati e porta avanti nel tempo il suo dialogo con loro. Un’altra testimonianza significativa è quella di una bambina Alice Sturiale (malata di una malattia progressiva degenerativa che la costringe su una sedia a rotelle) che nel suo diario esprime il suo spirito trascinatore ironico tenace brillante, non immune da momenti di rabbia, tristezza insoddisfazione, ma cerca sempre la chiave per superarli atraversarli, spesso re- investirli. Una volta vinse ad un concorso una bicicletta e il suo promo pensiero fu che scarogna. Poi però ripensandoci bene l’importante era che avesse vinto la sua gara. Questa di Alice non è un’ironia che nega la felicità, ma neppure dolore. Tutto questo non significa affatto che non soffra, potrebbe essere nascosta dietro una patina fragile. Si è detto che tanta difficoltà di accettazione della sofferenza caratterizza il mondo adulto, soprattutto in un contesto che tende ad occultarla:non ci è permesso ora affermare che le infanzie invece nonostante le testimonianze riportate e pur nelle migliori condizioni, possano essere forti mature resilienti adulte. Non ci è permesso affermarlo perché anche nel caso in cui ciò si verifichi in fondo non è giusto… potremmo dire infatti che è giusto che un bambino o una bambina si ammala il suo dimostrarsi forte?il suo sorridere nel dolore…non possiamo. È un’attitudine che non possiamo definire. Si tratta di resilienza?Forse. all’apparenza le bambine di cui abbiamo riportato le testimonianze hanno dimostrato straordinarie capacità di reazione; c’è da chiedersi sempre cosa si nasconda dietro questa evidenza. La sofferenza o si è annidata o è stata elaborata, ma di fronte a un solido sostegno esterno. Per questo sono gli adulti e non le infanzie a dover essere educati affinchè le proprie risposte e i propri comportamenti siano a favore della resilienza;affinchè i loro bambini e bambine malati possano sentire la possibilità e lo spazio di manifestare le proprie emozioni, le proprie paure (senza nasconderle) condividere i sentimenti all’interno della famiglia e in tutti i contesti significativi, accettare e far accettare la tristezza, poter canalizzare le reazioni di rabbia in un contesto che lo accolga e lo controlli anziché evitarla, stroncandola o abolendola. 4.5 da una società indolore ad una rete in-dolore Di fronte ad una società indolore che anestetizza il dolore dinanzi alla spettacolarizzazione della sofferenza, dove sentimenti come la compassione, e la solidarietà sono relegati ai tempi minimi e competenze come l’empatia sempre più difficili da realizzare , la malattia infantile può essere un territorio in cui sperimentare e attuare trame di reti:fili che si tessono prima durante e dopo:servizi, persone che fanno forza assieme per costruire una base presente costante sicura che sostine
  • 16. 16 l’eventuale caduta. Entrare nei contesti del dolore (in-dolore) significa entrare nei contesti delle singole fragilità dove le maglie se prese singolarmente sono precarie e facilmente solvibili. La loro forza è quella dei legami. Essi non devono essere visti come fallimenti o successi ma come possibilità di una vita condivisa. Tra i corridoi degli spedali si incontrano storie di persone come noi che in altri contesti, quelli della normale quotidianità sono passanti o estranei al nostro cammino. Quei moneti significa condividere e provare quel sentimento di comunanza, di immedesimazione, di legame che allevia per quanto è possibile il peso della sofferenza. La nostra civiltà non ci aiuta invece a praticare la compassione che viene spesso relegata ad ambiti specialistici. La studiosa americana Nussbaum ci sprona a rivalutare questo sentimento anche al di fuori della nostra cerchia sociale. Quensto sentimento richiama lo scomodo princium individuationis :perché è successo a loro e non a me? Fatichiamo noi occidentali a rispondere. Sandro Veronesi nel suo articolo su la repubblica dice che la risposta a questa domanda c’è:NOI SIAMO LORO. In questo altrove praticato così laico ma anche così lontano dall’impianto razionale che limita la nostra civiltà che dobbiamo cercare al buio con gli occhi chiusi se vogliamo ritrovare la forza vera della nostra umanità. Quando si smuove la compassione emerge un bisogno profondo di raccontare se stessi anche nei contesti di sofferenza. Gli studi di Bruner sulla narrazione hanno insegnato che il racconto è un modo per conoscere la realtà e per dare ordine ad essa e alla propria storia, per realizzare le condizioni di resilienza. Così negli ospedali si sono introdotti strumenti e linguaggi espressivi per promuovere nei piccoli pazienti spazi e possibilità di narrazione. È inoltre proprio il lavoro di rete che permette a questi bambini e alle loro famiglie di affrontare con maggiore serenità l’esperienza della malattia. Permette di costruire un racconto socialmente condiviso. Come ha scritto la bibliotecaria del centro di riferimento oncologico di Aviano: “quello della malattia è anche il tempo degli incontri. Il cuore vorrebbe essere da un'altra parte, fuori, a vivere;ma succede all’improvviso che il tuo sguardo ne incontri un altro che emerga da sotto un velo di scontrosità e timidezza. E nel loro incontro la malattia diventa meno pesante e più leggera la vita dentro, al di qua delle grandi vetrate che ci separano dal cielo” CAP. 5 MOLTE FAMIGLIE:QUELLE NORMALI E…LE ALTRE 5.1 il benessere familiare:un obiettivo comune oltre le differenze Si deve prendere atto che la situazione non testimonia sol il perdurare di una carenza linguistica, ma mette in evidenza come vi sia ancora uno scarto tra le famiglie reali e i dispositivi con cui esse vengono definite, riconosciute e comprese nella nostra società. Ultimamente si affianca al termine famiglia un aggettivo che la definisce:nucleare, ricomposta, monogenitoriale, monoparentale…non si assiste ancora però una effettiva trasformazione dei paradigmi (ossia dei modelli di riferimento, dei termini di paragone) con cui essi vengono definiti, interpretati e giudicati. Cosa può definirsi famiglia e cosa no? Quali sono i suoi confini? Queste domande sono lo specchio di quanto affermato prima. Possiamo pensare alla famiglia come ad un palcoscenico in cui interagiscono la dimensione individuale, quella del piccolo gruppo e quella sociale come cechi concentrici connessi. Per comprendere cosa può definirsi normale e cosa no in ambito familiare è necessario allargare lo sguardo dal singolo soggetto al contesto in cui vivono e si sviluppano i legami sociali:analizzare il momento storico. Nei paesi occidentali sono avvenute vere e proprie rivoluzioni antropologiche che hanno trasformato la base delle coordinate familiari e prodotto fenomeni fino ad ora inediti. Sono cambiate le caratteristiche morfologiche strutturali 8più tipologie di famiglie possibili),il piano relazionale (famiglia come unità di affetti e come scenario della realizzazione esistenziale), le modalità con cui vengono interpretate le differenze di genere (maggiore parità di rapporto uomo donna) gli stili genitoriali (affermarsi del genitore autorevole e non autoritario) e l’idea stessa di educazione (come processo finalizzato a facilitare l’espressione delle potenzialità dei soggetti). La discontinuità con cui il modello di famiglia
  • 17. 17 unica produce indecifrabilità e disorientamento. Ciò è dovuto al fatto che alcuni modelli culturali, eredità di un passato recente, persistono immutati nella mentalità dei cittadini. Un papà che utilizza il congedo parentale invece della moglie viene ancora deriso e provoca riprovazione. Un bambino che racconta di avere 8 nonni può rischiare di non essere preso sul serio. Certo che le avanguardie provocano sconcerto e vengono digerite e normalizzate solo con il tempo. I segnali di crisi sono riscontrabili in alcune coordinate che definiscono la qualità delle relazioni:le modalità con cui si realizzano le funzioni educative e di cura:la tendenza a considerare il benessere individuale come un fatto privato e non come un prodotto di relazioni sociali;l’insostenibile carenza di concrete misure di sostegno che potrebbero facilitare il compito dei genitori. Le famiglie contemporanee esprimono una debolezza sul piano formativo: “i genitori non sanno educare e lasciano fare ai figli quello che vogliono”, i figli sono viziati ed individualisti, non hanno il senso di responsabilità e non tollerano il fallimento. Essi esprimono la logica del capro espiatorio e omettono le responsabilità sociali, politiche ed economiche di quanto sta accadendo. Evitare la banalizzazione per riportare i problemi nella loro giusta dimensione, però non significa negarli. Ai genitori contemporanei si pone con forza il problema di esercitare positivamente le funzioni genitoriali di salvare la a-simmetria del rapporto con i figli. Come si può decidere se la famiglia funziona bene? Essa può funzionare bene a prescindere dalla propria struttura o forma. Quello che conta davvero è la qualità delle relazioni che essi hanno fra loro. Per lungo tempo si è affermata la tendenza di prendere come punto di riferimento una forma familiare standard che veniva identificata come quella normale e in quanto tale la migliore, la più rassicurante la più efficace. È il pilastro della nostra cultura e come tale per lungo tempo è stato sostenuto e validato da argomenti di carattere ideologico, religioso, culturale. L’ideale di famiglia nucleare tradizionale si è inscritto talmente in profondità nel sentire comune che non è percepito come frutto di processi sociali, ma è stato naturalizzato ossia ritenuto l’unica forma giusta. L’altra faccia del paradigma della normalità è quello della deviazione secondo cui sono classificati come devianti o anormali tutte quelle situazioni che no rispecchiano tale ideale. Il cambiamento dei modelli di analisi è avvenuto dal momento in cui l’attenzione dei ricercatori si è rivolta anche ai processi di innovazione, di cambiamento, di gestione dei conflitti. Gli studi sulla famiglia hanno stabilito il bisogno di rispettare la relatività e di scardinare il principio dell’universalità. Come definire allora la normalità in un panorama così sfaccettato? Il primo luogo è necessario adottare una nuova concezione di concetto di benessere. Una visione dinamica del benessere si accompagna a quella della famiglia come soggetto attivo, in grado di produrre significati e risposte idonee a fronteggiare momenti transitori di disorganizzazione e di produrre nuove forme di funzionamento soddisfacenti. Due caratteristiche di una famiglia che funziona bene sono dunque la capacità di produrre benessere per tutti i suoi membri e quella di far adeguatamente fronte agli eventi critici che caratterizzano i cicli di vita individuali e familiari che producono destabilizzazione. La capacità di coping (capacità reattiva di fronte a fattori che potenzialmente potrebbero produrre malessere è considerata competenza fondamentale per ogni famiglia funzionale. Non bisogna arrestarsi all’analisi della loro superficie (struttura morfologica) ma entrare nei processi di relazione e trasformativi (integrazione, stabilità, crescita, interazione con l’ambiente). A ogni famiglia è riconosciuta la possibilità di individuare i propri percorsi. Ora ci si approccia all’analisi di alcune particolari situazioni familiari. 5.2 quando la coppia si separa:il complesso compito dei genitori separati Si registra un costante numero di divorzi,ciò può anche essere vista come un’opportunità di alleviare situazioni di malessere, di infelicità. In tal senso sono caduti i pregiudizi negativi, esse non sono più la deviazione della norma. Nonostante questo non si può dire che si sia diffusa una buona cultura . Separazione e divorzi hanno in comune di essere processi complessi;qui ci si occupa di separazione che è l’atto iniziale, evento molto difficile di più per le coppie con figli. A determinare un buon risultato
  • 18. 18 entrano in gioco molti fattori di natura psicologica, emozionale, relazionale, sociale, economica e non ultimo giuridica. Si possono individuare tre elementi cruciali:la prima è legata al cosiddetto divorzio emozionale, la seconda all’affidamento dei figli, la terza alla capacità di instaurare una relazione di cooperazione per l’educazione dei figli (co-genitorialità). Il divorzio emozionale segna il distacco affettivo e sentimentale di entrambi i partner, o soltanto di uno dei due. È un evento che può essere vissuto in modo differente dai due partner:in molti casi uno dei due non lo accetta e anzi lo ostacola. Ci sono poi casi in cui la separazione emozionale non avviene mai:ciò sfocia spesso in una situazione di accesa conflittualità protratta nel tempo. Il divorzio emozionale è necessario affinchè si possa stabilire una relazione di cooperazione, devono essere vissuti dei passaggi, superati degli ostacoli in un tempo soggettivo non definibile a priori. Tuttavia spesso si assiste a una sorta di accelerazione del processo di separazione. La scissione di un sistema familiare provoca comunque in chi la vive destabilizzazione e perdita di equilibrio. Tuttavia vi è una costante:il vissuto di fallimento. Provare questo particolare stato d’animo senza avere la capacità di esaminare obiettivamente la realtà e guardare avanti con fiducia per lasciare campo libero a fenomeni di rimozione proiezione sull’altro delle responsabilità, frustrazione e aggressività repressa. Anche la gestione delle controversie di coppia risente fortemente delle influenze culturali e dei comportamenti delle persone esterne al nucleo familiare. Nella società attuale domina una bassa cultura del conflitto (contrapposizione vincitori-vinti, attacco-difesa…) e non come eventi complessi che se ben gestiti possono avere un valore maieutico, rivelatore e innovativo. Sappiamo bene che il buon esito di un conflitto la possibilità di mediare richiedono pre-requisiti, soprattutto la capacità dei singoli di accettare la frustrazione, di mettersi nei panni dell’altro. Questi requisiti e capacità però richiedono uno sforzo di volontà;devono essere conquistati giorno per giorno, accettazione dei propri limiti e possibilità di riconoscere anche i propri errori. Son processi che richiedono una tranquillità di fondo che a sua volta dipende dalla possibilità di non provare paura , di vivere il cambiamento senza essere in preda al timore della perdita. Fino a quando però ci si trova in fase di contrattazione, quando si deve decidere l’affidamento dei figli, il timore della perdita è uno stato quasi inevitabile, ma spesso si trasforma in atteggiamenti aggressivi. Nono è la separazione a creare disagio, ma i suoi effetti collaterali:lo stato di incertezza, le fantasie di riconciliazione, l’aggressività dei genitori…il benessere dei figli quindi passa dalla capacità degli adulti di farsi carico in modo responsabile di gestire adeguatamente il processo di cambiamento; esiste una sorta di decalogo: -rispondere al bisogno dei figli di essere informati su quello che sta accadendo e su come cambierà la loro vita -non coinvolgere i minori in dinamiche conflittuali, non chiedendo loro di schierarsi. -non proiettare sui figli i sentimenti che si provano per l’ex coniuge. -i figli hanno il diritto di non sentirsi responsabili delle decisioni dolorose prese dai genitori:bisogna aiutarli a gestire e neutralizzare il senso di colpa. La valutazione di quanto sta accadendo non può essere facilmente effettuata con strumenti razionali dai bambini:la tendenza sarà quella di dare origine a distorsioni interpretative. Ciò può essere esternati con sintomi psicosomatici (mal di testa, febbre…). Essi hanno carattere transitorio e vanno considerati una reazione ad uno stress prodotto dal sistema. È importante non drammatizzare né ignorare, ma considerarle come richieste di attenzione e cura che vanno soddisfatte senza mettere in atto comportamenti compensatori di varia natura (es. assecondare i capricci). È possibile che il comportamento problematico dei figli faccia aumentare nei genitori il livello conflittuale e le difficoltà comunicative che li spinga a colpevolizzarsi a vicenda. È questa una situaizone da evitare.
  • 19. 19 -ricordare che per i figli di qualsiasi età è fondamentale poter trascorrere una quantità adeguata di tempo con entrambi i genitori. -nel caso di affido condiviso andrebbe ridotto il più possibile lo sforzo di adattamento chiesto ai figli per adeguarsi ai contesti di vita paralleli, per non trasformarli nei bambini con la valigia. Il segno distintivo di una buona genitorialità è quello della consapevolezza e della pratica costante della cura del minore;quello di una buona relazione bi- genitoriale sta nel concetto di integrazione (delle diversità). Come dato confortante possiamo ricordare che superate le difficoltà iniziali solitamente il processo di separazione rappresenta un’ opportunità. Dal 2006 vige in Italia la legge sull’affido condiviso. Essa prescrive ai genitori di trovare un accordo su tutti gli aspetti che riguardano la gestione quotidiana dei figli e della loro educazione;nel caso in cui questo accordo non si trovi il giudice prescrive un mediazione. La mediazione familiare è uno strumento di grande valore che però richiede la motivazione, l’impegno e la volontà e la maturità degli ex coniugi. Si basa sull’attivazione diretta dei contendenti che devono tornare a parlarsi, a comprendersi e concedere una chance di ristrutturazione. Gestire un conflitto è un insieme di azioni diverse (counseling, negoziazione, mediazione…)che richiedono luoghi e modalità specifici di realizzazione. La Legge 54/2006 ha introdotto la mediazione come prassi, ma ad oggi i centri di mediazione pubblica sono attivi solo in minima parte nel nostro paese e solo per iniziativa di alcune regioni. Bisogna specificare che la presenza di entrambe le figure genitoriali non è di per sé positiva:devono essere figure equilibrate, disponibili, serene. Anche la presenza di palesi difficoltà di uno dei due genitori, l’affido prevalente oggi è un’opzione che può essere scelta solo di fronte alla comprovata inadeguatezza di uno dei due genitori. Questa legge è positiva nei suoi intenti, ma in qualche modo incompiuta:in assenza di un contesto culturale adeguato e di misure specifiche di sostegno diretto e indiretto alle famiglie, essa può rivelarsi alquanto rischiosa e specialmente diventare un boomerang. 5.3 famiglie ricomposte:dalla sfida iniziale all’integrazione dei nuovi nuclei familiari Per ricostruire o ricomporre un nuovo nucleo familiare ci sono diversi percorsi possibili. Secondo l’ISTAT una famiglia ricostruita è “una coppia sposata o non ,con o senza fili, in cui almeno uno dei due partner provenga da una precedente unione di fatto o matrimonio”. Si adotta qui questo criterio:le famiglie a struttura più semplice sono quelle in cui uno dei due coniugi ha un matrimonio o convivenza alle spalle senza figli: quelle a struttura più complessa sono costituite da adulti che hanno avuto una o più unioni in cui hanno generato uno o più figli e magari se ne aggiungono altri dall’unione attuale. Se sono famiglie di fatto subiscono la ben nota mancanza di riconoscimento legale. Se sono suggellate da nuovo matrimonio allora i rapporti tra coniugi sono riconosciuti legalmente ma le relazioni tra gli altri membri non sono regolate da norme specifiche. Si è nell’impossibilità di definire le nuove figure genitoriali acquisite. La possibilità di vivere bene in una famiglia ricomposta però dipende in massima parte dalla capacità e dall’intelligenza degli adulti, dalle loro emozioni, ai loro sentimenti, dalle loro problematiche, più o meno risolte o coscienti. Un elemento basilare che determina il successo della relazione futura è che sia avvenuta realmente la separazione emotiva con gli ex partner e che sia ritrovato un equilibrio e un rapporto cooperativo nella gestione di eventuali figli. a. Deve essere ben condotto e portato a termine il processo di integrazione, devono compiere alcune tappe fondamentali:conoscersi, interagire, sviluppare un senso di interdipendenza reciproca e altro…Saltare anche uno solo di questi passaggi può significare ono arrivare mai ad un senso di appartenenza familiare b. Devono essere rispettati i tempi di tutti, ma in particolare dei minori. Le forzature sono nemiche delle famiglie ricomposte.
  • 20. 20 c. Aumentano i membri e aumentano i bisogni Una bambina, narrando il suo incontro con i l patrigno mette in evidenza di come per potersi fidare, dopo aver vissuto un’altra esperienza negativa con un altro partner della madre, ha bisogno di metterlo alla prova con comportamenti trasgressivi. Comunque il racconto finisce bene. Diffidenza e ostilità sono le azioni più probabili dei figli di fronte ai nuovi partner dei genitori. Se la qualità della relazione tra ex coniugi non è ottimale nei figli possono anche apparire conflitti di lealtà. Il compito può essere più arduo per i single senza figli che si scelgono un compagno/a con figli:nel loro caso si parla di instant mother o instant father, in virtù della repentinità con cui passano da uno stato all’altro. Essere un genitore sociale in una società che fa fatica ad accettare culturalmente e materialmente il valore di questo ruolo è tutt’altro che semplice.. le famiglie ricomposte rappresentano una vera e propria sfida sociale che se vinta può consentire l’integrazione pacifica delle diversità. Esse sono veri e propri laboratori sociali di sperimentazione relazionale. La famiglia extra large quindi può far bene a patto che gli adulti siano in grado di creare le condizioni in cui si possa sviluppare la coesione, ossia storia comune, senso di appartenenza, identità collettiva. 5.4 la famiglia con un solo genitore: ma sono davvero taglie small Esse sono originate prevalentemente da scelte,prese in prima persona da un genitore presente o subite. Per molto tempo si è guardato a queste situazioni ipotizzando che la mancanza di un genitore costituisse uno squilibrio insanabile. Dobbiamo ricordare che il fenomeno assume prevalentemente una connotazione femminile:l’80% delle famiglie monoparentali è donna figlio. Un ruolo fondamentale viene giocato dalle famiglie di origine sia per il sostegno dato per la cura dei figli nei tempi lavorativi del genitore, sia per il sostegno economico. Molte madri inoltre si sono re-inglobate nella famiglia di origine. Così si entra in conflitto con nonne e nonni sull’educazione dei bambini e i nodi irrisolti vengono a galla investendo ingiustamente i minori. I genitori single conoscono bene l’importanza di offrire ai figli maggiori opportunità relazionali. La presenza di una rete sociale può veramente fare la differenza. I problemi di una famiglia monogenitoriale possono essere acuiti da una mancanza di una o più figure che possono mediare. Prima di etichettare i figli di famiglie monogenitoriali come soggetti a cui è stato tolto qualcosa è bene ricordare l’esistenza di una genitorialità sociale. Uno scrittore ben descrive la sua situazione bambina: le suore orsoline alla scuola materna mi hanno fatto da babbo…i libri mi hanno fatto da babbo…in quelle pagine avevo trovato i modelli perfetti e le parole giuste. 5.5 famiglie omoparentali:diverse normalità possibili Quelle caratterizzate dalla presenza di genitori omosessuali sono galassie sconosciute, anche per la presenza di pregiudizi derivati da precetti ideologici, religiosi, culturali. Queste famiglie sono in aumento anche in Italia. Tuttavia essere genitori e essere omosessuali sono caratteristiche spesso ritenute difficilmente conciliabili dal senso comune. Come crescono i bambini in queste famiglie? In primo luogo bisogna rilevare che le pressioni ideologiche hanno comunque limitato lo sviluppo degli studi in questo campo. Raccogliere dati demografici che diano una rappresentazione realistica della diffusione delle famiglie omogenitoriali è molto difficile;sono davvero pochi i genitori omosessuali che dichiarano apertamente di esserlo. La maggior parte delle rilevazioni ha riguardato la maternità lesbica scaturita però per la maggioranza dei casi da coming out e poi la ricostruzione di un altro nucleo. Non si rilevano nelle famiglie omoparentali maggiori condizioni di rischio, né di esposizione a carenze educative, né la possibilità che si sviluppino soggetti in qualche modo disturbati sul piano psicologico e sociale. I figli degli omosessuali non sono esposti a questa eventualità in modo maggiore dei figli degli eterosessuali. Che gli omosessuali possano essere genitori attenti, motivati, consapevoli, presenti, è un dato poco discutibile. Si può però affermare che il vero rischio per la serenità di questi bambini risieda soprattutto nel pericolo della stigma
  • 21. 21 sociale e della totale assenza di diritti riconosciuti. Ma anche se la nostra società non fosse per così dire pronta ad accogliere serenamente queste famiglie, questo non rappresenta un motivo sensato per ostacolarle e per opporsi al loro riconoscimento. Seppur partendo da minoranze sociali alcuni pionieri hanno il coraggio di uscire allo scoperto e dichiararsi apertamente. Nidi d’infanzia e scuole di ogni genere di vario ordine e grado hanno invece il preciso compito di accogliere i bambini portatrici di differenze in tutte le sue forme combattere la discriminazione e pertanto ricevere adeguatamente anche i figli di genitori omosessuali. Su cosa significhi accogliere adeguatamente c’è ancora molta confusione:anche in questo casso si tratta di un terreno in cui c’è ancora molta ignoranza. La riflessione pedagogica si sta recentemente e timidamente affacciando in questo scenario. CAP. 6 Genitori e figli che arrivano da lontano:l’adozione internazionale 6.1 metter su famiglia con l’adozione internazionale:una responsabilità globale Ci sono eventi che più di altri dovrebbero rendere evidente l’interdipendenza globale. Siamo nel gennaio 2010 ad Haiti la terra ha tremato violentemente. Oltre 200 mila vittime con molti ragazzino rimasti soli in strada orfanatrofi, soli o in compagni di adulti non adatti a crescerli. Haiti è il paese più povero d’America, così in Italia si sono moltiplicate le offerte di adozione. Medici senza frontiere, Unicef, Save the children Terres des Hommes sostengono che l’adozione internazionale non può essere la risposta all’emergenza, anzi rischia di essere una procedura affrettata, che no tutelerebbe i bambini. Piuttosto incentivare adozioni a distanza, assistenza in loco, ricostruzione di luoghi di accoglienza, ricongiungimento con i parenti dispersi…ma molti chiedono che si agisca in fretta e si porti i piccoli haitiani in luoghi sicuri. Dunque in questa prospettiva si trova la richiesta di adozione internazionale e di affido internazionale (portando temporaneamente e immediatamente questi bambini in paesi sicuri). Mancano però normative nazionali e internazionali che regolino tale specifica possibilità. Magari saranno fatte delle normative al fine di eludere pericoli reali tra i quali anche l’elusione di queste norme e dunque a questi bambini potrebbe arrivare chiunque anche adulti non animati da buone intenzioni. Quindi vanno modulate le spinte emotive dell’azione affrettata che non sempre è quella adatta. Da UNICEF è giunta la notizia che da ospedali haitiani sarebbero spariti dei bambini, tuttavia si continua ad affermare la necessità di rispettare le procedure necessarie al ricongiungimento familiare. In queste situazioni non esiste un’univoca soluzione:contare i bambini, individuarli, delimitare spazi sicuri in cui custodirli,curarli. Inoltre sostener gli adulti locali in grado di farsi carico di questa infanzia. si devono distinguere i bambini adottabili già prima del sisma;per questi varrebbe la pena di accelerare le procedure. Ci si chiede come vivrebbe l’adozione un bambino specie se grandicello che lascia nei luoghi di origine persone importanti di cui non ha potuto conoscerne le sorti. Per questi varrebbe la pena utilizzare l’affido internazionale. Poche sono le possibilità di adozione dei bambini haitiani da parte degli italiani, anche per difficoltà a trovare prassi condivise tra i due governi. Ciò comunque riguarderebbe coppie già dichiarate idonee. Il fatto che tante regioni del globo si siano aperte all’adozione internazionale ha strettamente a che fare con i disequilibri mondiali sul piano economico, sociale, demografico. I bambini sono le principali vittime delle problematiche connesse. Può sembrare strano parlare si responsabilità globale sui bambini da coloro che semplicemente si sentono spinti dall’idea di metter su famiglia;eppure la possibilità di divenire famiglia con l’adozione internazionale comincia proprio da lì. Sono impegnati individui, stati autorità e operatori specifici del territorio. Riguarda la disponibilità ad accogliere, educare, amare di adulti/genitori. 6.2 breve storia e cenni legislativi L’aver affermato l’esigenza di collaborazione tra paesi di provenienza poveri e quelli ricchi nella reciprocità e nell’adesione a principi comuni condivisi, ha costituito un fondamentale passo avanti negli interventi volti
  • 22. 22 a garantire, su piani diversi, protezione e cura ai bambini. Chiede di ascoltare la realtà dei paesi di origine dei minori. Queste però sono conquiste recenti. La pratica dell’adozione ha una storia lunghissima mostrando si sé differenti potenzialità e limiti e seguendo obiettivi diversi. Nell’antichità e ancora sino ai primi decenni del socolo scorso, l’adozione ha risposto anzitutto ai fini successori, bisogno di compensare l’assenza di figli. Ha mantenuto a lungo il carattere di utilità economica e materiale per la famiglia del bambino. In Italia ci sono voluti decenni perché si superasse la prospettiva adulto centrica, il loro bisogno di garantirsi una discendenza. Ci sono voluti decenni anche per modificare un tessuto culturale e sociale in cui le madri sole e i figli nati fuori dal matrimonio erano rifiutati ed emarginati, lasciati dalle madri sole e nubili alle porte delle chiese e dei conventi. Lentamente l’adozione cessa di essere un contratto tra adulti e comincia a porsi come obiettivo prioritario il benessere del bambino. È dalla fine degli anni 60 infatti la prima legge sull’adozione (legge 4 giugno 1967). In essa per la prima volta i diritti dei bambini vengono anteposti a quelli degli adulti, affermando inoltre il superamento de legame di sangue, è come i legami affettivi ed educativi siano prioritari. Aspetti questi che a volte faticano a radicarsi pienamente nella mentalità diffusa. Nel corso degli anni 70 si sono sviluppate trasformazioni culturali e sociali: la vendita della pillola a scopo contraccettivo, la riforma del diritto di famiglia che nel 1975 ha consentito il riconoscimento dei figli naturali, la legge sull’aborto del 1978. Queste situazioni riducono il numero dei bambini abbandonati e adottabili. Contemporaneamente andava aumentando il fenomeno dell’infertilità le cui cause sono complesse e non del tutto conosciute. Si sa che a questi fenomeni si possono associare situazioni come scelta di non avere figli o di averli in età matura o avere un solo figlio da far nascere dopo lo sviluppo di una carriera professionale. Di conseguenza si è assistito ad un calo delle nascite, nello stesso tempo si diffonde la cultura dell’adozione e la consapevolezza dei danni causati da dalle carenze affettive ed educative subite nell’infanzia. pur aumentando la richiesta di adozioni esse non potevano essere soddisfatte a causa anche delle limitazioni della legge del 1967 che fissava a 8 anni il limite massimo di adottabilità. Quindi l’unica via possibile è quella dell’adozione internazionale. Esse prendono avvio per motivi umanitari ed erano in origine riservate ad una elite di genitori già con figli prevalentemente dell’Italia del Nord. Negli anni seguenti l’adozione internazionale assume una dimensione mondiale. Alle motivazioni umanitarie iniziale si sostituiscono quelle di coppie prive di figli biologici scoraggiate dalle difficoltà di adottare un bambino in ambito nazionale. Così nascono le adozioni di bambini di origine straniera. Per parecchi anni con le adozioni internazionali è stato possibile accogliere bambini in età precoce e con percorsi semplici. Ma l’assenza di norme ha causato non pochi problemi. Consentendo, fuori da ogni controllo, agli aspiranti genitori la ricerca dei figli, a organizzazioni spinte a fin idi lucro intermediazioni che non tenevano conto dei diritti dei bambini. La mancanza di controllo sulle coppie ha fatto sì che giungessero all’adozione anche persone che non possedevano i requisiti formali stabiliti dalla legge, impreparate alle motivazioni profonde che sottendono la scelta adottiva e alle difficoltà che comporta l’accogliere un bimbo di origine etnica e culturale diversa. Solo dopo 16 anni sono state definite norme specificamente volte a riconoscere e tutelare i diritti del minore straniero. La legge 184 del 1983 afferma il principio dell’equità di garanzie tra minori italiani e stranieri. Qui si regolamentano l’accertamento dei requisiti degli aspiranti genitori adottivi e dei bimbi adottabili. Questi principi non hanno però trovato applicazione efficace:per i minori stranieri non si accerta lo stato di abbandono;non si verifica se siano stati attuati interventi per risolvere i problemi nel loro paese d’origine; non è richiesto l’esame comparativo per coppie idonee né la conoscenza delle storie e delle caratteristiche del minore. Con la convenzione internazionale sulla protezione dei minori dell’AIA (1993)sono state definite norme giuridiche vincolanti per le adozioni transnazionali, proteggerli verso adozioni fatte a frode e a scopo di lucro;non ultimo armonizzare le legislazioni degli stati ratificanti. Con la legge del 31 dic 1998 l’Italia ha ratificato la convenzione dell’Aia segnando un passaggio nodale nel modo di concepire l’adozione che coinvolge genitori e figli di diversa provenienza etnica e socioculturale. Il tutto ruota intorno al principio di