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Gisella Malagodi
FRANCESCA (Dante, Inferno) (1265 - 1321) Simbolo dell’amore che supera ogni barriera ERMIONE   ( D’Annunzio  – La pioggia nel  pineto )  (1863-1938) Metamorfosi dall’umano al vegetale LAVANDARE ( G.  Pascoli )( 1855-1912) Figure femminili viste come parte integrante del paesaggio campestre VAN GOGH – IL lavoro dei campi(1853-1890 ) L’elemento umano si confonde col paesaggio in cui è inserito LA FIGURA FEMMINILE ATTRAVERSO I SECOLI NELL’INTERPRETAZIONE DI ALCUNI POETI, SCRITTORI, PITTORI, SCULTORI, CANTAUTORI DAFNE – Gian Lorenzo  Bernini (1598-1680) Dafne nell’atto della sua trasformazione in albero di alloro Non è Francesca  di Lucio Battisti /Mogol (1943-1999) Donna traditrice del patto d’amore SILVIA (LEOPARDI)   (1798 -  1837) Donna metafora della giovinezza e dei sogni infranti MADRE DI CECILIA ( Manzoni )   (1785-1873) Ritratto sia fisico che psicologico LA MADRE –  Giuseppe  Ungaretti (1888-1970) eternità dell’amore materno BAGLIONI  ( “Il mattino si è svegliato”) Donna capace di infondere gioia e voglia di vivere nell’uomo che ama BRONZINO - Ritratto di Lucrezia  Panciatichi (1503-1572 ) indagine sia fisica che psicologica AMEDEO MINGHI  – ANITA Amore come esperienza globale SCHIELE EGON  – volto di donna Jawlensky   Alexej  – ritratto di donna
Metro :  Canzone libera di sei strofe di endecasillabi e settenari, con rime alternate e baciate, la cui posizione è libera, come libera è anche la lunghezza delle strofe, ad imitazione del Tasso.  struttura : cinque sono i movimenti del canto: Rievocazione di Silvia  -  Il poeta si rivolge a Silvia come se fosse ancora in vita, per chiederle di ricordare insieme a lui quel tempo felice dell’adolescenza in cui ella risplendeva di bellezza e di un’ allegria che le si leggeva negli occhi che, per timidezza, non osavano sostenere a lungo lo sguardo degli ammiratori. Era il periodo felice dei sogni per il furturo che accompagnano quest’età.  Leopardi non si sofferma sull’aspetto fisico di Silvia: di lei ricorda soltanto il canto e la velocità nel tessere la tela. Rievocazione di se stesso –  A partire dal verso 15 Leopardi passa a ricordare se stesso, la propria attività faticosa ed insieme piacevole di studio, rinchiuso nella casa paterna.  Ad un tratto il canto di Silvia lo distoglie dalla lettura e lo fa spaziare col pensiero verso il mare, i monti, le vie illuminate dal sole. (le numerose allitterazioni in “r” rendono questi versi particolarmente musicali, in sintonia con l’atmosfera di serenità, quasi di sogno, “vie dorate” che vogliono esprimere). Una serie di esclamazioni sottolineano la straordinarietà di questa condizione felice che poco dopo gli sarebbe stata “rubata” da un destino crudele. La Natura: vita come sventura e inganno-  La serie di esclamazioni è sostituita in questi versi da una serie di interrogativi che rimangono senza risposta.  I sogni comuni di Silvia e di Leopardi sono stati infranti.   Con la morte di Silvia è morta anche ogni speranza del poeta e la sua stessa gioventù gli è stata tolta. La vita si regge su un inganno di fondo, contro il quale l'uomo resta comunque   impotente L'apparir del vero   – svanite le illusioni, Leopardi e Silvia sono stati derubati di ogni sogno o speranza. I versi 49-51 sottolineano questa comunanza di sofferenze attraverso la ripetizione della congiunzione “anche” ed il parallelismo “anni miei”, “anni tuoi”. La poesia si conclude con l’immagine di una tomba fredda e spoglia che Silvia indica a Leopardi come unica scappatoia dalle sofferenze della vita, preceduta da un incalzare di interrogativi cui il poeta non sa dare risposta. (da notare il procedimento con cui Leopardi amplia l’orizzonte dei propri interrogativi, estendendoli prima a Silvia, poi al genere umano nella sua totalità “questi i diletti, l’amor, l’opre gli eventi onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell’umane genti?”). XXI A SILVIA Silvia, rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare  5 Di gioventù salivi? Sonavan le quiete Stanze, e le vie dintorno, Al tuo perpetuo canto,  Allor che all'opre femminili intenta  10 Sedevi, assai contenta Dì quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi Così menare il giorno. Io gli studi leggiadri  15 Talor lasciando e le sudate carte, Ove il tempo mio primo E di me si spendea la miglior parte, D'in su i veroni del paterno ostello Porgea gli orecchi al suon della tua voce,  20 Ed alla man veloce Che percorrea La faticosa tela. Mirava il del sereno, Le vie dorate e gli orti, E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.  25 Lingua mortal non dice Quel ch'io sentiva in seno. Che pensieri soavi, Che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia    30 La vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, Un affetto mi preme Acerbo e sconsolato, E tornami a doler di mia sventura.    35 O natura, o natura, Perché non rendi poi Quel che prometti allor? perché di tanto Inganni i figli tuoi? Tu pria che l'erbe inaridisse il verno.  40 Da chiuso morbo combattuta e vinta, Perivi, o tenerella. E non vedevi II fior degli anni tuoi: Non ti molceva il core La dolce lode or delle negre chiome,  45 Or degli sguardi innamorati e schivi; Né teco le compagne ai dì festivi Ragionavan d'amore. Anche peria fra poco La speranza mia dolce; agli anni miei  50 Anche negaro i fati La giovanezza. Ahi come, Come passata sei, Cara compagna dell'età mia nova, Mia lacrimata speme!  55 Questo è quel mondo? questi I diletti, l'amor, l'opre, gli  eventi Onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell'umane genti? All'apparir del vero  60 Tu, misera, cadesti: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano. Giacomo Leopardi - Canti Giacomo Leopardi XXI A SILVIA Silvia, rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare  5 Di gioventù salivi? Sonavan le quiete Stanze, e le vie dintorno, Al tuo perpetuo canto,  Allor che all'opre femminili intenta  10 Sedevi, assai contenta Dì quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi Così menare il giorno. Io gli studi leggiadri  15 Talor lasciando e le sudate carte, Ove il tempo mio primo E di me si spendea la miglior parte, D'in su i veroni del paterno ostello Porgea gli orecchi al suon della tua voce,  20 Ed alla man veloce Che percorrea La faticosa tela. Mirava il del sereno, Le vie dorate e gli orti, E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.  25 Lingua mortal non dice Quel ch'io sentiva in seno. Che pensieri soavi, Che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia    30 La vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, Un affetto mi preme Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.    35 O natura, o natura, Perché non rendi poi Quel che prometti allor? perché di tanto Inganni i figli tuoi? Tu pria che l'erbe inaridisse il verno.  40 Da chiuso morbo combattuta e vinta, Perivi, o tenerella. E non vedevi II fior degli anni tuoi: Non ti molceva il core La dolce lode or delle negre chiome,  45 Or degli sguardi innamorati e schivi; Né teco le compagne ai dì festivi Ragionavan d'amore. Anche peria fra poco La speranza mia dolce; agli anni miei  50 Anche negaro i fati La giovanezza. Ahi come, Come passata sei, Cara compagna dell'età mia nova, Mia lacrimata speme!  55 Questo è quel mondo? questi I diletti, l'amor, l'opre, gli  eventi Onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell'umane genti? All'apparir del vero  60 Tu, misera, cadesti: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano. La Natura: vita come sventura e inganno-  La serie di esclamazioni è sostituita in questi versi da una serie di interrogativi che rimangono senza risposta.  I sogni comuni di Silvia e di Leopardi sono stati infranti.   Con la morte di Silvia è morta anche ogni speranza del poeta e la sua stessa gioventù gli è stata tolta. La vita si regge su un inganno di fondo, contro il quale l'uomo resta comunque   impotente L'apparir del vero   – svanite le illusioni, Leopardi e Silvia sono stati derubati di ogni sogno o speranza. I versi 49-51 sottolineano questa comunanza di sofferenze attraverso la ripetizione della congiunzione “anche” ed il parallelismo “anni miei”, “anni tuoi”. La poesia si conclude con l’immagine di una tomba fredda e spoglia che Silvia indica a Leopardi come unica scappatoia dalle sofferenze della vita, preceduta da un incalzare di interrogativi cui il poeta non sa dare risposta. (da notare il procedimento con cui Leopardi amplia l’orizzonte dei propri interrogativi, estendendoli prima a Silvia, poi al genere umano nella sua totalità “questi i diletti, l’amor, l’opre gli eventi onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell’umane genti?”).
Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna,  il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento. Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, - no! - disse: - non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: - promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così. Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affaccendò a far un po' di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: - addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri -. Poi voltatasi di nuovo al monatto, - voi, - disse, - passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola. In questo capitolo Manzoni riesce a creare un ritratto veramente commovente di questa madre, non più giovanissima, ma ancora bella d’aspetto.  Si intuiscono, dietro alla finezza dei tratti somatici, una grande nobiltà d’animo ed una capacità non comune di mantenere dignità e compostezza nel dolore.  Tutto in questa donna, dal modo di camminare, dai gesti pietosi con cui sorregge la figlia come se fosse ancora viva, dalle parole che rivolge al monatto, dalla delicata cura con cui posa il corpicino senza vita sul carro, invita ad un profondo rispetta e suscita commozione. ALESSANDRO MANZONI  – Promessi sposi – capitolo 34
       Quali colombe dal disio chiamate  82 con l’ali alzate e ferme al dolce nido  vegnon per l’aere dal voler portate;        cotali uscir de la schiera ov’è Dido,  a noi venendo per l’aere maligno,  sì forte fu l’affettuoso grido.  87       «O animal grazioso e benigno  che visitando vai per l’aere perso  noi che tignemmo il mondo di sanguigno,        se fosse amico il re de l’universo,  noi pregheremmo lui de la tua pace,  92 poi c’hai pietà del nostro mal perverso.         Di quel che udire e che parlar vi piace,  noi udiremo e parleremo a voi,  mentre che ’l vento, come fa, ci tace.        Siede la terra dove nata fui  97 su la marina dove ’l Po discende  per aver pace co’ seguaci sui.        Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende  prese costui de la bella persona  che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.  102       Amor, ch’a nullo amato amar perdona,  mi prese del costui piacer sì forte,  che, come vedi, ancor non m’abbandona.        Amor condusse noi ad una morte:  Caina attende chi a vita ci spense».  107 Queste parole da lor ci fuor porte.        Quand’io intesi quell’anime offense,  china’ il viso e tanto il tenni basso,  fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».        Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,  112 quanti dolci pensier, quanto disio  menò costoro al doloroso passo!».        Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,  e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri  a lagrimar mi fanno tristo e pio.  117       Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,  a che e come concedette Amore  che conosceste i dubbiosi disiri?».        E quella a me: «Nessun maggior dolore  che ricordarsi del tempo felice  122 ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.        Ma s’a conoscer la prima radice  del nostro amor tu hai cotanto affetto,  dirò come colui che piange e dice.        Noi leggiavamo un giorno per diletto  127 di Lancialotto come amor lo strinse;  DANTE- DIVINA COMMEDIA – INFERNO – CANTO V
soli eravamo e sanza alcun sospetto.         Per più fiate li occhi ci sospinse  quella lettura, e scolorocci il viso;  ma solo un punto fu quel che ci vinse.  132        Quando leggemmo il disiato riso  esser basciato da cotanto amante,  questi, che mai da me non fia diviso,        la bocca mi basciò tutto tremante.  Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:  137 quel giorno più non vi leggemmo avante».        Mentre che l’uno spirto questo disse,  l’altro piangea; sì che di pietade  io venni men così com’io morisse.        E caddi come corpo morto cade. 142 Francesca sta raccontando a Dante la propria vicenda umana. A parlare con il poeta è sempre la donna, ma, a contrappunto delle parole di Francesca, c'è il pianto silenzioso di Paolo, che completa l'effetto unitario del narrare  "come colui che piange e dice" . Inf. V, 100-102 Amor ch'al cor gentil ratto s'apprende, prese costui de la bella persona  che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. La corrispondenza fra  "amore"  e  "cuore gentile"  è uno dei cardini dello stilnovismo: Movimento poetico sviluppatosi a Firenze alla fine del XIII secolo. Iniziatore del nuovo stile fu il poeta bolognese Guido Guinizelli, che nella celebre canzone  Al cor gentil rempaira sempre amore  definì quelli che sarebbero stati i canoni della nuova scuola: anzitutto il concetto della nobiltà come dote spirituale piuttosto che come fatto ereditario e lo stretto rapporto fra la nobiltà ("gentilezza") d'animo e la capacità di amare; in secondo luogo l'immagine della donna come angelo, in grado di purificare l'anima dell'amante e di condurlo dal peccato alla beatitudine celeste. Questi concetti ricevettero un approfondimento sia dal punto di vista filosofico sia da quello psicologico. Il Dolce stil novo si mosse nella direzione di una poesia concettualmente e formalmente rigorosa: sul piano dei contenuti trattava l'esperienza amorosa come un’esperienza spirituale e morale, mezzo per raggiungere la virtù; sul piano della forma, si proponeva di utilizzare un linguaggio "dolce", privo di asprezze tanto negli effetti fonici quanto nelle immagini, perché fosse adeguato all'altezza dei contenuti espressi.
Dante stesso aveva scritto che "Amore e cor gentil sono una cosa" . Questa terzina rende, quindi, conto del sentimento di Paolo, che, a causa della sua gentilezza d'animo e della bellezza della cognata, non può non provare un sentimento d'amore, pericolosamente al margine, forse, fra l'amore-gioco e l'amore passione.   Francesca ha voluto ed accettato il sentimento d’amore a tal punto che esso dura ancora immutato nell’eternità ("come vedi ancor non m'abbandona" Inf. V, 105 ) Inf. V, 100-102 Amor, ch'a nullo amato amar perdona mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona. La seconda terzina, invece  spiega il concetto che Francesca ha dell’amore e cioè dell’inevitabilità, per chi è amato, di restituire l’amore. La reciprocità dell'amore è un altro dei temi fondamentali dell'amor cortese. Francesca, con dolcezza composta e dolente, racconta il momento del peccato, il più irriflessivo ed insieme determinante, che chiude la sua vita spirituale.  "Un giorno"  qualsiasi, in una condizione del tutto normale della vita di corte che, Dante conosceva bene, i due cognati leggono insieme uno dei romanzi tanto diffusi.  Inf. V,133-138 Quando leggemmo il disiato riso  ( riso- metafora per indicare la bocca) esser baciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante. Il libro ha ormai svolto il suo ruolo di portare i due cognati alla reciproca consapevolezza del loro sentimento, ed i due possono smettere di leggere la passione della finzione e vivere la passione della realtà.  http://www.ladante.it/DanteAlighieri/hochfeiler/inferno/person/fra_pao.htm
GIOVANNI PASCOLI(1855-1912) LAVANDARE Nel campo mezzo grigio e mezzo nero resta un aratro senza buoi che pare dimenticato, tra il vapor leggero. E cadenzato dalla gora viene lo sciabordare delle lavandare con tonfi spessi e lunghe cantilene: Il vento soffia e nevica la frasca, e tu non torni ancora al tuo paese! quando partisti, come son rimasta! come l’aratro in mezzo alla maggese. Ci si trova in un  quadro autunnale in un’ora incerta e senza tempo. I sensi del poeta,  immerso nella campagna solitaria, colgono vigili la natura intorno, le sue immagini, le sue voci: un campo appena arato, un aratro abbandonato sui solchi, i rumori prodotti dalla sciacquio delle lavandaie, anch’esse parte del paesaggio. Poi tutto sfuma in un’unica nota: un canto d’amore e di  nostalgia, che è come il modularsi, in una voce umana sperduta  nell’immensità della campagna, dello sfiorire autunnale, che già il Pascoli aveva colto in quell’aratro abbandonato. E’ una poesia d’immagini  e di sensazioni. Gli oggetti sembrano dissolversi in un’onda di malinconia.  La prima parte è descrittiva, e in essa prevale ancora il colore. L’aratro dà  un’idea di dimenticanza; difatti è stato abbandonato nel campo. La seconda  parte si lega alla prima attraverso il canto delle lavandare, canto  dell’abbandono: la persona amata si è allontanata e ancora non ritorna al paese. http://doc.studenti.it/appunti/italiano/opere-principali-pascoli.html
VAN GOGH 1853-1890) I toni chiari e scuri del terreno e le figure chine che quasi si confondono col paesaggio e che ne sono parte integrante, contribuendo ad arricchirlo di ulteriori macchie di colore, non possono non richiamare alla memoria il gruppo delle “lavandare” di Pascoli che, più che essere caratterizzato individualmente, serve ad arricchire il paesaggio campestre di suoni, oltre che di colori. (il ritmo “cadenzato”dello “sciabordare”, la cantilena cantata dalle donne, ecc.). A conferma dell’intima fusione tra figure umane e paesaggio si può osservare come Van Gogh abbia utilizzato la medesima tavolozza di tonalità bruno van Dyck e terra di Siena per caratterizzare entrambi gli elementi.
… Piove su le tue ciglia nere sì che par tu pianga ma di piacere; non bianca ma quasi fatta virente, par da scorza tu esca. E tutta la via è in noi fresca aulente, il cuor nel petto è come pèsca intatta, tra le pàlpebre gli occhi son come polle tra l'erbe, i denti negli alvéoli son come mandorle acerbe. E andiam di fratta in fratta, or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i mallèoli   c'intrica i ginocchi) chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l'anima schiude novella, su la favola bella che ieri m'illuse, che oggi t'illude, o Ermione.   In questa poesia, considerata uno dei suoi capolavori, D’Annunzio “esprime questa arcana consonanza, questa comunione dell’anima umana con l’anima delle cose; si immedesima col pulsare innumerevole della vita universa, coi mari, coi fiumi, con l’ardore della calura, con la pioggia, con gli alberi .» (Pazzaglia). Ermione sta gradualmente trasformandosi, in questi versi, da creatura umana in essere vegetale, senza perdere nulla della propria umanità, ma immedesimandosi nella natura che la circonda e l’abbraccia ed assumendone anche le caratteristiche esteriori, quali i colori, le forme ed i profumi. GABRIELE  D’ANNUNZIO   – LA PIOGGIA NEL PINETO(1903)
Gian Lorenzo  Bernini   - Apollo  e Dafne  (1622-25)-Marmo di Carrara-cm. 243 Questa stupenda scultura richiama subito alla mente la metamorfosi di Ermione che gradualmente, nella Pioggia nel Pineto, si immedesima sempre più profondamente nella natura vegetale che la circonda, fino ad assumerne le sembianze, i colori e i profumi. Qui Dafne, per sfuggire alle insistenze di Apollo, è colta nell’attimo stesso in cui ha luogo la sua trasformazione in albero: la corteccia la ricopre già dalla vita in giù, lasciando tuttavia intravedere le sue splendide forme umane, ed esili rami cominciano a spuntare dai suoi capelli e dalle dita delle mani. Il gruppo scultoreo traspira dinamismo in ogni sua parte: nel dio Apollo con la gamba ed il braccio sinistro sollevati, nell’atto di afferrare Dafne e nella ninfa, benché già in parte racchiusa entro la corteccia d’alloro, colta in una rapida torsione del busto e con le braccia rivolte al cielo, mentre i capelli, future foglie, sembrano già animati dal vento.
E il cuore quando d’un ultimo battito Avrà fatto cadere il muro d’ombra, Per condurmi, Madre, sino al Signore, Come una volta mi darai la mano. In ginocchio, decisa, Sarai una statua di fronte all’Eterno, Come già ti vedeva Quando eri ancora in vita. Alzerai tremante le vecchie braccia, Come quando spirasti Dicendo: Mio Dio, eccomi. E solo quando m’avrà perdonato, Ti verrà desiderio di guardarmi. Ricorderai d’avermi atteso tanto, E avrai negli occhi un rapido sospiro. GIUSEPPE UNGARETTI  (1888-1970)  – LA MADRE La madre di Ungaretti è il simbolo dell’amore eterno, che supera anche la barriera della morte (vedi Paolo e Francesca). Il poeta la immagina mentre premurosamente gli darà ancora la mano nell’aldilà, così come faceva quand’egli era piccolo e muoveva i  primi passi.  Questa donna appare al contempo tanto fragile quanto decisa: Ungaretti, con un contrasto molto forte, la rappresenta ora con le braccia tremanti mentre sta per morire, ora  ferma, decisa e monumentale come una statua, mentre, nell’aldilà in ginocchio, chiede a Dio la salvezza eterna per il proprio figlio. Dal verso 5 al verso 11 c’è come una sospensione del legame tra madre e figlio, rappresentato in precedenza dalla mano che li univa, un’attesa carica di preoccupazione e di speranza al tempo stesso che impedisce l’incrociarsi degli sguardi. Soltanto quando la tensione si sarà sciolta e la madre avrà la certezza del perdono divino nei confronti del figlio, i suoi occhi potranno nuovamente guardarlo e un sospiro di sollievo concluderà la sua lunga attesa.
La compostezza della posa e la nobiltà del personaggio sono testimoniati sia dalla ricchezza dell’abito, sia dallo sguardo franco e aperto della donna che fissa direttamente negli occhi chi osserva il dipinto.  Questo splendido ritratto riesce quindi a comunicarci, oltre alle fattezze fisiche della donna, anche il suo mondo interiore ed unisce quindi, all’abilità della riproduzione fedele dei tratti, anche un’acuta indagine psicologica. Volendo fare un accostamento coi testi letti, viene da pensare alla madre di Cecilia per la compostezza che dimostra nel dolore e per la nobiltà sia dei sentimenti che del portamento. BRONZINO (Monticelli, Firenze 1503-1572),   Ritratto di Lucia Panciatichi, 1540, Firenze, Uffizi
Così sei tu Al mondo tu Tu che accendi La mia vita Tu sei per me Chi immaginai Speravo in te Sognai il tuo nome Così sei tu Al mondo tu Sei il mio bene Il dolore Nessuno amai Come amo te Nessuno avrò Così vicino… E va Questo amore Come fa la musica Fermi il tempo e fermi le parole Così sei tu Al mondo tu Solo tu Questo amore… Respirerà Resisterà Come fa la musica Fermi il tempo e fermi le parole Così sei tu L’immortalità dell’amore e la sua capacità di fermare il tempo anche in questa canzone, come in altre opere già viste, sia letterarie che artistiche AMEDEO MINGHI
EGON SCHIELE    (Tulln 1890 - Vienna 1918)   Lo stravolgimento di ogni dato oggettivo, sostituito dall’accentuazione  di alcuni tratti somatici, come gli occhi, sproporzionati e giganteschi rispetto alle dimensioni del volto, o il colore bianco della pelle che contrasta col nero dell’abito e dei capelli, danno a questo volto un’espressività drammatica, quasi spettrale.  La donna, più che a un essere vivente, rimanda all’idea di un teschio per l’estrema magrezza delle forme e per la geometricità dei tratti. Lo stesso sguardo ha una fissità angosciante. 1912- volto di donna
il mattino si è svegliato  e disteso s'è contro il cielo  mentre il prato si è sposato già  a uno spicchio di sole più in là  ed un passero  tutto intento  a beccar qua e là  tra il frumento  e la nebbia lenta sale su  e lo stagno non dorme già più  e la luce ritrova i colori  tra le foglie dei vecchi filari  mi sento vero  come questo cielo chiaro  e un pensiero  torna dolcemente  dentro la mia mente  e soffiare piano piano  su quel fiore lì così strano  e pensare mentre soffio che sembra neve  ma neve non è  e poi correre quasi volando  tra i papaveri mossi dal vento  mi sento vero  come l'aria che respiro  e un pensiero  sempre più impaziente  dentro la mia mente  il mattino si è svegliato  e mi accorgo che  voglio te ...  La canzone prende le mosse dal risveglio della natura e della vita, rappresentato dal mattino: da notare le personificazioni del “mattino che si distende contro il cielo”e del sole. La vita è in gran fermento: un passero è già intento a beccare,  la nebbia arriva, il cielo si fa chiaro, anche lo stagno si risveglia e la luce, riflessa in mille colori dai filari illumina cose e persone. CLAUDIO BAGLIONI  – IL MATTINO S’E’ SVEGLIATO
In questo ritratto di donna i colori complementari dello sfondo e dell’abito creano un forte contrasto, mentre il viso, ridotto a pochi tratti essenziali, viene anch’esso attratto nella tonalità verde dello sfondo, sulla quale campeggiano i grandi occhi neri, dallo sguardo magnetico. JAWLENSKY  ALEXEJ    (Torjok 1864 - Wiesbaden 1941)   Ritratto di donna
Ti stai sbagliando chi hai visto non è non è Francesca Lei è sempre a casa che aspetta me non è Francesca Se c'era un uomo poi no, non può essere lei Francesca non ha mai chiesto di più chi sta sbagliando son certo sei tu Francesca non ha mai chiesto di più perchè..lei vive per me Come quell'altra è bionda però non è Francesca era vestita di rosso lo so ma non è Francesca se era abbracciata poi no, non può essere lei Francesca non ha mai chiesto di più chi sta sbagliando son certo sei tu Francesca non ha mai chiesto di più perchè..lei vive per me LUCIO BATTISTI  – NON E’ FRANCESCA (1943-1998) L’amore deluso che non accetta il tradimento, che continua a sognare e ad illudersi e a negare  persino l’evidenza. Ma come un tarlo il dubbio cova e lavora nell’animo

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  • 2. FRANCESCA (Dante, Inferno) (1265 - 1321) Simbolo dell’amore che supera ogni barriera ERMIONE ( D’Annunzio – La pioggia nel pineto ) (1863-1938) Metamorfosi dall’umano al vegetale LAVANDARE ( G. Pascoli )( 1855-1912) Figure femminili viste come parte integrante del paesaggio campestre VAN GOGH – IL lavoro dei campi(1853-1890 ) L’elemento umano si confonde col paesaggio in cui è inserito LA FIGURA FEMMINILE ATTRAVERSO I SECOLI NELL’INTERPRETAZIONE DI ALCUNI POETI, SCRITTORI, PITTORI, SCULTORI, CANTAUTORI DAFNE – Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) Dafne nell’atto della sua trasformazione in albero di alloro Non è Francesca di Lucio Battisti /Mogol (1943-1999) Donna traditrice del patto d’amore SILVIA (LEOPARDI) (1798 - 1837) Donna metafora della giovinezza e dei sogni infranti MADRE DI CECILIA ( Manzoni ) (1785-1873) Ritratto sia fisico che psicologico LA MADRE – Giuseppe Ungaretti (1888-1970) eternità dell’amore materno BAGLIONI ( “Il mattino si è svegliato”) Donna capace di infondere gioia e voglia di vivere nell’uomo che ama BRONZINO - Ritratto di Lucrezia Panciatichi (1503-1572 ) indagine sia fisica che psicologica AMEDEO MINGHI – ANITA Amore come esperienza globale SCHIELE EGON – volto di donna Jawlensky Alexej – ritratto di donna
  • 3. Metro : Canzone libera di sei strofe di endecasillabi e settenari, con rime alternate e baciate, la cui posizione è libera, come libera è anche la lunghezza delle strofe, ad imitazione del Tasso. struttura : cinque sono i movimenti del canto: Rievocazione di Silvia - Il poeta si rivolge a Silvia come se fosse ancora in vita, per chiederle di ricordare insieme a lui quel tempo felice dell’adolescenza in cui ella risplendeva di bellezza e di un’ allegria che le si leggeva negli occhi che, per timidezza, non osavano sostenere a lungo lo sguardo degli ammiratori. Era il periodo felice dei sogni per il furturo che accompagnano quest’età. Leopardi non si sofferma sull’aspetto fisico di Silvia: di lei ricorda soltanto il canto e la velocità nel tessere la tela. Rievocazione di se stesso – A partire dal verso 15 Leopardi passa a ricordare se stesso, la propria attività faticosa ed insieme piacevole di studio, rinchiuso nella casa paterna. Ad un tratto il canto di Silvia lo distoglie dalla lettura e lo fa spaziare col pensiero verso il mare, i monti, le vie illuminate dal sole. (le numerose allitterazioni in “r” rendono questi versi particolarmente musicali, in sintonia con l’atmosfera di serenità, quasi di sogno, “vie dorate” che vogliono esprimere). Una serie di esclamazioni sottolineano la straordinarietà di questa condizione felice che poco dopo gli sarebbe stata “rubata” da un destino crudele. La Natura: vita come sventura e inganno- La serie di esclamazioni è sostituita in questi versi da una serie di interrogativi che rimangono senza risposta. I sogni comuni di Silvia e di Leopardi sono stati infranti. Con la morte di Silvia è morta anche ogni speranza del poeta e la sua stessa gioventù gli è stata tolta. La vita si regge su un inganno di fondo, contro il quale l'uomo resta comunque impotente L'apparir del vero – svanite le illusioni, Leopardi e Silvia sono stati derubati di ogni sogno o speranza. I versi 49-51 sottolineano questa comunanza di sofferenze attraverso la ripetizione della congiunzione “anche” ed il parallelismo “anni miei”, “anni tuoi”. La poesia si conclude con l’immagine di una tomba fredda e spoglia che Silvia indica a Leopardi come unica scappatoia dalle sofferenze della vita, preceduta da un incalzare di interrogativi cui il poeta non sa dare risposta. (da notare il procedimento con cui Leopardi amplia l’orizzonte dei propri interrogativi, estendendoli prima a Silvia, poi al genere umano nella sua totalità “questi i diletti, l’amor, l’opre gli eventi onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell’umane genti?”). XXI A SILVIA Silvia, rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare 5 Di gioventù salivi? Sonavan le quiete Stanze, e le vie dintorno, Al tuo perpetuo canto, Allor che all'opre femminili intenta 10 Sedevi, assai contenta Dì quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi Così menare il giorno. Io gli studi leggiadri 15 Talor lasciando e le sudate carte, Ove il tempo mio primo E di me si spendea la miglior parte, D'in su i veroni del paterno ostello Porgea gli orecchi al suon della tua voce, 20 Ed alla man veloce Che percorrea La faticosa tela. Mirava il del sereno, Le vie dorate e gli orti, E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. 25 Lingua mortal non dice Quel ch'io sentiva in seno. Che pensieri soavi, Che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia 30 La vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, Un affetto mi preme Acerbo e sconsolato, E tornami a doler di mia sventura. 35 O natura, o natura, Perché non rendi poi Quel che prometti allor? perché di tanto Inganni i figli tuoi? Tu pria che l'erbe inaridisse il verno. 40 Da chiuso morbo combattuta e vinta, Perivi, o tenerella. E non vedevi II fior degli anni tuoi: Non ti molceva il core La dolce lode or delle negre chiome, 45 Or degli sguardi innamorati e schivi; Né teco le compagne ai dì festivi Ragionavan d'amore. Anche peria fra poco La speranza mia dolce; agli anni miei 50 Anche negaro i fati La giovanezza. Ahi come, Come passata sei, Cara compagna dell'età mia nova, Mia lacrimata speme! 55 Questo è quel mondo? questi I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi Onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell'umane genti? All'apparir del vero 60 Tu, misera, cadesti: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano. Giacomo Leopardi - Canti Giacomo Leopardi XXI A SILVIA Silvia, rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare 5 Di gioventù salivi? Sonavan le quiete Stanze, e le vie dintorno, Al tuo perpetuo canto, Allor che all'opre femminili intenta 10 Sedevi, assai contenta Dì quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi Così menare il giorno. Io gli studi leggiadri 15 Talor lasciando e le sudate carte, Ove il tempo mio primo E di me si spendea la miglior parte, D'in su i veroni del paterno ostello Porgea gli orecchi al suon della tua voce, 20 Ed alla man veloce Che percorrea La faticosa tela. Mirava il del sereno, Le vie dorate e gli orti, E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. 25 Lingua mortal non dice Quel ch'io sentiva in seno. Che pensieri soavi, Che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia 30 La vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, Un affetto mi preme Acerbo e sconsolato,
  • 4. E tornami a doler di mia sventura. 35 O natura, o natura, Perché non rendi poi Quel che prometti allor? perché di tanto Inganni i figli tuoi? Tu pria che l'erbe inaridisse il verno. 40 Da chiuso morbo combattuta e vinta, Perivi, o tenerella. E non vedevi II fior degli anni tuoi: Non ti molceva il core La dolce lode or delle negre chiome, 45 Or degli sguardi innamorati e schivi; Né teco le compagne ai dì festivi Ragionavan d'amore. Anche peria fra poco La speranza mia dolce; agli anni miei 50 Anche negaro i fati La giovanezza. Ahi come, Come passata sei, Cara compagna dell'età mia nova, Mia lacrimata speme! 55 Questo è quel mondo? questi I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi Onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell'umane genti? All'apparir del vero 60 Tu, misera, cadesti: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano. La Natura: vita come sventura e inganno- La serie di esclamazioni è sostituita in questi versi da una serie di interrogativi che rimangono senza risposta. I sogni comuni di Silvia e di Leopardi sono stati infranti. Con la morte di Silvia è morta anche ogni speranza del poeta e la sua stessa gioventù gli è stata tolta. La vita si regge su un inganno di fondo, contro il quale l'uomo resta comunque impotente L'apparir del vero – svanite le illusioni, Leopardi e Silvia sono stati derubati di ogni sogno o speranza. I versi 49-51 sottolineano questa comunanza di sofferenze attraverso la ripetizione della congiunzione “anche” ed il parallelismo “anni miei”, “anni tuoi”. La poesia si conclude con l’immagine di una tomba fredda e spoglia che Silvia indica a Leopardi come unica scappatoia dalle sofferenze della vita, preceduta da un incalzare di interrogativi cui il poeta non sa dare risposta. (da notare il procedimento con cui Leopardi amplia l’orizzonte dei propri interrogativi, estendendoli prima a Silvia, poi al genere umano nella sua totalità “questi i diletti, l’amor, l’opre gli eventi onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell’umane genti?”).
  • 5. Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento. Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, - no! - disse: - non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: - promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così. Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affaccendò a far un po' di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: - addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri -. Poi voltatasi di nuovo al monatto, - voi, - disse, - passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola. In questo capitolo Manzoni riesce a creare un ritratto veramente commovente di questa madre, non più giovanissima, ma ancora bella d’aspetto. Si intuiscono, dietro alla finezza dei tratti somatici, una grande nobiltà d’animo ed una capacità non comune di mantenere dignità e compostezza nel dolore. Tutto in questa donna, dal modo di camminare, dai gesti pietosi con cui sorregge la figlia come se fosse ancora viva, dalle parole che rivolge al monatto, dalla delicata cura con cui posa il corpicino senza vita sul carro, invita ad un profondo rispetta e suscita commozione. ALESSANDRO MANZONI – Promessi sposi – capitolo 34
  • 6.        Quali colombe dal disio chiamate  82 con l’ali alzate e ferme al dolce nido  vegnon per l’aere dal voler portate;        cotali uscir de la schiera ov’è Dido,  a noi venendo per l’aere maligno,  sì forte fu l’affettuoso grido.  87       «O animal grazioso e benigno  che visitando vai per l’aere perso  noi che tignemmo il mondo di sanguigno,        se fosse amico il re de l’universo,  noi pregheremmo lui de la tua pace,  92 poi c’hai pietà del nostro mal perverso.         Di quel che udire e che parlar vi piace,  noi udiremo e parleremo a voi,  mentre che ’l vento, come fa, ci tace.        Siede la terra dove nata fui  97 su la marina dove ’l Po discende  per aver pace co’ seguaci sui.        Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende  prese costui de la bella persona  che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.  102       Amor, ch’a nullo amato amar perdona,  mi prese del costui piacer sì forte,  che, come vedi, ancor non m’abbandona.        Amor condusse noi ad una morte:  Caina attende chi a vita ci spense».  107 Queste parole da lor ci fuor porte.        Quand’io intesi quell’anime offense,  china’ il viso e tanto il tenni basso,  fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».        Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,  112 quanti dolci pensier, quanto disio  menò costoro al doloroso passo!».        Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,  e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri  a lagrimar mi fanno tristo e pio.  117       Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,  a che e come concedette Amore  che conosceste i dubbiosi disiri?».        E quella a me: «Nessun maggior dolore  che ricordarsi del tempo felice  122 ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.        Ma s’a conoscer la prima radice  del nostro amor tu hai cotanto affetto,  dirò come colui che piange e dice.        Noi leggiavamo un giorno per diletto  127 di Lancialotto come amor lo strinse;  DANTE- DIVINA COMMEDIA – INFERNO – CANTO V
  • 7. soli eravamo e sanza alcun sospetto.         Per più fiate li occhi ci sospinse  quella lettura, e scolorocci il viso;  ma solo un punto fu quel che ci vinse.  132        Quando leggemmo il disiato riso  esser basciato da cotanto amante,  questi, che mai da me non fia diviso,        la bocca mi basciò tutto tremante.  Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:  137 quel giorno più non vi leggemmo avante».        Mentre che l’uno spirto questo disse,  l’altro piangea; sì che di pietade  io venni men così com’io morisse.        E caddi come corpo morto cade. 142 Francesca sta raccontando a Dante la propria vicenda umana. A parlare con il poeta è sempre la donna, ma, a contrappunto delle parole di Francesca, c'è il pianto silenzioso di Paolo, che completa l'effetto unitario del narrare "come colui che piange e dice" . Inf. V, 100-102 Amor ch'al cor gentil ratto s'apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. La corrispondenza fra "amore" e "cuore gentile" è uno dei cardini dello stilnovismo: Movimento poetico sviluppatosi a Firenze alla fine del XIII secolo. Iniziatore del nuovo stile fu il poeta bolognese Guido Guinizelli, che nella celebre canzone Al cor gentil rempaira sempre amore definì quelli che sarebbero stati i canoni della nuova scuola: anzitutto il concetto della nobiltà come dote spirituale piuttosto che come fatto ereditario e lo stretto rapporto fra la nobiltà ("gentilezza") d'animo e la capacità di amare; in secondo luogo l'immagine della donna come angelo, in grado di purificare l'anima dell'amante e di condurlo dal peccato alla beatitudine celeste. Questi concetti ricevettero un approfondimento sia dal punto di vista filosofico sia da quello psicologico. Il Dolce stil novo si mosse nella direzione di una poesia concettualmente e formalmente rigorosa: sul piano dei contenuti trattava l'esperienza amorosa come un’esperienza spirituale e morale, mezzo per raggiungere la virtù; sul piano della forma, si proponeva di utilizzare un linguaggio "dolce", privo di asprezze tanto negli effetti fonici quanto nelle immagini, perché fosse adeguato all'altezza dei contenuti espressi.
  • 8. Dante stesso aveva scritto che "Amore e cor gentil sono una cosa" . Questa terzina rende, quindi, conto del sentimento di Paolo, che, a causa della sua gentilezza d'animo e della bellezza della cognata, non può non provare un sentimento d'amore, pericolosamente al margine, forse, fra l'amore-gioco e l'amore passione. Francesca ha voluto ed accettato il sentimento d’amore a tal punto che esso dura ancora immutato nell’eternità ("come vedi ancor non m'abbandona" Inf. V, 105 ) Inf. V, 100-102 Amor, ch'a nullo amato amar perdona mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona. La seconda terzina, invece spiega il concetto che Francesca ha dell’amore e cioè dell’inevitabilità, per chi è amato, di restituire l’amore. La reciprocità dell'amore è un altro dei temi fondamentali dell'amor cortese. Francesca, con dolcezza composta e dolente, racconta il momento del peccato, il più irriflessivo ed insieme determinante, che chiude la sua vita spirituale. "Un giorno" qualsiasi, in una condizione del tutto normale della vita di corte che, Dante conosceva bene, i due cognati leggono insieme uno dei romanzi tanto diffusi. Inf. V,133-138 Quando leggemmo il disiato riso ( riso- metafora per indicare la bocca) esser baciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante. Il libro ha ormai svolto il suo ruolo di portare i due cognati alla reciproca consapevolezza del loro sentimento, ed i due possono smettere di leggere la passione della finzione e vivere la passione della realtà. http://www.ladante.it/DanteAlighieri/hochfeiler/inferno/person/fra_pao.htm
  • 9. GIOVANNI PASCOLI(1855-1912) LAVANDARE Nel campo mezzo grigio e mezzo nero resta un aratro senza buoi che pare dimenticato, tra il vapor leggero. E cadenzato dalla gora viene lo sciabordare delle lavandare con tonfi spessi e lunghe cantilene: Il vento soffia e nevica la frasca, e tu non torni ancora al tuo paese! quando partisti, come son rimasta! come l’aratro in mezzo alla maggese. Ci si trova in un quadro autunnale in un’ora incerta e senza tempo. I sensi del poeta, immerso nella campagna solitaria, colgono vigili la natura intorno, le sue immagini, le sue voci: un campo appena arato, un aratro abbandonato sui solchi, i rumori prodotti dalla sciacquio delle lavandaie, anch’esse parte del paesaggio. Poi tutto sfuma in un’unica nota: un canto d’amore e di nostalgia, che è come il modularsi, in una voce umana sperduta nell’immensità della campagna, dello sfiorire autunnale, che già il Pascoli aveva colto in quell’aratro abbandonato. E’ una poesia d’immagini e di sensazioni. Gli oggetti sembrano dissolversi in un’onda di malinconia. La prima parte è descrittiva, e in essa prevale ancora il colore. L’aratro dà un’idea di dimenticanza; difatti è stato abbandonato nel campo. La seconda parte si lega alla prima attraverso il canto delle lavandare, canto dell’abbandono: la persona amata si è allontanata e ancora non ritorna al paese. http://doc.studenti.it/appunti/italiano/opere-principali-pascoli.html
  • 10. VAN GOGH 1853-1890) I toni chiari e scuri del terreno e le figure chine che quasi si confondono col paesaggio e che ne sono parte integrante, contribuendo ad arricchirlo di ulteriori macchie di colore, non possono non richiamare alla memoria il gruppo delle “lavandare” di Pascoli che, più che essere caratterizzato individualmente, serve ad arricchire il paesaggio campestre di suoni, oltre che di colori. (il ritmo “cadenzato”dello “sciabordare”, la cantilena cantata dalle donne, ecc.). A conferma dell’intima fusione tra figure umane e paesaggio si può osservare come Van Gogh abbia utilizzato la medesima tavolozza di tonalità bruno van Dyck e terra di Siena per caratterizzare entrambi gli elementi.
  • 11. … Piove su le tue ciglia nere sì che par tu pianga ma di piacere; non bianca ma quasi fatta virente, par da scorza tu esca. E tutta la via è in noi fresca aulente, il cuor nel petto è come pèsca intatta, tra le pàlpebre gli occhi son come polle tra l'erbe, i denti negli alvéoli son come mandorle acerbe. E andiam di fratta in fratta, or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i mallèoli c'intrica i ginocchi) chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l'anima schiude novella, su la favola bella che ieri m'illuse, che oggi t'illude, o Ermione. In questa poesia, considerata uno dei suoi capolavori, D’Annunzio “esprime questa arcana consonanza, questa comunione dell’anima umana con l’anima delle cose; si immedesima col pulsare innumerevole della vita universa, coi mari, coi fiumi, con l’ardore della calura, con la pioggia, con gli alberi .» (Pazzaglia). Ermione sta gradualmente trasformandosi, in questi versi, da creatura umana in essere vegetale, senza perdere nulla della propria umanità, ma immedesimandosi nella natura che la circonda e l’abbraccia ed assumendone anche le caratteristiche esteriori, quali i colori, le forme ed i profumi. GABRIELE D’ANNUNZIO – LA PIOGGIA NEL PINETO(1903)
  • 12. Gian Lorenzo Bernini - Apollo e Dafne (1622-25)-Marmo di Carrara-cm. 243 Questa stupenda scultura richiama subito alla mente la metamorfosi di Ermione che gradualmente, nella Pioggia nel Pineto, si immedesima sempre più profondamente nella natura vegetale che la circonda, fino ad assumerne le sembianze, i colori e i profumi. Qui Dafne, per sfuggire alle insistenze di Apollo, è colta nell’attimo stesso in cui ha luogo la sua trasformazione in albero: la corteccia la ricopre già dalla vita in giù, lasciando tuttavia intravedere le sue splendide forme umane, ed esili rami cominciano a spuntare dai suoi capelli e dalle dita delle mani. Il gruppo scultoreo traspira dinamismo in ogni sua parte: nel dio Apollo con la gamba ed il braccio sinistro sollevati, nell’atto di afferrare Dafne e nella ninfa, benché già in parte racchiusa entro la corteccia d’alloro, colta in una rapida torsione del busto e con le braccia rivolte al cielo, mentre i capelli, future foglie, sembrano già animati dal vento.
  • 13. E il cuore quando d’un ultimo battito Avrà fatto cadere il muro d’ombra, Per condurmi, Madre, sino al Signore, Come una volta mi darai la mano. In ginocchio, decisa, Sarai una statua di fronte all’Eterno, Come già ti vedeva Quando eri ancora in vita. Alzerai tremante le vecchie braccia, Come quando spirasti Dicendo: Mio Dio, eccomi. E solo quando m’avrà perdonato, Ti verrà desiderio di guardarmi. Ricorderai d’avermi atteso tanto, E avrai negli occhi un rapido sospiro. GIUSEPPE UNGARETTI (1888-1970) – LA MADRE La madre di Ungaretti è il simbolo dell’amore eterno, che supera anche la barriera della morte (vedi Paolo e Francesca). Il poeta la immagina mentre premurosamente gli darà ancora la mano nell’aldilà, così come faceva quand’egli era piccolo e muoveva i primi passi. Questa donna appare al contempo tanto fragile quanto decisa: Ungaretti, con un contrasto molto forte, la rappresenta ora con le braccia tremanti mentre sta per morire, ora ferma, decisa e monumentale come una statua, mentre, nell’aldilà in ginocchio, chiede a Dio la salvezza eterna per il proprio figlio. Dal verso 5 al verso 11 c’è come una sospensione del legame tra madre e figlio, rappresentato in precedenza dalla mano che li univa, un’attesa carica di preoccupazione e di speranza al tempo stesso che impedisce l’incrociarsi degli sguardi. Soltanto quando la tensione si sarà sciolta e la madre avrà la certezza del perdono divino nei confronti del figlio, i suoi occhi potranno nuovamente guardarlo e un sospiro di sollievo concluderà la sua lunga attesa.
  • 14. La compostezza della posa e la nobiltà del personaggio sono testimoniati sia dalla ricchezza dell’abito, sia dallo sguardo franco e aperto della donna che fissa direttamente negli occhi chi osserva il dipinto. Questo splendido ritratto riesce quindi a comunicarci, oltre alle fattezze fisiche della donna, anche il suo mondo interiore ed unisce quindi, all’abilità della riproduzione fedele dei tratti, anche un’acuta indagine psicologica. Volendo fare un accostamento coi testi letti, viene da pensare alla madre di Cecilia per la compostezza che dimostra nel dolore e per la nobiltà sia dei sentimenti che del portamento. BRONZINO (Monticelli, Firenze 1503-1572), Ritratto di Lucia Panciatichi, 1540, Firenze, Uffizi
  • 15. Così sei tu Al mondo tu Tu che accendi La mia vita Tu sei per me Chi immaginai Speravo in te Sognai il tuo nome Così sei tu Al mondo tu Sei il mio bene Il dolore Nessuno amai Come amo te Nessuno avrò Così vicino… E va Questo amore Come fa la musica Fermi il tempo e fermi le parole Così sei tu Al mondo tu Solo tu Questo amore… Respirerà Resisterà Come fa la musica Fermi il tempo e fermi le parole Così sei tu L’immortalità dell’amore e la sua capacità di fermare il tempo anche in questa canzone, come in altre opere già viste, sia letterarie che artistiche AMEDEO MINGHI
  • 16. EGON SCHIELE (Tulln 1890 - Vienna 1918) Lo stravolgimento di ogni dato oggettivo, sostituito dall’accentuazione di alcuni tratti somatici, come gli occhi, sproporzionati e giganteschi rispetto alle dimensioni del volto, o il colore bianco della pelle che contrasta col nero dell’abito e dei capelli, danno a questo volto un’espressività drammatica, quasi spettrale. La donna, più che a un essere vivente, rimanda all’idea di un teschio per l’estrema magrezza delle forme e per la geometricità dei tratti. Lo stesso sguardo ha una fissità angosciante. 1912- volto di donna
  • 17. il mattino si è svegliato e disteso s'è contro il cielo mentre il prato si è sposato già a uno spicchio di sole più in là ed un passero tutto intento a beccar qua e là tra il frumento e la nebbia lenta sale su e lo stagno non dorme già più e la luce ritrova i colori tra le foglie dei vecchi filari mi sento vero come questo cielo chiaro e un pensiero torna dolcemente dentro la mia mente e soffiare piano piano su quel fiore lì così strano e pensare mentre soffio che sembra neve ma neve non è e poi correre quasi volando tra i papaveri mossi dal vento mi sento vero come l'aria che respiro e un pensiero sempre più impaziente dentro la mia mente il mattino si è svegliato e mi accorgo che voglio te ... La canzone prende le mosse dal risveglio della natura e della vita, rappresentato dal mattino: da notare le personificazioni del “mattino che si distende contro il cielo”e del sole. La vita è in gran fermento: un passero è già intento a beccare, la nebbia arriva, il cielo si fa chiaro, anche lo stagno si risveglia e la luce, riflessa in mille colori dai filari illumina cose e persone. CLAUDIO BAGLIONI – IL MATTINO S’E’ SVEGLIATO
  • 18. In questo ritratto di donna i colori complementari dello sfondo e dell’abito creano un forte contrasto, mentre il viso, ridotto a pochi tratti essenziali, viene anch’esso attratto nella tonalità verde dello sfondo, sulla quale campeggiano i grandi occhi neri, dallo sguardo magnetico. JAWLENSKY ALEXEJ (Torjok 1864 - Wiesbaden 1941) Ritratto di donna
  • 19. Ti stai sbagliando chi hai visto non è non è Francesca Lei è sempre a casa che aspetta me non è Francesca Se c'era un uomo poi no, non può essere lei Francesca non ha mai chiesto di più chi sta sbagliando son certo sei tu Francesca non ha mai chiesto di più perchè..lei vive per me Come quell'altra è bionda però non è Francesca era vestita di rosso lo so ma non è Francesca se era abbracciata poi no, non può essere lei Francesca non ha mai chiesto di più chi sta sbagliando son certo sei tu Francesca non ha mai chiesto di più perchè..lei vive per me LUCIO BATTISTI – NON E’ FRANCESCA (1943-1998) L’amore deluso che non accetta il tradimento, che continua a sognare e ad illudersi e a negare persino l’evidenza. Ma come un tarlo il dubbio cova e lavora nell’animo