Quel 27 gennaio mio papà mi ha liberata dalle zavorre della nostalgia; mi ha permesso di accettare la mia identità composta da due anime, da due culture, da due patrie: non potrei consistere senza una delle due.
Storia di un reduce dai campi di sterminio nazisti, fra i molti che racchiude, è questo forse il messaggio conclusivo del libro memoria-romanzo di Centonze. Quello che condensa i caratteri del suo animo esuberante e mette in luce il legame profondo con il padre. Legame che non è banale attaccamento al genitore preferito, ma elogio della paternità – il senso acuto della responsabilità sopravvissuto in uomo pur così ferito e segnato da una esperienza atroce - e della maternità. Perché Cosetta (colei che scrive in prima persona) l’ha preso veramente per mano, come quei bambini che si sono persi in un contesto non più familiare, e che il sentimento materno spinge a raccogliere per “riportare a casa”. Rapporto unico ed esemplare sul quale fiorisce come sentimento maturo il perdono di Lui ai suoi aguzzini e la sapiente - sperimentata sulla sua carne - fraternità di Lei.
3. Caro
papà sta notte ti ho sognato: non
accade spessissimo; per lo meno non così
spesso come vorrei.
Nel sogno camminavamo insieme e tu eri così
giovane che stentavo a starti dietro.
La tua “vita” mi è apparsa così piena che quasi
ero offesa che tu non mi chiedessi niente di noi:
dei tuoi adorati nipoti, della mamma, di
Miranda.
“Senti papà…”
Tu
continuavi
a
sorridere:
forse
mi
incoraggiavi?
“Senti papà…”
Ma l’espressione del tuo viso era così appagata
che non ho avuto il coraggio di dirti niente.
Al risveglio ho riletto una tua lettera dalla
prigionia e le informazioni che ho avuto
attraverso il sito degli schiavi di Hitler:
“Lo stammlager VIII B di Teschen si trovava nel
distretto militare di Breslau (Breslavia) in
Polonia; il nome attuale dovrebbe essere
Cieszyn.”
Caro papà, non so dove tu ti trovi, ma sono
contenta che tu non sia qui.
Non potevi immaginare, quando ci hai lasciato
17 anni fa, quello che sarebbe diventata l’Italia:
un luogo in cui tutti odiano tutti, dove garbo,
educazione, buoni costumi non contano più
nulla.
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4. La libertà, la giustizia, l’equità, te lo dico in un
orecchio come non ho osato fare nel sogno,
tutto è stato spazzato dalla prepotenza e
dall’ignoranza.
Viviamo in un postribolo in cui chi più calpesta
gli altri, più si fa la ragione.
Be’ sono proprio contenta di non averti detto
niente di tutto ciò.
Forse, papà, con l’indirizzo stretto nella mano
verrò a cercare i segni del tuo passaggio, della
tua giovinezza sacrificata per tutte quelle belle
cose che oggi in Italia non possiamo nemmeno
più nominare.
Cosetta Centonze
figlia dell’aviere Luigi Centonze
matricola 4752 stalag VIII B Teschen
insignito il 27 gennaio 2010 della
medaglia d’onore.
12
9. Nella
nebulosa in cui consisté la mia
coscienza
infantile
si
mossero
suoni,
espressioni, sapori, atmosfere che, soltanto
dopo essere stati etichettati come ricordi, si
composero in una scena coerente: avevo sei
anni e a sera la nostra casa si riempiva di
amici, di compari e di qualche don, tutti venuti
ad ascoltare mio padre che raccontava della
guerra, della prigionia, del ritorno- in gran parte
a piedi- dal lager ai confini con la
Cecoslovacchia- fino a Lecce.
In quegli incontri mio padre Palmiro ci offriva
una razione di quella disperazione assoluta
che, come imparai con il tempo, non le
catastrofi naturali o gli accidenti casuali, ma
soltanto gli esseri umani sanno procurare ad
altri esseri umani.
Quando sembrava che, per quella sera, si fosse
giunti al massimo dell'efferatezza, mamma si
dava da fare ad improvvisare un rinfresco:
tirando sospiri di sollievo, si sgranocchiavano
taralli e si bevevano passiti al tuo ritorno.
Non potevo fare a meno di associare quel
rinfresco al rito del consolo, il banchetto
funebre, che i parenti più stretti e gli amici più
intimi offrono ai familiari di un defunto.
La guerra di mio padre, quindi, si legò alIe
reminiscenze vaghe, ma orrorose dei funerali
17
10. delle mie nonne cosicché quell’amalgama
aveva il sapore stranito di festa macabra.
I più sensibili, tra i presenti, spendevano una
pacca amichevole dicendo:
"Coraggio, Palmiro, ora sei qui: dimentica!"
Mio padre sembrava infastidito da quel richiamo
alla realtà e continuava a rimuginare nomi
stranieri e fatti atroci e si guardava attorno
smarrito fissando i volti, persino quello di
mamma, come fossero estranei e remoti.
Forse capiva di non essere riuscito a farci
varcare il diaframma della realtà per introdurci
nel suo incubo e che per questo era
condannato alla solitudine.
Subito mi rimproveravo per essermi distratta e
provavo l'impulso di farmi avanti e di dirgli:
"Papà, sono qui io: voglio condividere la tua
pena."
Avevo il sentimento, ma non le parole.
Intanto il suo pubblico dava segni di
stanchezza: sbadigliavano, si distraevano,
chiedevano l’ora.
Nonostante i taralli ed il passito, le presenze si
diradarono fino a scomparire.
Palmiro si ritrovò a dover smettere di
raccontare la sua guerra e di cercare amici e
parenti per depositare nelle loro orecchie
distratte e nel loro animo indifferente i
mozziconi di sofferenza, nella speranza che la
condivisione rendesse più lieve il suo fardello.
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11. Così si diede e ci diede ad una vita assai
risentita, fatta di serate silenziose.
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15. In una di quelle serate credo di averti fatto il
primo di tutti i doni che ti ho offerto nel corso
della nostra vita.
Fu quasi involontario: mentre facevo i compiti,
ti incapricciasti di un foglio del mio album da
disegno.
Era perfettamente candido e se ne stava
innocente tra l’astuccio di legno, il libro di lettura
e le matite colorate.
Mi domandai se era possibile che, al pari di te,
anche la grattugia, l’imbuto, il setaccio lo
schiacciapatate e lo schiaccianoci, dall’alto dei
loro appendini, su cui ordinatamente mamma li
schierava, ambissero a quello stesso biancore.
Era, la cucina, il regno di una libertà relativa, il
luogo sulla cui soglia si fermavano gli
interrogativi che mi assillavano nelle altre
stanze:
sporcherò?”
“Danneggerò?”
“Disturberò”?
Era quasi un paradiso, quindi, o un mezzo
purgatorio.
Allora io non conoscevo i concetti né dell’uno,
né dell’altro: sapevo soltanto che lì potevo
rilassarmi un po’.
Avevo scoperto, infatti, che, se leggevo o
studiavo, mia mamma allentava il suo controllo
e così per me leggere e studiare divenne
tutt’uno con la libertà e, quindi, con la felicità.
Io studiavo, dunque, mamma si affaccendava a
23
16. stirare, orlare, rammendare, ricamare o
preparare conserve come il limoncello che era
diventato la sua specialità.
A te era consentito l’accesso naturalmente
durante i pasti e, al massimo, per il tempo di
leggere il giornale.
Così tu ed io, di solito, eravamo nella stessa
posizione: a testa china sulle pagine stampate.
Talvolta provavo a darti una sbirciatina per via
del sospetto che entrambi ci proteggessimo in
quella trincea di carta dalla sola idea di
sporcare o disturbare o dall’urtare le regole
ferree della signora del limoncello.
Quel giorno messo via il giornale cominciasti a
girare attorno al tavolo e già una certa
insofferenza si insinuava nel silenzio della
signora del limoncello.
Io, torturata dall’una e dall’altra, inquietudine
tua ed impazienza sua, speravo che tu ti
preparassi per tornare a lavoro, in ufficio –
come mamma preferiva si dicesse- o che lei ti
guardasse con l’espressione adorante che, di
tanto in tanto, prendeva il posto del suo rigore
sorprendendomi come una rivelazione.
La ridda di emozioni e mozziconi di razionalità
mi invitavano ad incamminarmi su un terreno
enigmatico in cui l’incompiutezza dell’infanzia
indovina l’esistenza delle contraddizioni degli
adulti.
Sapevo che in presenza della signora del
limoncello controllavi la tenerezza che provavi
24
17. per me e nascondevi l’intimità nata dalle nostre
affinità.
Se mi ammalavo ti fermavi sulla soglia della
mia camera, occhieggiando il mio letto e
scuotevi la testa con una espressione ansiosa
che cercavi di correggere in una smorfia di
sorriso con l'intenzione di fare coraggio: non so
se a me o a te stesso.
Al massimo mi concedevi e ti concedevi
qualche carezza nei giorni migliori, quando non
gravava su di te quella egritudine spessa che
intorbidiva la casa non appena facevi ritorno da
lavoro.
Così il tuo tessermi attorno una sorta di tela,
come se mi cercassi o volessi qualcosa da me,
mi scombussolava allegramente.
Finalmente mi chiedesti:
"Che lezioni hai, Cosetta?"
"Devo disegnare l'autunno."
Tacesti e osservasti il mio disegno che
presentava tutte le stigmate della malinconica
stagione:
"Bello! Hai visto Prisca?"
Ti rivolgevi a mamma, ma continuavi però ad
accarezzare con tenerezza l’album bianco.
E poiché in certi tuoi atteggiamenti eri scoperto
come un bambino, ti trattai da coetaneo; te lo
offrii:
"Lo vuoi? Te lo do."
Ma erano tempi in cui la parsimonia, e non lo
spreco, regolava l'andamento domestico e mia
25
18. madre intervenne:
"Lasciaglielo Palmiro: ne avrà bisogno per
un'altra volta!"
Tu, deluso, ritirasti la mano ed io, mortificata
per te, mi impicciai per dartela vinta:
"La maestra ha detto che il mio album ha i fogli
troppo lisci per il disegno ornato.
Me lo ripete ogni volta ed io mi vergogno."
Mia madre mi rimproverò:
"Perché non me lo hai detto subito? Sarei
andata da donna Rirì a farmelo cambiare.
Adesso toccherà comprarne uno nuovo."
Prosperava la bottega di donna Rirì, situata nel
cuore più antico della città dove noi bambini
crescevamo nel recinto di monumenti ocra,
tenacemente protetti da ogni contatto con la
vita e la natura.
Allora, il tempo non esisteva. La sua scansione
era lenta e i cicli si confondevano in un'armonia
rassicurante.
La bottega era un emporio pieno di ogni sorta di
mercanzia: dalle ferramenta ai casalinghi, alla
chincaglieria e ai sacchi di coloniali.
In disparte, sugli scaffali più alti, si custodivano
oggetti di cancelleria e qualche articolo da
speziale come chiodi di garofano, mignatte,
citrato.
In certi pomeriggi ascoltavamo il battibecco tra
l'emporio e la pioggia: questa cercava di
persuadere quello a prendere una sfumatura
grigia e smorta, ma l'emporio non se ne dava
26
19. per inteso e con i colori delle sue mercanzie
costringeva all'allegria il suono di lei: cric scip,
cric scip come il frizzare dei chicchi di citrato
nelle nostre bocche e il ritmo delle natiche di
donna Rirì.
Mia madre intratteneva con tutti gli esercenti
una sorta di sfida; partiva nelle mattine, ancora
libere da incrostazioni di scippi, con la borsa di
rafia ed il borsellino con la chiusura a scatto per
la sua quotidiana missione: ridimensionare i
prezzi del mercato.
Prisca era abilissima a dimezzarli e a dare loro
un'ulteriore sforbiciata.
Quindi se ne tornava, tutta un trionfo, con le
masserizie per la nostra famigliola nella sporta
e il borsellino, stretto nell'altra mano, ancora
mezzo pieno.
Tra tutti gli esercenti donna Rirì aveva accettato
giocosamente quella sfida con mia madre ed
erano diventate amiche.
Per questo io, Cosetta, mentre sedevo su uno
dei sacchi di coloniali assieme ai bambini del
vicinato, mi sentivo a mio agio più degli altri
compagniucci.
Trascorrevamo gran parte di quella felice
condizione a meditare sulla natura dei chiodi di
garofano, delle mignatte e del citrato che
debellavano tutti i malanni del rione in cui
regnava una salute fiorente.
Quando non c'erano clienti, donna Rirì si
metteva in ascolto delle nostre fantasie
27
20. scambiando qualche sorriso con Porfirio, il
pappagallo sapiente che abitava la gabbia
appesa vicino al finestrone.
Un tentativo dopo l'altro, carpendo nozioni dal
sussidiario e nomi da racconti di filò e dalle
conversazioni degli adulti, componemmo una
leggenda.
Totò parlò di terre lontane, vulcaniche - precisai
io - in cui sbocciavano garofani di straordinaria
bellezza; ma - deliberò Maria Venusta destinati ad un'esistenza brevissima.
Le proprietà medicamentose dei loro stami
potevano essere preservate dalla corruzione
purché, notte tempo, uomini pietosi come
eremiti- aggiunse Vincenzo - li cogliessero, ad
uno ad uno, per consegnarli a chi ne avrebbe
rifornito le botteghe del mondo.
Quanto alle mignatte io dissi che abitavano in
abissi azzurrini in cui muovevano con felice
agilità la loro massa diafana.
Anche esse, come i garofani, potevano essere
portate in superficie solo da palombari prescelti.
E seguivamo, sognando di uscire dal recinto
barocco, carovane avvolte da rena, e navi che
veleggiavano fino a noi con il loro carico
salvifico.
A quel punto la proprietaria dell'emporio
decideva che la nostra innocente fantasia
andava salvaguardata e gettava un panno sulla
gabbia di Porfirio, fonte di tutte le verità più
sguaiate o sgradevoli, che si metteva a
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21. gracidare:
"Mannaggia bah! Mannaggia bah!"
Quelle interruzioni ci impedivano di procedere
nelle nostre indagini a cui ogni volta
aggiungevamo un particolare.
"E il citrato?"
Chiese Sarina impettita nella sua curiosità.
Il citrato curava le intemperanze mangerecce
degli adulti, ma era anche il dono che ci
consolava da un eventuale bernoccolo, dava
sollievo a mal di pancia ed emicranie; curava
svogliatezza e capricci.
Proprio a causa dei suoi molteplici utilizzi
stabilimmo che doveva trattarsi di una polvere
magica, monopolio felice della bottega.
Ci convincemmo che a recarlo era l' uomo con il
moncherino
che
veniva
a
raccogliere
periodicamente stracci e cartoni.
Egli scambiava un sorriso ed una strizzatina
d'occhio con donna Rirì e questo ci parve un
segno chiarissimo d'intesa.
Mi distolsi dal pensiero felice della bottega e
della bottegaia per venirti in aiuto.
"Tieni."
Dissi, sospingendo il foglio.
Mamma strinse le labbra in una rima sottile, e
dovette trascrivere sul libro nero che
certamente esisteva riguardo mio padre e me,
quel soffio di alleanza.
Mi guardasti e prendesti il cartoncino
mostrando
una
contentezza
ed
una
29
22. soddisfazione che mi imbaldanzì.
Via, via mi sembrò di capire che ciascuno
viene al mondo diversamente abile; reca con sé
un qualche svantaggio con cui deve fare i conti
e che deve cercare di superare.
Quello di mio padre Palmiro erano i ricordi della
prigionia, durata due anni, in un campo di
concentramento: lì alcuni erano morti; altri se
n’erano fatti in qualche modo una ragione; ma
c’era anche chi ne usciva vivo solo a metà: era
il tuo caso.
Lo dimostravano quel ricascare, nei primi anni
dal tuo ritorno, sulla tua iliade e sulla tua
odissea: le bombe, il lager, le miniere, la
famiglia di Pasian di Prato che ti aveva
nascosto ai repubblichini, che ancora
imperversavano nel nord dell’Italia, l'abbraccio
con tua madre, vedova, che ti aspettava perché
le rare lettere dal lager avevano sostenuto in lei
la speranza del tuo ritorno.
Eri ancora prigioniero nonostante lo scorrere di
avvenimenti felici: il matrimonio con Prisca che
ti aveva atteso anche lei, la mia nascita, la vita ,
insomma, che si prendeva la rivincita sulla
guerra e la morte, ma che non riusciva a
cancellare, o almeno a mitigare le sofferenze,
gli orrori, le iniquità patiti da te.
Capivo che quello era lo svantaggio con cui
avresti dovuto fare i conti tu.
Ed io che ruolo potevo avere?
Quello di una guida ignara di un viandante
30
23. accecato dal dolore?
Mi sembrava un compito così dolce che non ne
coglievo la sproporzione velleitaria e diventavo
sempre più determinata nel pretendere di
salvarti specialmente dopo aver attinto serenità
nella bottega di donna Rirì e nella lettura.
Dopo il regalo del cartoncino da disegno, Prisca
iniziò a ricamare una tovaglia a punto
rinascimento sciorinando i suoi volumi di lino
su spalliere e braccioli di sedie quasi che
volesse ristabilire la sua sovranità sul focolare e
prendere le distanze dai nostri capricci infantili.
Mentre intagliava il candore del lino, cercava
forse un motivo per perdonare la nostra
scapataggine?
Era solitudine anche la sua?
Da quel momento tu ed io avemmo il tavolo
tutto per noi.
Cominciasti a prendere misure con una
precisione che rasentava la pignoleria, ed io mi
domandavo cosa progettassi.
Qualche sera dopo mettesti fuori due boccette
di inchiostro di china, una rossa e una blu.
Mamma si fece più indietro per proteggere la
tovaglia da quei due colori minacciosi e ti
domandò:
“Da dove esce fuori quell’inchiostro? Non lo
avrai portato a casa dall’ufficio?
E se ti scoprissero? E se prendessero
provvedimenti contro di te?
E se ti licenziassero?”
31
24. Non rispondesti. Scrollasti le spalle per
scacciare quelle domande che incrinavano la
tua meditazione.
Alla parola licenziamento, il cuore mi diede un
tuffo; rividi l’immagine del libro di lettura che
rappresentava un accattone.
Per educarci all’idea che il lavoro e non il gioco
è degno dell’uomo, la didascalia spiegava che
quella era la fine che meritava chi non si
assoggetta a tale norma.
Ma mi ostinai nel persistere a condividere
quella novità che mi faceva toccare vertici di
ebbrezza: la tua giocosa incoscienza.
Così le serate presero un nuovo andamento:
lettura, ricamo, inchiostro di china.
Forse l’ipotesi che la donna del limoncello
aveva fatto riguardo alla provenienza
dell’inchiostro e le ombre spaventose che
questo aveva fatto addensare sulle nostre
teste, ti rendevano esitante nel dare inizio
all’utilizzo del foglio.
Una sera Prisca disse:
"Verrà fuori una bella scacchiera."
Finalmente avevo scoperto a cosa serviva il
mio cartoncino e mi sorprese che mia mamma
lo dichiarasse con tanta sicurezza mostrando di
conoscerti bene, meglio di me.
Prisca aveva deciso di interpretare il tuo
capriccio come una sua vittoria: grazie a questa
tua bizzarra occupazione, infatti, non avresti
passato le tue serate in balia di uno dei tuoi
32
25. “vizi”, il gioco, che ti tratteneva, di sera e la
domenica mattina, al dopolavoro.
Erano sere in cui Prisca rimproverava persino il
mio respiro, benché cercassi di diventare
invisibile e di farmi scudo con i libri de “La Scala
d'oro” .
In realtà, invece, ero tutta tesa a cogliere dalla
strada i segni del tuo rientro.
Quanto più il tempo passava, più Prisca si
faceva scura in volto e più io dovevo lottare con
il mio intestino.
Ora, invece, questa idea della scacchiera ti
aveva strappato al cral.
La signora del limoncello canticchiava a mezza
voce ed io mi sentivo fiera del dono che ti
avevo fatto e che per la prima volta sembrava
darti ad un’attività.
Apparivi proprio contento: fischiettavi mentre ti
dedicavi con impegno alle misurazioni con
squadra e riga e precisione maniacale.
Quando tornavi a casa mi prendevi in braccio
per baciarmi: cosa di cui ti credevo incapace e
che mi dava una felicità assoluta come quando
vi sorprendevo a scambiarvi tenerezze.
Furono i giorni in cui fui quasi bambina.
Tuttavia ero sempre vigile e spiavo il tuo ritorno
dal lavoro già esperta a decifrare il tuo umore.
Ma la scacchiera fece progressi, nonostante il
tuo perfezionismo.
Ora il cartoncino bianco era solcato da linee
nere perfettamente incrociate.
33
26. Ti preparavi a passare le mani di inchiostro sui
quadrati, ma esitavi: una sera il pennino non ti
sembrava idoneo e impiegasti tempo alla
ricerca del pennino perfetto disdegnando la
bottega di donna Rirì.
Un'altra sera provavi e riprovavi le mani di
colore su un foglio a parte, ma il blu ed il rosso
non ti convincevano.
Prima di andare a dormire riponevi boccette e
pennini in una scatola a scatto.
E quello scatto convinse Prisca e me che anche
le boccette d’inchiostro provenivano dall’ufficio.
Era un furto?
Sembrava di sì da come mia mamma
nascondeva la scatola sotto vecchie coperte.
Dunque qualcuno avrebbe bussato in pieno
giorno, anzi nel buio della notte per accusarti di
quella appropriazione indebita?
Attribuivo quella preoccupazione anche ai miei
genitori specialmente nelle sere in cui tornavi
ad essere cupo e ti tenevi lontano dal
cartoncino.
Mia madre, forse consapevole delle nuove
paure di cui ti aveva caricato, girava la
manopola della radio e tutta la vita, che
scorreva fuori dal nostro modesto consistere, si
precipitava nella stanza con i suoni sguinci, i
sibili, le parole straniere, la musica, le canzoni
di Gino Latilla.
Quando Prisca si accorgeva che né io leggevo,
né tu disegnavi, smetteva di ricamare,
34
27. spegneva la luce del lampadario e ci
lasciavamo ninnare dall'occhio giallo della
radio.
Tuttavia il ristagnare del tuo lavoretto cominciò
ad incrinarmi il piacere che mi dava la lettura de
"La leggenda dei Nibelunghi".
Ne ero distolta per tornare a prendermi cura di
te e del tuo malumore.
Cercai in qualche modo di sollecitarti.
Ti chiedevo:
"Mi insegnerai a giocare a dama?"
Facevi segno di sì ma, con i pugni alle tempie e
i gomiti sul tavolo, continuavi ad osservare il
cartoncino fino a quando mia madre stabiliva
che era ora di andare a dormire.
Dal mio letto, che occupava una parete della
sala e che, di giorno, fungeva da divano, mi
mettevo in ascolto sperando- giacché i bambini
sanno tutto dell'amore anche se poi lo
dimenticano e qualcuno insegna loro cose
sbagliate- che fosse il corpo di mia madre a
darti una felicità maggiore di quella che avevo
creduto avresti trovato nella scacchiera.
Il cartoncino abbozzato, tuttavia, continuava a
suscitare in te attenzione e studio giacché ti
intrattenevi di fronte a lui, appena potevi, ma
sempre perplesso.
Dovevo assolutamente mettermi alla ricerca di
un altro dono che ti rasserenasse!
Una breve tregua la conoscemmo la volta in cui
tornasti, al limite del crepuscolo, con un pacco
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28. di cibi vinti in una riffa tenuta da un venditore
ambulante.
Giocare e vincere, anche cose modeste, ti dava
un'esaltazione e ti ringalluzziva contro la
malasorte da cui ti sentivi perseguitato.
Per questo la provocavi con ogni sorta di sfida
e di gioco e ti capitava spesso di vincere, se il
premio era modesto, e di perdere "per un
punto", se c'era in palio qualcosa di valore.
Quella sera mia madre non ti rinfacciò il gioco e
subito allineò i barattoli nella dispensa per
quando ci sarà “l’occasione di figurare”
Ci concesse di aprire. tra tutto il bottino vinto,
la boite di sottaceti e si bevve.
Persino a me era stato concesso un dito di vino
e quel liquido rosso e profumato mi donò
un'allegrezza immotivata.
Tu riprendesti la scacchiera e la osservasti
come se intendessi rimetterti all'opera.
Invece, ti vidi impallidire: mi accostai a te e mi
misi anch’io ad osservare il cartoncino.
Non so come, ti accorgesti di me e mi
accarezzasti la testa.
E sotto le tue carezze vidi quello che vedevi tu:
le linee non erano quelle di un'embrionale
scacchiera, ma le sbarre di una prigione oltre le
quali c'erano i campi brulli, le sentinelle, le loro
grida tedesche, il loro accento aspro, il filo
spinato, i kapò, la punta aguzza delle armi, i
tuoi compagni e tu stesso sospesi tra la vita e la
morte a seconda dell'arbitrio dei vostri carnefici
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29. o l'esito di battaglie che avvenivano lontano per
decisione di uomini a cui era rimasta la voglia di
giocare alla guerra.
Nel corso di serate simili io mi addentrai tra
quelle presenze ostili che riconoscevo grazie ai
tuoi racconti di un tempo, andai oltre ed intuì
alla cieca il dolore, le umiliazioni, le torture, la
disperazione, la nostalgia, la ribellione.
Soprattutto capii come la paura possa
vertiginosamente trasformarsi in terrore.
E da quello passai a sfiorare un altro stato
d’animo tenebroso e più orribile della paura.
Della prima avevo esperienza e potevo
sguazzarci: ci sguazzai assieme a te!
Il secondo, invece, mi era sconosciuto e non
sapevo dargli un nome, ma sentivo tutta la sua
potenza malefica come un mostro pronto ad
imbizzarrirsi se non tenuto d’occhio.
Soltanto quando lessi la riduzione della storia
dei Nibelunghi compresi che era il sentimento
del nano Ninive e di Hagen ed aveva un suo
proprio nome.
Si chiamava odio.
Al momento non lo volli frequentare, ma mi
specializzai nella prima.
La paura era una fosca signora, elegante con la
sua veletta ed i suoi mezzi guanti: ti seguiva
ovunque.
Aveva fermato lo scorrere del tempo, si era
impadronito della tua mente, respirava accanto
a te o attraverso te fino al punto che il seguito
37
30. della tua esistenza il presente e il futuro non te
ne avevano liberato; tutti, di riflesso, eravamo
sotto la sua guardia stretta proprio come il
tesoro dei Nibelunghi custodito dal drago.
Soltanto nei momenti in cui essa mollava la
presa ci era concessa una vita equa con
baluginii di semplice contentezza che pure
alludevano a smerigli iridescenti della felicità
che era lì a portata di mano.
E anche quella sera, mentre noi festeggiavamo
la tua vincita e aprivamo il barattolo dei
sottaceti, facevamo onore alla cena di Prisca, la
fosca signora era rimasta sempre là, in attesa,
con il suo sorriso falsamente triste, giacché
sapeva del proprio trionfo.
A pensarci bene rassomigliava a qualche figura
intravista su un vecchio album pieno di
fotografie sfocate che ritraevano prozie
impettite nella posa di inizio secolo.
Che una di loro, la più corrucciata, fosse
discesa dalla foto per curiosare nella nostra vita
aggrondata quanto lei?
Forse fu il vino che eccitò la mia fantasia, forse
fu il ricordo di una tua lettera scritta dal lager
che Prisca conservava e su cui distrattamente
mi aveva fatto esercitare nella lettura, prima
che tu volessi per me l'acquisto della "Scala
d'oro".
L'avevo
imparata
a
memoria
senza
accorgermene ed ora la richiamavo divenendo
consapevole di quanto tormento c'era dietro
38
31. quelle righe:
Theschen "30/1/44
Mia adorata mamma, a distanza di pochi giorni
ti scrivo nuovamente per darti mie notizie
riguardo alla mia condizione fisica e morale e
sono sempre le medesime.
Ti prego di non preoccuparti e affliggerti per la
mia salute; ti giuro che godo ottima salute, e
ringrazio il Signore che fino ad oggi mi ha
protetto e spero che mi protegga fino al giorno
del mio ritorno a casa. Spesso lo prego che mi
conservi in buona salute la mia cara mamma,
mio unico tormento in questi tristi giorni di
prigionia che noi tutti italiani abbiamo molta
speranza che presto finiranno. Non ricordo di
preciso quante lettere e cartoline ti ho scritto
senza averne ricevuta una che mi dia la gioia e
mi tranquillizzi alquanto di sapere tue notizie e
cioè che la mia cara mamma attende sempre
con fede il ritorno del suo Palmiro. Saluti a tutti;
accludo anche un caro saluto al nostro bel cielo
vivificato dal caldo sole italiano che da queste
parti è molto pigro a farsi vedere.
Tanti baci dal tuo affezionatissimo Palmiro."
La mia intuizione trovava conferme: il tuo spirito
era rimasto imprigionato laggiù nel lager, si
39
32. aggirava in quel labirinto e qui con noi in città,
tra i compari e i don, c'era solo il tuo corpo
sbilenco ed indebolito a causa di quella
scissione.
Era da essa che provenivano il tuo malessere e
le tue angustie.
Fu allora che decisi che avrei trovato la chiave,
il chiavino, il chiavistello che ti avrebbero
restituito intero alla vita, alla realtà, a noi, e a te
stesso.
Tanto più mi sentivo investita da questo
compito quanto più mia madre appariva
inconsapevole di tutto quel travaglio.
D'altra parte c'erano pure momenti in cui
sembravi trasformarti in ciò che avresti dovuto
essere: un giovane uomo pieno di speranze.
Se faccio il conto degli anni, mi intenerisco al
pensiero che allora, quando io avevo sei anni,
tu ne avevi solo trenta: quasi l'età che hanno
oggi i ragazzi quando terminano gli studi
universitari e cercano un'occupazione.
Tu invece a trent'anni avevi già il tuo lavoro di
contabile nella fabbrica di cordami, una moglie
bella, e abile a tirare sui prezzi, e me.
Talvolta avemmo accesso a quegli sprazzi
abbaglianti di vita autentica.
Ricordo una mattina: era estate e c'eravamo
levati presto, spossati dal caldo patito durante
tutta la notte; ce ne andammo tutti e tre al
vicino giardinetto pubblico e come spuntino
avevamo una confezione di biscotti.
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33. C'erano i viali curati del parco, c'erano le siepi,
c'erano le panchine, c'eravamo noi tre, c'erano i
wafer e non c'era la paura.
L'aveva forse messa in fuga il sole che saliva
dall'orizzonte, arroventato e trionfante su ogni
sorta di bruma?
Siamo stati felici: l’ armonia che aleggiava su
tutti e tre era parimenti percepita.
Non so dire se è stata l'unica volta o l'ultima
volta che ci capitò quella perfetta condizione.
Mi sembra, tuttavia, che, subito dopo il miracolo
di quella mattina, mia madre moltiplicasse le
visite alla sua famiglia.
Di rado ai tuoi racconti erano state presenti le
zie, sorelle di mia madre.
Si diceva che fossero molto impressionabili e
preferivano evitare quegli incontri, anzi
silenziosamente rimproveravano il cognato di
scuotere i loro nervi.
Le sorelle di Prisca, due nubili e una vedova,
erano diventate la tua famiglia, poiché non
avevi fratelli; le zie, però, trovavano da ridire sul
tuo modo di vivere.
Prisca sarebbe stata una donna semplice e
concreta con tutte le qualità migliori di una
popolana, se le sue pretenziose sorelle non
l'avessero condizionata.
Inoltre, mamma era più giovane di parecchi
anni rispetto alle altre tre che a me apparivano
decrepite e tanto dissimili da lei.
Zia Naida scuoteva la testa e stringeva le
41
34. labbra avvicinandosi di più al telaio del filet.
Zia Estrella, la modista, elencava:
"Il gioco al cral, il fumo, il calcio. Io che, per via
del negozio tratto con le migliori famiglie di
Lecce, temo di fare una cattiva figura a
riconoscerlo come cognato."
E zia Renata:
"Mio marito, buon anima, dispiaceri così non
me ne ha dati mai!"
Di nuovo zia Estrella:
"Ma si rende conto del cattivo esempio che dà
alla figlia?"
Mia madre accennava di sì ed io mi intenerivo
sulla tua innocenza mascherata di vizio e mi
stupivo che Prisca desse loro ragione: non si
ricordava più dei baci che vi davate, di quando
vi lasciavate cadere sul letto corpo contro
corpo?
Senza malizia mi domandavo se mai le zie
fossero avessero giaciuto nella tenerezza
avvolgente di un altro corpo.
Mia madre percorreva la strada del ritorno,
gonfia di risentimento nei tuoi confronti,
strattonandomi.
A casa mi rifugiavo di nuovo nei libri per
cercare di non sentire gli sbatacchi delle pulizie
che la signora del limoncello accompagnava
con un silenzio carico di rabbia.
Quando aveva terminato di rassettare,
accendeva la radio, ma ora dava un’occhiata
all'orologio ora alla tua cena lasciata in caldo.
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35. Infine sospirava spegneva la radio e andavamo
a dormire.
O meglio mia madre si addormentava ed io
aspettavo sveglia, immobile sotto le coperte, il
tuo ritorno dal dopolavoro.
Tiravo un sospiro di sollievo quando ti sentivo
arrivare; ero quasi tentata di abbandonarmi,
finalmente, al sonno e, tuttavia, i miei sensi
continuavano a seguirti mentre ti aggiravi in
cucina e riscaldavi la cena che stava lì ad
aspettarti e a rimproverarti.
Al mattino le tue accurate abluzioni ti portavano
via troppo tempo per mettere le carte in tavola,
quindi la discussione avveniva il giorno dopo,
all'ora di pranzo.
Prisca riferiva la conversazione avuta con
quegli oracoli delle mie zie.
"Estrella ha detto... Renata non sa cosa dire...
Naida pensa..."
Tu ti chiudevi in mutismo o scendevi in cortile e
facevi a gara con i ragazzi del vicinato nel tirare
pallonate che si sentivano in tutto il rione.
Io mi facevo piccola, piccola per il disagio
mentre Prisca tratteneva il pianto in una smorfia
e affettava le verdure per il minestrone serale.
Non c'era verso che su quell'argomento si
facesse pace.
Giungeste al punto di farvi dispetti.
La domenica tu cominciasti a tralasciare la
visita alle tue cognate che avveniva di regola
dopo la messa.
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36. All'uscita dalla chiesa ci lasciavi sul sagrato
senza complimenti.
Mia madre in ghingheri, ma con il pianto che le
andava su e giù nella gola ed io, nel vestitino
con il corpetto a nido d'ape e la collana e il
braccialetto d’oro, andavamo da sole dalle zie
che non facevano commenti, ma erano tutte
contente per quella nuova prova della tua
scapataggine.
Io mi tenevo pronta, seduta in punta di sedia, a
prendere le tue difese.
E quando lo feci mi alienai per sempre la loro
approvazione:
“Tuttasuopadre!”
Dopo che per diverse domeniche avevi
marinato la visita alle cognate, Prisca credette
bene castigarti.
Tornate a casa mamma cominciò a smettere gli
abiti da passeggio per riporli con cura; e mentre
io stavo per fare altrettanto mi fermò
“Aspetta!” Disse con una luce perfida nello
sguardo:
“Non cambiarti. Devi riuscire!”
Nella fretta di svolgere il suo piano Prisca
aveva dimenticato di togliersi gli orecchini a
forma di stella: io la guardavo e la trovavo
bellissima.
Sempre avevo giudicato mia madre bella, ma
ora, con il suo viso intenso di vendetta, i suoi
occhi neri, i suoi capelli ondulati sottolineati dai
colori vivaci del vestito da casa e gli orecchini a
44
37. forma di stella, mi appariva una visione di
insopportabile bellezza a cui la concentrazione
della sua espressione donava un tocco
inquietante.
La sua richiesta era precisa e dettagliata:
“Vai a cercare tuo padre!
Certamente passeggia con qualche collega e
va da un bar all’altro: beve troppo caffè fino a
diventare nervoso… nervoso con le zie.
Se mi darai ascolto non ti perderai; basta che ti
punti in mente le edicole: qui di fronte c’è quella
della Madonna delle ciliegie che conosci bene;
volta a destra fino a giungere all’edicola di San
Vito; prendi sempre alla sua destra e prosegui
fino all’edicola della Madonna di Montevergine
nella corte dei Patarnello.
La corte sembra senza sbocco, ma se osservi
bene, vedrai che alla sua sinistra si apre un
vicolo, imboccalo e percorrilo tutto: ti troverai in
piazza Sant’ Oronzo.
Sbircia in tutti i bar che si affacciano nella
piazza.”
Tacque per un po’:
“Ti sembra complicato? Si tratta soltanto di tre
nomi: Madonna delle ciliegie, San Vito e
Madonna di Montevergine; sei brava a scuola,
impari presto.”
“ E se non lo trovo?”
Prisca si incupì, mi volse le spalle forse per
nascondere la sua amarezza, forse per non
ammettere la mia inadeguatezza di fronte al
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38. compito di cui mi investiva e rispose
seccamente:
“Allora cercalo al cral: sai come arrivarci dalla
piazza.”
Sedette sulla sedia eccitata e contenta:
“Mi raccomando, devi tornare con lui. Inventa
qualcosa...digli… digli che mi sento male.
Vai!
Ricorda: la Madonna delle ciliegie, San Vito e la
Madonna di Montevergine; ripeti i nomi mentre
cammini!
E, mi raccomando, non chiedere informazioni a
nessuno.
Con la scusa di venirti in aiuto, un giostraio
potrebbe portarti via."
Fu un'avventura: anche se Lecce, sul finire
degli anni cinquanta, era una piccola e
tranquilla città in cui i bambini crescevano di
norma per le vie.
Io stessa mi recavo a scuola da sola ed ero
abituata ad uscire per piccole incombenze, ma
questa era una novità sia per i luoghi, sia per
l’oggetto della ricerca in sé: una bambina alla
ricerca di un adulto da riportare a casa!
Così partii e la città si dilatava e si dilatava di
fronte ai miei passi: i palazzi barocchi con i loro
profili andalusi si stagliavano contro il cielo
perfettamente azzurro; ora scampanava una
chiesa ora un'altra; la gente scemava da un
luogo sacro ad una pasticceria.
Avrei voluto restare per sempre tra la normalità
46
39. di quella allegra confusione, ma mi era stato
dato un compito ed io non ero tipo da mancare
ad un impegno.
Di te non trovai traccia nei bar del centro.
Certo ciò sarebbe stato un duro colpo per
mamma: la conferma delle tue debolezze, dei
tuoi vizi, delle tue colpe.
Provavo qualche remora a cercarti al
dopolavoro che era un posto per uomini, doveimmaginavo- si alzava la voce e si sbattevano
le carte sul tavolo.
“Come in una bettola.”
Questa definizione mi venne da un anfratto
della memoria che accoglieva i commenti acidi
di zia Estrella.
Era mai possibile che mamma, Prisca, la
signora del limoncello, tutte e tre insieme mi
inviassero in un posto simile?
Prisca doveva essere esasperata!
E che figura ci avresti fatto, poi, tu di fronte agli
amici e colleghi riportato a casa per la cavezza
tenuta da una bambina?
Ebbi fortuna; percepii la tua essenza: le scarpe
lucidate perfettamente, il vestito che figurava
sul tuo corpo snello, i capelli ricci sulla testa di
giovane Ottaviano.
E seguii quella scia intravedendoti proprio
mentre giravi l'angolo che portava al
dopolavoro.
O che i tuoi sensi di colpa ti avessero reso
vigile, o che anche tu mi avessi annusata, ti
47
40. voltasti nell'accenderti una sigaretta e mi
scorgesti.
Avesti un momento di esitazione: ma né tu, né
io avemmo il coraggio di essere noi stessi: tu
recitasti la parte dello scapestrato ed io
dell'aguzzino che ti controllava.
Mi sono seduta su una panchina di Piazzetta
Santa Chiara in attesa.
Le porte a vetri del cral ci permettevano di
sbirciarci.
Tu giocavi a scala quaranta ed io, per passare il
tempo, ripassavo a mente la lezione di storia
per il giorno dopo.
Esitavo tra Orazio Coclite e Muzio Scevola e
la”cavallina storna”.
La poesia con la sua cantilena era più adatta a
rilassarmi, come la ripetizione monotona di un
rosario permette di allontanarsi verso confini
atemporali.
Arrivai a giudicare con severità quel padre così
sbadato da lasciarsi uccidere.
Tuttavia ti limitasti ad una sola partita; venisti
fuori e non sapevi dove dirigere il tuo sguardo.
"La mamma sta poco bene."
Ti dissi mentre mi passavi davanti.
“Ah sì? Poteva chiamare le sue sorelle invece
di mandare una bambina della tua età a
cercarmi tra pericoli di ogni specie!”
Camminavi rapido come se la notizia ti avesse
messo in apprensione o forse fu un mero
dispetto perché io non camminassi al passo
48
41. con te.
Mi rassegnai a starti dietro.
In verità, di tanto in tanto, ti soffermavi ad
allacciarti una scarpa o ad accenderti una
sigaretta cosicché riuscivo ad accorciare le
distanze, ma non potei mai camminarti alla pari.
Nel tragitto mi domandai se a casa avrei
assistito ad una catastrofe: che peccato che
fosse domenica e la bottega di donna Rirì non
potesse offrirmi un rifugio!
"Che ti senti?"
Chiedesti bruscamente a Prisca, ma non
aspettasti nemmeno che lei rispondesse e
aggiungesti:
"Eccomi qua, se è questo che volevi! Non ti
venga più in mente di mandare Cosetta in giro
per nulla.
Io non mangio; tra poco passa Nino e andiamo
a vedere la partita."
“Benissimo- disse Prisca- anzi di bene in
meglio! Dove arriverai di questo passo? Dove ci
precipiterai?”
Tu non rispondevi e anzi mettevi tutta la tua
cura nel prepararti ad andare allo stadio.
Ci furono altre scaramucce, altre coalizioni tra
le sorelle per salvarti dal cral e da tutti i tuoi altri
innumerevoli vizi.
A volte ti rimettevi davanti al cartoncino della
scacchiera che era rimasta incompiuta e facevi
orecchio da mercante alle critiche che Prisca ti
riportava.
49
42. Non so di cosa tu avessi più paura: se di quello
che vedevi nella scacchiera o del clima di
rimbrotti continui che si stava creando attorno a
te.
Di lì a poco a Prisca venne la smania per la
casa nuova.
Bastava che un'amica o un'ex compagna di
scuola andassero ad abitare in un quartiere
50
43. nuovo, frutto della ricostruzione che ferveva nel
dopoguerra, che lei cominciava a parlartene:
"Se si facessero un po' di economie, se tu
smettessi di buttare il denaro per il gioco, per
andare allo stadio e per le sigarette, potremmo
anche noi… magari con l'aiuto delle mie sorelle
che sarebbero dispostissime se solo tu fossi un
po' più rispettoso... potremmo lasciare questa
vecchia casa piena di topi."
Prisca sbandierava la trappola che di tanto in
tanto conteneva un sorcetto.
“Vendendo questa casa ricaveremmo qualcosa
per l’anticipo.”
“A vendere questa casa non ci penso proprio: ci
sono nato, qui mia madre ha atteso il mio
ritorno.”
“Non per questo è diventata monumento
nazionale.”
Non facesti caso alla rispostaccia di mamma, ti
rivolgesti a me carezzevole:
“Neanche a te, Cosetta, piace abitare qui?”
“Per me è bellissima.”
Certo la signora del limoncello pensò che
volessi farle un dispetto, ma io spiegai:
“Mi piace per via delle due terrazze: quella
dopo la prima rampa, piena di piante di
gelsomino; e poi quella più in alto dove stendi il
bucato, le lenzuola che sbattono come
volessero afferrare il cielo.”
Per quel giorno mia madre lasciò perdere, ma a
pena si presentava l’occasione tornava a
51
44. battere quel chiodo.
Anche il semplice piacere di una passeggiata ci
fu guastato dalla vista di cantieri che ponevano
le fondamenta.
Forse fu per questo che un giorno decidesti di
non alzarti per andare a lavorare?
Quando mamma venne a chiamarti, ti rivoltasti
nel letto e le dicesti di avvisare in ufficio.
Io, che frequentavo il turno di pomeriggio, fui
mandata alla fabbrica di cordami con un
bigliettino per l'usciere che a sua volta
avvisasse che eri in malattia.
Di fronte all’ingresso degli uffici esitavo a
rivolgermi all'usciere.
Stavo là tra il vai e vieni degli operai e degli
impiegati temendo e sperando che qualche
collega di mio padre mi riconoscesse e mi
venisse in aiuto.
Fu l'usciere, invece, che si accorse di me; mi
osservò un po', infine si decise ad affacciarsi:
"Ehi tu, bambina, che c'è?"
"Sono la figlia del ragioniere."
Ma lo dissi a voce tanto bassa che l'usciere
dovette ripetere la domanda.
Ogni volta io provavo ad alzare un po' la voce,
ma egli dovette venire fuori dalla guardiola, mi
alzò il mento e si fece ripetere il nome.
Disse- “va bene”- prese il biglietto e aggiunse,
non so se per rispetto a te o per tenerezza nei
miei confronti:
"Fai attenzione per strada."
52
45. Quando venne il dottore per la visita fiscale
facesti molto bene la parte del malato tanto che
il medico trovò un'etichetta- "Esaurimento"- e ti
diede tempo due settimane per guarirne.
Mia madre, in cucina, a voce bassissima mi
mise a parte del vergognoso segreto:
"Non ha niente; è solo un lavativo.
Se la mia famiglia sapesse... mia madre,
buonanima, aveva ragione: un giocatore e un
fannullone è..."
Io invece pensavo:
"Povero papà: è colpa della guerra, del campo
di concentramento; ah se mamma avesse visto
quello che ho visto io nella scacchiera!"
Ma non osavo contraddirla tanto più che mi
degnava di quelle amare confidenze che mi
spingevano a provare pietà anche per lei
Anzi la consolavo, magari portandole da scuola
un bel voto.
Ogni giorno speravo di trovarti in piedi, ma
l’esaurimento ti aveva tolto le forze.
E, mentre donna Rirì saliva a farti due iniezioni
al giorno, mi domandavo cosa sarebbe
accaduto di noi se tu non fossi guarito e se
fossi rimasto per sempre “esaurito”.
Mi recavo a scuola per il turno di pomeriggio
lasciandoti in quella condizione di abbattimento;
mi voltavo per salutare mia madre, che mi
seguiva con lo sguardo dal balcone e a quel
punto la casa e tutta la strada e tutto il rione
subivano una metamorfosi: ogni cosa diventava
53
46. ostile e sconosciuta, e durante le lezioni stavo
con il pranzo sullo stomaco per la paura di
trovare
al
mio
ritorno
un
immane
sconvolgimento.
A casa mi appoggiavo allo stipite della porta
della vostra camera e ti osservavo come facevi
tu quando ero malata io.
Un giorno mi sorridesti ed io mi sentii sollevata.
Quindi cominciasti ad alzarti: ti aggiravi per la
casa tutto scarmigliato e con la barba lunga da
far paura a me che quasi non respiravo, mentre
54
47. mia madre, addirittura, ti parlava di calcio, ti
regalava un pacchetto di sigarette.
Cosicché man mano il tuo malessere si
scioglieva e ricominciavi a parlare, a farti la
barba, a sedere a tavola assieme a noi come
se fossi in convalescenza da una malattia lunga
e seria.
Quella bravata di startene a letto senza un
malanno che fosse misurabile con termometri e
analisi aveva molto impressionato Prisca che,
smarrita, dovette trovare insufficienti i consigli
delle sue sorelle e cercò altre fonti di sostegno.
Lo seppi la mattina in cui, scaduta la licenza per
malattia, tornasti in ufficio tirato a nuovo con il
tuo bel personale ed i capelli ricci domati.
Sentivo che il nostro universo era tornato in
ordine: tu a lavoro da buon padre di famiglia;
mamma sfaccendava e lavorava di ago,
lavorava di ago e sfaccendava.
Io ero incastrata nell’odiato turno di pomeriggio:
odiato sia perché durante la mattinata Prisca mi
obbligava a ripetere ad alta voce ogni lezione
fino a raggiungere una assoluta perfezione.
Oppure dovevo ascoltarne incomprensibili
confidenze, indispettiti sfoghi.
Sia perché il turno pomeridiano, invertendo i
miei ritmi rispetto a quelli degli amichetti, mi
esiliava dalla bottega di donna Rirì e dalla mia
banda di amici con i quali condividevo il mistero
delle pignatte, dei fiori di garofano e,
soprattutto, del citrato.
55
48. Tuttavia i miei genitori erano tornati nel
meraviglioso ordine che li collocava in un punto
preciso e decoroso del sistema solare,
dell’universo, forse dell’infinito!
Da quell’ordine io rimanevo esclusa a causa
della mia infanzia saputa e di tutti quegli
interrogativi per i quali non potevo domandare
consiglio ai miei distratti genitori.
Forse avrei dovuto rivolgermi a Porfirio, il
pappagallo sapiente, per sciogliere nodi ed
enigmi.
La signora del limoncello, dunque, si
arrovellava nella ricerca di un sostegno a cui
aggrapparsi.
E così quella mattina:
“Ascoltami Cosetta.”
Eravamo sedute sul mio letto-divano quando lei
mi spiegò:
“Dobbiamo pregare per tuo padre!”
Annaspai nel gelo che di colpo mi serrò.
“Perché? E’ ancora malato?”
“Mi hanno detto che facilmente potrebbe avere
delle ricadute. L’esaurimento nervoso è così!”
“Così come?”
Mamma faceva di sì con la testa e mi sembrava
che fosse in possesso sia dell’ ineluttabilità di
una veggente, sia della competenza di un
medico.
E continuava:
“E’ qualcosa che ha intaccato il suo cervello per
sempre: la cicatrice c’è e può sanguinare di
56
49. nuovo.
Può darsi che il male non si ripresenti più, ma
può darsi che si ripresenti ancora.”
Ripeté con fermezza:
L’esaurimento nervoso è così! ”
La bellezza del suo volto si era arricchita dello
ardire di una martire pronta ad affrontare tutte
le evenienze di quel tuo stato imprevedibile e
sfuggente.
“Le zie… sanno?”
“Certo! Povere!
Mi hanno ascoltata con gli occhi sbarrati Non
trovavano le parole.
E’ stata zia Estrella, che, lavorando in
modisteria, ne conosce di gente, a spiegarmi il
meccanismo di questa malattia.
Tra le sue clienti ce ne sono di quelle che di
questo male si sono ammalate!
Alcune ci sono ricascate: loro o qualcuno tra gli
amici ed i parenti.
La signora del limoncello rivolse il suo profilo
bellissimo e severo altrove e sospirò:
“Guarda cosa ci doveva capitare.”
Pianse un po’ qualche lacrima silenziosa, poi di
nuovo si rivolse a me.
“Devi sapere che le preghiere degli innocenti
sono sempre ascoltate da Dio.”
Quella premessa mi sembrò una richiesta; una
richiesta più impegnativa del cercarti al cral o
recare all’usciere la richiesta di malattia.
Prisca mi avrebbe imposto di recarmi
57
50. personalmente ai piedi dell’Altissimo che per
me faceva tutt’uno con l’odore dell’incenso della
domenica di Pasqua?
Lei proseguiva ripetendosi:
“Per questo devi essere molto buona! Pregare
per il papà, per la sua salute mentale: Non
immagini quanti di questi malati hanno
sterminato la famiglia nel sonno!
Devi essere buona e… pura! E leggere con
fede una preghiera per il papà.”
Assentii e d’altra parte avrei fatto qualunque
cosa per te e per non essere sgozzata nel
sonno.
Tuttavia Prisca non aveva pace: aveva gettato
un sasso in uno stagno e il suo vortice si
moltiplicava senza trovare un consistere.
Mamma possedeva un libro di preghiere e di
canti sacri ed, ora, a pena poteva lo sfogliava.
Aveva preso l’abitudine di girare per edicole e
chiese e in ciascuna carpiva una preghiera, una
supplica che inseriva tra le pagine del libro.
Schierava i santini e mi chiamava per aiutarla
nella ricerca.
Scoprii che esistevano innumerevoli tipi di
preghiere: per i malati e per gli studenti, per i
moribondi e per avere un figlio, per allontanare
da una casa spiriti maligni, per vincere un terno
e per trovare marito.
Ci dicevamo che non poteva non esistere la
preghiera specifica per conservare la salute
mentale da cui, inoltre, tutto l’ordine costituito
58
51. dipendeva!.
Un pomeriggio domenicale, mentre tu eri allo
stadio, andammo a far visita a donna Rirì.
La saracinesca era calata a metà e quello fu
certamente un segno propizio.
“Se venite per una grattata, siete in anticipo! La
ghiacciaia è ancora vuota! Ci vorranno altri due
mesi per una granatina!”
Ci disse donna Rirì dal fondo della bottega: da
dove iniziava il suo appartamentino.
“Ma capisco dalla tua faccia, cara Prisca, che
non sei in cerca di una granita!”
A me piaceva quel parlare schietto e
contemporaneamente allusivo della padrona
del citrato più di quello schematico della
maestra e del sussidiario che oramai erano
scaduti come fonti di sapere.
“Vedete, donna Rirì, cerco una preghiera per il
cervello di Palmiro, perché non gli venga un
altro esaurimento nervoso!“
Mi aspettavo una reazione arguta, invece
donna Rirì restò tranquilla come se le avessimo
domandato un tot delle sue merci.
“Una preghiera per l’anima o per il corpo?”
Nella mia mente si presentò la pagina del
sussidiario che riproduceva il cervello ed il
sistema nervoso: dove poteva collocarsi quella
benedetta cicatrice in agguato nella testa di mio
padre?
Mamma esitò, poi disse in un soffio: :
“Per l’anima.”
59
52. E sei venuta qui? Pensi che una preghiera
simile esca fuori da un sacco di fagioli?
Prisca sospirò e ripeté ciò che aveva detto a
me:
“L’esaurimento é qualcosa che ha segnato il
suo cervello lasciando una cicatrice e la
cicatrice può riaprirsi. ”
“Allora cerchi una preghiera per il corpo!”
Mamma continuava:
“Può darsi che non sanguini più, ma può anche
darsi il contrario: non si può sapere con
certezza.
L’esaurimento nervoso è così!”
“Come lo sai?”
“Renata che, lavorando in modisteria, ne
conosce di gente, sa per certo che tra le sue
clienti ce ne sono sia quelle che sono guarite
definitivamente da questo male, e chi invece ci
è ricascato.
Loro o qualcuno dei loro amici e parenti.”
“Benedetta Renata! Ti ha fatto proprio coraggio!
Tua sorella si riferiva certamente alle
svenevolezze di gente viziata che fa i capricci e
li chiama esaurimento!”
“No, no: il microbo è attecchito con la fine di
questa guerra come la spagnola attecchì dopo
la prima.
Non dà febbre, diarrea, bronchiti – magari!- ma
è come un bruco che baca una mela che , fin
quando non la giri, ti sembra bella e intatta.”
Prisca quasi s’impuntava per non perdere
60
53. l’onore di un malanno tanto aristocratico.
Fortuna che donna Rirì con la sua natura
pratica non cascava facilmente nella rete dei si
dice e fu lei a sottoporre Prisca ad un
interrogatorio.
“Ma tu, tu… fai felice Palmiro? Fai felice tuo
marito?”
E donna Rirì aveva nel viso certe movenze
espressive a cui alternava occhiate verso di me
come per tenermi a bada.”
Vidi mia madre arrossire.
“Allora? Rispondi? Non sarà che sei tu il baco, il
tarlo che lo ammorba?”
Prisca arrossì fino al margine della camiciola.
Era bellissima ed io preferivo lasciarmi cullare
dalla sua bellezza piuttosto che sfinirmi nel
tentare di decifrare quel dialogo inestricabile.
“Abbiamo già una figlia.”
Disse Prisca abbassando gli occhi.
Donna Rirì:
“Eccolo lì il tarlo, ecco il microbo della seconda
guerra!”
Non capivo il trionfo di donna Rirì, né tanto
meno se in quel trionfo ci fosse dello sberleffo
o dell’amarezza!
“Ragazza mia, fai bene ad arrossire! Di
vergogna, però e non di pudore! Siete belli,
siete giovani, godetevi l’uno l’altra!
Quella delle malattie alla moda è proprio una
malattia!
Renata mi sentirà!”
61
54. “Per carità- interruppe mia madre- per carità!
Se mi siete amica non ditele niente, niente!
Poverelle le mie sorelle mettono da parte le loro
tragedie per sostenermi!”
Porfirio che da un po’ starnazzava, ripeté:
“Mi sentirà, mi sentirà, per carità, per carità”
“Per carità- ripeteva mia madre- per carità ed
era sul punto di scoppiare a piangere quindi
donna Rirì le fece la carità di ricoprire la gabbia.
“Vedi che Porfirio ne sa più di te e delle tue
sorelle della vita!
Quelle tre, con le loro tragedie portate in punta
di naso e messe in mostra di qui e di là, ti
stanno indicando la loro stessa strada.
Sareste una bella quadriglia!”
Prisca oramai piangeva apertamente.
“Ma dico io, vale la pena di avvelenarsi con le
fantasie di ciò che forse accadrà o che non
accadrà mai!
Ma vuoi crescere anche questa qui- e indicò
me- nel vostro clima di gramaglie?
Quale donna non è stata abbandonata o ha
abbandonato?
Quante sono rimaste vedove?
Quante non hanno ricevuto nemmeno uno
sguardo da parte di un uomo?
Io stessa, guardami, sono sempre stata
ignorata da qualunque maschio e sì che tante
altre più brutte di me, più mal fatte di me,
qualcuno che le sposasse lo hanno trovato.
Io niente di niente quasi fossi uno gnomo senza
62
55. sesso.
E perché? Mistero! Fino a quando ho ereditato
la bottega di mio padre ed ho dimostrato di
saperci fare, quando con gli uomini ho trattato
da uomo, ho cominciato ad esistere… anche se
soltanto come bottegaia!
Ma non c’è niente da fare: voi volete il
monopolio del dolore!
Per le vostre tragedie, per i vostri abbandoni,
per i vostri lutti non sono state inventate le
parole!
Ah mamma mia! Che teste!
Ed ora anche tu! Ora ci voleva la malattia
speciale per Palmiro e la preghiera speciale
perché non diventi matto!
Io di preghiere per i matti no ne ho! Ma eccolo il
mio libro con tutti i santi e le preghiere. Te lo
regalo!”
Non avevo mai visto donna Rirì così decisa se
non quando trattava con gli altri commercianti;
Né tanto meno avevo visto ridurre mia mamma
allo stato di una bambina piagnucolosa che si
lagnava per sciocchezze.
Quel rigurgito di dati incomprensibili sulle zie,
poi, mi colpiva proprio per la leggerezza con cui
esse e le loro vicende misteriose venivano
trattate dalla mia amica.
Ma non era finita!
Nello sbattere il libro di preghiere, questo si era
aperto e donna Rirì, obbligata dalla scena da
lei stessa creata ed interpretata, si sporse sulla
63
56. pagina aperta.
“Guarda, guarda tu stessa, ragazza!
Disse con una calma che sottolineava il suo
trionfo.
Guarda la pagina aperta! Sai leggere no? E’ la
preghiera a Sant’ Anna per impetrare un parto
felice. Fai tu.”
Prisca, però era di nuovo padrona dei suoi nervi
e pentita di quel pomeriggio:
“Siete una brava persona, donna Rirì; ma ho
approfittato troppo della vostra amicizia!
Scusatemi il mio sfogo che vi ha scombussolata
fino a farvi dire cose che non pensate delle mie
povere sorelle e di noi tutte.
Il libro di preghiere, poi, mi sembra troppo:
privarvi delle vostre orazioni, alla vostra età.
E poi se non dovesse esserci la preghiera che
cerco io… a che pro?”
Sentivo il veleno della vendetta nelle parole di
mia madre che trattava la signora del citrato da
vecchia esaltata e impicciona.
Ma la mia amica se ne rideva e continuava ad
offrirle la magia del libro di preghiere.
“Il libro è tuo se lo vuoi: io le preghiere le
conosco a memoria e se ne ho dimenticate
alcune vuol dire che non mi riguardavano.
Prendilo, Prisca!
Prova a recitare tutte le suppliche, i tridui e le
novene: qualcosa ne verrà fuori.
Per me, basterebbe un pater, ave e gloria con il
cuore, se proprio ti è venuta questa fissazione:
64
57. potrebbe darsi che curi te più che Palmiro.”
Mia madre non seppe resistere alle potenzialità
magiche del libro di devozioni e lo accettò.
Fu così che, ogni volta che tu uscivi da casa,
Prisca mi faceva recitare una preghiera che si
concludeva sempre con la stessa richiesta: che
tu non perdessi la ragione..
Io obbedivo e pregavo.
Pregavo e pensavo alle sciagure delle zie di cui
avrei voluto sapere di più.
Pregavo e mi accorgevo che, come aveva
suggerito donna Rirì, mia madre ti faceva
contento.
Aveva smesso di addurti ad ogni piè sospinto le
sue sorelle ed usava ogni precauzione per non
urtare la tua suscettibilità.
Capivo che per mia madre lo spaventato
Palmiro si stava lentamente trasformando in un
orco che occorreva blandire più che amare.
Un giorno sembrò che le mie preghiere
avessero raggiunto lo scopo.
Tornasti con la faccia di uno che è uscito da un
labirinto in cui ha arrancato per molto tempo
senza accorgersi che l’uscita era a portata di
65
58. mano.
Avvolgesti mamma in uno di quegli abbracci di
fronte a cui io abbassavo lo sguardo forse
perché non ero abituata e quella perfetta
felicità, o perché d’istinto sentivo che un
abbraccio così portava ad un’unità vertiginosa
per la quale non ero ancora pronta.
Lodasti ogni cibo:
“Ah questi cardi con le patate!
Era da tanto che ne avevo voglia! Come lo hai
capito, Prisca?
E’ l’amore -non è vero?- che fa capire due
persone senza che si parlino!”
“E la loro stagione, Palmiro: ora i cardi sono
saporiti e a buon prezzo.
Questi vengono dagli orti con la terra sabbiosa.”
“Ma non è soltanto questo: anche le patate. Un
sapore di patate così non lo sentivo da prima
della guerra!”
“Patate novelle!”
“Di’ quello che vuoi, ma c’è di tuo: la quantità
dell’olio, del sale, la cottura delle cipolle!”
“Mi fa piacere. Speriamo che la pietanza non ti
deluda.”
Anche Prisca stava al gioco.
“Pensi che ho perduto l’olfatto? E’ così,
Cosetta, tua madre pensa che ho perduto
l‘olfatto.
E allora facciamo un gioco: bendatemi- lasciò le
posate- bendatemi e io vi dirò esattamente che
cosa bolle in pentola.
66
59. Eh ho sentito tutto da quando ho messo piede
in casa: l’odore dei cardi con le patate e l’altro.
Allora mi bendate?”
“Chiudi gli occhi: è uguale.”
Ti dissi io.
Serrasti gli occhi verdi e noi prendemmo parte
al gioco..
“Aaah che aromi, che combinazione di aromi!
Perché una buona cuoca- e tu, Prisca, lo sei
senz’altro- non deve sommare i sapori in una
mappata, un intruglio.
Il piatto cotto bene deve conservare
nell’amalgama i sapori distinti, peculiari!
E’ per questo che la lingua ha papille gustative
diversificate per il dolce, per l’agro, per l’amaro,
per il saporito etc. “
Eri così vitale che io pensavo al potere della
mia innocenza che aveva fatto dirompere quello
delle preghiere; alla fortuna che mi era capitata
di non avere il turno di pomeriggio in quel
periodo; a quella tua allegria in cui mi ostinavo
a percepire, forse per abitudine, uno stridere di
fondo come quando in un cielo perfettamente
sereno ed innocente passa il grido di un’aquila
e subito l’innocenza indietreggia di fronte a quel
presagio di violenza.
“Allora?”
Ti sollecitava Prisca.
“Qui c’è, qui c’è… alloro!”
“Verissimo!”
“Quel giusto che aromatizza.”
67
60. “E poi?”
“C’è l’olio del compare. E sì questo è olio
padronale! Non è un olio che si può comprare
ovunque.
E’ un privilegio di cui si gode per via dei
compari generosi.”
“E’ proprio così: il compare è generoso.”
Quella osservazione di mamma ti infastidì e la
scacciasti via come un moscone.
“Sì, sì: l’olio è del compare generoso! E poi c’è
pomodoro, ma non pomodoro qualsiasi, ma i
fiaschettini a grappolo che si conservano nelle
cantine e maturano assieme all’aglio e al vino.
E poi…”
“E poi?”
“C’è sale e pepe…”
Ti divertivi a protrarre il gioco per tenere sulla
corda mamma.
“Che scoperta!”
“Il sale è proprio quello delle saline e non
salgemma…”
“Ma dai…”
“Poi… poi ci sono dei bei tranci di pesce spada
freschissimo!”
Apristi gli occhi verdi e ridemmo tutti: tutti
contenti.
E mangiaste con un gusto, con una lentezza,
commentando e confrontando altri pranzi, e altri
pesci.
“E’ questa la vita- pensavo io- semplice e
naturale.
68
61. Chissà perché la dobbiamo condire con bronci
e dispetti.”
Prisca aveva le mani nella saponata dei piatti,
quella
saponata
che
gliele
segnava
precocemente e che lei curava con creme a
buon mercato.
Tu in bagno ti preparavi a tornare a lavoro.
Io non avevo bisogno di trincee di libri e
continuavo a gustare il sapore del pece spada
insieme alla gioia del pomeriggio che avrei
trascorso tra i sacchi di coloniali fino al
prossimo turno pomeridiano.
Tutta quella serenità finì con l’eccitarmi e darmi
un’agitazione febbrile in cui quasi sragionavo:
“E adesso cosa accadrà?”- pensavo- “Fino a
quando resisterà questa armonia? Che cosa la
cancellerà?”
Forse ero troppo abituata alla tetraggine, forse,
come un nano vetusto, soffrivo di preveggenza:
fatto sta che di fatti ci fu uno scotto.
Mi baciasti e accarezzasti; abbracciasti Prisca
stringendola da dietro alla vita.
Era passione o richiesta di perdono? Era
entrambi?
Finalmente accendesti una sigaretta e mentre i
capelli ti si arricciavano dicesti:
"Be' ho una grossa novità: si tratta del lavoro."
Attendesti compiacendoti di vedere Prisca e me
pendere dalle tue labbra.
"Sono andato dal caporeparto e gli ho detto che
con il mio esaurimento non posso continuare a
69
62. lavorare là, all'interno di quello stanzone,
insieme a tanta gente.
E poi che gente!
Quando si va a prendere il caffè non fanno altro
che chiedere a questo e a quello cosa hanno
mangiato a pranzo o spettegolare sulle mogli di
tutti...
Non li sopporto!
E non tollero più nemmeno lui, il caporeparto,
che al di là del vetro della sua stanza osserva
se qualcuno alza la testa da una pratica e lo
fissa come un guardiano... ma questo non
gliel'ho detto."
Mamma impallidì:
"Nostra Signora dei Turchi...ti sei licenziato!
Ah me lo diceva il cuore! E io che pensavo di
entrare in una cooperativa per la casa..."
Prisca era sul punto di piangere anche se in un
modo diverso da quello con cui aveva a lungo
pianto nella bottega di donna Rirì; ed io non
sapevo di chi avere più pietà, chi consolare, a
chi dare maggiore ascolto.
Tu continuasti:
"Aspetta, fammi andare avanti e ti troverai
contenta.
Il caporeparto si è grattato la testa e mi ha
mandato direttamente dal proprietario.
Questi, che ha un figlio disperso in Russia, ha
capito che, malato come sono, lì dentro non ci
posso rimanere.”
Le tue erano affermazioni che non
70
63. ammettevano discussioni e aggiungevi altri
argomenti:
“E poi anche se faccio il contabile non ne ho il
titolo perché, per colpa della guerra, non ho
terminato gli studi di ragioneria ed ora ci sono
ragazzi diplomati che hanno più diritto."
"Ti manca poco.- lo interruppe mia madreBasterebbe presentarsi come privatista: con
tutta la pratica che hai fatto in questi anni...
otterresti il diploma con il titolo in regola! Dammi
retta! Per una volta!"
Ma tu non ascoltavi e continuavi:
"No! E’ deciso: io farò il fattorino: su e giù in
banca, in pretura, in posta!
All'aria aperta! E in più quattro pomeriggi liberi:
come oggi ad esempio!"
Non c'era verso che ti si potesse rovinare
l'umore se era buono, come non lo si poteva
migliorare se era cattivo e quindi la
ragionevolezza di Prisca passò inascoltata.
“Te lo sentivi, eh Prisca! Te lo sentivi che avevo
una novità: ecco perché mi hai accolto con un
pranzetto speciale.”
Te ne andasti a fumare sul balcone lasciandoci
alle nostre perplessità.
Mamma era tanto confusa che mormorò:
“D'altra parte almeno non è stato licenziato.
Non siamo sul lastrico.
Non siamo al punto di dover chiedere altro aiuto
alle mie povere sorelle… “
Sedette e continuò a parlottare senza
71
64. preoccuparsi della mia presenza.
“Come glielo dirò alle mie sorelle che Palmiro
non è più ragioniere?”
Anche io me lo domandavo perché capivo che
nel loro sistema di valori tu scadevi
ulteriormente.
Continuavo ad ascoltare, senza darlo a vedere,
le riflessioni della signora del limoncello che ,
forse, nei pomeriggi solitari – quando io ero a
scuola- ricamando la tovaglia a punto
rinascimento si era sbizzarrita nell’immaginare
la casa nuova come quella delle sue amiche,
tra i quartieri che spuntavano attorno al cuore
barocco.
Ora invece si trovava con quella novità da
comunicare alle “povere zie”.
Oramai usavo abitualmente quella espressione,
tanto più da quando avevo dato una sbirciatina
al loro romanzo attraverso le parole della mia
amica bottegaia.
Il peso di quella rivelazione dovette divenire
insostenibile se, terminato in fretta di
rigovernare, Prisca si preparò ad uscire.
Per portare quella notizia terribile alle sue
sorelle indossò persino il cappello riservato alla
domenica.
Si accingeva a condurmi con sé, ma tu, che eri
rientrato dal balcone, le dicesti:
"Lasciami la piccola. E' una giornata così bella!
La porterò a fare un giro."
Prisca si impennò:
72
65. “Era una giornata bella!”
Si diede subito un contegno e ti liquidò quattro
buoni motivi:
"Deve fare le lezioni; oggi poi ha anche dottrina.
Lo sai quanto ci tiene l’arciprete alle presenze.
Dopo tre assenze, legge i nomi dei lavativi a
messa."
“Neanche fossero infedeli! Sai cosa penso?
Che c’è rimasta la paura degli attacchi dei
Turchi! Per lo meno è rimasta ai preti!”
Ridesti, ma ti frenasti subito perché Prisca ti
guardò come uno scomunicato.
"Per questa volta l’arciprete se ne farà una
ragione e per le lezioni è così brava che le
sbrigherà al ritorno.
Lasciala con me."
Io era lusingata sia perché tu avevi riconosciuto
il mio successo scolastico sia perché ero mi
contendevate: volevate forse proteggermi l’una
dall’altro?
Prisca cedette subito: pensava forse che senza
la mia presenza lei e le zie avrebbero potuto
darti addosso più liberamente?
Uscimmo tutti e tre insieme, ma poi ci
dividemmo: il cappello di mamma scomparve
presto all'orizzonte e noi due restammo lì come
se aspettassimo qualcuno.
Infatti dopo un po' giunse un macchinone con
tanto di chauffeur e montammo su.
Sapevo, da certi commenti di mamma, che
avevi una propensione tutta tua a cercare
73
66. compagnie nuove, fuori dal nostro ambiente. Ad
esse, mi chiedevo, narravi ancora della guerra?
A dire di mia madre preferivi persone modeste
o per lo meno, a suo avviso, più modeste di noi.
Erano persone che si ostinavano, nonostante tu
ti negassi, a chiamarti ragioniere, e vi
scambiavate piccoli favori.
Tra gli altri avevi come amico questo chauffeur,
autista di una contessa.
La contessa abitava nel suo palazzo in un
paese della Grecia salentina, ma veniva
periodicamente a Lecce.
Mi raccontasti, nell'attesa del suo arrivo, che
quel giorno lo chauffeur aveva accompagnato
in città la contessa, ma che la nobildonna si
sarebbe fermata fino a sera ad assistere una
parente malata.
Quindi il tuo amico era libero per tutto il
pomeriggio.
Libero e a nostra disposizione.
Dunque montammo sull’auto.
Tu prendesti posto accanto al tuo amico e,
appena ti si presentò l'occasione, attaccasti a
parlargli della prigionia.
Io avevo immaginato di andare a zonzo in
bicicletta con te e, nonostante la novità e
l'impressione che suscitava l'autovettura, ero un
po' delusa.
D'altra parte ammettevo con me stessa, con un
po' di vergogna, che quando noi due eravamo
insieme sentivo sempre il pesante obbligo di
74
67. prendermi cura di te.
Ora la presenza dell'autista mi tranquillizzava
giacché, almeno, c'era un adulto.
Il movimento della macchina mi cullava ed io
chiusi gli occhi seguendo la tua voce e
rivedendo le immagini rivelatemi dalla
scacchiera magica.
Ascoltavo di campi, ricoperti di neve, che si
perdevano a vista d'occhio e, in tutto quel
rigore, di prigionieri che venivano svegliati
brutalmente per essere contati; di piedi
insanguinati senza scarpe, del lavoro in
miniera, del cibo che scarseggiava.
"Certo che se te ne capitasse qualcuno per le
mani...eh Palmiro?"
Silenzio tuo e quello insisteva:
"Sapresti, dico, come conciarlo."
Ancora silenzio tuo.
"Che cosa gli faresti?"
"L'orrore mi paralizzerebbe."
"Se avessi un'arma e l'impunità assicurata, di'
che faresti?"
"Lo terrei prigioniero.”
“Tutto qui?”
“Ogni giorno lo guarderei dal pertugio. Una
volta tanto poi aprirei la porta della cella.
Per un bel po’ rimarrei in silenzio ad osservare
la speranza accesa nei suoi occhi; poi lo
schernirei per il suo disgustoso degrado.
Infine gli direi: domani ti libero!
Lui ricadrebbe nella sua cuccia piena di pulci, si
75
68. nasconderebbe nel suo corpo piagato,
tornerebbe ad annusare l’odore dei propri
escrementi, ad annaspare cercando cibo e ad
aspettarmi.”
Il silenzio calò nell’autovettura.
Tu avevi mostrato il tuo costato ed io inorridivo
di fronte alla perversione che ti aveva infettato.
Ti vedevo sfigurato dallo stesso odio di Ninive e
di Hagen.
Come se fossi solo ribadisti in sintesi la stessa
tortura:
“Andrei ogni volta che lo volessi, farei un gran
rumore con le chiavi e quello spererebbe.
Mi sederei di fronte a lui e lo osserverei per
vedere se è fatto di paura.
Poi gli direi che per quel giorno no, non mi va di
liberarlo e tornerei a rinchiuderlo e così per
sempre."
"Ti basterebbe, Palmiro?" Domandò lo
chauffeur.
"E ti pare poco? Tu non immagini cosa significa
essere alla mercé degli altri: è peggio della
morte."
"Proprio per questo credevo che chissà che
cosa il tuo odio ti avrebbe suggerito..."
Io ora guardavo fuori dal finestrino la campagna
piena di ulivi e viti e tabacco per distrarmi da
quel lerciume di cui ti eri dichiarato capace.
Decisi che l’autista non mi piaceva, non per gli
stessi motivi che avrebbe addotto Prisca, ma
perché le sue domande ed il suo modo di fare
76
69. smascheravano il carnefice che eri pronto a
diventare, la crudeltà dissennata allevata dal
tuo stesso essere stato vittima.
L'odore improvviso del mare mi distolse da
pensieri così grevi.
Anzi, appena scesa dalla millequattro, presi a
correre tanta era la felicità irrazionale che
provavo quando mi trovavo in compagnia degli
elementi, invece che in balia degli esseri umani.
"Cosetta, Cosetta!"
Mi venivi dietro divertito e meravigliato per il
mio comportamento da bambina spensierata.
Poi ti sedesti sotto un pino mediterraneo mentre
io continuavo la mia scorribanda sulle dune che
declinavano dolcemente verso il mare.
Lo chauffeur era rimasto vicino alla macchina e
vedevo con la coda dell'occhio la sua divisa.
Io saltavo e correvo, mi arrischiavo fino a
giungere al bagnasciuga quasi ad essere
lambita dall'acqua.
Quella lasciava la sua spuma, bianca come il
pizzo dello strascico di una sirena che mi
invitava a seguirla.
Esitavo e, intanto, raccoglievo manciate di
sabbia che poi lasciavo scivolare tra le dita.
La marea, di nuovo, tornava ad invitarmi ed io
feci per togliermi le calze.
"No, Cosetta, non bagnarti: hai mangiato da
poco. Ti sentirai male."
Intervenne lo chauffeur:
“Cosa vuoi che le accada? Avrà mica mangiato
77
70. un bisonte? Lascia che si abitui: ne conosco di
persone che si calano interi dopo il pasto e non
ne ho visto mai morire nessuno!
Di, tu, bambina hai mangiato il pranzo del
Vescovo il giorno del patrono?”
Io non rispondevo.
“Cosa hai mangiato oggi?”
Stavo con la testa sul mento un po’ per
timidezza un po’ perché come te detestavo
quelle domande sul cibo.
“Va là che non avrai nello stomaco più di
qualche intingolo con l’olio del compare…”
Sentivo diverse note stonate: ora anche questo
riferimento all’olio del compare mi sembrava
una brutta cosa: quell’uomo sapeva troppe
cose sulla nostra famiglia e forse troppo
maliziose.
Mi rimisi calze e scarpe e mi avvicinai a te che
avevi una faccia scura, mentre lo chauffeur
cantava una canzone francese.
Capisti che eravamo accomunati dallo stesso
disagio: mi prendesti per mano e mi portasti
verso il faro.
Nel percorso raccolsi conchiglie e telline che,
non sapendo dove riporle, rilanciavo in mare.
"Saliamo?"
Mi chiedesti appena giunti sotto il faro.
La scala era meglio conservata della parte
esterna e così giungemmo su, su, fino alla cima
attorno a cui garrivano i gabbiani.
Mi sembrava che non ci fosse nient'altro al
78
71. mondo oltre quel pinnacolo ed il cielo
azzurrissimo: immaginavo che i gabbiani
fossero incaricati di portare tra i loro becchi quel
lenzuolo turchino, incaricati dalle stesse
potenze misteriose che presiedevano alle
mignatte, ai fiori di garofano e al citrato di
donna Rirì.
In basso potevo guardare la spiaggia in tutta la
sua estensione, così diversa da come appariva
d'estate, quando, di domenica, ci si andava in
pullman stipato di gente e di stanati pieni di
parmigiana che quasi segavano le gambe a chi
era rimasto in piedi.
Allora la presenza umana distraeva dalla
bellezza dello spettacolo naturale, ora la
spiaggia deserta appariva solenne ed intatta.
Da allora ho prediletto i fari e ho desiderato
viverci forse quanto Prisca desiderava
l’appartamento moderno.
Mi tirasti su, su un cassonetto che era ancorato
alla parete; mi prendesti in braccio stringendomi
forte mentre io mi sporgermi dalla finestra; mi
indicasti al di là del mare, che faceva
beccheggiare il riflesso del sole, un'unghia di
terra che a tuo dire si vedeva perché l'orizzonte
era sereno:
"Quella è l'Albania, c'è Durazzo; lì mi trovavo
poco prima dell'otto settembre. E là sono stato
fatto prigioniero."
“Non potevi scappare, papà?”
“I soldati erano armati, la loro lingua era
79
72. sconosciuta, tutta la faccenda inaspettata!”
Ti accendesti una sigaretta e sentii che ti
assentavi perché il tuo sguardo verde era privo
di espressione: ecco che eri lontanissimo da
me, ancora al di là del filo spinato, sempre
prigioniero.
Aspettai paziente che compiuta la visita al
lager, onorati i compagni, maledetti gli aguzzini,
tornassi.
La malia forse fu interrotto dalle canzoni che lo
Chauffeur cantava giù sulla spiaggia presso un
posto di ristoro.
Eri ritornato, ma ancora malconcio tanto che ti
sfuggì detto:
“Non c’è cataclisma o malattia che possa
procurare le stesse sofferenze che gli uomini
procurano agli uomini.”
Il faro era un avamposto da cui tentavi di dare
una sbirciatina al lager che odiavi, ma da cui
non riuscivi a staccarti.
Il lager, benché tanto lontano, continuava a
tenerti legato a sé come un idolo perverso che
maledicevi, ma a cui continuavi a pensare.
Mi domandai che fine avesse fatto la
scacchiera magica.
Immaginavo che di notte, mentre mamma ed io
eravamo immerse nel più inconsapevole dei
sonni, tu la tirassi fuori dal suo nascondiglio,
accendessi un lume e alla sua luce ti mettessi
in osservazione fino a quando le linee non si
trasformavano in sbarre e tu tornavi a sbirciare
80
73. il truce spettacolo.
La fosca signora si metteva accanto a te nella
stessa posizione che avevo preso io quella
sera, ed era lei ad accarezzarti la testa
riconducendoti in prigione.
Altre volte, invece, immaginavo che tu, di
nascosto per farci una sorpresa, stessi
ultimando la scacchiera e che prima o poi me
l'avresti presentata perfettamente utilizzabile,
con i suoi scacchi rossi e blu, e mi avresti
insegnato a giocare a dama.
Ciascuno usò quello scampolo di pomeriggio a
suo modo.
Ridiscendemmo ed acquistasti il gelato nel
torroncino da un posto di ristoro ambulante
dove si era fermato lo chauffeur a cantare e a
bere gassosa tenuta in fresco tra blocchi di
ghiaccio.
Mentre io ero attentissima a non sporcarmi con
il gelato, sentii il tuo amico chiederti:
“Hai dato un’occhiata alla tua prigione?”
Dunque lo chauffeur sapeva anche questo; ne
fui scombussolata: mi infastidiva l’idea che
quell’uomo sapesse fatti tuoi che credevo
segreti confidati soltanto a me.
Rispondesti:
“Oggi, grazie al maestrale, la lingua di terra
dirimpetto è chiarissima.”
“Sai che ti invidio?
Sì ti invidio per tutte quelle vicende che hai
attraversato, che ti hanno coinvolto e da cui sei
81
74. uscito.
Quando avrò dei nipoti e non ci sarà più
nessuno a ricordare che, per via della mia
gamba sono stato riformato, mi piacerebbe
raccontarli come fatti accaduti a me!
Ti seccherebbe, Palmiro?”
Tu sbottasti:
“E se invece, per salvarmi dalla deportazione,
mi fossi unito ai repubblichini, ti piacerebbe
anche quest’altro film?”
“Con il tempo può darsi che sarà diventato
indifferente da che parte si è combattuto e
sofferto: si fa presto a dimenticare e a
confondere torti e ragioni, e il perché un’idea
sia giusta ed un’altra sbagliata… “
“Non ci credo- gridasti quasi- il tempo può
distruggere certo, ma non può cancellare giusto
e sbagliato perché giusto e sbagliato sono
eterni!”
Ti agitavi:
“E’ impossibile! La storia non esisterebbe più!
Fortuna che ci sono i libri di storia.”
Ti rivolgesti a me:
“E’ vero Cosetta, che tu sei appassionata di
storia?”
“Sì, sì! La storia è tutto!”
Quasi non sapevo quello che dicevo, ma
parteggiavo per te contro quell’uomo che per
via della sua gamba era rimasto a casa, a terra,
sullo scoglio salvifico come se Ulisse non fosse
mai esistito.
82
75. Lo Chauffeur si rese conto di averti indispettito,
tu di aver alzato troppo la voce: così per fugare
il disagio cominciaste a giocare: lanciavate in
mare le telline più grosse.
E tu lo facevi con tale forza come se le lanciassi
sullo chauffeur stesso.
Tornammo indietro; nell’auto silenziosa la
facevano da padrone la sonnolenza del mare,
l’imbarazzo che lo chauffeur mascherava
canticchiando, il tuo broncio.
Il mattino successivo, all’ora della preghiera per
la tua salute mentale, io ero pronta, in
ginocchio, secondo il rito voluto da mamma,
con tutta la mia innocenza a portata di mano.
Prisca scosse la testa corvina:
“Lascia perdere, Cosetta.
Oramai è chiaro che è esaurito per sempre:
altrimenti non avrebbe fatto quella sciocchezza
di farsi demansionare!”
Eravamo vicine, vicine mentre mi abbottonava il
grembiule nero con le tre strisce rosse della
terza elementare sulla manica.
“Le tue zie, le mie povere sorelle, sì che mi
sono state di conforto quando ho portato questa
notizia.
Hanno compreso a fondo la mia mortificazione
che , poi, è anche la loro.
Altro che donna Rirì: lei fa tutto facile! Voglio
proprio vedere come abbellirà questa bravata di
tuo padre!
D’altra parte é preferibile, come dicono le mie
83
76. sorelle, non farlo sapere a nessuno.
In seguito, con il tempo, se capiterà che si
sappia in giro, vedremo.
Tu, Cosetta, non lo dire a donna Rirì, né ai
ragazzetti che frequentano la bottega, né a
scuola. Promettimelo!”
“Nemmeno alla maestra?”
“Nemmeno alla maestra!
I segreti di famiglia mi avviluppavano.
Prisca continuava nelle sue rimostranze:
“Quanti nelle sue stesse condizioni, con un
esame pro forma si sono confermati nel ruolo di
prima.
Anzi guerra e dopo guerra hanno semplificato
alcune pratiche, almeno per i reduci, per gli ex
deportati come tuo padre.
Gli spetterebbe una pensione, un risarcimento.
Zia Estrella me ne ha portati di esempi di ex
internati che hanno fatto valere gli anni di
prigionia!
Ma tuo padre ci ha messo sopra una riga e ha
dimenticato.”
“Dimenticato no!” Mi scappò detto.
“Parla, racconta, è vero, ma quando si tratta di
ricavarne qualcosa, sta zitto come una lumaca.
A volte penso che le cose terribili che racconta,
non sono mai accadute nella realtà.
Una guerra come tante, sofferenze normali in
tempo di guerra.”
Non potevo sopportare che Prisca si mettesse
alla stessa stregua dello chauffeur e del suo
84
77. cinismo che ti aveva tanto addolorato.
Per questo, prendendo la cartella, insistetti:
“Forse abbiamo sbagliato preghiera. Hai
guardato bene nel libro di donna Rirì? C’erano
troppe preghiere e troppi santi: non è colpa tua
se hai scambiato supplica.”
Ottenni, però, soltanto di irritare la signora del
limoncello.
“Ma cosa ne sai tu! “
La rabbia le fece brillare una fiammella negli
occhi:
“Tu che avresti dovuto farlo guarire con la tua
innocenza!
Non ti sei concentrata nella preghiera o…
peggio non sei innocente.“
E mi guardò terribile nella sua bellezza, ostile
nei confronti della mia tenacia a scusarti, ed ora
anche sospettosa riguardo alla mia innocenza.
Tutto ciò era al di sopra delle mie forze e me ne
andai a scuola che era il cantuccio in cui mi
potevo abbandonare ai problemi che si
risolvevano sulla lavagna con il gesso o tra le
pagine del sussidiario.
Ignoravo che avevo seminato nella testa di mia
madre e nella sua rappresentazione del mondo
e che presto avrei saputo di quale messe si
trattava.
85
78. Un notte scorsi Prisca seduta accanto al mio
sommier: se ne stava immobile osservandomi
alla luce fioca che penetrava dalle stecche delle
veneziane.
Certamente sognavo.
Le visite notturne, però, proseguirono: lei nel
baluginare incerto giungeva dalla vostra
camera, dal vostro letto e si posizionava al mio
capezzale.
Forse ero malata e mamma veniva a vegliarmi?
A volte mi riaddormentavo; altre fingevo e,
sfidando il torpore, le tenevo testa per il tutto il
86
79. tempo che lei mi dedicava prima di ritornare da
te.
Al mattino, mentre alle mie spalle abbottonava il
grembiule ed io la sentivo vicina, vicina come
durante la notte, né lei né io parlavamo di
quelle visite.
Durante la ricreazione, a scuola, tornavo a
pensarci e avrei voluto raccontarlo alla maestra,
ma con quali parole?
E la maestra, poi, mi avrebbe creduto?
E se avesse deciso di convocare i miei genitori
per capirci qualcosa?
No!
Era preferibile tenere tutto per me.
Intanto però quegli interrogativi mi rendevano
svogliata e taciturna.
Donna Rirì se ne accorse e mi offriva buone
dosi di citrato.
Io mi sforzavo di convincermi che il rimedio
magico funzionasse come sempre e che quella
notte Prisca non mi avrebbe fatto visita.
Invece la signora del limoncello tornava
puntuale notte dopo notte.
Avevo imparato a percepire il momento in cui la
notte nera si trasformava nel manto Della sua
testa bruna che avanzava.
Con il passare delle settimane smise di essere
una presenza silenziosa ed immobile; mi
scostava via le coperte ed osservava la mia
posizione rannicchiata con le mani strette tra le
ginocchia.
87
80. Quindi mi ricopriva.
Eppure i pranzi, le cene, le conversazioni erano
serene; e tu, poi, a cui il nuovo lavoro dava
occasione di incontrare persone e personaggi,
avevi sempre novità da raccontarci.
Forse avrei potuto allentare la tutela che mi ero
assunta e prendermi cura di me, della mia
piccola vita, abbandonarmi ai piaceri dello
studio e alla ricerca delle origini del citrato.
Ma non mi era possibile perché persisteva
l’enigma di quelle visite notturne.
Cercai risposte nei libri de “La scala d’oro”.
Provai a leggere “Il giardino segreto”, ma,
nonostante il titolo, nemmeno quello mi fu
d’aiuto a sbrogliare il mio personale mistero.
Proseguii con “Il piccolo lord”, “I ragazzi della
via Pal”, “Sara Crewe”, “Otto cugini” e “Piccole
donne”.
Quei mondi bellissimi lenivano sì la mia
solitudine, ma non avevano la chiave per
spianare la realtà.
Così cercavo le risposte da me. E se Prisca mi
vegliasse per proteggermi?
Era l’ipotesi più consolante.
Dagli zingari? Dai giostrai?
A chi poteva interessare superare il muro di
cinta del cortile, penetrare nella nostra casa per
rapire proprio me?
No: Prisca intendeva proteggermi da qualcuno
della stessa casa; e non c’eri che tu…
La signora del limoncello non aveva forse
88
81. affermato che gli “esauriti” possono compiere
stragi nei confronti degli stessi familiari?
Così ti immaginava mentre, con gli occhi
iniettati di sangue e armato del coltellaccio per
tranciare la carne, fare casamicciola come in
un’illustrazione del libro “Cuore” in cui il crudele
ragazzo, datosi al male, uccide la nonna
implorante.
Cercavo di calmarmi: era vero che avevo
scoperto che potevi diventare un aguzzino, ma
da questo a sterminare noi ne passava!
Una vocina che mi sembrava quella di zia
Estrella insisteva categorica:
“Chi è pazzo, è capace di tutto.”
E allora mi tiravo le coperte sopra la testa e mi
ripromettevo di non dormire mai.
Di giorno nell’armonia che regnava tra voi e
nella casa, mi rimproveravo dei miei terrori:
Prisca era adulta e gli adulti hanno i loro motivi
incomprensibili ad una bambina.
Tanto valeva che mi tranquillizzassi.
Ma subito dopo rammentavo l’ immagine dell’
aguzzino che con diligenza sbircia il suo
prigioniero.
Ero forse prigioniera di Prisca che si faceva un
dovere di venirmi a spiare di notte?
Ma perché Prisca avrebbe dovuto spiarmi? Di
colpo capii che io stessa involontariamente
glielo avevo suggerito.
A Prisca che non poteva dubitare della pietà di
Dio, non restava che dubitare di me e della
89
82. famosa innocenza.
Non ero ferrata sull’innocenza e, di
conseguenza, sulla mancanza di essa.
Pensai, quindi, che la notte, rendendo tutto
indistinto con il suo fosco pulviscolo, induceva
Prisca a credere che niente di innocente
potesse accadere nei letti.
Ebbi la conferma la notte in cui, dopo avermi
tolto le coperte, mi cavò via le mani che io, nella
mia posizione preferita, stringevo tra le
ginocchia.
Mi sussurrò:
“Stai composta!
Distenditi supina e tieni le mani a loro posto,
lontane dal corpo.
Non devi toccarti!”
Giungeva in punta di piedi, la chioma
avvoltolata in boccoli neri si stagliavano anche
nel nero della notte stessa, e mi soffiava
addosso sospetti, malignità, malvagità.
Non era mai soddisfatta anche se mi trovava
con le mani penzoloni fuori dal letto.
Cercava prove certe: arrivò ad annusarmele.
Per un po’ si accontentò di questo esame, ma
evidentemente anche lei era incalzata dal suo
tarlo o il suo fiuto mi tradì.
Allora arrivò a farmi alzare e a condurmi in
gabinetto per lavare le mani.
Al mattino non sapevo da che parte guardare
per la vergogna e cominciavo a chiedermi chi di
noi tre fosse il più malato.
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83. Il nuovo impiego ti allontanò dai vecchi colleghi
e, di conseguenza, smettesti di frequentare il
cral.
Mi chiedevo se questa vittoria sul vizio del
gioco poteva essere una compensazione
sufficiente a lenire la delusione di Prisca per la
tua decisione di scendere dal rango di
ragioniere a quello di fattorino.
E le zie?
“Povere zie!”
Ripetevo tra me ricordando la sventagliata di
donna Rirì quella sera che eravamo andate da
91
84. lei in cerca della preghiera perfetta.
Forse, primo o poi, la mia amica del citrato
sarebbe sbottata nuovamente e avrei potuto
mettere insieme sprazzi del romanzo delle zie.
Le zie, da quando eri tornato a frequentarle,
non avevano mai fatto parola della tua malattia
e di quel colpo di testa di voler diventare
fattorino da ragioniere che eri.
Anzi erano diventate più complimentose nei tuoi
confronti: ma ti aspettavano al varco di un
nuovo scandalo.
Infatti ti desti al cinema.
Avevi la passione per i film americani,
specialmente di guerra o western, e non te ne
perdevi uno.
Tornavi rigenerato giacché la tua vita si era
tutta trasferita nel film e ti eri preso così le tue
soddisfazioni e le tue rivalse sui cattivi ed i
tiranni.
Eri molto bravo a raccontarli a me e a Prisca.
E se mamma riusciva, per carattere, a tenere i
piedi sempre saldi a terra io, invece, mi
infervoravo dei tuoi racconti e ne covavo a
lungo l'impressione.
A volte ne mettevo assieme pezzi diversi in un
unico grande film in cui riuscivo a fare qualcosa
di molto speciale per te: qualcosa che ti
rendesse giustizia.
Ero ammirata della tua capacità di pronunciare i
nomi stranieri indicandomeli sui manifesti.
Tutto quel mondo che ci portavi in casa finì con
92
85. il sollecitare la curiosità di mamma o risvegliare
il desiderio di evadere dal suo orticello.
Era la prima volta che condividevate un
interesse che non fosse i conti del mese o uno
dei soliti passatempi come la passeggiata
domenicale e le visite ai parenti.
Vi sentivo confabulare:
"Ha solo otto anni, non possiamo lasciarla da
sola."
"E se la chiudessimo ben, bene a chiave?"
"E se scoppiasse un incendio?"
"Vai a chiedere a donna Rirì se ce la tiene lei."
"Se lo sapessero le mie sorelle che ho chiesto
questo favore ad un'estranea invece che a
loro... e donna Rirì , poi, mi sembra così
bislacca…"
Sentirli parlare così fitto, fitto nel tentativo di
trovare una collocazione per quell'unico
impiccio che era costituito dalla mia presenza,
mi rivelava un'intimità ed un accordo che da
una parte mi rassicuravano, dall'altra mi
bruciavano perché mi sembrava che mia madre
prendesse il mio posto.
Anzi mi chiedevo come mai non ti passasse per
la mente la soluzione più logica: sarei venuta io
al cinema assieme a te; mentre, mamma, che
poteva badare a se stessa, sarebbe rimasta a
casa.
Si addormentavano discutendo, ma non ne
venivano mai a capo sia per gli scrupoli che
Prisca aveva nei miei confronti, sia per la
93
86. soggezione che aveva nei confronti delle sue
sorelle che avrebbero disapprovato quell'uso
voluttuario del denaro.
Era evidente che le zie, che ci avevano fatto di
tanto in tanto dei prestiti, avevano acquisito il
diritto di mettere becco nel nostro modo di
amministrare il denaro.
Prisca, imprigionata da ruoli ed economie, non
si decideva.
Almeno una volta alla settimana tu andavi al
cinema guardando mamma con un'espressione
che voleva dire “vieni via con me”.
Nonostante fossi ancora risentita con la signora
del limoncello per le sue lezioni di innocenza,
pensai che era venuto il momento di
adoperarmi per favorire le vostre uscite.
Frequentavo più spesso l'emporio e raccontavo
quanto donna Rirì fosse gentile e accorta con
noi bambini, come mi trovassi bene con lei e via
discorrendo.
Tutte cose vere, ma che io sottolineavo affinché
mia madre si decidesse a fuggire con te
concedendovi all’amore, alla giovinezza, alla
gioia.
Non so se ebbi un effettivo merito nella
decisione di mamma, fatto sta che il rigore di
Prisca ebbe un cedimento.
Prisca parlò con donna Rirì; donna Rirì trovò la
cosa fattibile e simpatica:
"Andate, andate colombi. Godetevi la vita!
Be' io, che non ho avuto né marito, né famiglia
94
87. sono la meno competente in queste cose, ma il
buon senso mi dice che non è giusto sacrificare
anche le cose più innocenti per i figli.
Siete giovani, spassatevela un po'.”
La bottegaia non smetteva più di parlare tanto
era la felicità per quella uscita.
Parlava sempre con quel suo modo
accattivante perché l’eccessiva franchezza e le
punte di sarcasmo erano bilanciate da quel
tratto di bonomia che vi mescolava.
“Cara mia, chiunque con un po' di sale in zucca
ti direbbe che sei prima moglie e poi madre!
E poi non lasci mica tua figlia ad un'estranea.
Le tue sorelle abitano troppo lontane: sarebbe
un traffico per voi e un disturbo per loro che
sono buone persone, ma tanto delicate,
poverelle!
Mi sarei offesa se tu non avessi pensato a me:
Cosetta con me starà benissimo."
Così fu.
Da allora ogni volta che veniva programmato
"un filmone" -come dicevi tu- io ero affidata a
donna Rirì.
Con
l'avanzare
dell'inverno
la
gentile
commerciante saliva da noi per evitare che io
prendessi freddo.
Forse fu invogliata anche dal fatto che mia
madre, per esprimerle la propria riconoscenza,
le faceva trovare qualche pietanza calda e ben
presentata.
Donna Rirì alla fine di una giornata di lavoro
95
88. non aveva voglia di mettersi ai fornelli quindi
gradì e corrispose a quell'attenzione con il suo
buon appetito.
Terminata la cena rigovernava, lasciando la
cucina in ordine come piaceva a Prisca.
Ero perfettamente a mi agio con la signora del
citrato perché mi raccontava delle bellissime
storie di filò.
Parlavano di gente partita per viaggi
meravigliosi in cui avevano trovato felicità e
ricchezze; ad un certo punto della storia, però, il
vento della fortuna mutava direzione ed il
protagonista cadeva in una nera miseria tanto
da non avere nemmeno il coraggio di tornare
nel luogo di origine e si accontentava di
aggirarsi nelle sue vicinanze vivendo come un
barbone.
A volte la mia dama di compagnia dimenticava
a quale punto della storia fosse giunta e l’eroe
riprendeva ad avventurarsi per il mondo
ripetendo l’avvicendarsi di buona e cattiva
sorte.
Quando donna Rirì si accorse che cominciava a
ripetersi si diede a girare la manopola della
radio fino a quando trovava un'opera lirica.
Allora sembrava proprio appagata: si sfilava le
scarpe che le costringevano i piedi gonfi e
accompagnava le romanze con la sua voce:
“Ebben?... Ne andrò lontana.
Come va l’eco della mia campana…
96
89. Là, fra la neve bianca!
Là fra le nubi d’or!”
Oppure:
“Sola … perduta… abbandonata!
In landa desolata!... Orror!”
Ancora:
“Nacqui all’affanno, al pianto
Soffrì tacendo il core;
ma per soave incanto
del’età mia nel fiore,
come un baleno rapido
la sorte mia cangiò.”
Anche io ascoltavo e apprendevo i foschi
intrighi dei melodrammi e la mia fantasia li
incamerava assieme alle trame dei romanzi e
dei film e dei racconti di filò.
Peccato che la bottegaia fosse inflessibile
riguardo l'ora in cui dovevo andare a letto.
Io cercavo di prolungare l’emozionanti serate,
ma tutto sommato non mi dispiaceva infilarmi
sotto le coperte sotto la custodia della padrona
del citrato.
Mentre dalla cucina giungeva attutito il suono di
quelle arie appassionate, mi davo al gioco di
comporre e scomporre storie inverosimili che
presto si confondevano con i fantasmi del
97
90. sonno ora che le visite notturne dopo aver
raggiunto l’acme erano cessate: le uscite serali
avevano distratto Prisca da quella pratica.
Fu un periodo felice anche perché era donna
Rirì che prestava ai miei i soldi per il cinema e
così non si rischiavano altre complicazioni con
le zie.
Poi mia madre ricominciò a mostrarsi riluttante
ad uscire di sera; aveva sempre sonno ed una
pacifica svogliatezza.
Sembrava preferire le chiacchierate o i silenzi
con donna Rirì che oramai saliva da noi anche
quando non occorreva che mi facesse da balia.
Tu eri silenzioso; certamente l'assiduità di
donna Rirì ti infastidiva poiché, in sua presenza,
avevi un certo pudore a mettere fuori la
scacchiera: sia che tu volessi usarla come
cannocchiale, sia che volessi ultimarla.
Ti dedicavi a complicati solitari che
giustificavano il tuo silenzio.
Arrivasti persino a giocare a scala quaranta con
tre "morti": eri tu l'unico vivo?
Alla bottegaia, invece, piaceva giocare a
tombola che sfortunatamente era l'unico gioco
che detestavi.
Così mia madre, la signora del citrato ed io
giocavamo a tombola, puntando fagioli, sotto la
cappa dei tuoi silenziosi giochi con le carte.
Io pensavo che prima o poi donna Rirì si
sarebbe risentita per il tuo mutismo e avrebbe
desistito dal salire, ma la bottegaia, vecchia
98
91. amica di tua madre, non dava alcun peso al tuo
modo di fare e continuava a venirci a trovare.
Addirittura stirava al posto di Prisca che ,
ultimamente, si stancava con facilità anche se
sembrava ancora più giovane di prima ed
aveva un aspetto fiorente.
Inoltre era diventata straordinariamente mite e
accondiscendente e non trovò niente da ridire
quando volesti riprendere la passione per il
cinema.
Venne in tuo aiuto la proiezione di un cartone
animato “Biancaneve” adatto, quindi, alla mia
età.
Prima di ogni uscita, Prisca mi abbottonava la
catenina e il braccialetto d’oro come mi
abbottonava il grembiule di scuola: era quel
tocco di distinzione che le piaceva tanto.
Riprendemmo, quindi, il filo interrottosi dopo la
gita al mare.
Il film con il suo tratto gotico, i colori intensi, la
deformità della natura e dei nani, la
metamorfosi della regina mi avviluppò.
Desideravo, desideravo diventare un grande
disegnatore o trovare la miniera di parole che
mi avrebbero permesso di dare vita ad un
universo altrettanto grottesco.
Giacché la signora del limoncello e quella del
citrato filavano d’amore e d’accordo e insieme
avevano preso ad occuparsi della tovaglia a
99
92. punto
rinascimento
che
Prisca
aveva
accantonata mesi o anni prima, divenni la tua
compagna di svaghi serali.
Amavi l’America e tutto ciò che era americano
perché a quel tempo la maggior parte degli
adulti erano convinti che gli americani fossero
buoni e facessero tutt’uno con la vittoria finale
in cui il male dell’universo sarebbe rimasto
schiacciato sotto gli zoccoli di un drago.
Non ci avevano forse liberato?
Non ci avevano riempito le case di cioccolato e
formaggio giallo?
Non ci avevano disinfestato dai parassiti con il
ddt?
Ed ora noi aprivamo le porte a John Wayne, a
Jerry Lewis, a Dean Martin.
Il loro mondo appariva equo e giusto, semplice
e divertente; pieno di una quantità imprecisata
di boccoli, di tendine vaporose e di torte di mele
sfornate dalle mamy negre.
Se non era il Paradiso certamente gli
somigliava: ci risarciva di ogni ingiustizia
passata e presente, ci rassicurava per il futuro.
Anche io, per la durata della proiezione,
prendevo congedo da te e gracchiavo i semi di
zucca.
C’erano tuttavia i tuoi capelli a darmi qualche
preoccupazione.
Erano rivelatori dei tuoi stati d’animo perché
tendevano ad arricciarsi quando il tuo umore si
incrinava.
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93. Sera dopo sera diventavano più crespi e,
quindi, nonostante i divertimenti serali, le tue
risate, la tua passione americhina, sentivo che
incombeva un mutamento.
Si trattava di un’altra puntata dell’infido
esaurimento?
Che l’ effetto ristoratore del cambiamento di
lavoro fosse svanito?
Ne era consapevole Prisca mentre ricamava e
chiacchierava con donna Rirì?
Ebbi una conferma che qualcosa in te si era
nuovamente inceppato la sera in cui entrasti a
caso nel primo cinematografo che ti capitò.
Ti ci volle una mezz'ora e un buon numero di
sigarette per renderti conto che la pellicola che
si proiettava non era adatta a me.
Come se ti fossi risvegliato di botto, mi
conducesti via raccomandando:
"Non diciamo niente a mamma.
Mi dispiace di aver buttato via i soldi dei due
biglietti, ma non credevo che..."
Tuttavia, per non dare spiegazioni a Prisca,
dovevamo aspettare che si facesse un'ora non
sospetta.
Inoltre, per evitare incontri imbarazzanti,
occorreva mantenersi in periferia.
Dunque
costeggiammo
le
mura
cinquecentesche ricoperte di fiori di cappero.
Proprio lì stazionava un piccolo circo o accolita
di saltimbanchi che si accingevano a bandire il
loro spettacolo in città.
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94. Ci accodammo: forse ti sembrò opportuno
confonderci tra la fauna circense, tra pennacchi
e pernacchie, pagliacci con una sola lacrima, i
mangia fuoco, banditori con la voce stentorea.
Oppure ad attrarti fu la confusione piena di
vitalità caotica che rianimava anche te che ti
adeguavi ai loro versi e ai loro scherzi.
Mi guardavi spensierato e sorridente e
sorridevo anche io.
In realtà avevo timore di ogni forma di
maschera e concentrai la mia attenzione sui
due giovani che si esibivano sui trampoli.
Nel chiasso che montava, sentii a stento la tua
riflessione:
“Ma guarda che bella occasione, Cosetta!
Questo spettacolo non è più interessante di una
pellicola?
E a gratis poi! Se ci vedessero le tue zie chissà
che facce e che musi lunghi!”
Cominciasti a ridere senza freni a quell’idea ed
io vedevo le zie inorridire e far finta di non
conoscerci.
Ridevi troppo e senza allegria.
Cosa avresti fatto se quella serpentina di
circensi, attratta da un pifferaio magico, avesse
proseguito oltre ed oltre?
Li avresti lasciati fare e sia tu che io saremmo
diventati parte della loro vita?
Era chiaro persino a me che necessitavi di
mutamenti frequenti alla ricerca di una libertà
sempre maggiore e poteva darsi che ti
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