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COLPO DI TESTA
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Dieci anni di Azzurro, quasi novanta gol per il Novara, 20 anni di carriera sulle spalle e un figlio
appena nato. “Perché non ci facciamo un libro?”. Nasce così l'avventura editoriale di Raffaele Rubino.
Un colpo di testa, che poi avrebbe dato il titolo alla sua opera prima.
Nella hall of fame del calcio italiano c’è spazio anche per un attaccante vecchia scuola; quella dei i
numeri 9 alla Boninsegna, Pruzzo, Toni.
Con la maglia azzurra il Capitano ha lasciando il segno, stagione dopo stagione, fino alla serie A; un
posto al sole dopo anni di pioggia, fango e polvere.
Con gli ultimi gol, l’ariete di Bari, ma di adozione novarese, è a una manciata di reti dal capocannoniere della storia del Novara. Alla soglia del mito, a pochi passi da Silvio Piola.

#COLPODITESTA
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Fondazione Novara Calcio e GSport presentano “Colpo di testa”, un libro tributo a
Raffaele Rubino in occasione della sua decima stagione in maglia azzurra. Il volume raccoglie esperienze, ricordi e retroscena inediti raccontati in prima persona, dai tempi delle giovanili del Bari a
questo primo scorcio di campionato cadetto. Un “regalo di Natale” pensato per i tifosi, novaresi e non,
con voci autorevoli e testimonianze di uomini di sport, compagni di squadra, allenatori e dirigenti che
hanno fatto la storia del Novara Calcio. Tra i contenuti extra, i ritratti dei principali cronisti che in tutti
questi anni hanno raccontato le gesta di “Raffa”, dalla C2 alla Serie A. Il tutto accompagnato da immagini esclusive, dall’archivio personale di casa Rubino a quello dei fotografi che lo hanno seguito in
lungo e in largo in tutti gli stadi d’Italia.
La pubblicazione, raccontando le vicende calcistiche e umane di Raffaele Rubino, approfondisce
l’ascesa sportiva di una Società dalla storia gloriosa e dal presente ambizioso. Un ritratto del “grande
calcio di provincia” negli ultimi vent’anni.
Un’avventura editoriale realizzata grazie al contributo di Fondazione Banca popolare di Novara per
il territorio.
“Colpo di testa, 20 anni di calcio di un Capitano da record” è un progetto a cura dell’agenzia di comunicazione BeSide,in collaborazione con Geco Srl, StaffMillenium e Interlinea.
Un’iniziativa che guarda innanzitutto al Sociale, con parte dei proventi destinati al Il Pianeta dei
clown Onlus e alle attività che interessano il Reparto di Pediatria dell’Ospedale Maggiore della Carità
di Novara.
Il Capitano, anche in questa partita, si è distinto per disponibilità e generosità, donando i proventi per i
diritti d’immagine alla sua scuola calcio Levante Azzurro, per favorire l’accesso all’attività sportiva dei
ragazzi di Bari più bisognosi e in situazioni di disagio.
Il volume sarà distribuito a partire dal prossimo mese di dicembre nelle edicole novaresi e nelle librerie
della provincia, al prezzo di 10€. Un’offerta in linea con la natura di un’operazione dedicata ai tifosi e
alla realtà novarese. Esclusivamente per gli sponsor Azzurri il volume è disponibile scontato del 30%
in prevendita. Una proposta dedicata a chi ha sostenuto l’avventura Novara Calcio in tutti questi anni.
L’atmosfera natalizia fungerà da sfondo ideale al lancio dell’iniziativa, in collaborazione con la Società
e con il coinvolgimento dei soggetti del territorio.
Info, prenotazioni, backstage e materiale inedito su colpodistesta.com
Una maglia per amica

|

capitolo I

Orecchiette al gorgonzola
«Ti ho visto giocare lo scorso anno: sembravi un Samurai e adesso, invece, non hai le palle. Sei o non
sei un guerriero?». Un omone pelato mi guarda dritto negli occhi. E’ una sfida, ma non sa ancora chi si
trova di fronte. Un ragazzo con le spalle al muro e una chioma bionda piantata su una testa dura come il
marmo. Quel tizio in manica di camicia è Sergio Borgo, al suo fianco Stefano Civeriati, rispettivamente
direttore sportivo e allenatore del Novara Calcio.
E’ l’estate del 2001, quella del calciomercato aperto dal primo luglio al trentuno gennaio. Sole a picco
e aria appiccicosa. Poche ore prima, di fronte all’Atahotel Executive di Milano, avevo deciso: «Raffa,
o fai il salto di qualità, o te ne torni in Puglia; per giocare in C2 al nord, meglio stare vicino a casa.
Quest’anno è decisivo». Considerazione amara: non sono il tipo che molla il colpo. Sergio Borgo non
lo sapeva, neppure mister Civeriati, ma avevano toccato il tasto giusto: ero in cerca di riscatto.
Venivo da una stagione mediocre alla Pro Sesto. Solo quattro gol in 29 partite. Ero la brutta copia di
quel giovane promettente sbarcato alle porte della grande Milano nel gennaio del 2000 con una voglia
matta di far gol per guadagnarmi un posto nel calcio che conta. Milano mi aveva sedotto e abbandonato: feste, vita notturna e allenamenti a singhiozzo non fanno rima con buone prestazioni, almeno per chi
non si chiama George Best o Diego Maradona. Rischiavo di cancellare con un colpo di spugna anni di
sacrifici, dedizione e sofferenze.
Fin dai tempi dell’oratorio Don Bosco di Bari non mi sono mai risparmiato. Giocavo in porta, mio
fratello Onofrio in avanti. Da buon cestista, lui preferiva usare le mani. Fu la mia fortuna. «Onofrio vai
in porta. Raffa di punta», disse il mister con la semplicità di un calcio fatto solo di divertimento e corse
a perdifiato. Dal campetto dell’oratorio il passo alle giovanili del Bari fu breve. Una trentina di gol in
due anni con la Società sportiva Nuovi Galletti prima e con la Juventus Club poi. Finché un giorno mio
padre mi dice: «Raffaele, ti vuole il Bari».
Ricordo bene quel momento. Al centro sportivo c’era tutta la famiglia, con loro il mister e i dirigenti della Juventus Club. Il loro orgoglio e la mia voglia di continuare a fare gol, a undici anni il colore
della maglia conta quel che conta: «Bari? Perché no» mi dissi. Ed eccomi vestito di bianco-rosso a
scommettere con Nicola Ventola che quell’anno l’avrei buttata dentro almeno una volta in più di lui.
Cinquanta gol negli esordienti, un campionato nazionale Allievi vinto, una finale di Coppa Italia persa
in casa con la Juventus e ottimi maestri come Bitetto, Sciannamanico Caffalo e Carella a prendersi cura
della mia crescita tecnica, tattica e atletica. Anno dopo anno, esultanza dopo esultanza mi guadagno un
posto in Primavera, l’anticamera del calcio che conta, ad un passo dalla maglia della squadra della mia
città. Al mio fianco Claudio Bigica, fratello di mio cognato Emiliano, il roccioso difensore Lorenzo
Sibilano, Nicola Ventola e Tommaso Gagliardi, il “fenomeno” del gruppo.
Pensavo proprio a Tommaso quel giorno d’estate del 2001 di fronte all’Atahotel. Un trequartista dai
piedi deliziosi con una visione di gioco impressionante. Io e Ventola non avevamo dubbi su chi, tra tutti
noi, sarebbe finito per primo in serie A e intanto trasformavamo i suoi assist al bacio in gol spettacolari.
Quel ragazzo era un fenomeno, ma fu il primo a cedere. Ogni anno, dagli Esordienti alla Primavera,
avevo perso almeno un compagno, tutti buoni giocatori: «una naturale selezione», spiegavano dirigenti e allenatori, noi continuavamo a correre pensando che il nostro turno prima o poi sarebbe arrivato.
Quando cominci a respirare il profumo di prima squadra, però, arriva la resa dei conti. Allenamenti e
studio, niente serate in discoteca, la fidanzatina te la scordi e guai a sgarrare: a diciassette anni è una
prova difficile, molto difficile.
Cinque anni più tardi, poco prima di incontrare Borgo e Civeriati, quei sacrifici me li sentivo tutti
addosso. Riguardavo il mio percorso e ripetevo ossessivamente a me stesso di meritare un’occasione e
che se fosse arrivata non l’avrei persa. Un mantra, una promessa, anche a mio padre.
Un treno per Brescello
Mio padre. Mai e poi mai dargli la possibilità di parlare con un allenatore. Questa è la regola aurea.
Non ricordo in vent’anni di carriera che gli sia andato a genio uno dei miei allenatori. Uno non voleva
farmi giocare, l’altro mi utilizzava fuori posizione, quell’altro era semplicemente antipatico. Niente da
fare, Giovanni è fatto così: passionale e schietto. Onofrio, mio fratello maggiore, è un adorabile maniaco che ritaglia gli articoli di giornale che parlano di me, mia madre appende le foto dei miei gol in
casa, ma mio padre è incredibile. L’unico che mantiene un salutare, ancorché apparente, distacco è mio
fratello minore, Emanuel. Del resto la famiglia è la famiglia e oggi, con il secondo figlio, me ne rendo
conto più che mai. Prometto a Tommaso e Leonardo che sarò premuroso e presente come lo è stato
nonno Giovanni con me, magari evitando di presentarmi la mattina presto sotto casa senza preavviso.
Imprevedibile e genuino, papà non ha mai posto limiti al suo affetto. Ricordo bene come, dall’Interregionale fino alle soglie della Serie A, si presentasse a casa; così, di punto in bianco. Il telefono squilla:
«Pronto Raffaele... sono papà! Hai fatto colazione? Scendi giù che ci prendiamo un caffé». Brescello,
Sesto San Giovanni, Novara, Siena, Torino, Salerno: non c’è ostacolo che lo fermi. Da buon ferroviere
prende il suo treno, a qualunque ora del giorno e della notte, e si presenta sotto casa. Colazione, quattro
chiacchiere e poi me lo ritrovavo in tribuna a maledire il malcapitato allenatore o un difensore troppo
“attento” alle mie caviglie. Nel post partita la vera sfida: evitare che facesse due chiacchiere di persona con il mister. Bel problema, motivo di feroci litigi e musi lunghi durati mesi interi. Toccava a mia
madre, Vittoria, ricucire le rotture, smussare gli spigoli e portare pazienza, tanta pazienza.
Ce l’ho messa tutta per “addomesticare” Giovanni. Al termine del primo dei due anni previsti nella
Primavera del Bari, i dirigenti mi chiamano: c’è un’opportunità al Bisceglie in C2. Prendo da parte mio
padre e gli spiego che comincia il calcio vero. «Se non faccio quello che mi dicono gli allenatori non
andrò da nessuna parte: papà, stai tranquillo». Comincia la stagione, segno un gol, il primo in C2 contro il Fasano, e totalizzo ventuno presenze: sono ufficialmente un professionista.
A fine stagione mi presento nella sede del Bari con mio padre. I dirigenti ci spiegano che sono diventato un costo per la società, che da professionista devo percepire lo stipendio minimo federale, non mi
mettono sotto contratto e mi rispediscono al Bisceglie. Non indosserò mai più la maglia del Bari. Qualcuno in città ancora oggi mi chiede perché; io non rispondo ma, in effetti, me lo chiedo anche io. Papà
Giovanni risponde con una citazione: Nemo protheta in patria.
A Bisceglie gioco poco e la porta è maledetta: nemmeno un gol. A fine stagione finisco al Noicattaro,
sempre nella mia Puglia, in Lega Nazionale Dilettanti. Il 1997 è l’anno della Leva obbligatoria e ho
solo un obiettivo: resistere. Presto servizio a Napoli: fureria della Compagnia Atleti. Firmo i permessi
per i commilitoni che giocano in serie C, in B e in A. Io, invece, parto sempre per ultimo e arrivo al
campo quando la partita sta per cominciare. Gioco pensando che poi mi toccherà riprendere il treno e
tornare in caserma. Mio padre fa il tifo e, manco a dirlo, ce l’ha con l’allenatore, le ferrovie, l’Esercito
e il Governo che complottano contro suo figlio. Io soffro, sono esausto, ma non mollo. Sento che l’occasione è dietro l’angolo. E, infatti, fallisce il Bisceglie; la Società retrocede in Lega Nazionale Dilettanti e la nuova dirigenza si ricorda di me e di altri ragazzi della Primavera del Bari. A vent’anni mi
ritrovo a fare il pendolare tra Bari e Bisceglie con Claudio Bigica: 40 chilometri da casa contro i quasi
400 dell’anno precedente. Il mio rendimento in campo cresce esponenzialmente: 15 gol in 30 partite,
arriva la chiamata che aspettavo. Il Treviso, allora in serie B, mi mette sotto contratto per quattro anni e
mi destina al Brescello.
Mi presento nella tranquilla cittadina di provincia emiliana con una valigia di speranze. Per la prima
volta vivo lontano da casa. Mio padre studia gli orari dei treni, mentre mia madre mi chiama ogni sera
per verificare che non faccia esplodere la lavatrice e mangi qualcosa di più sostanzioso di un panino al
prosciutto. In casa non combino disastri, ma sul campo qualcosa non funziona. Mister Vitale può scegliere tra quattro attaccanti, tutti classe 1978. In rigoroso ordine alfabetico: Chiaretti, Pelatti, Rubino
e Max Vieri. Guardo i miei compagni, so bene che, come me, non vedono l’ora di mettersi in mostra.
Sputerò sangue in ogni allenamento, centimetro dopo centimetro, partita dopo partita per prendermi il
Mister Vitale può scegliere tra quattro attaccanti, tutti classe 1978. In rigoroso ordine alfabetico: Chiaretti, Pelatti, Rubino e Max Vieri. Guardo i miei compagni, so bene che, come me, non vedono l’ora
di mettersi in mostra. Sputerò sangue in ogni allenamento, centimetro dopo centimetro, partita dopo
partita per prendermi il mio spazio. Invece finisco regolarmente in panchina o in tribuna. Non mi
spiego perché, ma il mister non mi considera. La squadra gira: capitan Bartoli è un vero leader, Fusani,
Terraciano e Bonato delle certezze; Vieri dà tutto, in campo e fuori. Con Max si crea un bel rapporto; è
un uomo vero, un compagno di squadra ideale, leale e competitivo. Segnerà dodici gol in campionato,
io soltanto uno, il mio primo in C1, ma non lo scorderò mai.
E’ il 19 dicembre nel ‘99. Giochiamo in casa contro l’Albinoleffe. La partita è inchiodata sullo 0-0.
Vitali mi getta nella mischia nel secondo tempo e mi ritrovo al posto giusto nel momento giusto. Non
mi serve neppure guardare la porta, con tutta la rabbia che ho in corpo scaravento la palla in rete: apro
le braccia e i polmoni in un grido liberatorio. Corro verso la tribuna del Morelli e cerco con lo sguardo
un ferroviere che si è sparato qualche centinaio di chilometri per vedere giocare suo figlio. Lo indico,
lui mi guarda con gli occhi sgranati e con il filo di fiato che mi resta in gola urlo solo tre parole: «Io non
mollo!». Lui, a fine partita, dirà soltanto, «forse adesso quello là (il mister) si sveglia». Giovanni non si
smentisce mai.
Maledetta Milano
A Gennaio saluto Max Vieri e gli altri compagni e mi trasferisco alla Pro Sesto, in C2. Nel girone di
ritorno il Brescello volerà in classifica, chiudendo la stagione al quinto posto e sfiora la promozione ai
play off. Anno nuovo, magli nuova. Arrivo in una squadra costruita con un mix di veterani e giovani di
talento, come Francesco Parravicini, che ritroverò con piacere al Novara. In attacco gioco con Vincenzo Maiolo, un destro infallibile sulle punizioni e nelle conclusioni dalla distanza. In 12 gare gonfio la
rete per quattro volte e lascio il segno nella salvezza della Pro. Quanto basta per convincere la Società
ad acquistarmi a titolo definitivo nell’estate del 2000.
Volevo un’occasione e me l’ero conquistata. Il direttore sportivo, Luciano Passirani, puntava alla C1 e
io potevo essere uno dei protagonisti. Arrivano Anania tra i pali e Nardi sull’esterno destro, io credo nel
progetto, così come tutto lo spogliatoio. Possiamo arrivare lontano, ma cicco clamorosamente la stagione. Colpa mia. Ero giovane, un ragazzo con qualche soldo in tasca nella Milano di fine anni Novanta.
Tante distrazioni e notti troppo piccole per lasciare energie nelle gambe per gli allenamenti. Perdo di
vista l’obiettivo e in un campionato opaco, ai margini, non lascio il segno. Errori che non ho più ripetuto.
Mi maledico come un liceale che non si prepara per il compito in classe decisivo, quello che fa la differenza tra la promozione e i corsi di riparazione a settembre. Peccato che lo studente si giochi un’estate spensierata di spiagge e mare, io mi giocavo tutto.
Ancora con le spalle al muro; stavolta nemmeno mio padre avrebbe potuto incolpare l’allenatore. Raffaele “non ci siamo”, mi ripetevo. “Hai fatto una cazzata e adesso rischi grosso”. Avevo mollato l’acceleratore in rettilineo. Per un appassionato di moto come me, una leggerezza imperdonabile. Eppure il
vero Raffaele, quello che morde il freno e cerca il gol con tutte le sue forze era sempre lì, dovevo solo
ritrovarlo. Mi serviva una sfida da vincere. Qualcuno disposto a credere in me.
Civeriati e Borgo arrivano al momento giusto nel posto giusto; loro ancora non lo immaginavano, ma
io ne ero certo. Nell’estate del 2001 all’Atahotel, Passirani, come biasimarlo, cerca di trovare una collocazione per un attaccante che aveva dato troppo poco alla sua Pro Sesto, il Novara voleva un bomber
su cui contare.
«Sei o non sei un guerriero?». Borgo cercava di provocarmi, non sapeva di farmi un regalo. Qualcuno
che puntasse tutto su di me. «Scusate, ma voi chi siete?», risposi calmo e un po’ insolente. Il mister fu
che puntasse tutto su di me. «Scusate, ma voi chi siete?», risposi calmo e un po’ insolente. Il mister fu
il primo a uscire dallo stallo, porgendo la mano: «Piacere, Civeriati. Sono il mister del Novara Calcio».
Ricambiai cordialmente e strinsi con vigore, sapendo già che, da lì a breve, sarebbe stato il mio nuovo
allenatore. Borgo sorrise e io pensai ad una cosa soltanto: «Novara. Novara... Silvio Piola. Sì, ma dov’è
Novara?».gliere tra quattro attaccanti, tutti classe 1978. In rigoroso ordine alfabetico: Chiaretti, Pelatti,
Rubino e Max Vieri. Guardo i miei compagni, so bene che, come me, non vedono l’ora di mettersi in
mostra. Sputerò sangue in ogni allenamento, centimetro dopo centimetro, partita dopo partita per prendermi il mio spazio. Invece finisco regolarmente in panchina o in tribuna. Non mi spiego perché, ma il
mister non mi considera. La squadra gira: capitan Bartoli è un vero leader, Fusani, Terraciano e Bonato
delle certezze; Vieri dà tutto, in campo e fuori. Con Max si crea un bel rapporto; è un uomo vero, un
compagno di squadra ideale, leale e competitivo. Segnerà dodici gol in campionato, io soltanto uno, il
mio primo in C1, ma non lo scorderò mai.
E’ il 19 dicembre nel ‘99. Giochiamo in casa contro l’Albinoleffe. La partita è inchiodata sullo 0-0.
Vitali mi getta nella mischia nel secondo tempo e mi ritrovo al posto giusto nel momento giusto. Non
mi serve neppure guardare la porta, con tutta la rabbia che ho in corpo scaravento la palla in rete: apro
le braccia e i polmoni in un grido liberatorio. Corro verso la tribuna del Morelli e cerco con lo sguardo
un ferroviere che si è sparato qualche centinaio di chilometri per vedere giocare suo figlio. Lo indico,
lui mi guarda con gli occhi sgranati e con il filo di fiato che mi resta in gola urlo solo tre parole: «Io non
mollo!». Lui, a fine partita, dirà soltanto, «forse adesso quello là (il mister) si sveglia». Giovanni non si
smentisce mai.
Ai giornalisti, a volte scomodi ma indispensabili, dedico questa pubblicazione
speciale, con l’anteprima dei primi due capitoli di Colpo di testa.
Un modo per dire grazie anche a voi, che non avete mai posato la penna, anche se in fondo avreste voluto gioire
con tutto lo stadio ai gol del Novara.
​Con simpatia,
Raffaele Rubino

“

“
Andrea Berrini | Creative Strategist

Editore
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Una palla che spiove. Nel cuore dell’area è già bagarre. Si lotta per conquistare un briciolo
di spazio... pochi maledetti centimetri che fanno la differenza.
Poi lo stacco, il Colpo di testa e la rete che si gonfia.
Eccomi qui. Sono Raffaele Rubino, vengo da Bari e amo Novara. Professione attaccante.
Non sarò elegante come Van Basten, non avrò i numeri di Ibra, mi manca la rapidità di Pepito
Rossi, ma buttatemi un pallone all’altezza giusta e state certi che qualcosa combino.
Pochi fronzoli e tanta sostanza. Ecco il mio credo, perché nei campi dove sono cresciuto
conta solo spingere la palla in porta. Io preferisco la zuccata picchiata forte, con tutto quello che ho dentro.
Noicattaro, Bisceglie, Brescello, Pro Sesto, Novara, Siena, Torino, Salernitana, Perugia. Ho
girato come una trottola, prima di tornare dal mio grande amore, per sempre. Tanti compagni, altrettanti amici; molti maestri e qualche fratello, in questi vent’anni di “calcio di provincia”. Li ringrazio tutti e spero di scordare nessuno. Ad una certa età, la memoria fa brutti
scherzi.
La mia carriera sembra un ottovolante. Sempre con il cuore in gola, fino a quel gol del 26
novembre 2011, quando timbro il cartellino in tutte le categorie con la stessa maglia. Quella azzurra del Novara Calcio, la mia seconda pelle. Se quel record è tutto mio, ora punto a
quello di Silvio Piola, una leggenda. Mancano una manciata di gol per raggiungere quota 86,
le reti segnate da un mito, uno che, del calcio, ha fatto la storia. Al braccio porto la fascia
da capitano. Una striscia gialla legata stretta, che sento anche quando non gioco.
Sono Raffaele Rubino, quello che segna sempre sotto la Curva Nord festeggiando con una
mano sul cuore. Questa è la mia storia. Molte pagine, però, le hanno scritte i tifosi. Non me
ne vogliano Rigoni, Gallo e Palombo, ma gli assist più importanti li ho avuti da loro.

COLPO DI TESTA
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  • 3. Dieci anni di Azzurro, quasi novanta gol per il Novara, 20 anni di carriera sulle spalle e un figlio appena nato. “Perché non ci facciamo un libro?”. Nasce così l'avventura editoriale di Raffaele Rubino. Un colpo di testa, che poi avrebbe dato il titolo alla sua opera prima. Nella hall of fame del calcio italiano c’è spazio anche per un attaccante vecchia scuola; quella dei i numeri 9 alla Boninsegna, Pruzzo, Toni. Con la maglia azzurra il Capitano ha lasciando il segno, stagione dopo stagione, fino alla serie A; un posto al sole dopo anni di pioggia, fango e polvere. Con gli ultimi gol, l’ariete di Bari, ma di adozione novarese, è a una manciata di reti dal capocannoniere della storia del Novara. Alla soglia del mito, a pochi passi da Silvio Piola. #COLPODITESTA
  • 4. Teaser Fondazione Novara Calcio e GSport presentano “Colpo di testa”, un libro tributo a Raffaele Rubino in occasione della sua decima stagione in maglia azzurra. Il volume raccoglie esperienze, ricordi e retroscena inediti raccontati in prima persona, dai tempi delle giovanili del Bari a questo primo scorcio di campionato cadetto. Un “regalo di Natale” pensato per i tifosi, novaresi e non, con voci autorevoli e testimonianze di uomini di sport, compagni di squadra, allenatori e dirigenti che hanno fatto la storia del Novara Calcio. Tra i contenuti extra, i ritratti dei principali cronisti che in tutti questi anni hanno raccontato le gesta di “Raffa”, dalla C2 alla Serie A. Il tutto accompagnato da immagini esclusive, dall’archivio personale di casa Rubino a quello dei fotografi che lo hanno seguito in lungo e in largo in tutti gli stadi d’Italia. La pubblicazione, raccontando le vicende calcistiche e umane di Raffaele Rubino, approfondisce l’ascesa sportiva di una Società dalla storia gloriosa e dal presente ambizioso. Un ritratto del “grande calcio di provincia” negli ultimi vent’anni. Un’avventura editoriale realizzata grazie al contributo di Fondazione Banca popolare di Novara per il territorio. “Colpo di testa, 20 anni di calcio di un Capitano da record” è un progetto a cura dell’agenzia di comunicazione BeSide,in collaborazione con Geco Srl, StaffMillenium e Interlinea. Un’iniziativa che guarda innanzitutto al Sociale, con parte dei proventi destinati al Il Pianeta dei clown Onlus e alle attività che interessano il Reparto di Pediatria dell’Ospedale Maggiore della Carità di Novara. Il Capitano, anche in questa partita, si è distinto per disponibilità e generosità, donando i proventi per i diritti d’immagine alla sua scuola calcio Levante Azzurro, per favorire l’accesso all’attività sportiva dei ragazzi di Bari più bisognosi e in situazioni di disagio. Il volume sarà distribuito a partire dal prossimo mese di dicembre nelle edicole novaresi e nelle librerie della provincia, al prezzo di 10€. Un’offerta in linea con la natura di un’operazione dedicata ai tifosi e alla realtà novarese. Esclusivamente per gli sponsor Azzurri il volume è disponibile scontato del 30% in prevendita. Una proposta dedicata a chi ha sostenuto l’avventura Novara Calcio in tutti questi anni. L’atmosfera natalizia fungerà da sfondo ideale al lancio dell’iniziativa, in collaborazione con la Società e con il coinvolgimento dei soggetti del territorio. Info, prenotazioni, backstage e materiale inedito su colpodistesta.com
  • 5. Una maglia per amica | capitolo I Orecchiette al gorgonzola «Ti ho visto giocare lo scorso anno: sembravi un Samurai e adesso, invece, non hai le palle. Sei o non sei un guerriero?». Un omone pelato mi guarda dritto negli occhi. E’ una sfida, ma non sa ancora chi si trova di fronte. Un ragazzo con le spalle al muro e una chioma bionda piantata su una testa dura come il marmo. Quel tizio in manica di camicia è Sergio Borgo, al suo fianco Stefano Civeriati, rispettivamente direttore sportivo e allenatore del Novara Calcio. E’ l’estate del 2001, quella del calciomercato aperto dal primo luglio al trentuno gennaio. Sole a picco e aria appiccicosa. Poche ore prima, di fronte all’Atahotel Executive di Milano, avevo deciso: «Raffa, o fai il salto di qualità, o te ne torni in Puglia; per giocare in C2 al nord, meglio stare vicino a casa. Quest’anno è decisivo». Considerazione amara: non sono il tipo che molla il colpo. Sergio Borgo non lo sapeva, neppure mister Civeriati, ma avevano toccato il tasto giusto: ero in cerca di riscatto. Venivo da una stagione mediocre alla Pro Sesto. Solo quattro gol in 29 partite. Ero la brutta copia di quel giovane promettente sbarcato alle porte della grande Milano nel gennaio del 2000 con una voglia matta di far gol per guadagnarmi un posto nel calcio che conta. Milano mi aveva sedotto e abbandonato: feste, vita notturna e allenamenti a singhiozzo non fanno rima con buone prestazioni, almeno per chi non si chiama George Best o Diego Maradona. Rischiavo di cancellare con un colpo di spugna anni di sacrifici, dedizione e sofferenze. Fin dai tempi dell’oratorio Don Bosco di Bari non mi sono mai risparmiato. Giocavo in porta, mio fratello Onofrio in avanti. Da buon cestista, lui preferiva usare le mani. Fu la mia fortuna. «Onofrio vai in porta. Raffa di punta», disse il mister con la semplicità di un calcio fatto solo di divertimento e corse a perdifiato. Dal campetto dell’oratorio il passo alle giovanili del Bari fu breve. Una trentina di gol in due anni con la Società sportiva Nuovi Galletti prima e con la Juventus Club poi. Finché un giorno mio padre mi dice: «Raffaele, ti vuole il Bari». Ricordo bene quel momento. Al centro sportivo c’era tutta la famiglia, con loro il mister e i dirigenti della Juventus Club. Il loro orgoglio e la mia voglia di continuare a fare gol, a undici anni il colore della maglia conta quel che conta: «Bari? Perché no» mi dissi. Ed eccomi vestito di bianco-rosso a scommettere con Nicola Ventola che quell’anno l’avrei buttata dentro almeno una volta in più di lui. Cinquanta gol negli esordienti, un campionato nazionale Allievi vinto, una finale di Coppa Italia persa in casa con la Juventus e ottimi maestri come Bitetto, Sciannamanico Caffalo e Carella a prendersi cura della mia crescita tecnica, tattica e atletica. Anno dopo anno, esultanza dopo esultanza mi guadagno un posto in Primavera, l’anticamera del calcio che conta, ad un passo dalla maglia della squadra della mia città. Al mio fianco Claudio Bigica, fratello di mio cognato Emiliano, il roccioso difensore Lorenzo Sibilano, Nicola Ventola e Tommaso Gagliardi, il “fenomeno” del gruppo. Pensavo proprio a Tommaso quel giorno d’estate del 2001 di fronte all’Atahotel. Un trequartista dai piedi deliziosi con una visione di gioco impressionante. Io e Ventola non avevamo dubbi su chi, tra tutti noi, sarebbe finito per primo in serie A e intanto trasformavamo i suoi assist al bacio in gol spettacolari. Quel ragazzo era un fenomeno, ma fu il primo a cedere. Ogni anno, dagli Esordienti alla Primavera, avevo perso almeno un compagno, tutti buoni giocatori: «una naturale selezione», spiegavano dirigenti e allenatori, noi continuavamo a correre pensando che il nostro turno prima o poi sarebbe arrivato. Quando cominci a respirare il profumo di prima squadra, però, arriva la resa dei conti. Allenamenti e studio, niente serate in discoteca, la fidanzatina te la scordi e guai a sgarrare: a diciassette anni è una prova difficile, molto difficile. Cinque anni più tardi, poco prima di incontrare Borgo e Civeriati, quei sacrifici me li sentivo tutti addosso. Riguardavo il mio percorso e ripetevo ossessivamente a me stesso di meritare un’occasione e che se fosse arrivata non l’avrei persa. Un mantra, una promessa, anche a mio padre.
  • 6. Un treno per Brescello Mio padre. Mai e poi mai dargli la possibilità di parlare con un allenatore. Questa è la regola aurea. Non ricordo in vent’anni di carriera che gli sia andato a genio uno dei miei allenatori. Uno non voleva farmi giocare, l’altro mi utilizzava fuori posizione, quell’altro era semplicemente antipatico. Niente da fare, Giovanni è fatto così: passionale e schietto. Onofrio, mio fratello maggiore, è un adorabile maniaco che ritaglia gli articoli di giornale che parlano di me, mia madre appende le foto dei miei gol in casa, ma mio padre è incredibile. L’unico che mantiene un salutare, ancorché apparente, distacco è mio fratello minore, Emanuel. Del resto la famiglia è la famiglia e oggi, con il secondo figlio, me ne rendo conto più che mai. Prometto a Tommaso e Leonardo che sarò premuroso e presente come lo è stato nonno Giovanni con me, magari evitando di presentarmi la mattina presto sotto casa senza preavviso. Imprevedibile e genuino, papà non ha mai posto limiti al suo affetto. Ricordo bene come, dall’Interregionale fino alle soglie della Serie A, si presentasse a casa; così, di punto in bianco. Il telefono squilla: «Pronto Raffaele... sono papà! Hai fatto colazione? Scendi giù che ci prendiamo un caffé». Brescello, Sesto San Giovanni, Novara, Siena, Torino, Salerno: non c’è ostacolo che lo fermi. Da buon ferroviere prende il suo treno, a qualunque ora del giorno e della notte, e si presenta sotto casa. Colazione, quattro chiacchiere e poi me lo ritrovavo in tribuna a maledire il malcapitato allenatore o un difensore troppo “attento” alle mie caviglie. Nel post partita la vera sfida: evitare che facesse due chiacchiere di persona con il mister. Bel problema, motivo di feroci litigi e musi lunghi durati mesi interi. Toccava a mia madre, Vittoria, ricucire le rotture, smussare gli spigoli e portare pazienza, tanta pazienza. Ce l’ho messa tutta per “addomesticare” Giovanni. Al termine del primo dei due anni previsti nella Primavera del Bari, i dirigenti mi chiamano: c’è un’opportunità al Bisceglie in C2. Prendo da parte mio padre e gli spiego che comincia il calcio vero. «Se non faccio quello che mi dicono gli allenatori non andrò da nessuna parte: papà, stai tranquillo». Comincia la stagione, segno un gol, il primo in C2 contro il Fasano, e totalizzo ventuno presenze: sono ufficialmente un professionista. A fine stagione mi presento nella sede del Bari con mio padre. I dirigenti ci spiegano che sono diventato un costo per la società, che da professionista devo percepire lo stipendio minimo federale, non mi mettono sotto contratto e mi rispediscono al Bisceglie. Non indosserò mai più la maglia del Bari. Qualcuno in città ancora oggi mi chiede perché; io non rispondo ma, in effetti, me lo chiedo anche io. Papà Giovanni risponde con una citazione: Nemo protheta in patria. A Bisceglie gioco poco e la porta è maledetta: nemmeno un gol. A fine stagione finisco al Noicattaro, sempre nella mia Puglia, in Lega Nazionale Dilettanti. Il 1997 è l’anno della Leva obbligatoria e ho solo un obiettivo: resistere. Presto servizio a Napoli: fureria della Compagnia Atleti. Firmo i permessi per i commilitoni che giocano in serie C, in B e in A. Io, invece, parto sempre per ultimo e arrivo al campo quando la partita sta per cominciare. Gioco pensando che poi mi toccherà riprendere il treno e tornare in caserma. Mio padre fa il tifo e, manco a dirlo, ce l’ha con l’allenatore, le ferrovie, l’Esercito e il Governo che complottano contro suo figlio. Io soffro, sono esausto, ma non mollo. Sento che l’occasione è dietro l’angolo. E, infatti, fallisce il Bisceglie; la Società retrocede in Lega Nazionale Dilettanti e la nuova dirigenza si ricorda di me e di altri ragazzi della Primavera del Bari. A vent’anni mi ritrovo a fare il pendolare tra Bari e Bisceglie con Claudio Bigica: 40 chilometri da casa contro i quasi 400 dell’anno precedente. Il mio rendimento in campo cresce esponenzialmente: 15 gol in 30 partite, arriva la chiamata che aspettavo. Il Treviso, allora in serie B, mi mette sotto contratto per quattro anni e mi destina al Brescello. Mi presento nella tranquilla cittadina di provincia emiliana con una valigia di speranze. Per la prima volta vivo lontano da casa. Mio padre studia gli orari dei treni, mentre mia madre mi chiama ogni sera per verificare che non faccia esplodere la lavatrice e mangi qualcosa di più sostanzioso di un panino al prosciutto. In casa non combino disastri, ma sul campo qualcosa non funziona. Mister Vitale può scegliere tra quattro attaccanti, tutti classe 1978. In rigoroso ordine alfabetico: Chiaretti, Pelatti, Rubino e Max Vieri. Guardo i miei compagni, so bene che, come me, non vedono l’ora di mettersi in mostra. Sputerò sangue in ogni allenamento, centimetro dopo centimetro, partita dopo partita per prendermi il
  • 7. Mister Vitale può scegliere tra quattro attaccanti, tutti classe 1978. In rigoroso ordine alfabetico: Chiaretti, Pelatti, Rubino e Max Vieri. Guardo i miei compagni, so bene che, come me, non vedono l’ora di mettersi in mostra. Sputerò sangue in ogni allenamento, centimetro dopo centimetro, partita dopo partita per prendermi il mio spazio. Invece finisco regolarmente in panchina o in tribuna. Non mi spiego perché, ma il mister non mi considera. La squadra gira: capitan Bartoli è un vero leader, Fusani, Terraciano e Bonato delle certezze; Vieri dà tutto, in campo e fuori. Con Max si crea un bel rapporto; è un uomo vero, un compagno di squadra ideale, leale e competitivo. Segnerà dodici gol in campionato, io soltanto uno, il mio primo in C1, ma non lo scorderò mai. E’ il 19 dicembre nel ‘99. Giochiamo in casa contro l’Albinoleffe. La partita è inchiodata sullo 0-0. Vitali mi getta nella mischia nel secondo tempo e mi ritrovo al posto giusto nel momento giusto. Non mi serve neppure guardare la porta, con tutta la rabbia che ho in corpo scaravento la palla in rete: apro le braccia e i polmoni in un grido liberatorio. Corro verso la tribuna del Morelli e cerco con lo sguardo un ferroviere che si è sparato qualche centinaio di chilometri per vedere giocare suo figlio. Lo indico, lui mi guarda con gli occhi sgranati e con il filo di fiato che mi resta in gola urlo solo tre parole: «Io non mollo!». Lui, a fine partita, dirà soltanto, «forse adesso quello là (il mister) si sveglia». Giovanni non si smentisce mai. Maledetta Milano A Gennaio saluto Max Vieri e gli altri compagni e mi trasferisco alla Pro Sesto, in C2. Nel girone di ritorno il Brescello volerà in classifica, chiudendo la stagione al quinto posto e sfiora la promozione ai play off. Anno nuovo, magli nuova. Arrivo in una squadra costruita con un mix di veterani e giovani di talento, come Francesco Parravicini, che ritroverò con piacere al Novara. In attacco gioco con Vincenzo Maiolo, un destro infallibile sulle punizioni e nelle conclusioni dalla distanza. In 12 gare gonfio la rete per quattro volte e lascio il segno nella salvezza della Pro. Quanto basta per convincere la Società ad acquistarmi a titolo definitivo nell’estate del 2000. Volevo un’occasione e me l’ero conquistata. Il direttore sportivo, Luciano Passirani, puntava alla C1 e io potevo essere uno dei protagonisti. Arrivano Anania tra i pali e Nardi sull’esterno destro, io credo nel progetto, così come tutto lo spogliatoio. Possiamo arrivare lontano, ma cicco clamorosamente la stagione. Colpa mia. Ero giovane, un ragazzo con qualche soldo in tasca nella Milano di fine anni Novanta. Tante distrazioni e notti troppo piccole per lasciare energie nelle gambe per gli allenamenti. Perdo di vista l’obiettivo e in un campionato opaco, ai margini, non lascio il segno. Errori che non ho più ripetuto. Mi maledico come un liceale che non si prepara per il compito in classe decisivo, quello che fa la differenza tra la promozione e i corsi di riparazione a settembre. Peccato che lo studente si giochi un’estate spensierata di spiagge e mare, io mi giocavo tutto. Ancora con le spalle al muro; stavolta nemmeno mio padre avrebbe potuto incolpare l’allenatore. Raffaele “non ci siamo”, mi ripetevo. “Hai fatto una cazzata e adesso rischi grosso”. Avevo mollato l’acceleratore in rettilineo. Per un appassionato di moto come me, una leggerezza imperdonabile. Eppure il vero Raffaele, quello che morde il freno e cerca il gol con tutte le sue forze era sempre lì, dovevo solo ritrovarlo. Mi serviva una sfida da vincere. Qualcuno disposto a credere in me. Civeriati e Borgo arrivano al momento giusto nel posto giusto; loro ancora non lo immaginavano, ma io ne ero certo. Nell’estate del 2001 all’Atahotel, Passirani, come biasimarlo, cerca di trovare una collocazione per un attaccante che aveva dato troppo poco alla sua Pro Sesto, il Novara voleva un bomber su cui contare. «Sei o non sei un guerriero?». Borgo cercava di provocarmi, non sapeva di farmi un regalo. Qualcuno che puntasse tutto su di me. «Scusate, ma voi chi siete?», risposi calmo e un po’ insolente. Il mister fu
  • 8. che puntasse tutto su di me. «Scusate, ma voi chi siete?», risposi calmo e un po’ insolente. Il mister fu il primo a uscire dallo stallo, porgendo la mano: «Piacere, Civeriati. Sono il mister del Novara Calcio». Ricambiai cordialmente e strinsi con vigore, sapendo già che, da lì a breve, sarebbe stato il mio nuovo allenatore. Borgo sorrise e io pensai ad una cosa soltanto: «Novara. Novara... Silvio Piola. Sì, ma dov’è Novara?».gliere tra quattro attaccanti, tutti classe 1978. In rigoroso ordine alfabetico: Chiaretti, Pelatti, Rubino e Max Vieri. Guardo i miei compagni, so bene che, come me, non vedono l’ora di mettersi in mostra. Sputerò sangue in ogni allenamento, centimetro dopo centimetro, partita dopo partita per prendermi il mio spazio. Invece finisco regolarmente in panchina o in tribuna. Non mi spiego perché, ma il mister non mi considera. La squadra gira: capitan Bartoli è un vero leader, Fusani, Terraciano e Bonato delle certezze; Vieri dà tutto, in campo e fuori. Con Max si crea un bel rapporto; è un uomo vero, un compagno di squadra ideale, leale e competitivo. Segnerà dodici gol in campionato, io soltanto uno, il mio primo in C1, ma non lo scorderò mai. E’ il 19 dicembre nel ‘99. Giochiamo in casa contro l’Albinoleffe. La partita è inchiodata sullo 0-0. Vitali mi getta nella mischia nel secondo tempo e mi ritrovo al posto giusto nel momento giusto. Non mi serve neppure guardare la porta, con tutta la rabbia che ho in corpo scaravento la palla in rete: apro le braccia e i polmoni in un grido liberatorio. Corro verso la tribuna del Morelli e cerco con lo sguardo un ferroviere che si è sparato qualche centinaio di chilometri per vedere giocare suo figlio. Lo indico, lui mi guarda con gli occhi sgranati e con il filo di fiato che mi resta in gola urlo solo tre parole: «Io non mollo!». Lui, a fine partita, dirà soltanto, «forse adesso quello là (il mister) si sveglia». Giovanni non si smentisce mai.
  • 9. Ai giornalisti, a volte scomodi ma indispensabili, dedico questa pubblicazione speciale, con l’anteprima dei primi due capitoli di Colpo di testa. Un modo per dire grazie anche a voi, che non avete mai posato la penna, anche se in fondo avreste voluto gioire con tutto lo stadio ai gol del Novara. ​Con simpatia, Raffaele Rubino “ “
  • 10. Andrea Berrini | Creative Strategist Editore
  • 11. by bmind.eu Una palla che spiove. Nel cuore dell’area è già bagarre. Si lotta per conquistare un briciolo di spazio... pochi maledetti centimetri che fanno la differenza. Poi lo stacco, il Colpo di testa e la rete che si gonfia. Eccomi qui. Sono Raffaele Rubino, vengo da Bari e amo Novara. Professione attaccante. Non sarò elegante come Van Basten, non avrò i numeri di Ibra, mi manca la rapidità di Pepito Rossi, ma buttatemi un pallone all’altezza giusta e state certi che qualcosa combino. Pochi fronzoli e tanta sostanza. Ecco il mio credo, perché nei campi dove sono cresciuto conta solo spingere la palla in porta. Io preferisco la zuccata picchiata forte, con tutto quello che ho dentro. Noicattaro, Bisceglie, Brescello, Pro Sesto, Novara, Siena, Torino, Salernitana, Perugia. Ho girato come una trottola, prima di tornare dal mio grande amore, per sempre. Tanti compagni, altrettanti amici; molti maestri e qualche fratello, in questi vent’anni di “calcio di provincia”. Li ringrazio tutti e spero di scordare nessuno. Ad una certa età, la memoria fa brutti scherzi. La mia carriera sembra un ottovolante. Sempre con il cuore in gola, fino a quel gol del 26 novembre 2011, quando timbro il cartellino in tutte le categorie con la stessa maglia. Quella azzurra del Novara Calcio, la mia seconda pelle. Se quel record è tutto mio, ora punto a quello di Silvio Piola, una leggenda. Mancano una manciata di gol per raggiungere quota 86, le reti segnate da un mito, uno che, del calcio, ha fatto la storia. Al braccio porto la fascia da capitano. Una striscia gialla legata stretta, che sento anche quando non gioco. Sono Raffaele Rubino, quello che segna sempre sotto la Curva Nord festeggiando con una mano sul cuore. Questa è la mia storia. Molte pagine, però, le hanno scritte i tifosi. Non me ne vogliano Rigoni, Gallo e Palombo, ma gli assist più importanti li ho avuti da loro. COLPO DI TESTA Teaser