Pubblicata in Monteleone di Calabria (1808-1902) e diretta da Luigi Bruzzano. Introduzione Prof. Luigi Maria Lombardi Satriani, prefazione Vittorio De Seta - Isbn 9788873512790
4. Alla Terra di Calabria che amiamo più di noi stessi,
all’infuori di tutto e di tutti.
Il suo aspetto ci appare incontaminato
e talora meraviglioso; la natura ha fatto di tutto
per rendere questa nostra regione felice e prospera.
Essa è qui solenne, sacra, come il pagano e il divino.
Ma l’indifferenza dei governi,
l’incapacità delle autonomie e la mentalità di noi calabresi,
da molti secoli ne impediscono lo sviluppo.
Filippo Curtosi e Giuseppe Candido
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5. Prefazione
Quando nescisti tu, spinguola d’uoro
Quattro tuorci al lu cielu s’addumaru
Scorro i canti, le leggende, le novelle, tratti dalla rivista “La Calabria”
(1888 - 1902) di Luigi Bruzzano, e ancora una volta resto colpito, ammirato, dalla bellezza, vastità, importanza della nostra cultura popolare, dallo
zelo, dalla tenacia di quei pochi che si preoccuparono di registrarla, salvarla. Un patrimonio elaborato nei secoli: la nostra memoria collettiva, la
nostra identità. L’Italia alla fine dell’Ottocento, dopo l’Unità, era ancora
tutta intessuta di parlate, dialetti, culture diverse, che si distinguevano da
una provincia all’altra, da un villaggio all’altro. Si sarebbero dovuti incrementare la pubblica istruzione, lo sviluppo sociale e culturale del paese,
per accedere ad una nuova consapevolezza veramente unitaria. Invece, fin
dall’inizio, questo patrimonio è stato ignorato, disprezzato dalla cultura
“nazionale”. Prima, durante e dopo il fascismo il dialetto, la poesia dialettale, il cosiddetto “folklore”, tutte le espressioni di cultura “minore” furono banditi dalle scuole italiane, dall’ufficialità della cultura. Perché?
Probabilmente la coscienza segreta di un’italianità che non s’era elaborata
spontaneamente, dal di dentro, aveva portato ad un delirio nazionalista, a
voler cancellare ogni traccia di diversità fra gli italiani. Nello stesso tempo
si sono falsati, stravolti, obliterati i fatti. La terribile guerra civile - la cosiddetta “repressione del brigantaggio” - che, a partire dal 1860, per dieci
anni, insanguinò l’Italia - trentatremila morti - è stata ignorata. Nei libri di
scuola non c’è. L’altra catastrofe che seguì, a partire dal 1890, l’emigrazione, è stata quasi del tutto ignorata non solo dai libri di scuola ma anche
dalla letteratura. Non c’è un solo romanzo importante su questo argomento. Il cinema gli ha dedicato qualche film. Niente è stato elaborato,
acquisito alla coscienza. Invece c’è stata la fioritura di un’incredibile retorica, che faceva a pezzi la realtà: quella del “posto al sole”, ad esempio, formulata dal Pascoli, secondo cui gli italiani, popolo numeroso e prolifico,
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6. avrebbero dovuto espandersi, conquistare colonie, finanche un impero;
oppure l’altra, terribile, della necessità dei settecentomila caduti della
prima guerra mondiale, per cementare nel sangue l’Unità d’Italia. Oggi,
dopo 150 anni, finalmente, con la pubblicazione di queste opere, di questi canti, poesie, proverbi, torniamo alle cose semplici, umili, a misura
umana, dalle quali non si può prescindere per ricostruire, ripeto, la nostra
cultura e la nostra identità. Sono grato a Filippo Curtosi e a Giuseppe
Candido che ce le hanno proposte.
Vittorio De Seta
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7. Introduzione
Le tradizioni popolari oggi sono oggetto di un processo estremamente articolato e contraddittorio; da un lato, continuano a essere considerate forme culturali “inferiori” di cui vergognarsi, quali manifestazioni di
arretratezza culturale, quando non segni di rozzezza e di “inciviltà”; dall’altro, vengono assunte quali segno di costumi incorrotti, incontaminati
rispetto al tumultuoso volgersi dei tempi, testimonianze di un’identità prigenia da conservare nella sua cristallina “purezza”.
Sia l’uno che l’altro atteggiamento non sono in alcun modo condivisibili; la realtà nel suo concreto dispiegarsi, non sa che farsene delle nostre
accigliate condanne e delle nostre enfatiche esaltazioni; essa, più semplicemente e più faticosamente, deve essere compresa nella sue articolazioni, nei processi storici di cui è comunque esito, nelle funzioni che presumibilmente ha svolto o continua a svolgere. Tale realtà sollecita, dunque,
il nostro impegno conoscitivo; ci richiama a un itinerario critico, teso a
rinsaldare la nostra soggettività, la nostra consapevolezza di essere, hic et
nunc, titolari della nostra storia. La consapevolezza critica del nostro passato rende possibile la pienezza del nostro presente e la possibilità in esso
di elaborare le linee del nostro futuro.
Nella prospettiva qui delineata, in forma necessariamente sintetica,
appare particolarmente opportuna l’iniziativa di Filippo Curtosi e
Giuseppe Candido di riproporre, un’ampia antolologia di testimonianze
folkloriche pubblicate dalla “rivista di letteratura popolare”, “La Calabria”,
che ebbe vita a Monteleone, oggi Vibo Valentia, tra la fine dell’Ottocento
e i primi del Novecento, le cui linee essenziali val la pena, forse, qui ripercorrere.
Il 15 settembre 1888 appariva a Monteleone di Calabria il primo numero di una “Rivista di letteratura popolare”: “La Calabria”, diretta da Luigi
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8. Bruzzano, che così delineava le finalità dell’iniziativa: «Tre anni fa, quando io col mio amico Ettore Capialbi pubblicavo nella quarta pagina de
“L’Avvenire Vibonese” i racconti greci di Roccaforte, pochi fannulloni,
miei concittadini, assordarono di grida la redazione del giornale, per indurla a smettere le pubblicazioni di tutte quelle nostre chiacchiere. Il povero
direttore non sapeva che rispondere, ma una colta e gentile signora, alla
quale serberò sempre la mia gratitudine, fece in modo che parecchi racconti greci furono pubblicati. Le belle e dotte recensioni che uomini illustri e miei maestri scrissero di quei racconti nell’Archivio per le tradizioni
popolari e nella “Rivista di filosofia e letteratura d’Italia” e da taluni professori della stessa Grecia, dettero ragione alla Signora, che ci accordò il suo
patrocinio, e torto a quei dottorini da caffè, che tuttavia ci guardavano con
un sorriso di scherno e di compassione. Ora pubblico a mie spese una
rivista di letteratura popolare nella quale saranno inserite in gran numero
novelline greche ed albanesi inedite, canti anche inediti o varianti di altri
già editi, e scritti che riguardano gli usi e i costumi di queste contrade. Tale
impresa, troppo superiore alle mie forze, avrà certamente le solite decisioni, ma sarà proseguita con coraggio, se i miei colleghi calabresi vorranno
darmi una mano e se avrò il compatimento di quegli uomini illustri, che
altra volta si occuparono a scrivere dei raccontini greci, raccolti da me e
dal mio amico Capialbi».
La rivista proseguì le pubblicazioni fino al 1902, e molti colti corregionali diedero a Bruzzano quella mano che egli auspicava. Riflettendo su tale
rivista avremo modo di intendere quale temperie culturale fosse in atto in
Calabria sul finire dell’Ottocento, quali le caratteristiche dello sguardo
demologico, quali miseria e nobiltà albergassero presso le classi dominanti.
Una riflessione relativa alla storia degli studi demologici, dell’affermarsi della prospettiva demologica nella nostra regione, questa, dunque, ma
proprio in quanto tale non soltanto riflessione demologica, se è vero che
la storia degli sguardi che la cultura egemone rivolse alla realtà popolare e
alla cultura da questa espressa, rivela anche appannamenti e cecità da rapportare a una dialettica tra culture che è riflesso - pur con tutte le mediazioni volta a volta instauratesi - di vicende storiche dispiegatesi in tutta la
loro complessità e quindi da ripercorrere problematicamente nelle loro
puntuali specificità.
Che una rivista venga assunta come punto di partenza e angolo di
osservazione di un discorso così ambizioso non sorprenderà di sicuro, sol
che si rifletta sull’importanza che nella cultura intellettuale italiana assun10
9. cultura - è già atteggiamento progressista. Certo, molte volte si tenta di
nobilitare tali forme culturali con la sottolineatura di analogie con modalità colte; il richiamo alla natura e alla spontaneità della vita semplice risulta di maniera; le forme folkloriche vengono selezionate secondo i parametri della cultura dominante. Ma i risultati vanno al di là delle intenzionalità degli autori; la vita delle opere trascende nel tempo e nei significati da
quella dei relativi autori. E allora, a prescindere da quello che questo gruppo di intellettuali ritenne di fare, quello che fece fu di contribuire a custodire la memoria storica di classi che erano state ridotte al silenzio dalla
dinamica del dominio. È nell’ambito di attività di questa rivista che si
attuano le prime esperienze demologiche di chi attraverso decenni di operosità scientifica produrrà quella Biblioteca delle tradizioni popolari calabresi
nella quale Raffaele Lombardi Satriani materializzerà la memoria folklorica della nostra regione. Tutto ciò avverrà in un’altra temperie culturale ma,
lo abbiamo appena visto, Raffaele Corso, a proposito della rivista
“Folklore Calabrese”, ha sottolineato il legame ideale tra il movimento iniziato in San Costantino di Briatico da Raffaele Lombardi Satriani e quello creato da Luigi Bruzzano in Monteleone di Calabria.
Custodi di memoria, dunque, e, come tutti coloro che consentono
comunque la vita di Memoria, operatori di libertà, ché solo nella continua
riconquista di memoria la nostra vicenda esistenziale e culturale può
dispiegarsi, come libertà e progetto. È per questo complesso di motivi
che, come ho già accennato all’inizio di questa Introduzione, appare particolarmente apprezzabile l’iniziativa di Filippo Curtosi e Giuseppe
Candido di proporre un’ampia antologia di documenti folklorici pubblicati da questa Rivista la cui conoscenza è stata sinora limitata agli addetti ai
lavori, restando l’impegno demologico di Bruzzano e dei suoi collaboratori pressoché sconosciuto a un più ampio pubblico, che può ora apprezzarne direttamente i risultati critici cui esso pervenne.
Luigi Maria Lombardi Satriani
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10. Perché
L’idea di riproporre editorialmente “La Calabria” di Luigi Bruzzano
risale all’incirca a tre anni fa quando fondammo il nostro periodico
“Abolire la Miseria della Calabria” e decidemmo di pubblicare, in un inserto letterario, alcuni brevi stralci della rivista.
I motivi di questa scelta sono molteplici, e qui proveremo a spiegarli
con l’obiettivo di meglio illuminare intenti e finalità di un’iniziativa - intrapresa come associazione di volontariato culturale Non Mollare - che ha
richiesto molto tempo. Una prima motivazione scaturisce da una considerazione molto semplice: l’attualità e l’universalità del tema, vale a dire la
sua valenza etnografico-antropologica è stato uno degli elementi che ci ha
indotto alla scelta.
Il desiderio di rivedere e conoscere meglio la nostra storia ci è stato
espresso - in privato o in pubblico - ma le occupazioni sono tante, gli anni
passano ed il ricordo dei nostri avi si va dissolvendo nel passato, senza che
la tradizione sia per davvero conosciuta.
Patriota e insigne letterato calabrese, Luigi Bruzzano è ancora oggi sconosciuto a molti calabresi. Con un coraggio sorprendente per gli anni in
cui vive, Bruzzano rifiuta l’immagine astratta e convenzionale dell’uomo,
riaffermando l’assoluta convergenza tra mondo sociale, politico e mondo
morale.
Le antinomie tra le quali si muovono le sue ricerche sono le stesse che
ancora oggi ritroviamo ne Il Mondo perduto di Vittorio De Seta, documentari del periodo 1954-1959 editi da Feltrinelli-Real Cinema nel 2008. Per
questo abbiamo pensato subito al maestro De Seta per la prefazione a
questo nostro lavoro. Bruzzano e De Seta: la stessa umile empatia nel raffigurare la realtà popolare. L’attività artistica di un personaggio come Luigi
Bruzzano, ci farà assaporare la presenza - in piena era globalizzata - di un
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11. qualcosa che, rifuggendo dalla meditazione e da ogni orpello, sgorga
spontanea da quell’insopprimibile bisogno di narrare la realtà calabrese
per quella che era e che oramai è divenuta “un mondo perduto”. La vita
di ogni giorno che viene messa a fuoco dal raccoglitore impareggiabile di
cultura, scrittore, antropologo, poeta è vista da una lente nella quale le
immagini non vengono gonfiate, sciolte, distorte ma tendendo a far propri i motivi e gli atteggiamenti dei calabresi senza retorica, senza eleganza
idiomatica e levigatezza stilistica.
Oltre allo stesso Bruzzano, su “La Calabria” scrivevano infatti numerosi nomi della cultura calabrese tra cui Antonio Iulia, Giovan Battista
Marzano, Pietro Ardito, Apollo Lumini, Carlo Massinissa Presterà,
Giovanni De Giacomo, Ettore e Vito Capialbi, Eugenio Scalfari e Nicola
Lombardi Satriani la cui famiglia ne rappresenta la naturale continuità.
Nell’ottica di una valorizzazione della cultura e delle tradizioni popolari
per la ricostruzione della nostra identità, riteniamo che il lavoro di Luigi
Bruzzano debba essere meglio conosciuto e divulgato, anche attraverso
azioni educative e informative, in collaborazione con le Istituzioni scolastiche e territoriali. Questo perché “La Calabria” di Luigi Bruzzano non è soltanto una rivista che raccoglie brani di letteratura popolare, ma rappresenta
un vero e proprio studio delle tradizioni culturali e agiografiche calabresi.
Bruzzano, in sostanza, riesce a carpire la voce del volgo per “fotografare” e studiare il popolo calabro e le sue tradizioni. Tutto ciò che fosse in
grado di rappresentare il popolo calabrese. Nel suo linguaggio e perciò
nella sua identità. Per questo, anche i proverbi, le facezie e le imprecazioni in stretto dialetto calabrese trovano il loro spazio. Nella leggenda,
popolare o religiosa, più che nella religione vera, Bruzzano riesce a cogliere il patrimonio esclusivo del popolo calabro: «in essa le menti volgari e
credenti attingono il sostrato di una credenza superstiziosa». E così il profano si intreccia con il sacro per diventare credenza, costume, usanza.
Bruzzano pubblicò importanti studi dell’etimologo Giovanni Battista
Marzano tra cui un dizionario etimologico dei termini dialettali calabresi
di cui abbiamo riportato alcuni stralci nella sezione X della presente raccolta. È invece del prof. G.B. Moscato il saggio sui nomi calabresi che
hanno origine nel greco.
Per le sue pubblicazioni sulle tradizioni linguistiche e sulle origini del
popolo calabrese per i quali non riscosse successo nel suo paese,
Bruzzano venne invece lodato da recensioni e lettere di importanti uomini illustri del tempo.
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12. Nella rivista “Aqhna”, opera periodica della società scientifica d’Atene,
anche il professore di glottologia dell’Università di Atene, G. Catzidacis,
riferendosi alla rivista di letteratura popolare “La Calabria” di Bruzzano,
la recensisce definendola: «...un periodico mensile, che da due anni vede
luce in Monteleone di Calabria, ed è diretto dal ragguardevole Sig. Luigi
Bruzzano. I suoi articoli sono degni di molta considerazione per la conoscenza dei popoli dell’Italia meridionale. Perché gli scrittori dell’Europa
occidentale pensarono da gran tempo, che, ad aver esatta notizia di ciascun popolo, è assolutamente necessario, che siano accuratamente osservati e conosciuti colla stampa non solo la lingua ed i canti popolari, ma
eziandio ogni suo tesoro spirituale, come a dire, le credenze religiose, le
superstizioni e i pregiudizi, i giochi, le feste, le danze, e in genere ogni suo
passatempo... “La Calabria” fin dalla sua apparizione segue questo santo
e utile scopo con impareggiabile costanza».
Il 16 ottobre 1888 il direttore dell’ “Archivio per le tradizioni popolari”
nonché illustre etnografo, letterato, antropologo e studioso di tradizioni
popolari, Giuseppe Pitrè in risposta al Bruzzano che gli aveva inviato
copia del primo numero della sua rivista lo elogia esplicitamente: «Ebbi,
con la pregiata sua del 15 sett., il I numero della Calabria e ne fui e ne sono
lieto. Ella ha fatto opera buona, e della evidenza in cui metterà le tradizioni calabresi, tutti Le saranno gratissimi. Voglia il cielo che i suoi sforzi vengano coronati dal buon successo che meritano!».
Sempre il Pitrè, nel recensire le novelle greco-calabresi di Luigi
Bruzzano ed Hettore Capialbi scrive: «i modesti quanto dotti Professori
Capialbi e Bruzzano non dovrebbero arrestarsi sulla via nella quale con
tanto bella preparazione di studi e con sì caldo amor patrio si son messi.
Entrambi dovrebbero continuare pazienti ed operosi il lavoro della
Raccolta, sicuri di fare opera doppiamente utile alla filologia e alla etnografia. Sappiamo bene che nessun compenso materiale potrà confortarli a
tanta impresa, ma sappiamo pure che alle anime gentili è conforto il plauso dei buoni...»
E ancora: «... I bravi proff. Capialbi e Bruzzano forse non troveranno
una parola di confronto nel loro paese, ed abbiam detto poco; scusandosi modestamente coi “pochi professori ai quali mandano questa prima raccolta” entrambi aggiungono: “essi ci compatiranno ove abbiamo errato, e
ci loderanno, se non d’altro del nostro buon volere; il che sarà per noi
larga ricompensa delle derisioni sofferte”». Si capisce chiaramente che
non solo Luigi Bruzzano non ebbe incoraggiamento alcuno dai suoi com35
13. paesani, ma peggio ancora - e questo è assai doloroso - fu deriso! È la solita storia: ieri come oggi. Quello che non si capisce lo si disprezza. Ma è
anche la solita storia di questa - a volte misera ma comunque amata nostra terra per la quale Nicola Giunta (Reggio Calabria, 4 maggio 1895 31 maggio 1968) poeta dialettale eclettico scrisse che «chistu è u paisi aundi
si perdi tuttu».
Chistu è u paisi aundi si perdi tuttu
Chistu è u paisi aundi si perdi tuttu,
aundi i fissa sugnu megghiu i tia,
u paisi i m’icrisciu e mi’ndi futtu
e ogni cosa è fisseria.
E si ‘ndi voi sapiri natra i chhiù
chistu è u paisi i scindi e falla tu;
u paisi disgraziatu:
ne io cuntentu e né tu cunsulatu.
Perciò no resta chi nu fattu sulu:
mu jiti tutti mà pigghiati ‘ntoculu
Ed è inutili mu va pigghiati
pecchi cchiù a giriati e ‘a firriati,
sempri cchiù dintra ‘culu va trovati
Nicola Giunta
Tant’è vero che «gli indigeni - come scriveva nel 1892 in una recensione della rivista “La Calabria”, il prof. Gustavo Meyer dell’Università di
Graz (regno Austro-Ungarico) cui Bruzzano aveva inviato copia - si son
dati ben poco pensiero della lingua e del genio nazionale dei Greci viventi in mezzo a loro, [...] solo negli ultimi anni l’onda del progresso, che ha
provocato nel rimanente d’Italia raccolte e studi così vigorosi di letteratura popolare, è pervenuta anche in quel lembo estremo della penisola
appenninica. I due professori Ettore Capialbi e Luigi Bruzzano hanno
raccolto novelle e canti greci pubblicandoli dapprima nel giornale
“L’Avvenire Vibonese”, e poi in due fascicoli a parte intitolati “Racconti
greci di Roccaforte” (Monteleone 1885-1886) [...] I due raccoglitori non
hanno trovato tra i loro concittadini, nessuna specie d’incoraggiamento a
proseguire nel loro lavoro. Anzi raccontano come essi siano stati derisi, e
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14. come soltanto l’interposizione di una colta Gentildonna abbia fatto sì che
potessero essere pubblicate almeno alcune novellette. Uno dei due amici
non si è lasciato scoraggiare nel continuare colla sua attività volenterosa in
questa specie di studi.
Egli ha pubblicato sin dal 15 settembre di quest’anno, ed a sue proprie
spese, una rivista mensile dal titolo “La Calabria - rivista di letteratura
popolare” in Monteleone; e tanto più si deve avere in pregio questa abnegazione se si pensa che gli insegnanti dei ginnasi italiani non sono compensati molto generosamente».
Parole quanto mai attuali quelle del professore Mayer che prosegue:
«Noi desideriamo di cuore che l’opera di Bruzzano [...] possa prosperare
senza nessun ostacolo; egli deve senza dubbio cercare nella riconoscenza
che gli si ha fuori dalla sua patria, la sua più vera soddisfazione».
E fu proprio così, pur avendo avuto lodi di chiara fama nazionale ed
internazionale, non fu capito proprio dai suoi conterranei calabresi. Da
noi calabresi che spesso disprezziamo - sino a deridere - ciò che non
conosciamo. In stretto dialetto calabrese, potremmo dire oggi: u pigghiaru
’ngiru. O peggio u cugghiunaru!
Nella laudationes che l’8 dicembre del 1902 il prof. Francesco Cremona
scrisse in occasione della morte di Luigi Bruzzano si legge: «[...] viaggiava
giorno e notte, talvolta intere settimane, non di rado per luoghi alpestri e
inaccessibili, d’estate come d’inverno, in vettura ed a piedi, non curandosi dei danni che poteva risentir la salute, non badando a spese, con fervore d’innamorato, con fede di apostolo. E frugava e ricercava dappertutto,
e raccoglieva leggende, novelle, fiabe, canzoni, descrizioni di usi e costumi, tornando lieto a casa solo quando gli fosse riuscito di trovare molto
materiale nuovo che l’acume critico della sua mente indagatrice avrebbe
poi ben saputo ordinare e coordinare.
Forte, adunque, della profonda conoscenza del greco moderno e del
dialetto albanese in special modo, padrone di un ricco tesoro di produzioni popolari, fondò nel 1888 un’autorevole rivista, “La Calabria”, finita
purtroppo con lui! La quale fu meno conosciuta ed apprezzata nei nostri
paesi, che fuori gli fruttò non solo l’onorificenza di Cavaliere della Corona
d’Italia, ma altresì l’onore di esser nominato socio corrispondente di varie
Accademie e di ricevere dalla Francia, come dalla Germania, dall’Austria,
dalla Grecia ed anche dalla lontana America congratulazioni e attestati di
ammirazione e simpatia da parte di uomini eminenti nelle lettere e nelle
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15. scienze. E mentre insigni scrittori calabresi collaboravano con lui, da Parigi
i prof.ri Carnai, Sibillat, Gaidoz, da Bruxelles, il prof. Monsour, da
Washington il Langley, dall’Italia settentrionale i prof.ri Morosi e Muller,
pregavano lui stesso di voler collaborare nelle loro mondiali riviste… Ed
io non saprei meglio riassumere i titoli di merito del compianto professore, che riportando dal dizionario dei Contemporanei Italiani, compilato
dall’illustre Angelo De Gubernatis, quanto si legge al nome di Bruzzano
Luigi:
“Benemerito folclorista calabrese - nato in Monteleone il 1 marzo 1838
- pubblicò nel 1861 alcune poesie patriottiche, in seguito la fonetica
Monteleonese - una collezione di parole greche in uso nel suo circondario - due volumi di racconti greci di Roccaforte. Fondò e dirige a
Monteleone “La Calabria”, rivista di letteratura popolare. È socio
dell’Accadia Dafnica di Acireale, socio corrispondente dell’Accademia
cosentina e della società Corea di Atene, Consigliere della Società
Nazionale delle tradizioni popolari - lavoratore indefesso, ma forse troppo modesto. Benché degno di più alta promozione, è sempre professore
nelle classi inferiori del patrio ‘Ginnasio’”.
A ciò - afferma il prof. De Gubertantis - è ancora da aggiungere che il
Bruzzano pubblicò vari, pregevolissimi lavori di Filologia nel “Giornale
della Domenica” di Napoli e nell’“Archivio” del chiaro G. Pitrè, oltre a
qualche scherzo comico molto ben riuscito, e che il suo nome occupa un
posto onorevole nel Dictionaire international des Folkloristes contemporaines che si pubblica a Parigi sotto la direzione del prof. Carnai. L’animo
forte, la vita intemerata gli […] la stima ed il rispetto dell’universale. Di lui
può ben dirsi ciò che un illustre professore affermava di quell’insigne filosofo che fu Francesco Fiorentino, al quale il nostro Bruzzano tanto si
assomigliava. Non vi fu cuore più gagliardo e più tenero, più sdegnoso e
più mite, più capace e più caldo. Fu anima sdegnosa, ma non seppe odiare, amò invece quanto può cuore d’uomo nato fra i tepori del cielo meridionale, ebbe dell’Alpe granitica, non mentì mai né si curvò, detestò la
forma che mentisce e nasconde la realtà, fu ingenuo come un fanciullo,
impavido come un eroe».
Perché abbiamo voluto curare questo lavoro? Perché “La Calabria” di
Luigi Bruzzano è il ritratto di un mondo, quello dove la gente parlava
come mangiava e viveva secondo regole nobili. Perché è stata una emozione intensa, una condivisione totale.
Perché «la Calabria è un incanto naturale» che attira il nostro sguardo e
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16. con lo sguardo l’attenzione, per la potenza della parola parlata, alla portata di tutti: la parola si fa scena, immagine, suono, colore, come i cortometraggi di De Seta. Con loro, con Bruzzano ieri e con De Seta oggi, «parlano le persone, i luoghi, le cose, i suoni, i volti, i riti, storie, gesti».
Non vogliamo analizzare, non essendo questo nelle nostre capacità, il
lavoro di Bruzzano, cosa che del resto fa in modo eccelso il prof. Luigi
Maria Lombardi Satriani nella sua introduzione. Ci conforterebbe solo il
pensiero che questo lavoro possa contribuire, piccola goccia, a conoscere
meglio il patrimonio della letteratura popolare calabrese e per questo
siamo grati al maestro Vittorio De Seta e al professore Luigi Maria
Lombardi Satriani che ci riconoscono il merito perché abbiamo sollevato
uno dei veli dell’oblio occultanti il carattere nobile del Popolo di Calabria.
Si intende soltanto presentare e far conoscere meglio la società del secolo scorso attraverso non studi specifici o ricerche erudite, ma attraverso la
luce di come eravamo, attraverso le nostre radici, il nostro linguaggio, la
nostra “natura” nell’accezione che noi calabresi diamo a questo termine.
Bruzzano non fu uno storico, ma si interessò agli avvenimenti storici della
Calabria per il suo amore verso questa terra, perché «il Nostro ne incarnava i santi ideali della gioventù calabrese ed era vivamente appassionato alla
causa della libertà italiana, in quel tempo che ritenevasi delitto gravissimo
anche il solo parlare di libertà». Ne ricacciò i fatti, evidenziandone via via
gli aspetti fortemente caratterizzanti della quotidianità. Li penetrò, ne illuminò ogni aspetto con una luce intensa, vera, evidenziando il vero volto,
la vera anima, il vero cuore della Calabria.
Nella sezione seguente è riportata integralmente la copia di un volumetto ingiallito, stampato nel 1892 in Monteleone di Calabria con il titolo: “La Calabria. Rivista di letteratura popolare. Recensioni e Lettere di
uomini illustri”. Sono lettere e recensioni scritte da uomini di chiara fama
dell’epoca. Tra questi oltre ai professor Gustavo Meyer dell’Univesità
austroungarica di Graz e G. Catzidacis, docente di glottologia
dell’Università di Atene parzialmente già citati, vi si trovano pure scritti
del direttore dell’archivio per le tradizioni popolari di Catania nonché illustre etnografo letterato, Giuseppe Pitrè, con le sue recensioni lodanti il
professore Bruzzano per il suo lavoro e le lettere di G. Morosi, docente
dell’Istituto superiore fiorentino. Lettere e recensioni di uomini illustri che
dimostrano l’interesse e la considerazione che si ebbe all’estero, oltre che
in Italia, del lavoro di raccolta che Bruzzano stava compiendo, incompreso e deriso dai suoi concittadini di allora, troppo poco conosciuto ai suoi
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17. conterranei oggi e alle giovani generazioni. Per questo “La Calabria” di
Bruzzano e il suo recupero hanno per noi e, speriamo anche per il lettore, un grande valore. Essa rappresenta la testimonianza, forse l’unica di un
certo livello, della cultura e delle tradizioni popolari calabresi. Nel tempo
che celebra il culto mediatico, dare uno sguardo al mondo che fu non
serve per esorcizzare o evadere la realtà, quanto piuttosto per recuperare
il senso, i segni e i simboli, ancora carichi di sacralità perché veri, umani.
Questi i motivi della nostra iniziativa che ci auguriamo incontri la benevolenza di quanti vogliano conoscere e approfondire le nostre radici. E per
questo speriamo di poter continuare con quest’opera di ricostruzione
identitaria della cultura della terra che amiamo.
Grazie a Vittorio De Seta, a Luigi Maria Lombardi Satriani e al contributo degli specialisti e di tutti coloro che hanno collaborato e sostenuto
questo lavoro. Per ultimo ci piace pensare che si è così realizzato il desiderio di Luigi Bruzzano, quello di scoprire, far conoscere, attraverso la
demologia nuovi anelli della interrotta catena che lega il presente al passato. Facciamo nostro il pensiero di Bruzzano: «I lettori ci compatiranno ove
abbiamo errato e ci loderanno, se non d’altro, del nostro buon volere».
Ci conforta il pensiero che il nostro lavoro possa contribuire a conoscere meglio il patrimonio di tradizioni popolari della nostra Patria, e che
sia anche riuscito a sollevare uno dei veli dell’oblio occultanti il carattere
nobile del popolo di Calabria, di cui siamo fieri di far parte: popolo altamente conservatore e quindi nazionale, che mantiene la stessa vivacità per
cui si distinse in un lontano passato, la stessa sottigliezza di mente, la stessa finezza di gusto in arte, le stesse tendenze nella vita privata e pubblica,
la stessa facondia e l’acutezza e il calore della frase e la ricerca dell’armonia e della grazia.
Filippo Curtosi e Giuseppe Candido
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18. Non saper leggere e scrivere,
“la cultura che si raccontava con la parola”
Per chi conosce o crede di conoscere la nostra regione questi scritti,
recuperati e riproposti ad una fruizione popolare da Giuseppe Candido e
Filippo Curtosi, sono un vero e proprio viaggio nelle antiche costumanze
di un tempo. Sono alcuni scritti de “La Calabria” di Luigi Bruzzano, selezionati e ristampati oggi per offrire una sorta d’inedito viaggio effettuato
senza alcuna retorica del tempo passato, senza nostalgie preconcette dell’antico che non c’è più dove tutto, per una sorta di distorsione mentale di
lettura dell’oggi, era più povero ma bello. Un viaggio in quella Calabria di
fine Ottocento tra contadini veri, tra gente sofferente di fatica e gioiosa
del vivere quotidiano, tra lutti e feste, tra amore romantico e carnalità passionale, tra lavoro e gioco.
È un viaggio, riletto simbolicamente, tra la gente che quando raccontava credeva profondamente a quanto veniva raccontato perché tutta la
conoscenza posseduta era stata loro tramandata proprio attraverso racconti. In fondo, per chi non sapeva leggere e scrivere, questa era la vera e
propria cultura, il racconto era tesoro, appartenenza alla comunità, era
memoria e identità, conoscenza da tramandare, sapere personale e collettivo da trasmettere a chi veniva dopo, era la propria profonda cultura della
memoria. Dopo i vasti recuperi archeologici del Settecento, l’Ottocento
offre stimoli a tanti viaggiatori stranieri che scendono nel Sud Italia per
vedere e descrivere in maniera oleografica. La tradizione orale diventa
scritta, recuperata da appassionati studiosi, da chi aveva percepito profondamente il valore in essa racchiuso.
Si comprende, negli scritti raccontati nelle pagine de “La Calabria” di
Bruzzano e dei suoi collaboratori attivi in loco, una sorta di potere delle
parole e una speciale coscienza nascosta nelle stesse parole, che viene alla
luce come un prezioso reperto da recuperare subito e da studiare, da capi41
19. re, da analizzare, esporre alla vista ed essere offerto alla conoscenza di più
persone non per fini puramente folklorici, ma per una comprensione più
profonda e generale di forme culturali dinamiche e vitali che riescono a
far conoscere e riconoscere la comunità a se stessa e, per la prima volta,
anche agli altri che stanno al di fuori di essa.
Ma quale vetrina, pur simbolica, poteva avere in quel tempo, un canto,
una leggenda popolare, un indovinello, un pregiudizio, un frammento
orale descrivente ricette culinarie ed usi della medicina popolare, una credenza o altri detti e ridetti racconti raccontati nei vari dialetti e da mille
voci differenti. Quale potere culturale uniformato ci poteva essere in quelle parole raccontate in dialetto stretto e molte volte anche non dette affatto. In nome di una conoscenza più generale dei popoli dell’Italia meridionale si percepisce, già in quella remota epoca, la più alta considerazione
della cultura subalterna che poi sono le tante culture popolari, le stratificazioni culturali che non sono morte nella memoria ma che vivono nel
racconto, cambiano, progrediscono, si modificano e non solo si trasmettono. Il limite della lingua dialettale e della toponomastica locale viene
superato da un interesse più ampio e profondo rivolto verso tutto ciò che
viene recuperato dalla parola e dal dare parola alla gente, a pastori, contadini, pescatori, massari, coloni e fattori.
È la storia della gente che vive la propria vita con le tante culture raccontate addosso, parole possedute, tramandate e con la convinzione che
dentro queste parole raccontate, gridate, sussurrate o solo percepite nella
metafora e nel non detto, ci sia racchiuso il potere infinito del sapere tramandato da migliaia di anni prima testimoniato da rimasugli archeo-linguistici, in similitudine con racconti greci, o con antichi residui e contaminazioni culturali di spagnoli, francesi, normanni, arabi, germanici…, reperti
che vivono nel reperto vivo e nell’attuale contemporaneo del tempo.
Il tesoro delle parole, recuperato da Luigi Bruzzano per la pubblicazione della sua “La Calabria” di fine Ottocento, scalfisce la barriera del
mondo popolare del tempo passato e ricordato con un recupero, alcune
volte davvero inedito, che scava nel tempo speciale delle feste, delle usanze e delle danze e dei passatempi del momento ludico, nel racconto delle
nenie, nella descrizione di fatti e costumanze ritualizzate, del vitto e della
cucina, della medicina popolare, del vestiario, delle superstizioni e delle
credenze religiose, magiche e delle loro tante ritualità e liturgie.
Ogni attività, anche la più semplice, non viene mai sottovalutata, viene
percepita come azione detentrice di cultura capace di fare luce sul caratte42
20. re più profondo di un popolo del Sud e dei caratteri che ne reggono le
sorti, percependo pregi e difetti ma anche coscienza del mantenimento di
una resistenza di caratteri e caratteristiche di un’identità culturale e del
senso di appartenenza costruito dai calabresi, giorno dopo giorno, in
migliaia di anni.
Franco Vallone
43
21. Luigi Bruzzano e Monteleone
Vita e attività di Luigi Bruzzano sono strettamente intrecciate a quelle
di Monteleone, nome con cui, nel Regesto del 1239 del re svevo Federico
II, era nota l’attuale Vibo Valentia e che si conservò fino al 1928 quando,
con decreto del Governo Fascista di Roma, si preferì recuperare quello
dell’antica colonia latina.
L’Ottocento è un secolo cruciale nella storia dell’Italia e della Calabria
ma, val bene ricordarlo, è preparato, sotto la spinta della rivoluzione francese, dal triennio 1796-1799, in cui si gettano le basi di un ritrovato nazionalismo e si ridefiniscono i termini della vita politica italiana, poiché sono
sul tappeto le grandi questioni degli anni a venire: libertà, democrazia,
indipendenza, unità. Agli inizi del secolo Napoleone, dopo aver creato la
Repubblica Cisalpina, col proclama di Schoenbrunn dichiara finita la casata borbonica, costringe Ferdinando IV alla fuga in Sicilia, mette sul trono
il fratello Giuseppe Bonaparte, quindi dà mandato al generale Massena di
occupare il Regno di Napoli e al generale Reynier di ridurre al dominio
francese una Calabria già prostrata dal violento terremoto del 1783 e dalla
dura repressione, seguita alla breve parentesi della Repubblica partenopea
del 1799, ad opera del cardinale Ruffo, sbarcato a Reggio in qualità di
Vicario Regio.
A Monteleone i francesi sono accolti a braccia aperte, ma il controllo
del territorio non è facile, in quanto le truppe borboniche hanno l’appoggio di bande di briganti che ostacolano le comunicazioni, depredano i villaggi, uccidono. Nel monteleonese il brigante Bizzarro1, a capo di 400
uomini, mette a dura prova il generale Messana che chiede inutilmente,
1
F.S. Nitti, Eroi e briganti, Longanesi, Roma-Milano, 1946, pp. 43-44.
45
22. con un bando, la resa pacifica delle armi. La situazione si normalizzerà,
infatti, solo dopo la dura repressione del francese Manhès nel 1810.
Con Gioacchino Murat, salito al trono nel 1806, la Calabria è divisa in
due province: quella Citeriore, con capoluogo Cosenza, e quella Ulteriore,
con capoluogo Monteleone che, dopo tre secoli, cessa di essere feudo e
diventa, grazie anche alla posizione strategica, un centro di grande rilievo.
La fine dell’Età napoleonica e, in Calabria, della centralità di
Monteleone, è segnata dal congresso di Vienna del 1815, che riconsegna
il regno di Napoli a Ferdinando IV, col titolo di Ferdinando I Re delle due
Sicilie. Inizia, con la Restaurazione, un periodo di decadenza economica e
sociale che dura fino al 1860 e oltre, come testimonia anche il vistoso calo
della popolazione. Tuttavia, a dispetto del declino, il fermento culturale e
politico del periodo è intenso. Già alla fine del Settecento avevano cominciato a circolare, fra gli intellettuali monteleonesi, le idee liberali della
Rivoluzione francese e della Massoneria che, perseguitata a più riprese da
Carlo III e Ferdinando IV, aveva attecchito perché auspicava la fine di
principati e sacerdozi, in quanto compromissori della libertà che Dio ha
dato all’uomo2.
Dopo il 1815, inoltre, si vanno diffondendo in tutta Italia le “vendite
carbonare”, col parziale contributo di quel ceto borghese che aveva visto
ridimensionate, con la caduta di Napoleone, le proprie prerogative. Senza
un reale programma politico, esse legano la loro vicenda nazionale a quella europea, sulla base dell’idea che libertà individuale e libertà dei popoli
siano incontestabilmente collegate. A Monteleone sono attive, in questi
anni, due “vendite”, quella della Valle del Mesima e quella della Valle
d’Angitola, vecchi nomi di significativa derivazione massonica. Il malcontento della popolazione, del resto, è enorme: le tasse sono esiziali, il commercio è danneggiato dalle imposte doganali, la proprietà rustica è
deprezzata. In Calabria la repressione dei carbonari è violenta: donne, vecchi e bambini vengono torturati perché facciano i nomi degli affiliati alle
sette.
Né va meglio da Napoli a Torino: i moti del 1820-21, che non registrano la partecipazione del popolo e neppure delle classi medie, falliscono.
Diversi, tuttavia, i calabresi che vi partecipano e, fra questi, il monteleonese Michele Morelli che, a Nola, è catturato e subito ucciso3.
2
3
A. Dito, Storia della massoneria calabrese. Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria, Brenner, Cosenza, 1980.
R. Giraldi, Il popolo cosentino e il suo territorio: da ieri a oggi, Pellegrini Editore, Cosenza, 2003, p. 165 e ss.
46
23. Delude anche il biennio 1831-33, nonostante la discesa in campo della
borghesia. Comincia, così, un periodo di relativa stasi in cui si riflette sul
fallimento dei moti e si prepara, sotto l’egida di Mazzini e dei liberali, ora
in sintonia ora divergenti, una nuova idea d’Italia. Parole d’ordine: indipendenza, unità, libertà. Strumenti: educazione e insurrezione. Necessità
individuata: mobilitazione popolare. A Monteleone, che conta ormai
meno di ottomila abitanti, gli anni Trenta sono tempo di rinascita: si apre
l’ospedale civile sui resti dell’antico convento carmelitano, giunge in visita Ferdinando II che promette la costruzione di un orfanotrofio e di un
istituto agrario, fioriscono attività artigianali e opifici come quello per la
lavorazione della seta, lavorano diverse tipografie, è presente una scuola
pittorica4 che, aperta nel Seicento, continua a produrre tele su committenza non solo religiosa ma anche privata.
Uno svizzero, Didier, nel resoconto del suo viaggio in Calabria, parlerà della Monteleone di questi anni come di un centro che va europeizzandosi, a dispetto di ciò che si vede nel resto della regione5. Certo, l’istruzione è ancora per pochi: trascurata dai francesi, è volutamente negata dai
Borboni, secondo cui il popolo non deve pensare ma è sufficiente che
conosca i rudimenti dell’alfabeto. Alle bambine, ad esempio, si richiede
essenzialmente di saper lavorare a maglia e di avere una buona formazione cristiana. E tuttavia, nei primi anni Quaranta, è attivo un gruppo di giovani di idee liberali, come Musolino (fondatore a Napoli dei Figli della
Giovane Italia, cui aderisce Luigi Settembrini), Presterà, Santulli, Morelli,
Nicotra, Ammirà, Capialbi, che si riuniscono a casa di Cordopatri o al
caffè Minerva.
Falliscono però, e tragicamente, i moti di Cosenza del 1844 e di Reggio
del 1847. A Cosenza un giovane Plutino, reduce dal Comitato centrale di
Napoli, aveva riferito agli aderenti alla Giovane Italia la decisione dei vari
partiti costituzionali e dei repubblicani di «piegar le bandiere di fronte ai
vitali interessi della nazione»: Mazzini, in sostanza, aveva offerto la corona d’Italia a Carlo Alberto perché guidasse la lotta contro l’Austria e solo
una futura costituente nazionale avrebbe deciso la forma di governo
migliore. La rivolta, scoppiata il 15 marzo del 1844, è subito repressa, ma
la notizia non giunge a Corfù da dove i veneziani Bandiera, ex ufficiali
4
5
C. Carlino - G. Floriani, La “Scuola”di Monteleone. Disegni dal XVII al XIX secolo, Rubbettino, Soveria
Mannelli, 2001.
A. Borello (a cura di), Cronistoria di Vibo Valentia. 1830-1899, in “Sistema bibliotecario vibonese”, “Biblioteca
digitale”, 2000, p. 263 e ss.
47
24. della marina austriaca, partono per portare il loro aiuto. Sbarcati a
Crotone, guidati da quello che considerano un profugo politico, in realtà
il brigante Meluso, vengono traditi, catturati nei pressi di San Giovanni in
Fiore e condannati a morte.
Tre anni dopo, in una Reggio che ritiene maturi i tempi, rientrano
diversi studenti da Napoli, Palermo, Torino per fare propaganda rivoluzionaria. Ancora una volta le decisioni arrivano dal Comitato napoletano di
liberazione: l’insurrezione dovrà partire, contemporaneamente, da
Cosenza e Palermo. Ma i siciliani non ci stanno: vogliono la costituzione
solo trattando pacificamente col re. È un nativo di Santo Stefano
d’Aspromonte, Romeo, a decidere: toccherà a Messina e Reggio insorgere per attirare le truppe borboniche in maniera da consentire ai rivoltosi,
attraverso la via dei monti, di raggiungere Palermo e Napoli. A Messina la
rivolta è subito sedata. A Santo Stefano d’Aspromonte, benedetta la bandiera dal parroco e accorsi aiuti da tutti i paesi limitrofi, si insorge al grido
di «viva il re costituzionale, viva la libertà». Ma si perde tempo, a vantaggio del generale Nunziante che, da Pizzo, risale via via fino a Monteleone
e oltre, riuscendo ad accerchiare i rivoltosi costretti sui monti: chi non
muore, è condannato al carcere duro6.
È il 1848 la data cruciale per l’Europa: i popoli si ribellano ai governi
assoluti; da una Sicilia che ha anima separatista parte l’insurrezione che
presto infiamma l’intero napoletano; Venezia e Milano sono teatro di
rivolta contro gli austriaci. La partecipazione dei calabresi è grande.
Rientra, dopo un esilio di circa trent’anni, quel Guglielmo Pepe che prima
aveva combattuto al fianco di Murat contro gli Austriaci e poi partecipato ai moti del 1820. A Reggio gli studenti scendono in piazza. Ferdinando
II, messo alle strette, è costretto a concedere la costituzione, che prevede
l’istituzione di una Commissione dei Pari in cui entrano due monteleonesi,
Taccone e Gagliardi. L’esempio sarà seguito in Piemonte, in Toscana, a
Roma. Il disaccordo tra re e Parlamento sulla formula del giuramento,
però, induce Ferdinando II a sciogliere la Camera dei deputati riunita a
Monte Oliveto. Il 15 maggio è guerra civile. La notizia raggiunge la
Calabria dove i Comitati per la salute pubblica di numerosi centri insorgono.
A Cosenza si forma un governo provvisorio che dichiara rotto ogni
patto tra il re e il popolo e chiede aiuto ai siciliani nella lotta per l’indipen6
F. Aliquò Taverriti, La Calabria per la storia d’Italia, “Corriere di Reggio”, Reggio Calabria, 1960, p. 41 e ss.
48
25. denza; Catanzaro è in subbuglio; a Reggio si vivono ore di attesa; a
Sant’Eufemia d’Aspromonte convergono i patrioti reggini guidati da
Plutino, Romeo, Cuzzocrea, Di Lieto che, con 500 volontari, formano il
Corpo dell’esercito calabro-siculo. Si appellano, con volantini, al popolo, “carne
venduta alle voglie di ogni dispotico capriccio”, perché riprenda in mano
il suo destino senza più affidarsi al sovrano. A Monteleone la gendarmeria borbonica è disarmata, ma lo sbarco del generale Nunziante pone subito fine all’insurrezione in tutte le province. Ricominciano, così, le trattative. Il re fissa, per il 15 giungo, i comizi per l’elezione dei deputati; il
Parlamento inizia i suoi lavori a luglio ma, l’anno che segue, è denso di
tensioni finché, nel giugno del 1849, sciolto il Parlamento, tolta la coccarda tricolore dalla bandiera bianca, ricomincia l’ondata delle persecuzioni.
Si assiste, nei tre anni successivi, a una serie di processi farsa a danno dei
liberali, in cui il nuovo Procuratore Generale, Morelli, detto la “jena”, contribuisce alla distorsione dei fatti per favorire le condanne. I ricorsi degli
imputati vengono rigettati dalla Corte Suprema di Napoli e solo la protesta popolare fa sì che le condanne siano mitigate: sei su 49 i condannati,
con pene da sette a trent’anni.
Nel 1852 Ferdinando II scende di nuovo in Calabria, di nuovo
Monteleone lo ospita, ma il clima resta teso: si susseguono vendette, persecuzioni, perquisizioni. La magistratura è sotto pressione, gli studenti
sono tenuti d’occhio. È di questi anni l’arresto del monteleonese Ammirà
che, processato per la sua attività di diffusione delle idee liberali, è accusato persino di offendere il buon costume in quanto tiene in casa una copia
del Decameron di Boccaccio. Non è comunque venuta meno, nonostante le
batoste, l’azione dei liberali monteleonesi. Lo stesso re rischia la vita per
mano di un calabrese, Agesilao Milano, che, dopo la leva, riuscito con uno
stratagemma ad entrare nel corpo dei Cacciatori, durante la parata dell’8
dicembre del 1856 a Campo Capodichino, riesce a raggiungere
Ferdinando II e a colpirlo col calcio del fucile.
Intanto, mentre il dibattito nazionale divide l’ipotesi mazziniana di una
rivoluzione popolare dalla proposta monarchico-governativa di Cavour, le
vicende precipitano e le due soluzioni finiscono col trovare una sintesi. Nel
1857 fallisce la spedizione a Sapri di Pisacane, che ha al fianco i calabresi
Nicotera e Falcone. Mazzini sacrifica definitivamente l’idea repubblicana
alla libertà degli italiani, i franco-piemontesi combattono contro gli austriaci, crollano i ducati di Toscana ed Emilia, nasce il regno dell’Italia del nord.
I successi infiammano il sud: a Reggio, nella bottega di un barbiere, si radu49
26. nano a più riprese i rivoltosi. La spedizione in Sicilia è uno dei momenti
chiave dell’unità d’Italia: nel 1859 Francesco II subentra al padre, fiuta la
tristezza dei tempi e si affretta a concedere la costituzione, ma è tardi e tutti
lo abbandonano. L’anno successivo Garibaldi sbarca a Marsala, sbaraglia i
borbonici, raggiunge da liberatore Palermo e si appresta ad attraversare la
Sicilia mentre a Reggio Calabria sono pronti i comitati insurrezionali, che
arruolano volontari allo scopo di formare un campo in Aspromonte. È
l’uomo giusto, pragmatico e capace di animare il popolo, senza necessariamente avere lo spessore del maestro Mazzini poi rinnegato.
La sua impresa aveva messo in moto i calabresi che vivevano a Torino
e a Genova e che subito avevano avviato un’affannosa colletta di soldi ed
armi. Da Quarto si erano imbarcati con lui nove cosentini, sei catanzaresi e altrettanti reggini. Destinazione Sicilia, dove tuttavia l’insurrezione era
fallita sul nascere. Le tappe del generale erano state trionfali: Calatafimi,
Palermo, Milazzo, Messina. Sotto la guida di Musolino e Plutino, ai calabresi era stato affidato il compito di occupare il forte di Altafiumara, sullo
stretto, per facilitare il passaggio del generale. Il piano, però, era mutato e
i patrioti erano risaliti sui monti per attirarvi le truppe borboniche della
costa. A San Lorenzo, in duecento e ben accolti dalla popolazione, il 16
agosto danno il via all’insurrezione e, il giorno successivo, si ricongiungono con Garibaldi a Mileto. Intanto, le truppe borboniche di stanza a
Monteleone sono allertate e, proprio mentre Garibaldi e Bixio raggiungono Mileto, il generale Ghio prepara la ritirata a Napoli. Il 21 agosto, dopo
aspri scontri, Reggio è conquistata e a Londra giunge la notizia che il
Regno di Napoli è ormai cancellato dalle carte d’Europa.
Ricomincia la salita. I paesi insorgono. Garibaldi raggiunge una
Monteleone sguarnita che lo accoglie trionfalmente e vi sosta, ospite del
marchese Gagliardi, dal balcone del cui palazzo incita la gente venuta ad
ascoltarlo: «Se un popolo risponde al grido di libertà - dice - esso è degno
d’averla». Proprio a Monteleone c’era stato un precipitoso quanto inutile
cambio di guardia: il maresciallo Vial, preoccupato dalle notizie che giungevano, si era dimesso e da Pizzo, con un migliaio di soldati, si era imbarcato alla volta di Napoli; il suo successore, il generale Ghio, non aveva
potuto far altro che abbandonare il paese e mettersi in marcia verso
Tiriolo. Intanto, Catanzaro, Maida, la stessa Tiriolo vengono liberate. Da
Maida Garibaldi chiede aiuto contro le truppe di Ghio ferme a Soveria
Mannelli. Ed è a questo punto che la storia del poeta e patriota Luigi
Bruzzano e quella della sua terra si intrecciano: il 30 agosto, a Soveria
50
27. Mannelli, poco più che ventenne, prende parte allo scontro tra i garibaldini guidati dal generale Scocco, che aveva organizzato un suo gruppo, i
Cacciatori della Sila, e i borbonici guidati da Ghio che, vistosi circondato
dalle truppe nemiche posizionate sulle alture e incalzato frontalmente da
Garibaldi, si arrende insieme ai suoi 10.000 uomini.
Il resto del tragitto, fino a Salerno, è un passaggio attraverso rivolte già
compiute. Nella cittadina campana Garibaldi incontra altri due calabresi,
Salazar e Piria, lo stesso che di lì a poco, su incarico di Cavour, avrebbe
preparato il plebiscito in Calabria. Poi la cronaca: in ottobre, a Teano, il
Dittatore dell’Italia Meridionale consegna a Vittorio Emanuele II le due
Provincie continentali delle Due Sicilie che, come ratificherà nel documento a sua firma dell’8 novembre successivo, lo hanno scelto quale loro
Sovrano Costituzionale, unendosi alle altre Province d’Italia, con
1.302.064 di voti a favore e 10.312 contro. Fra i parlamentari del nuovo
Regno un monteleonese, Musolino e, fra i senatori, quel marchese
Gagliardi che aveva finanziato l’impresa garibaldina7.
Gli ultimi decenni dell’Ottocento sono di grande fermento politico, economico, sociale e culturale in Italia, ma il Sud da subito arranca. Alla Camera
il deputato del collegio di Melito Porto Salvo, Agostino Plutino, protesta
ripetutamente contro la cattiva amministrazione regia, propensa a “piemontesizzare” i territori liberati da Garibaldi. Ovunque si chiede Roma capitale,
ma la Francia si oppone e il governo Rattazzi scontenta tutti. Così Garibaldi,
nel 1862, torna in campo, risale da Palermo verso Napoli ma è fermato e
ferito ai Forestali, sull’Aspromonte, nel corso di uno scontro con i sessanta
battaglioni che, guidati dal generale Cialdini, gli sono stati mandati contro,
mentre a Reggio la Giunta Municipale, il Consiglio Comunale e gli ufficiali
della Guarda Nazionale si dimettono. Garibaldi ritornerà in Calabria,
ammalato, nel marzo del 1882, per raggiungere Palermo e partecipare alla
commemorazione dei Vespri. Il viaggio in treno è lentissimo: dappertutto,
lungo i binari, folle di calabresi giunte a salutarlo. Il legame con Reggio è
forte, la città non l’ha mai dimenticato, nel decennio successivo alla spedizione gli ha conferito una medaglia, lo ha eletto presidente onorario della
Società Operaia di Mutuo Soccorso, gli ha mandato un assegno di mille lire annue
nel momento in cui lo ha saputo in difficoltà8.
7
8
F. Aliquò Taverriti, op. cit.
Ibidem.
51
28. Eppure, masse intere di contadini ridotte in miseria gli rimproverano di
non aver mantenuto la promessa di una riforma agraria: l’agognata unità ha
prodotto un ulteriore arretramento nelle loro condizioni di vita, provocando periodiche insurrezioni e acuendo il fenomeno del brigantaggio. È un
piccolo esercito composito quello che si ribella, fatto di braccianti esasperati dallo sfruttamento dei latifondisti, dall’eccessiva tassazione, dalla privatizzazione delle terre demaniali, dalla vendita dei beni ecclesiastici, dall’obbligo del servizio di leva e poi di pastori, ex garibaldini, ex soldati dell’esercito borbonico, malviventi, latitanti: sono, per la gran parte, i “cafoni” di
Salvemini in guerra contro i “galantuomini” locali e l’industrializzazione
del nord. La repressione, affidata al generale Cialdini, è dura: la legge Pica
del 1863, che gli conferisce poteri speciali, consente di colpire non solo i
presunti briganti ma anche parenti e semplici sospettati.
In Calabria, la rottura dell’isolamento ha creato le condizioni per l’avvio di una situazione stabile di marginalità economica. L’apertura di un
mercato nazionale e l’estensione del gravoso sistema fiscale piemontese,
grazie alle cinque leggi Bastogi che si sono susseguite tra il 1861 e il 1862,
hanno colpito le poche industrie esistenti. Fino alla metà dell’Ottocento,
infatti, la regione, nei territori del cosentino e del marchesato crotonese,
produce il 70% della liquirizia consumata sul territorio nazionale e questo
è l’unico prodotto che ancora a fine secolo riesce ad esportare in Belgio,
Gran Bretagna e Olanda. A Catanzaro, Cosenza e Villa San Giovanni è
stata a lungo attiva la manifattura della lana. Funzionavano bene i comparti alimentare e meccanico, la lavorazione di cuoio e pelli, le industrie
estrattiva e metallurgica. Già alla vigilia degli anni Settanta e nel ventennio
successivo cambia tutto: la crisi agraria, conseguenza di un mercato libero che trova le campagne impreparate a competere con i paesi europei,
determina il crollo di settori trainanti come quello granario e vinicolo;
declinano le industrie e le piccole unità produttive di tipo artigianale; prende il via il fenomeno migratorio, unico in grado di determinare quel flusso di risorse che può dare respiro alla bilancia dei pagamenti e consentire,
a molte famiglie, di sottrarsi alla miseria9. Il malumore è enorme: il Sud si
sente tradito e depredato da chi avrebbe dovuto sanare le strutture feuda9
V. Daniele, Ritardo e crescita in Calabria. Un’analisi economica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005. Dello stesso autore è possibile consultare Una modernizzazione difficile. L’economia della Calabria oggi, Rubbettino,
Soveria Mannelli, 2001. Notizie sulle industrie nel Regno di Napoli si trovano in M. Petrocchi, Le industrie
del Regno di Napoli dal 1850 al 1860, Edizioni R. Pironti, Napoli, 1955. Il periodo di crisi è sintetizzato da
A. Placanica, Storia della Calabria dalle origini ai nostri giorni, Meridiana libri, Catanzaro, 1993, p. 348 e ss.
52
29. li lasciate dai Borboni e, invece, adotta una politica di rapina. Nessun
governo pare realmente interessato alle sorti della parte più debole e arretrata del paese: è di Depretis la tassa sul grano, come di un meridionale,
Crispi, quella politica protezionistica che va ad intaccare la piccola coltura vinicola ingrassando le entrate del Nord e i latifondisti del Sud, ben rappresentati in Parlamento e favoriti da un sistema elettorale che esclude dal
diritto di voto chi non sa leggere e scrivere. Salvemini invoca il federalismo come unica faticosa via d’uscita10; ancora negli anni Venti del nuovo
secolo Gramsci denuncerà il “patto mostruoso” tra la classe liberale e progressista del Nord e i latifondisti reazionari del Sud voluto da Crispi che,
alla domanda di terra dei contadini meridionali, risponde con la facile promessa delle conquiste coloniali11.
Appare lontanissimo quel Nord insieme al quale si è lottato per l’indipendenza e l’unità. Lì crescono i poli industriali; si forma un proletariato
industriale con ansie e istanze diverse da quelle degli operai che, lavorando in fabbriche avvantaggiate dal protezionismo, godono di miglior trattamento salariale; cresce una coscienza operaia di classe che avanza le sue
rivendicazioni non più solo attraverso la rete solidale delle Società Operaie
di Mutuo Soccorso ma anche attraverso l’Associazione Internazionale
degli Operai, di matrice anarchica. Si discute e, nella Milano del 1882, si
giunge alla costituzione del Partito Operaio Italiano, subito ridotto alla
clandestinità dalla parte più conservatrice della borghesia.
E, però, il fiume è inarrestabile: si diffonde il marxismo; nel 1889 delegati italiani del Partito Operaio partecipano, a Parigi, alla Seconda
Internazionale; le diverse categorie dei lavoratori si organizzano in federazioni; si costituiscono le prime Camere del Lavoro; nasce a Genova, nel
1892, il Partito Socialista, che tenta di mediare tra socialdemocrazia e spinte rivoluzionarie. La crisi del ’93, che segna un regresso delle condizioni di
vita di operai e contadini, non trova impreparati e, alla fine degli anni
Novanta, sono proprio gli operai a scendere in piazza, da soli e senza grossa organizzazione, intanto che i socialisti tentano la via della mediazione e
si spaccano. Il secolo si chiude con lo sciopero generale di Genova12.
10
11
12
G. Salvemini, Il federalismo, in R. Villari (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, vol. II, Laterza, Roma-Bari,
1977, p. 348 e ss.
A. Gramsci, Il Mezzogiorno e la rivoluzione socialista, in R. Villari (a cura di), op. cit., p. 535 e ss. Sullo stesso tema cfr. A. De Viti De Marco, Il miraggio della Libia, in R. Villari (a cura di), op. cit., p. 424 e ss.
M. Michelino, 1880-1993. Cento anni di lotte operaie, Edizioni Laboratorio politico, Napoli, 1993.
53
30. Diffuso è il pregiudizio, anche in ambiente operaio e favorito dal riformismo socialista, che l’arretratezza del Mezzogiorno sia legata all’inferiorità della sua razza13. Quando Gramsci affronterà la questione meridionale - individuando nell’alleanza tra la borghesia settentrionale e i grandi
proprietari terrieri del sud le ragioni dell’immobilismo semifeudale del
Mezzogiorno ridotto, insieme alle isole, a “colonia di sfruttamento” - inviterà il proletariato industriale del nord ad allearsi con i contadini del sud e
a guidare la lotta per l’emancipazione14.
E tuttavia, nei piccoli centri calabresi, sia pure con forte caratterizzazione locale, non manca il fermento culturale che si respira nel resto del
paese. A Monteleone di Calabria, all’indomani dell’Unità, si succedono
come sindaci gli uomini che avevano guidato idealmente il rinnovamento,
come Cordopatri, Gagliardi e Capialbi; scrivono e pubblicano figure versatili come Cordopatri, Morelli, Santulli, Pignatari, Lumini, Morabito,
Ammirà, Marzano, Gasparri, Mele; uno dietro l’altro vedono la luce diversi fogli periodici, in cui è dato grande risalto ai problemi locali e alle tradizioni popolari e che meriterebbero maggiore approfondimento: “La
Voce pubblica”, “La Verità”, “La Ghirlanda”, “Folklore calabrese”,
“Cronaca Vibonese”, “Il primo passo”, l’“Avvenire Vibonese” di Eugenio
Scalfari e, dal 1889 al 1902, “La Calabria. Rivista di letteratura popolare”
di Bruzzano. Luci e ombre, comunque: il secolo qui si chiude, infatti, con
l’arresto dei fratelli Raho, nella cui tipografia si stampavano giornali
democratici e socialisti. Muta poco nei primissimi anni del Novecento.
Ancora fogli e periodici, testate di destra o socialiste, testimoniano un
vivissimo pullulare di idee e interessi. Bruzzano, che si era dedicato al
recupero delle tradizioni popolari in un momento particolarmente difficile per le masse del sud, muore nel 1902 e la sua cittadina si avvia al ventennio fascista tra alti e bassi.
Vitalità politica e culturale, scavi archeologici e pubblicazioni di grande
interesse come quelle di Umberto Zanotti Bianco e Paolo Orsi15, personalità di spicco come Lombardi Satriani e, poi, l’altra faccia della medaglia,
che racconta il disastro di due terremoti, la miseria e l’emigrazione, le cattive condizioni igieniche, la malaria.
Giovanna Canigiula
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N. Colajanni, Per la razza maledetta, in R. Villari (a cura di), op. cit., p. 431 e ss.
A. Gramsci, op. cit.
M.A. Romano, L’archeologia di Paolo Orsi a Monteleone Calabro. 1912-1925, Qualecultura, Vibo Valentia, 2006.
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