1. Il codice civile prevedeva la libera recedibilità dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato salvo preavviso
(art. 2118). Il datore di lavoro quindi (al pari del lavoratore) poteva recedere dal rapporto a propria
discrezione essendo vincolato unicamente all'osservanza del termine di preavviso. Tale possibilità di
licenziamento assolutamente discrezionale è divenuta, per effetto di successivi interventi legislativi, del
tutto residuale (tanto da risultare attualmente praticabile unicamente nei confronti dei dirigenti e dei
lavoratori in prova). Il principio introdotto dalla successiva legislazione limitativa, ed ormai di pressoché
generale applicazione, è infatti quello secondo cui il licenziamento per esser legittimo deve essere
necessariamente giustificato da una circostanza di fatto (giustificato motivo o giusta causa) obiettivamente
verificabile. In caso di impugnazione giudiziaria spetta al datore di lavoro di fornirne la prova.
La disciplina limitativa del licenziamento individuale è stata introdotta dalla legge n. 604/1966 la quale, in
linea di massima, ha recepito e generalizzato l'accordo collettivo interconfederale relativo al settore
industriale.
Un'ulteriore importante innovazione si è poi avuta con l'art. 18 della legge n.300/1970. Nel suo ambito di
operatività, la tutela del lavoratore illegittimamente licenziato è stata rafforzata mediante la previsione
della sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro. Conseguentemente, alla tutela contro il
licenziamento di tipo obbligatorio, approntata dalla legge n. 604/1966 in forza della quale è lasciata al
datore di lavoro la scelta se riassumere il lavoratore ingiustamente licenziato od invece pagargli
un'indennità sostitutiva della riassunzione, si affianca, dopo l'entrata in vigore della legge n. 300/1970, la
tutela cosiddetta reale; il datore di lavoro rientrante nell'ambito di operatività dell'art. 18 è tenuto a
reintegrare nel posto di lavoro il lavoratore illegittimamente licenziato, essendo obbligato comunque a
pagargli la retribuzione dal momento della sentenza di condanna a quello dell'effettiva reintegrazione.
Il licenziamento
Licenziamento per giusta causa
Affinché il licenziamento sia legittimo, il datore di lavoro deve giustificare la sua decisione. Il
licenziamento per giusta causa scatta quando si verifica una circostanza così grave da non
consentire la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto lavorativo (art. 2119 c.c.). In tal
caso il datore di lavoro può recedere dal contratto senza l'obbligo di dare il preavviso, né
l’indennità di mancato preavviso. Si tratta di casi così gravi da provocare l’interruzione immediata
del rapporto di lavoro (licenziamento in tronco).
Generalmente i contratti collettivi prevedono determinati fatti che legittimano il licenziamento
senza preavviso. A titolo esemplificativo, possono costituire giusta causa di licenziamento:
• il rifiuto ingiustificato e reiterato di eseguire la prestazione lavorativa/insubordinazione;
• il rifiuto a riprendere il lavoro dopo visita medica che ha constatato l'insussistenza di una
malattia;
• il lavoro prestato a favore di terzi durante il periodo di malattia, se tale attività pregiudica la
pronta guarigione e il ritorno al lavoro;
• la sottrazione di beni aziendali nell'esercizio delle proprie mansioni (specie se fiduciarie);
• la condotta extralavorativa penalmente rilevante ed idonea a far venir meno il vincolo
fiduciario (es. rapina commessa da dipendente bancario);
• risse nei luoghi di lavoro o violenze verso gli altri lavoratori.
2. Questi gravissimi inadempimenti agli obblighi contrattuali ma anche quei comportamenti
extraziendali, devono determinare il venir meno della fiducia posta alla base del rapporto di lavoro.
Il giudice, chiamato ad accertare la presenza della giusta causa, dovrà pertanto valutare in concreto
la violazione dell’elemento fiduciario, più che lo specifico inadempimento del lavoratore.
Il licenziamento
Licenziamento per giustificato motivo
La motivazione del licenziamento, necessaria per la sua legittimità, può risiedere nella presenza di
un giustificato motivo. In tal caso il datore di lavoro è obbligato a dare il preavviso al lavoratore
(art. 1 L. n. 604/1966).
La legge del 1966 prevede, all'art. 3, due ipotesi di giustificato motivo:
• Giustificato motivo soggettivo è costituito dal "notevole inadempimento degli obblighi
contrattuali" da parte del lavoratore. Ipotesi però non così gravi da non consentire la prosecuzione
del lavoro per il periodo del preavviso. Si configura come un inadempimento meno grave di quello
che determina il licenziamento per giusta causa. Possono costituire ipotesi di giustificato motivo
soggettivo l'abbandono ingiustificato del posto di lavoro, minacce, percosse, malattia
(superamento del periodo di comporto).
• Giustificato motivo oggettivo riguarda i casi di licenziamento determinato da "ragioni inerenti
all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa", non
riguarda pertanto il comportamento del lavoratore. Tra i casi più frequenti, individuati dalla
giurisprudenza come giustificato motivo oggettivo vi sono: cessazione dell'attività, fallimento,
riorganizzazione aziendale; inoltre la sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore a svolgere le
mansioni assegnategli, la carcerazione del lavoratore.
Differenze tra licenziamento per giusta causa e giustificato motivo
A valutare l'applicabilità di una condotta all'una o all'altra nozione è il giudice del lavoro, che in tale
valutazione dispone di ampia discrezionalità.
Sul piano pratico, la differenza tra le due nozioni si basa sulla maggiore o minore gravità del
comportamento: in caso di licenziamento per giustificato motivo, il datore è tenuto a dare un
periodo di preavviso, stabilito dai contratti collettivi, oppure, se vuole estromettere subito il
lavoratore dall'azienda, è tenuto a corrispondere al lavoratore una indennità di mancato preavviso,
pari alla retribuzione complessiva che gli sarebbe spettata se avesse lavorato durante tale periodo. In
caso di licenziamento per giusta causa, invece, il rapporto si interrompe immediatamente e il
datore non deve corrispondere alcuna indennità di mancato preavviso.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo [modifica]
Spesso il licenziamento è reso necessario da una riorganizzazione del lavoro, da ragioni relative
all'attività produttiva (innovazioni tecnologiche, modifica dei cicli produttivi, ecc.), ovvero da una
crisi aziendale. Nelle ipotesi, cioè, in cui l'azienda, per vari motivi, non ricava più utilità dal lavoro
svolto da quel dipendente, o, in generale, da una categoria di dipendenti. Per ragioni di natura
economica o tecnica, il datore può quindi decidere di licenziare uno o più lavoratori. Se il
licenziamento interessa cinque o più lavoratori nell'arco di 120 giorni, il datore è tenuto ad
osservare la speciale disciplina prevista per i licenziamenti collettivi. Se tali soglie non sono
raggiunte, si applica la generale disciplina sui licenziamenti qui esposta.
3. Casi di giustificato motivo oggettivo [modifica]
Possono costituire casi di giustificato motivo oggettivo, sempre che non si rientri nella nozione di
licenziamento collettivo:
• la chiusura dell'attività produttiva
• la soppressione del posto di lavoro
• introduzione di nuovi macchinari che necessitano di minori interventi umani
• affidamento di servizi ad imprese esterne
A queste si aggiungono due ipotesi che riguardano la persona del lavoratore ma sotto il profili del
regolare funzionamento dell'organizzazione produttiva. la prima consiste nel superamento del
"periodo di comporto", cioè del periodo di malattia, stabilito dai contratti collettivi, durante il quale
il lavoratore non può essere licenziato. La seconda è relativa alla sopravvenuta inidoneità del
lavoratore alle mansioni. Va precisato che le ragioni sopra esposte devono sussistere effettivamente
e al momento in cui il licenziamento viene intimato, a pena dell'inefficacia dello stesso. Il giudice
può controllare l'effettiva sussistenza delle ragioni tecniche ed organizzative, anche se non può
sindacare sulla loro reale convenienza ed opportunità[4]. Una presunzione di illegittimità del
licenziamento si ha qualora il datore assuma, nei mesi successivi al licenziamento, nuovi lavoratori
(anche a termine) per ricoprire le stesse mansioni in precedenza esercitate dai dipendenti licenziati
[5]
.
In caso di contestazione in giudizio, è sempre il datore di lavoro a dover provare:
1. l'effettiva sussistenza delle ragioni tecniche o organizzative
2. l'impossibilità di adibire il lavoratore ad attività equivalente in azienda, ad esempio perché al
momento del licenziamento non sussisteva in azienda alcuna posizione di lavoro analoga a quella
soppressa alla quale il lavoratore licenziato avrebbe potuto essere assegnato per l’espletamento di
mansioni equivalenti a quelle da lui in precedenza svolte, tenuto conto della professionalità
raggiunta dal lavoratore medesimo
3. il nesso tra le esigenze aziendali e il licenziamento intimato.
Scelta del dipendente e obbligo di repêchage [modifica]
Il lavoratore da licenziare deve essere scelto secondo correttezza e buona fede. Se esistono, devono
essere applicati i criteri concordati con le associazioni sindacali (es. minore anzianità di servizio,
minore carico di famiglia, età, ecc.). In ogni caso è ovviamente vietato scegliere il lavoratore da
licenziare sulla base di motivazioni discriminatorie (razziali, di sesso, di orientamento sessuale,
ecc.)[6].
In caso di licenziamento illegittimo l'articolo 18 impone all'azienda sia il reintegro del lavoratore che una
sanzione pecuniaria, rendendo di fatto nullo il licenziamento stesso. Viene disposta la reintegrazione del
lavoratore e non la riassunzione, perché altrimenti il dipendente perderebbe l'anzianità di servizio e i diritti
acquisiti con il precedente contratto.