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«Terra, aria, acqua fuoco. Per una storia naturale della Grande Guerra»:
in margine a un seminario di Ca’ Foscari
Da oltre un anno, presso l’Università Ca’ Foscari, si sta svolgendo un seminario, dedicato
al primo conflitto mondiale, che colloca i suoi oggetti storiografici sotto un titolo
sicuramente originale anche se, a prima vista, schiettamente alchemico: Terra, aria, acqua,
fuoco. Per una storia naturale della Grande Guerra. Diretto da Mario Isnenghi, il gruppo di
lavoro coinvolge Lisa Bregantin, Eva Cecchinato, Daniele Ceschin, Lucio De Bortoli,
Stefano Doardo, Matteo Ermacora, Valeria Mogavero, Ugo Pavan Dalla Torre, Matteo
Polo, Paolo Pozzato, Claudio Rigon e Massimo Rossi. A questi studiosi, che animeranno le
iniziative del cantiere cafoscarino per l’intero quinquennio del «lungo centenario» 2014-
2018, altri specialisti, di volta in volta, si uniranno, in base alle traiettorie lungo le quali il
progetto s’incamminerà e alla forza di attrazione che gli insediamenti tematici in
costruzione sapranno esercitare. La prima occasione di confronto pubblico è prevista,
nell’autunno 2015, ad Asiago, capoluogo eponimo dell’Altopiano per antonomasia della
Grande Guerra, la cui amministrazione comunale sembra orientata a non perdere
l’occasione di patrocinare e ospitare un ciclo di studi che si preannunzia ricco di trame
stimolanti. E che, quantunque partecipe e protagonista delle più recenti e sofisticate
«riconfigurazioni»1 della Grande Guerra, incorpora – ciò che potrebbe essere, secondo me,
un asset importante del seminario – anche un «punto di vista» veneto2, nel senso
1 Sulle «configurations historiographiques» prodottesi, modificatesi e intrecciatesi sulla Grande Guerra in
un secolo di riflessione e rielaborazione è ancora utile il rinvio ad A. Prost e J. Winter, Penser la Grande
Guerre. Un essai d’historiographie, Paris, Editions du Seuil, 2004, pp. 15-50. Sulle «urgenze culturali e politiche»
che, dagli anni ’60 del Novecento in poi, incentivarono le riletture di quel conflitto, aveva per tempo invitato
a riflettere, in un libro che fu anche parte attiva delle riconfigurazioni che auspicava, M. Isnenghi,
«Introduzione» a Id. (a cura di), Operai e contadini nella Grande Guerra, Bologna, Cappelli, 1982, p. 7; ma v.
anche pp. 15 ss.
2 Una buona prima ‘approssimazione’ – e ampio recupero bibliografico e tematico - alle questioni
accennate nel testo si guadagna da L. Bregantin (a cura di), La Grande Guerra in Veneto, num. monogr. del
«Notiziazio bibliografico» della Regione Veneto, n. 69, 2014, da cui segnalo, per connessione, almeno
Isnenghi, Regionalizzare la guerra, nazionalizzare le masse (pp. 11-14); Bregantin, Terra, uomini, guerra. Lettura
storica di un territorio (pp. 15-18); Pozzato, La Grande Guerra in Veneto (pp. 19-21); seguono, saldati al titolo
comune Luogo fisico e luogo del mito, i contributi di Polo, Il Piave (pp. 28-30); Pozzato, Il Grappa, nonché
L’Altopiano nella bufera (pp. 60-62); Doardo, La percezione del paesaggio della Grande Guerra (pp. 35-37). Non
meno interessanti, e connessi, F. Todero, Un luogo e due vite. Giani e Carlo Stuparich in Altopiano (pp. 48-49); il
mattatore Pozzato con Scrittori austriaci in Altopiano (pp. 50-51). Sulla «produzione di luoghi»,
nell’immediato e prospetticamente: S. Zava, Nuovi spazi e nuovi segni in territorio veneto (pp. 63 ss.); M.
Passarin, La memoria e il paesaggio. I musei della Grande Guerra in Veneto e l’Ecomuseo della Grande Guerra sulle
Prealpi (pp. 75-77); Bregantin, I sacrari in Veneto (pp. 78-82); P. Scolè, Il Veneto in armi. La Grande Guerra 1914-
1918 (pp. 83-85); Ceschin, Addio paesi, addio case! Il profugato veneto (pp. 86-87); la ‘grande paura’ del Veneto
occupato 1917-1918 è rimessa a fuoco da U. Bernardi (pp. 88-89); mentre Pavan Dalla Torre, L’associazionismo
ieri e oggi (pp. 90-94), tratta il tema delicato del combattentismo e delle sue contrastate auto- ed etero-
istituzionalizzazioni. Merita una segnalazione, ab extra, A. Zaffonato, Natura e storia. Le Alpi nell’immaginario
dei soldati italiani della Grande Guerra, rel. E. Francia, Univ. di Padova, a.a. 2010-2011, con ricca bibliografia e
una compendiosa riduzione saggistica, con lo stesso titolo, nella rivista «Clio», XLIII, 2012, n. 2, pp. 223-239.
storicamente proprio in cui la più scaltrita storiografia ne ha colto da decenni la rilevanza
sul piano di un «concetto storico-geografico di unità veneta»3 che – strutturalmente e
intrinsecamente irriducibile ai vaneggiamenti ‘venetisti’ - può fornire un’utile proiezione
polioramica del film ‘Grande Guerra’ e, soprattutto, del suo set antropo-geografico, che in
Italia fu soprattutto triveneto4.
Un’idea più precisa di quella che potrei sperare di fornire epitomando la fonte è possibile
attingere direttamente dal documento programmatico:
Riportare la guerra ai suoi elementi primigeni: terra, acqua, aria, fuoco. Ma non per restare chiusi
dentro alla superiore ‘indifferenza’ della Natura. Anzi, per mostrare l’incidenza della e sulla natura:
il cozzo fra natura e cronaca, natura e quotidianità, natura e storia, quella storia in atto che si viene
facendo, anche e proprio ‘sfruttando’ e superando le condizioni date. Altrimenti detto: il tempo –
quel tempo – fa irruzione nel ‘senza tempo’, siano montagne o fiumi. Ma la natura ha anch’essa le
sue variazioni temporali e ci sono anche interconnessioni fra guerra e stagioni: le stagioni possono
risultare ostacolo o preclusive dell’azione. L’inverno, la neve, i fiumi in piena o in secca, che ci
siano o non ci siano alberi, le rocce carsiche, il Carso esso stesso trincea naturale, le sue rocce e
schegge esse stesse volta a volta armi o riparo. La natura influenza, pesa sull’uomo-soldato, ma ne
esce anche trasformata. Dalle grotte alle gallerie, alle caverne, ai camminamenti, ai pozzi.
Dinamiche accelerate del mutamento, nelle trasformazioni del paesaggio e nella percezione dei
luoghi. Intere zone d’Italia e d’Europa si rendono visibili all’occhio comune e lo cambiano.
Ciascuno dei 4 grandi elementi costitutivi della vita e del mondo potrebbe utilmente interreagire
con i documenti - anche i nostri ‘soliti’ documenti e le ‘solite ‘ letture - rivisitandoli da una diversa
e fertile visuale .
3 L’ovvio rimando è a S. Mazzarino, «Il concetto storico-geografico dell’unità veneta», in Storia della
cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza, Neri Pozza 1976, pp. 1-28, che, esplicitamente accedendo
alla proposta storiografica elaborata da Franzina, Isnenghi, Lanaro, Reberschak e Vanzetto sul Veneto
«osservatorio privilegiato», la legava all’«esigenza di precisare i limiti entro cui possiamo intendere l’idea di
“unità veneta”, nelle sue accezioni storico-geografiche, e nella varia sua immagine», senza esemplarizzarla e
anzi accogliendola come «un’dea comparabile con ogni altra che implichi la definizione di unità antropo-
geografiche risultanti a un tempo dal fattore spaziale e dalla cosciente azione dell’uomo» (pp. 1-2), in quanto
tale fissatrice di un «concetto di “unità” [che] può avere definizioni “funzionali” diverse». (p. 23).
4 V. Mogavero, Patrie patrizie. Una rete nobiliare alle prove dell’Otto-Novecento, Tesi di dottorato, Università
degli studi di Verona, Turors Isnenghi e R. Camurri, 2014, pp. 373 ss. per la ‘paura’ in Veneto, fin dai tempi
della crisi balcanica, dell’Austria “alle frontiere”; nonché pp. 379 ss. per la dinamica di alcune ‘scoperte’ e
‘riscoperte’ del Veneto - frontier country e orizzonte sentimentale – prodottesi o riemerse dentro e fuori del
Veneto stesso quando si era già per entrare nell’area di proiezione dell’«enorme carica di visibilità attribuita
a tutto ciò che è veneto dalla Grande Guerra»: Isnenghi, «Le montagne della letteratura e della memoria», in
A. Lazzarini e F. Vendramini (a cura di), La montagna veneta in età contemporanea. Storia e ambiente. Uomini e
risorse, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1991, p. 337, cui si affianchi realisticamente quanto segue:
«dovunque lo si collochi, comunque, il giusto confine, le cime e le valli valgono in quel contesto a sancire
una diversità e a garantire un distacco» (p. 333). Alla riconfigurazione del Veneto sub specie belli va
ovviamente messa in parallelo la «portata del radicamento friulano-giuliano della guerra»: Id., «Note
bibliografiche», in Id. e G. Rochat, La Grande Guerra 1914-1918, La Nuova Italia, Firenze 2001, p. 519, ove si
coglie un opportuno accenno ai «luoghi materiali trasformatisi in luoghi mentali, che perdurano grazie a
quei punti di appoggio concreti».
Terra. Terra come luoghi del combattimento, con le varianti territoriali, geografiche, geologiche del
caso. Terra come obiettivo, pegno, simbolo delle ragioni e degli scopi di guerra. Terra madre,
matrigna, sepoltura. Come chimica della materia umana restituita al terreno, pulvis es, corpo
polverizzato. Come eserciti di terra, come fanteria, come luogo della disindividualizzante guerra
di massa .
Acqua. I fiumi, dalla Marna al Piave, che funzioni ricoprono: limite, ostacolo, difesa, nuove mura
per assediati e assedianti. E i mari: lo scontro per l’egemonia europea fra Gran Bretagna e
Germania, il ‘Golfo di Venezia’, il mito adriatico, la ‘quarta sponda’, le corazzate, gli idrovolanti, le
imprese dei mas, l’isola di s. Andrea - migliore pista d’Europa -, Gabriele d’Annunzio, il
risorgere dell’Arsenale, la nascita dei Lagunari per la difesa di Venezia dopo Caporetto ecc. Si
potrebbe continuare.
Aria. Le nuove armi e le nuove mitologie dell’aria. Pochissimi anni avanti, nel 1911, i primi aerei
civili d’Italia sulla spiaggia dell’Excelsior e i pionieristici bombardamenti della nuova arma aerea
in Libia, e adesso i dirigibili di Campalto, i futuristi, Giulio Douhet e la guerra dell’aria, i
bombardamenti sulle città venete, la protezione dei beni culturali(Ugo Ojetti), la guardia armata
sulle altane (Piero Foscari). D’Annunzio, il campo padovano di s. Pelagio, la squadriglia
“Serenissima”. Il boom delle fabbriche di aeroplani nate dal nulla, modelli, brevetti,
sperimentazioni. Il proliferare dei campi d’aviazione. Baracca, gli Assi. La morte che viene
dall’aria, nel rumore delle bombe e nel silenzio avvolgente dei gas asfissianti.
Fuoco. La ‘linea del fuoco’, ‘far fuoco’, le ‘armi da fuoco’: lessico del combattimento. La
mitragliatrice arma-tipo della Grande Guerra, i reparti armati di lanciafiamme. La ‘brutalizzazione‘
della guerra. Il corpo esposto. La fisicità violata, una nuova devastante tipologia delle ferite, se e
come la medicina si attrezza per farvi fronte5.
Né naturalismo, dunque, né assunzione di una natura prima destoricizzata e poi
garbatamente ammessa a fare la spugna di assorbimento di un certo range di effetti allotri;
ma, piuttosto, misuratore, più che moltiplicatore, d’effetti materiali e mentali, nonché
concreto diagramma interferenziale del mondo entro l’unitaria storicità dei processi, e loro
intrecci, che lo riguardano:
Il pregio di questa impostazione generale - ricca di piani e approcci variati - e di un titolo
conseguente sarebbe non solo di originalità, capacità distintiva, energia comunicativa. Varrebbe
anche, non a prescindere, ma ad incorporare e ad andare oltre le diatribe dimissionarie degli
ultimi venti o trent’anni sul ‘senso’ e il ‘non senso’ della guerra in se stessa e del 1914-1918 in
ispecie. Al ‘remoto’ di cent’anni accosteremmo elementi di un ‘remoto’ ancor più remoto.
Proveremmo a volare alto, fra Natura e Storia, appunto, senza ignorare l’una né, ovviamente,
l’altra - cioè la condizione umana e la volontà dell’uomo -lavorando anzi sugli intrecci. Con
quanto basta di specificità storica - quella guerra, la guerra del ’14-‘18 -, ma anche la disponibilità
ad inserire quello scontro in una storia lunga di scontri che vengono da lontano e vanno oltre i
moventi e i fini specifici assunti all’epoca dal mercato della politica e dei vari contesti nazionali e
internazionale. La natura ‘tellurica’ del conflitto, quel che di primordiale si porta dentro, rivestito
con linguaggi d’epoca. E avvicinato facendo ricorso, nel seminario, a tutte le competenze altre,
rispetto a quelle dello storico, che diverrebbero ineludibili in questa prospettiva: il geologo,
l’idraulico, il botanico, il chimico, il medico ecc. [...]6.
5 [M. Isnenghi], Terra, aria, acqua, fuoco. Per una storia naturale della Grande Guerra, ds. (26 novembre 2013).
6 Ibid.
Natura e guerra: il confine.
Una campionatura di situazioni storiograficamente promettenti si presenta nella
schedatura provvisoria dell’anno di lavoro dedicato, dal seminario veneziano, alla
«Terra». In essa ritroviamo un nodo – Il confine – che, armato dalle rivendicazioni (e
appena scalfito da scarse e facilmente travolte, ancorché fondatissime, ricusazioni) di
storici, letterati e pubblicisti; reso intelligibile e palpabile dagli atlanti e dalle tavole di
geografi e cartografi, scavò un vero e proprio «buco nero» nella storia e nell’hazardiana
coscienza europee. Nella scaturigine profonda del confine storico di Paolo Pozzato e del
confine geografico di Massimo Rossi è nascosto il verme di una “dottrina” post-westfaliana
della sovranità che stava bacando, indisturbato, la mela della storia europea, attraverso
l’accumulazione dotale degli strani naturalia necessari al compiersi in terra dello «Stato-
persona»: la razza, il territorio, il ‘popolo’, la nazione; tutti fortemente bisognosi, per
sussistere, del presidio di monti, mari, promontori, colline, rocce e della visibilità di fiumi,
valli, ponti, campanili, alberi e campi di grano.
Basterebbe, fra mille testi, riecheggiare la pagina di Remarque, in Niente di nuovo sul fronte
occidentale [1929], in cui il soldato Tjaden, facendo il tonto, chiede ai compagni come abbia
inizio una guerra; e alla risposta di Albert, secondo cui la guerra scoppia perché «un paese
ha arrecato una grave offesa a un altro», replica: «Ein Land? Das verstehe ich nicht. Ein
Berg in Deutschland kann doch einen Berg in Frankreich nicht beleidigen. Oder ein Fluß
oder ein Wald oder ein Weizenfeld. Un paese? Non capisco. Una montagna tedesca non
può offendere una montagna francese; né un fiume, né un bosco, né un campo di grano».
Il problema storiografico si pone ovviamente dal lato dell’attrazione centripeta, che la
Grande Guerra realizza, di un’immensa pluralità di spazi nel suo vortice e della
centrifugazione che ne compie prima di restituire le prede all’immaginario, alle
architetture mentalistiche, alla dimensione del politico e dell’impolitico, alla storia
culturale, sociale ed economica del tutto rimodellate – sotto il profilo delle loro dotazioni
di senso, morfologie, destinazioni/intensità d’uso etc. – e costellate a una galassia di altri e
nuovi spazi.
La trincea, la terra, la «seconda pelle»
Nella schedulazione veneziana segue – ma solo per comodità espositiva, impossibile
essendo lo stacco concettuale dai temi che precedono e seguono – La Trincea: una cicatrice
profonda e mai rimarginata nella carne d’Europa, un ductus autoptico che incide l’intero
mondo materiale e mentale della Grande Guerra; il doloroso contrappasso del ritorno al
sottosuolo di un Vecchio Continente che cercava la vertigine dell’altezza con le prime
prove aviatorie; un canale di scolo di milioni di vite. Si sono dedicati a questo grumo di
problemi, e se ne occuperanno nel primo step in programma, da diverse prospettive, Lisa
Bregantin, Daniele Ceschin e il già citato Pozzato. La fenomenologia della trincea è
smisurata e, a visualizzarla e percorrerla, s’intercettano non solo le insolcature nella terra o
nelle rocce, e la vita e la morte che vi si svolgevano e rappresentavano; ma, al di sotto,
dislocate a diverse profondità, le dolorose patologie del reale e le non meno sanguinanti
ferite di una modernità ambivalente, indifferentemente attrezzata a cancellare, con le sue
illuminazioni artificiali, il «chiaro di luna» e, al contempo, a scavare e abitare ipogei. Qui
allo storico, agli studiosi della civiltà letteraria, agli antropologi, ai medici, agli psicologi, ai
geografi, ai geologi etc. potrebbero forse utilmente aggregarsi lo studioso di filosofia e
teologia politica e lo stesso negletto giurista. Se del terrisme di cui parla Carl Schmitt si può
fare uso in questa sede – indipendentemente dalla genealogia cattolica che il giurista
tedesco attribuisce a questo connotato7 – occorre almeno dire che esso realizza nella trincea
la sua più solida epifania. Il trionfo dei «bassifondi» e dei «sottosuoli» politico-sociali che
Roger Callois indicizza in La vertigine della guerra non ha, sui fronti della Grande Guerra,
un’intonazione solo metaforica. Dalle Fiandre al Triveneto i contrapposti offensivismi8
finirono con il rintanarsi in un’interminabile trincea, gravata da enormi apparati impegnati
ad appropriarsi di ogni sorta di energia e ad alimentare milioni di consumatori. In cui la
convivenza con cadaveri, rifiuti, miasmi, sporcizia, malattie, topi e fango celebrava
l’avvento della più «violenta esperienza di modernità industriale» fino ad allora realizzata
con una micidialmente paradossale «sublimazione del sottosuolo»9. La latitudine del tema
permetterebbe di agganciare, sui righi più labili del pentagramma, anche un altro
interrogativo: se e quanto e come un coacervo di Staatsmaschinen in lotta mortale, ancorché
mortalmente naturale, stiano depositando negli uomini che si muovono nelle trincee le
uova dei regimi di massa. Si è iniziato con la comunità d’agosto, è seguita la comunità
delle trincee, si è aggiunta quella di maggio; poi è venuta la comunità della sofferenza; una
puntata l’hanno fatta anche le comunità spurie: un carrefour di trincee ammutinate – come
Marc Ferro forse troppo ottimisticamente le mette in scala con il non accaduto di ciò che
pure sarebbe potuto accadere – o solo fraternizzanti per una sigaretta o un dolce di Natale.
L’eziologia del dopoguerra affonderà però le sue radici attorcigliate nella melma delle
trincee: i combattentismi, i reducismi, le trincee virtuali incistate nella società, la «meglio
gioventù», i partiti, le associazioni e i giornali del combattenti. Quelle trincee scavano, si
ramificano, sboccano da qualche parte. Ovunque. Problema non solo italiano. Certo,
quelle trincee-comunità potevano sbucare nel cortile o nell’aia di bivacco di un fascio.
Oppure, secondo l’auspicio di Jerphnanion – quello dei due élèves che Jules Romains rende
protagonisti della sua smisurata narrazione in 27 volumi, Les hommes de bonne volonté, cui è
affidato il compito di meglio incarnare l’unanimisme dell’autore nei due volumi relativi
alla Grande Guerra, Prélude à Verdun e Verdun – in una comunità itinerante autonoma e
non coercibile. Un mezzo socialismo di guerra o solo la stilizzazione di una «camaraderie
d’abord [...] d’homme à homme»? L’uomo, riportato in natura, può fare scherzi brutti o da
prete. Come, peggio ancora, lo Stato-persona, che con la Grande Guerra avvita il mondo al
«perno geografico della storia»10. Il discorso sarebbe troppo lungo; e qui conviene solo
7 Com’è noto l’A. scrive che «il modello di dominio protestante resta inaccessibile al concetto romano-
cattolico di natura. Sembra che i popoli cattolici amino il suolo, la Madre terra, in modo ben diverso: hanno tutti il
loro terrisme»: C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, tr. it. e curatela di C. Galli, Milano, Giuffrè,
1986, p. 38.
8 Sul punto rinvio all’eccellente F. Vander, Posizione e movimento. Pensiero strategico e politica della Grande
Guerra, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 9-54, 75 ss., 101 ss.
9 P. P. Portinaro, Grandi guerre e tecnologia, cit., p. 62.
10 A segnare un’epoca della geopolitica come epoca della forza-potenza, H. Mackinder, The Geographical
Pivot of History, «Geographical Journal», 23, 1904, pp. 421-442. In una bibliografia sterminata si veda almeno
F. Walter, Les figures paysagères de la nation: territoire et paysage en Europe (16e-20e siècle), Paris, EHESS, 2004,
rilevare che questo senso della trincea come frattura, e della sua potenzialità come germe
di una socialità diversa, andrebbe approfondito, fin nella possibilità stessa di cogliere in
essa la lontana, labile assonanza – modale, non certo strutturale – con quella campionatura
di società e comunità intermedie studiate da Pietro Rescigno nel secondo Novecento11.
A ridosso della trincea, le Terre al fronte, con una non minore moltiplicazione dei punti di
osservazione: Vivere e coltivare in una terra in guerra (Matteo Ermacora); Il caso di
Montebelluna (Lucio De Bortoli); Ritornare alla terra. Riconversione al lavoro dei mutilati di
guerra (Ugo Pavan Dalla Torre): gli spazi e le geografie delle risorse; lo spazio e la
geografia del lavoro12. Mentre della ‘terra’ non siamo sorpresi di trovare il post-it in una
storia naturale, della collocazione, qui, del lavoro, ancorché agricolo, potremmo
meravigliarci. Eppure la Grande Guerra è il territorio smisurato in cui lo Stato “macchina”,
la mobilitazione totale e il potere si convertono in un’unica forza, si deterritorializzano e
riterritorializzano, scompongono e rimodellano spazi pubblici e privati, reali o virtuali – la
misura stessa del mondo – interpretandosi in termini di “naturalità”: la forza come diritto,
l’altrui come vuoto a perdere della storia e res nullius – altro che No Man’s Land – a
disposizione di chi ha la forza naturale (la guerra, l’«emigrazione armata» del nostro
Rocco). E ancora: il lavoro, la sua naturalità o infinita “naturalizzabilità”. Basterebbe
pensare al furlano-veneziano Francesco Carnelutti (che nella geografia veneta in
movimento verso la Grande Guerra c’entra più di quanto si pensi), giurista
incommensurabile, sottile teoreta della prestazione di lavoro come cessione di energia. Più
naturale di così.
Per la sezione Terra e soldati, il tempo metereologico, le stagioni della vita e dell’anima; le
accelerazioni e decelerazioni, gli stalli e le ripartenze del calendario; le percezioni e gli
straniamenti; il vento, il gelo, la neve, la pioggia, il fango, il colpo d’occhio, le strette al
cuore, la geografia della gittata degli sguardi e delle loro difficili messe a fuoco: La guerra
nelle stagioni: ogni stagione una guerra diversa un paesaggio diverso (Eva Cecchinato e Valeria
Mogavero). Potrebbe essere una buona occasione per l’esplorazione, su una traccia solo
obliquamente à la Queneau, e perciò sufficientemente al riparo dalle promulgazioni dello
stesso studioso francese sulla storia come «scienza dell’infelicità degli uomini», di un
«opificio di letteratura potenziale» - «i nemici della luna», certo, ma anche gli
«enciclopedismi» animali – per una deangolazione che, procedendo tra «batons, chiffres et
lettres», non si precluda i colori: un battesimo della neve, non sostitutivo di quello del
cap. 5, «Des pratiques de l’identité spatiale», spec. pp. 331 ss. sui «cycles nationaux» e cap. 6, «La
mobilisation politique des analogies paysagères», spec. pp. 422 ss. sulla «géographie à l’épreuve des
nationalités», nonché pp. 431 ss. su «le paysage totalitaire».
11 Un’angolatura diversa ma del più grande interessante si può ricavare anche seguendo il percorso di R.
Marra, Halbwachs, la memoria collettiva e lo spazio giuridico, «Sociologia del diritto», XV, 1988, n. 1, pp. 141-150.
12 A Ermacora dobbiamo uno studio precoce, ma rimasto però sostanzialmente quasi isolato nella
contemporaneistica italiana, Lo sfruttamento delle risorse forestali in Italia durante il primo conflitto mondiale,
«Venetica» XXIII, 2009, n. 20, pp. 53-75. Per connessione con quanto annoto nel testo sul lavoro dei civili, v.
anche Id., Cantieri di guerra. Il lavoro dei civili nelle retrovie delfronte italiano (1915–1918), Bologna, Il Mulino,
2005, spec. 50 ss., 75 ss., 93 ss.
fuoco, di soldati turchi, per esempio13. Del resto gli studiosi di storia del clima, pur protesi
ad accumulare ingenti dati pluviometrici sulla Grande Guerra, non mancano di notare che
in ogni scrittura da e per il fronte non manca mai un cenno al «tempo che fa»14; e non solo
da parte dei metereopatici. La penultima sezione, Nuovi luoghi, intestata al catasto dei
trasalimenti e delle reversibilità, nonché alla produzione di ‘luoghi’ dal punto di vista
delle sopraggiunte eccedenze simboliche apportate dalle inedite funzionalizzazioni e
riconfigurazioni di spazi, generalmente, tanto antichi quanto, nei giochi di scala delle
immedesimazioni emotive, di scarsa presa, ci conduce a un tema assai delicato e
suscettibile di sviluppi di ampia portata. Quali che fossero – per esempio - l’etimologia
corretta e le trafile glottologiche conducenti da «redij polije», «terra o campo di mezzo», a
Redipuglia, è certo che il carico e la fondazione simbolici, sovrappostisi a quel geo- o agro-
toponimo ‘originario’, hanno oscurato del tutto, dopo la Grande Guerra, non solo
nell’immaginario collettivo, la radice antica. Occorrerà quindi attendere con interesse ciò
che rispetto a questo arco di questioni verrà a maturazione, anche aggiuntivamente ai
previsti contributi di Lisa Bregantin, Dai pellegrinaggi al turismo di guerra, e di Alessandro
Pastore, che nella consolidata consuetudine con tematiche che spaziano dall’«uso politico
della montagna» alle molteplici scansioni e proiezioni di «patria, guerra e montagna» nella
lunga durata e mutazione della «cultura delle Alpi» cresciuta a cavallo tra Otto e
Novecento, avrà solo l’imbarazzo della scelta. Alla sezione conclusiva, Immaginare la
guerra cent’anni dopo, è affidato il compito di porsi come strategica cerniera tra questa
prima e le successive tornate: L’esperienza del paesaggio (Stefano Doardo), Osservare il
paesaggio (Claudio Rigon), Raccontare con immagini (Matteo Polo). Paesaggio, Landschaft,
Landscape, Paysage: qui siamo veramente nel cuore problematico di una tessitura
comparativa potenzialmente dilatabile all’infinito: i paesi in guerra, i fronti, le città esposte
e quelle no, il presente e il passato, la percezione di spazi inediti e la compiegabilità
infinita di visualizzazioni e ‘carte’ all’orizzonte esperienziale e psicologico degli individui;
la diversificazione percettiva tra ‘prima’, ‘durante’ e ‘dopo’ la guerra nello stesso soggetto;
la dimensione ‘intrappolante’ delle ragnatele in forma di mappe mentali; il paesaggio
come spazio di ambivalenza del sacro e della morte; le geografie private; il concreto
paesaggio di guerra in cui si è immersi; il paesaggio sognato – mondo d’ieri o di domani –
e quello di provenienza. Esperito, osservato, descritto o rappresentato, in quanto ‘oggetto’
storiografico, il paesaggio cela le strategie, i tornanti e i sentieri interrotti del complesso
intrecciarsi delle «situazioni di luogo» alle «fusioni di situazioni fisiche», ma anche al loro
divergere; e non è detto che situazioni e fusioni formino un profilo esclusivo della sola,
nostra, attuale simultaneità globalizzata15. Vi sarebbero poi le situazioni di potere, in senso
lato. Le carte: geografica, topografica; e quest’ultima – con una segnaletica assai più
complessa e in qualche misura enigmatica dell’altra – ancora impregnata d’inchiostri e
naftaline da arcana imperii. Gli studiosi veneti le tirano fuori dagli armadi per “leggerle”
13 A. Atly, «Baptsism by Snow: The Ottoman Experience of Winter Warfare during the First World War»,
in J. Bürgschwent (a cura di), Other Fronts, Other Wars? First World War Studies on the Eve of the Centennial,
Leiden, Brill, 2014, pp. 62-90.
14 E. Savouret et al., Au temps météorologique de la Grande Guerre, «Climatologie», 8, 2011, pp. 59-77 e
Chronique du temps vécu à Verdun en 14-18, «Actes de l’Ass. Int. de Climatologie», 23, 2010, pp. 571-576.
15 J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, Bologna, Baskerville, 1993, pp. 286-292, 308-309.
oltre la stilizzazione esasperata di vie, sentieri, linee elettriche e telefoniche, passaggi, e
ferrovie; per utilizzarne i tracciati nell’approfondimento critico della «nazionalizzazione» e
della «militarizzazione della natura»: l’unico modo per scongiurare il rischio che l’uomo,
gli uomini, finiscano revocati nelle pieghe di quelle carte, come un accidente della prova
d’arte del cartografo.
In buona sostanza, questo progetto, fra permanenze e variazioni, recupero di senso per la
storia, ricostruzione di storie particolari e racconto di storie di storie può aiutare a
cartografare faglie e dissesti ancora latenti e a colmare distanze interpretative del rapporto
inevitabile e necessario – diretto, mediato, intermediato, voluto, subito, inattinto, sviato –
tra gli uomini e le società in guerra e la natura. Un rapporto che inizia laddove c’era, e
ancora c’è, quell’affare maledettamente complicato che è la storia. Laddove cerano – ci
sono – scritture, letteratura, critica, oralità, racconti, narrazioni di narrazioni; ma anche –
soprattutto – donne, uomini, vite, manufatti, sogni, incubi, ideologie; fotografie che
pretendono di essere più ‘oggettive’ dell’occhio che le ha filtrate, dei silenzi in cui sono
sbiadite e delle kunderiane «cancellazioni» che ne hanno manipolato o rimesso in posa i
figuranti; le voci, il technicolor, le scale dei grigi, il murmure, gli alberi, le viti contorte, le
disperazioni, le attese, i progetti, le fisionomie; le riserve inesauribili delle storie possibili e
di quelle mai raccontate, che non cambiano magari la Storia ma illuminano i sentieri
interrotti e le direzioni sbagliate, le orbite a vuoto e gli smarrimenti notturni; e, quindi, non
cambiandola, un po’ la cambiano, quella Storia con l’iniziale maiuscola.
Cercheremo di seguire quest’avventura storiografica; e di capire in quale modo – dalla
parte del terreno e del fango, non da quella della «filosofia del lontano» di un
pirandelliano Fileno cartografo – i cinque anni della Grande Guerra soddisfecero l’insistita
richiesta che, fin dai primi del Novecento, Olinto Marinelli rivolgeva ai topografi:
«qualcosa di più di un morto quadro geometrico del lembo di terra da essi rilevato»16.
Angelo Tonnellato
16 O. Marinelli, Alcune questioni relative al moderno indirizzo della geografia, «Rivista Geografica Italiana», IX,
1902, n. 4, p. 236.

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Angelo Tonnellato: "Terra, aria, acqua, fuoco. Per una storia naturale della Grande Guerra". In margine a un seminario di Ca' Foscari

  • 1. «Terra, aria, acqua fuoco. Per una storia naturale della Grande Guerra»: in margine a un seminario di Ca’ Foscari Da oltre un anno, presso l’Università Ca’ Foscari, si sta svolgendo un seminario, dedicato al primo conflitto mondiale, che colloca i suoi oggetti storiografici sotto un titolo sicuramente originale anche se, a prima vista, schiettamente alchemico: Terra, aria, acqua, fuoco. Per una storia naturale della Grande Guerra. Diretto da Mario Isnenghi, il gruppo di lavoro coinvolge Lisa Bregantin, Eva Cecchinato, Daniele Ceschin, Lucio De Bortoli, Stefano Doardo, Matteo Ermacora, Valeria Mogavero, Ugo Pavan Dalla Torre, Matteo Polo, Paolo Pozzato, Claudio Rigon e Massimo Rossi. A questi studiosi, che animeranno le iniziative del cantiere cafoscarino per l’intero quinquennio del «lungo centenario» 2014- 2018, altri specialisti, di volta in volta, si uniranno, in base alle traiettorie lungo le quali il progetto s’incamminerà e alla forza di attrazione che gli insediamenti tematici in costruzione sapranno esercitare. La prima occasione di confronto pubblico è prevista, nell’autunno 2015, ad Asiago, capoluogo eponimo dell’Altopiano per antonomasia della Grande Guerra, la cui amministrazione comunale sembra orientata a non perdere l’occasione di patrocinare e ospitare un ciclo di studi che si preannunzia ricco di trame stimolanti. E che, quantunque partecipe e protagonista delle più recenti e sofisticate «riconfigurazioni»1 della Grande Guerra, incorpora – ciò che potrebbe essere, secondo me, un asset importante del seminario – anche un «punto di vista» veneto2, nel senso 1 Sulle «configurations historiographiques» prodottesi, modificatesi e intrecciatesi sulla Grande Guerra in un secolo di riflessione e rielaborazione è ancora utile il rinvio ad A. Prost e J. Winter, Penser la Grande Guerre. Un essai d’historiographie, Paris, Editions du Seuil, 2004, pp. 15-50. Sulle «urgenze culturali e politiche» che, dagli anni ’60 del Novecento in poi, incentivarono le riletture di quel conflitto, aveva per tempo invitato a riflettere, in un libro che fu anche parte attiva delle riconfigurazioni che auspicava, M. Isnenghi, «Introduzione» a Id. (a cura di), Operai e contadini nella Grande Guerra, Bologna, Cappelli, 1982, p. 7; ma v. anche pp. 15 ss. 2 Una buona prima ‘approssimazione’ – e ampio recupero bibliografico e tematico - alle questioni accennate nel testo si guadagna da L. Bregantin (a cura di), La Grande Guerra in Veneto, num. monogr. del «Notiziazio bibliografico» della Regione Veneto, n. 69, 2014, da cui segnalo, per connessione, almeno Isnenghi, Regionalizzare la guerra, nazionalizzare le masse (pp. 11-14); Bregantin, Terra, uomini, guerra. Lettura storica di un territorio (pp. 15-18); Pozzato, La Grande Guerra in Veneto (pp. 19-21); seguono, saldati al titolo comune Luogo fisico e luogo del mito, i contributi di Polo, Il Piave (pp. 28-30); Pozzato, Il Grappa, nonché L’Altopiano nella bufera (pp. 60-62); Doardo, La percezione del paesaggio della Grande Guerra (pp. 35-37). Non meno interessanti, e connessi, F. Todero, Un luogo e due vite. Giani e Carlo Stuparich in Altopiano (pp. 48-49); il mattatore Pozzato con Scrittori austriaci in Altopiano (pp. 50-51). Sulla «produzione di luoghi», nell’immediato e prospetticamente: S. Zava, Nuovi spazi e nuovi segni in territorio veneto (pp. 63 ss.); M. Passarin, La memoria e il paesaggio. I musei della Grande Guerra in Veneto e l’Ecomuseo della Grande Guerra sulle Prealpi (pp. 75-77); Bregantin, I sacrari in Veneto (pp. 78-82); P. Scolè, Il Veneto in armi. La Grande Guerra 1914- 1918 (pp. 83-85); Ceschin, Addio paesi, addio case! Il profugato veneto (pp. 86-87); la ‘grande paura’ del Veneto occupato 1917-1918 è rimessa a fuoco da U. Bernardi (pp. 88-89); mentre Pavan Dalla Torre, L’associazionismo ieri e oggi (pp. 90-94), tratta il tema delicato del combattentismo e delle sue contrastate auto- ed etero- istituzionalizzazioni. Merita una segnalazione, ab extra, A. Zaffonato, Natura e storia. Le Alpi nell’immaginario dei soldati italiani della Grande Guerra, rel. E. Francia, Univ. di Padova, a.a. 2010-2011, con ricca bibliografia e una compendiosa riduzione saggistica, con lo stesso titolo, nella rivista «Clio», XLIII, 2012, n. 2, pp. 223-239.
  • 2. storicamente proprio in cui la più scaltrita storiografia ne ha colto da decenni la rilevanza sul piano di un «concetto storico-geografico di unità veneta»3 che – strutturalmente e intrinsecamente irriducibile ai vaneggiamenti ‘venetisti’ - può fornire un’utile proiezione polioramica del film ‘Grande Guerra’ e, soprattutto, del suo set antropo-geografico, che in Italia fu soprattutto triveneto4. Un’idea più precisa di quella che potrei sperare di fornire epitomando la fonte è possibile attingere direttamente dal documento programmatico: Riportare la guerra ai suoi elementi primigeni: terra, acqua, aria, fuoco. Ma non per restare chiusi dentro alla superiore ‘indifferenza’ della Natura. Anzi, per mostrare l’incidenza della e sulla natura: il cozzo fra natura e cronaca, natura e quotidianità, natura e storia, quella storia in atto che si viene facendo, anche e proprio ‘sfruttando’ e superando le condizioni date. Altrimenti detto: il tempo – quel tempo – fa irruzione nel ‘senza tempo’, siano montagne o fiumi. Ma la natura ha anch’essa le sue variazioni temporali e ci sono anche interconnessioni fra guerra e stagioni: le stagioni possono risultare ostacolo o preclusive dell’azione. L’inverno, la neve, i fiumi in piena o in secca, che ci siano o non ci siano alberi, le rocce carsiche, il Carso esso stesso trincea naturale, le sue rocce e schegge esse stesse volta a volta armi o riparo. La natura influenza, pesa sull’uomo-soldato, ma ne esce anche trasformata. Dalle grotte alle gallerie, alle caverne, ai camminamenti, ai pozzi. Dinamiche accelerate del mutamento, nelle trasformazioni del paesaggio e nella percezione dei luoghi. Intere zone d’Italia e d’Europa si rendono visibili all’occhio comune e lo cambiano. Ciascuno dei 4 grandi elementi costitutivi della vita e del mondo potrebbe utilmente interreagire con i documenti - anche i nostri ‘soliti’ documenti e le ‘solite ‘ letture - rivisitandoli da una diversa e fertile visuale . 3 L’ovvio rimando è a S. Mazzarino, «Il concetto storico-geografico dell’unità veneta», in Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza, Neri Pozza 1976, pp. 1-28, che, esplicitamente accedendo alla proposta storiografica elaborata da Franzina, Isnenghi, Lanaro, Reberschak e Vanzetto sul Veneto «osservatorio privilegiato», la legava all’«esigenza di precisare i limiti entro cui possiamo intendere l’idea di “unità veneta”, nelle sue accezioni storico-geografiche, e nella varia sua immagine», senza esemplarizzarla e anzi accogliendola come «un’dea comparabile con ogni altra che implichi la definizione di unità antropo- geografiche risultanti a un tempo dal fattore spaziale e dalla cosciente azione dell’uomo» (pp. 1-2), in quanto tale fissatrice di un «concetto di “unità” [che] può avere definizioni “funzionali” diverse». (p. 23). 4 V. Mogavero, Patrie patrizie. Una rete nobiliare alle prove dell’Otto-Novecento, Tesi di dottorato, Università degli studi di Verona, Turors Isnenghi e R. Camurri, 2014, pp. 373 ss. per la ‘paura’ in Veneto, fin dai tempi della crisi balcanica, dell’Austria “alle frontiere”; nonché pp. 379 ss. per la dinamica di alcune ‘scoperte’ e ‘riscoperte’ del Veneto - frontier country e orizzonte sentimentale – prodottesi o riemerse dentro e fuori del Veneto stesso quando si era già per entrare nell’area di proiezione dell’«enorme carica di visibilità attribuita a tutto ciò che è veneto dalla Grande Guerra»: Isnenghi, «Le montagne della letteratura e della memoria», in A. Lazzarini e F. Vendramini (a cura di), La montagna veneta in età contemporanea. Storia e ambiente. Uomini e risorse, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1991, p. 337, cui si affianchi realisticamente quanto segue: «dovunque lo si collochi, comunque, il giusto confine, le cime e le valli valgono in quel contesto a sancire una diversità e a garantire un distacco» (p. 333). Alla riconfigurazione del Veneto sub specie belli va ovviamente messa in parallelo la «portata del radicamento friulano-giuliano della guerra»: Id., «Note bibliografiche», in Id. e G. Rochat, La Grande Guerra 1914-1918, La Nuova Italia, Firenze 2001, p. 519, ove si coglie un opportuno accenno ai «luoghi materiali trasformatisi in luoghi mentali, che perdurano grazie a quei punti di appoggio concreti».
  • 3. Terra. Terra come luoghi del combattimento, con le varianti territoriali, geografiche, geologiche del caso. Terra come obiettivo, pegno, simbolo delle ragioni e degli scopi di guerra. Terra madre, matrigna, sepoltura. Come chimica della materia umana restituita al terreno, pulvis es, corpo polverizzato. Come eserciti di terra, come fanteria, come luogo della disindividualizzante guerra di massa . Acqua. I fiumi, dalla Marna al Piave, che funzioni ricoprono: limite, ostacolo, difesa, nuove mura per assediati e assedianti. E i mari: lo scontro per l’egemonia europea fra Gran Bretagna e Germania, il ‘Golfo di Venezia’, il mito adriatico, la ‘quarta sponda’, le corazzate, gli idrovolanti, le imprese dei mas, l’isola di s. Andrea - migliore pista d’Europa -, Gabriele d’Annunzio, il risorgere dell’Arsenale, la nascita dei Lagunari per la difesa di Venezia dopo Caporetto ecc. Si potrebbe continuare. Aria. Le nuove armi e le nuove mitologie dell’aria. Pochissimi anni avanti, nel 1911, i primi aerei civili d’Italia sulla spiaggia dell’Excelsior e i pionieristici bombardamenti della nuova arma aerea in Libia, e adesso i dirigibili di Campalto, i futuristi, Giulio Douhet e la guerra dell’aria, i bombardamenti sulle città venete, la protezione dei beni culturali(Ugo Ojetti), la guardia armata sulle altane (Piero Foscari). D’Annunzio, il campo padovano di s. Pelagio, la squadriglia “Serenissima”. Il boom delle fabbriche di aeroplani nate dal nulla, modelli, brevetti, sperimentazioni. Il proliferare dei campi d’aviazione. Baracca, gli Assi. La morte che viene dall’aria, nel rumore delle bombe e nel silenzio avvolgente dei gas asfissianti. Fuoco. La ‘linea del fuoco’, ‘far fuoco’, le ‘armi da fuoco’: lessico del combattimento. La mitragliatrice arma-tipo della Grande Guerra, i reparti armati di lanciafiamme. La ‘brutalizzazione‘ della guerra. Il corpo esposto. La fisicità violata, una nuova devastante tipologia delle ferite, se e come la medicina si attrezza per farvi fronte5. Né naturalismo, dunque, né assunzione di una natura prima destoricizzata e poi garbatamente ammessa a fare la spugna di assorbimento di un certo range di effetti allotri; ma, piuttosto, misuratore, più che moltiplicatore, d’effetti materiali e mentali, nonché concreto diagramma interferenziale del mondo entro l’unitaria storicità dei processi, e loro intrecci, che lo riguardano: Il pregio di questa impostazione generale - ricca di piani e approcci variati - e di un titolo conseguente sarebbe non solo di originalità, capacità distintiva, energia comunicativa. Varrebbe anche, non a prescindere, ma ad incorporare e ad andare oltre le diatribe dimissionarie degli ultimi venti o trent’anni sul ‘senso’ e il ‘non senso’ della guerra in se stessa e del 1914-1918 in ispecie. Al ‘remoto’ di cent’anni accosteremmo elementi di un ‘remoto’ ancor più remoto. Proveremmo a volare alto, fra Natura e Storia, appunto, senza ignorare l’una né, ovviamente, l’altra - cioè la condizione umana e la volontà dell’uomo -lavorando anzi sugli intrecci. Con quanto basta di specificità storica - quella guerra, la guerra del ’14-‘18 -, ma anche la disponibilità ad inserire quello scontro in una storia lunga di scontri che vengono da lontano e vanno oltre i moventi e i fini specifici assunti all’epoca dal mercato della politica e dei vari contesti nazionali e internazionale. La natura ‘tellurica’ del conflitto, quel che di primordiale si porta dentro, rivestito con linguaggi d’epoca. E avvicinato facendo ricorso, nel seminario, a tutte le competenze altre, rispetto a quelle dello storico, che diverrebbero ineludibili in questa prospettiva: il geologo, l’idraulico, il botanico, il chimico, il medico ecc. [...]6. 5 [M. Isnenghi], Terra, aria, acqua, fuoco. Per una storia naturale della Grande Guerra, ds. (26 novembre 2013). 6 Ibid.
  • 4. Natura e guerra: il confine. Una campionatura di situazioni storiograficamente promettenti si presenta nella schedatura provvisoria dell’anno di lavoro dedicato, dal seminario veneziano, alla «Terra». In essa ritroviamo un nodo – Il confine – che, armato dalle rivendicazioni (e appena scalfito da scarse e facilmente travolte, ancorché fondatissime, ricusazioni) di storici, letterati e pubblicisti; reso intelligibile e palpabile dagli atlanti e dalle tavole di geografi e cartografi, scavò un vero e proprio «buco nero» nella storia e nell’hazardiana coscienza europee. Nella scaturigine profonda del confine storico di Paolo Pozzato e del confine geografico di Massimo Rossi è nascosto il verme di una “dottrina” post-westfaliana della sovranità che stava bacando, indisturbato, la mela della storia europea, attraverso l’accumulazione dotale degli strani naturalia necessari al compiersi in terra dello «Stato- persona»: la razza, il territorio, il ‘popolo’, la nazione; tutti fortemente bisognosi, per sussistere, del presidio di monti, mari, promontori, colline, rocce e della visibilità di fiumi, valli, ponti, campanili, alberi e campi di grano. Basterebbe, fra mille testi, riecheggiare la pagina di Remarque, in Niente di nuovo sul fronte occidentale [1929], in cui il soldato Tjaden, facendo il tonto, chiede ai compagni come abbia inizio una guerra; e alla risposta di Albert, secondo cui la guerra scoppia perché «un paese ha arrecato una grave offesa a un altro», replica: «Ein Land? Das verstehe ich nicht. Ein Berg in Deutschland kann doch einen Berg in Frankreich nicht beleidigen. Oder ein Fluß oder ein Wald oder ein Weizenfeld. Un paese? Non capisco. Una montagna tedesca non può offendere una montagna francese; né un fiume, né un bosco, né un campo di grano». Il problema storiografico si pone ovviamente dal lato dell’attrazione centripeta, che la Grande Guerra realizza, di un’immensa pluralità di spazi nel suo vortice e della centrifugazione che ne compie prima di restituire le prede all’immaginario, alle architetture mentalistiche, alla dimensione del politico e dell’impolitico, alla storia culturale, sociale ed economica del tutto rimodellate – sotto il profilo delle loro dotazioni di senso, morfologie, destinazioni/intensità d’uso etc. – e costellate a una galassia di altri e nuovi spazi. La trincea, la terra, la «seconda pelle» Nella schedulazione veneziana segue – ma solo per comodità espositiva, impossibile essendo lo stacco concettuale dai temi che precedono e seguono – La Trincea: una cicatrice profonda e mai rimarginata nella carne d’Europa, un ductus autoptico che incide l’intero mondo materiale e mentale della Grande Guerra; il doloroso contrappasso del ritorno al sottosuolo di un Vecchio Continente che cercava la vertigine dell’altezza con le prime prove aviatorie; un canale di scolo di milioni di vite. Si sono dedicati a questo grumo di problemi, e se ne occuperanno nel primo step in programma, da diverse prospettive, Lisa Bregantin, Daniele Ceschin e il già citato Pozzato. La fenomenologia della trincea è smisurata e, a visualizzarla e percorrerla, s’intercettano non solo le insolcature nella terra o nelle rocce, e la vita e la morte che vi si svolgevano e rappresentavano; ma, al di sotto, dislocate a diverse profondità, le dolorose patologie del reale e le non meno sanguinanti ferite di una modernità ambivalente, indifferentemente attrezzata a cancellare, con le sue illuminazioni artificiali, il «chiaro di luna» e, al contempo, a scavare e abitare ipogei. Qui
  • 5. allo storico, agli studiosi della civiltà letteraria, agli antropologi, ai medici, agli psicologi, ai geografi, ai geologi etc. potrebbero forse utilmente aggregarsi lo studioso di filosofia e teologia politica e lo stesso negletto giurista. Se del terrisme di cui parla Carl Schmitt si può fare uso in questa sede – indipendentemente dalla genealogia cattolica che il giurista tedesco attribuisce a questo connotato7 – occorre almeno dire che esso realizza nella trincea la sua più solida epifania. Il trionfo dei «bassifondi» e dei «sottosuoli» politico-sociali che Roger Callois indicizza in La vertigine della guerra non ha, sui fronti della Grande Guerra, un’intonazione solo metaforica. Dalle Fiandre al Triveneto i contrapposti offensivismi8 finirono con il rintanarsi in un’interminabile trincea, gravata da enormi apparati impegnati ad appropriarsi di ogni sorta di energia e ad alimentare milioni di consumatori. In cui la convivenza con cadaveri, rifiuti, miasmi, sporcizia, malattie, topi e fango celebrava l’avvento della più «violenta esperienza di modernità industriale» fino ad allora realizzata con una micidialmente paradossale «sublimazione del sottosuolo»9. La latitudine del tema permetterebbe di agganciare, sui righi più labili del pentagramma, anche un altro interrogativo: se e quanto e come un coacervo di Staatsmaschinen in lotta mortale, ancorché mortalmente naturale, stiano depositando negli uomini che si muovono nelle trincee le uova dei regimi di massa. Si è iniziato con la comunità d’agosto, è seguita la comunità delle trincee, si è aggiunta quella di maggio; poi è venuta la comunità della sofferenza; una puntata l’hanno fatta anche le comunità spurie: un carrefour di trincee ammutinate – come Marc Ferro forse troppo ottimisticamente le mette in scala con il non accaduto di ciò che pure sarebbe potuto accadere – o solo fraternizzanti per una sigaretta o un dolce di Natale. L’eziologia del dopoguerra affonderà però le sue radici attorcigliate nella melma delle trincee: i combattentismi, i reducismi, le trincee virtuali incistate nella società, la «meglio gioventù», i partiti, le associazioni e i giornali del combattenti. Quelle trincee scavano, si ramificano, sboccano da qualche parte. Ovunque. Problema non solo italiano. Certo, quelle trincee-comunità potevano sbucare nel cortile o nell’aia di bivacco di un fascio. Oppure, secondo l’auspicio di Jerphnanion – quello dei due élèves che Jules Romains rende protagonisti della sua smisurata narrazione in 27 volumi, Les hommes de bonne volonté, cui è affidato il compito di meglio incarnare l’unanimisme dell’autore nei due volumi relativi alla Grande Guerra, Prélude à Verdun e Verdun – in una comunità itinerante autonoma e non coercibile. Un mezzo socialismo di guerra o solo la stilizzazione di una «camaraderie d’abord [...] d’homme à homme»? L’uomo, riportato in natura, può fare scherzi brutti o da prete. Come, peggio ancora, lo Stato-persona, che con la Grande Guerra avvita il mondo al «perno geografico della storia»10. Il discorso sarebbe troppo lungo; e qui conviene solo 7 Com’è noto l’A. scrive che «il modello di dominio protestante resta inaccessibile al concetto romano- cattolico di natura. Sembra che i popoli cattolici amino il suolo, la Madre terra, in modo ben diverso: hanno tutti il loro terrisme»: C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, tr. it. e curatela di C. Galli, Milano, Giuffrè, 1986, p. 38. 8 Sul punto rinvio all’eccellente F. Vander, Posizione e movimento. Pensiero strategico e politica della Grande Guerra, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 9-54, 75 ss., 101 ss. 9 P. P. Portinaro, Grandi guerre e tecnologia, cit., p. 62. 10 A segnare un’epoca della geopolitica come epoca della forza-potenza, H. Mackinder, The Geographical Pivot of History, «Geographical Journal», 23, 1904, pp. 421-442. In una bibliografia sterminata si veda almeno F. Walter, Les figures paysagères de la nation: territoire et paysage en Europe (16e-20e siècle), Paris, EHESS, 2004,
  • 6. rilevare che questo senso della trincea come frattura, e della sua potenzialità come germe di una socialità diversa, andrebbe approfondito, fin nella possibilità stessa di cogliere in essa la lontana, labile assonanza – modale, non certo strutturale – con quella campionatura di società e comunità intermedie studiate da Pietro Rescigno nel secondo Novecento11. A ridosso della trincea, le Terre al fronte, con una non minore moltiplicazione dei punti di osservazione: Vivere e coltivare in una terra in guerra (Matteo Ermacora); Il caso di Montebelluna (Lucio De Bortoli); Ritornare alla terra. Riconversione al lavoro dei mutilati di guerra (Ugo Pavan Dalla Torre): gli spazi e le geografie delle risorse; lo spazio e la geografia del lavoro12. Mentre della ‘terra’ non siamo sorpresi di trovare il post-it in una storia naturale, della collocazione, qui, del lavoro, ancorché agricolo, potremmo meravigliarci. Eppure la Grande Guerra è il territorio smisurato in cui lo Stato “macchina”, la mobilitazione totale e il potere si convertono in un’unica forza, si deterritorializzano e riterritorializzano, scompongono e rimodellano spazi pubblici e privati, reali o virtuali – la misura stessa del mondo – interpretandosi in termini di “naturalità”: la forza come diritto, l’altrui come vuoto a perdere della storia e res nullius – altro che No Man’s Land – a disposizione di chi ha la forza naturale (la guerra, l’«emigrazione armata» del nostro Rocco). E ancora: il lavoro, la sua naturalità o infinita “naturalizzabilità”. Basterebbe pensare al furlano-veneziano Francesco Carnelutti (che nella geografia veneta in movimento verso la Grande Guerra c’entra più di quanto si pensi), giurista incommensurabile, sottile teoreta della prestazione di lavoro come cessione di energia. Più naturale di così. Per la sezione Terra e soldati, il tempo metereologico, le stagioni della vita e dell’anima; le accelerazioni e decelerazioni, gli stalli e le ripartenze del calendario; le percezioni e gli straniamenti; il vento, il gelo, la neve, la pioggia, il fango, il colpo d’occhio, le strette al cuore, la geografia della gittata degli sguardi e delle loro difficili messe a fuoco: La guerra nelle stagioni: ogni stagione una guerra diversa un paesaggio diverso (Eva Cecchinato e Valeria Mogavero). Potrebbe essere una buona occasione per l’esplorazione, su una traccia solo obliquamente à la Queneau, e perciò sufficientemente al riparo dalle promulgazioni dello stesso studioso francese sulla storia come «scienza dell’infelicità degli uomini», di un «opificio di letteratura potenziale» - «i nemici della luna», certo, ma anche gli «enciclopedismi» animali – per una deangolazione che, procedendo tra «batons, chiffres et lettres», non si precluda i colori: un battesimo della neve, non sostitutivo di quello del cap. 5, «Des pratiques de l’identité spatiale», spec. pp. 331 ss. sui «cycles nationaux» e cap. 6, «La mobilisation politique des analogies paysagères», spec. pp. 422 ss. sulla «géographie à l’épreuve des nationalités», nonché pp. 431 ss. su «le paysage totalitaire». 11 Un’angolatura diversa ma del più grande interessante si può ricavare anche seguendo il percorso di R. Marra, Halbwachs, la memoria collettiva e lo spazio giuridico, «Sociologia del diritto», XV, 1988, n. 1, pp. 141-150. 12 A Ermacora dobbiamo uno studio precoce, ma rimasto però sostanzialmente quasi isolato nella contemporaneistica italiana, Lo sfruttamento delle risorse forestali in Italia durante il primo conflitto mondiale, «Venetica» XXIII, 2009, n. 20, pp. 53-75. Per connessione con quanto annoto nel testo sul lavoro dei civili, v. anche Id., Cantieri di guerra. Il lavoro dei civili nelle retrovie delfronte italiano (1915–1918), Bologna, Il Mulino, 2005, spec. 50 ss., 75 ss., 93 ss.
  • 7. fuoco, di soldati turchi, per esempio13. Del resto gli studiosi di storia del clima, pur protesi ad accumulare ingenti dati pluviometrici sulla Grande Guerra, non mancano di notare che in ogni scrittura da e per il fronte non manca mai un cenno al «tempo che fa»14; e non solo da parte dei metereopatici. La penultima sezione, Nuovi luoghi, intestata al catasto dei trasalimenti e delle reversibilità, nonché alla produzione di ‘luoghi’ dal punto di vista delle sopraggiunte eccedenze simboliche apportate dalle inedite funzionalizzazioni e riconfigurazioni di spazi, generalmente, tanto antichi quanto, nei giochi di scala delle immedesimazioni emotive, di scarsa presa, ci conduce a un tema assai delicato e suscettibile di sviluppi di ampia portata. Quali che fossero – per esempio - l’etimologia corretta e le trafile glottologiche conducenti da «redij polije», «terra o campo di mezzo», a Redipuglia, è certo che il carico e la fondazione simbolici, sovrappostisi a quel geo- o agro- toponimo ‘originario’, hanno oscurato del tutto, dopo la Grande Guerra, non solo nell’immaginario collettivo, la radice antica. Occorrerà quindi attendere con interesse ciò che rispetto a questo arco di questioni verrà a maturazione, anche aggiuntivamente ai previsti contributi di Lisa Bregantin, Dai pellegrinaggi al turismo di guerra, e di Alessandro Pastore, che nella consolidata consuetudine con tematiche che spaziano dall’«uso politico della montagna» alle molteplici scansioni e proiezioni di «patria, guerra e montagna» nella lunga durata e mutazione della «cultura delle Alpi» cresciuta a cavallo tra Otto e Novecento, avrà solo l’imbarazzo della scelta. Alla sezione conclusiva, Immaginare la guerra cent’anni dopo, è affidato il compito di porsi come strategica cerniera tra questa prima e le successive tornate: L’esperienza del paesaggio (Stefano Doardo), Osservare il paesaggio (Claudio Rigon), Raccontare con immagini (Matteo Polo). Paesaggio, Landschaft, Landscape, Paysage: qui siamo veramente nel cuore problematico di una tessitura comparativa potenzialmente dilatabile all’infinito: i paesi in guerra, i fronti, le città esposte e quelle no, il presente e il passato, la percezione di spazi inediti e la compiegabilità infinita di visualizzazioni e ‘carte’ all’orizzonte esperienziale e psicologico degli individui; la diversificazione percettiva tra ‘prima’, ‘durante’ e ‘dopo’ la guerra nello stesso soggetto; la dimensione ‘intrappolante’ delle ragnatele in forma di mappe mentali; il paesaggio come spazio di ambivalenza del sacro e della morte; le geografie private; il concreto paesaggio di guerra in cui si è immersi; il paesaggio sognato – mondo d’ieri o di domani – e quello di provenienza. Esperito, osservato, descritto o rappresentato, in quanto ‘oggetto’ storiografico, il paesaggio cela le strategie, i tornanti e i sentieri interrotti del complesso intrecciarsi delle «situazioni di luogo» alle «fusioni di situazioni fisiche», ma anche al loro divergere; e non è detto che situazioni e fusioni formino un profilo esclusivo della sola, nostra, attuale simultaneità globalizzata15. Vi sarebbero poi le situazioni di potere, in senso lato. Le carte: geografica, topografica; e quest’ultima – con una segnaletica assai più complessa e in qualche misura enigmatica dell’altra – ancora impregnata d’inchiostri e naftaline da arcana imperii. Gli studiosi veneti le tirano fuori dagli armadi per “leggerle” 13 A. Atly, «Baptsism by Snow: The Ottoman Experience of Winter Warfare during the First World War», in J. Bürgschwent (a cura di), Other Fronts, Other Wars? First World War Studies on the Eve of the Centennial, Leiden, Brill, 2014, pp. 62-90. 14 E. Savouret et al., Au temps météorologique de la Grande Guerre, «Climatologie», 8, 2011, pp. 59-77 e Chronique du temps vécu à Verdun en 14-18, «Actes de l’Ass. Int. de Climatologie», 23, 2010, pp. 571-576. 15 J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, Bologna, Baskerville, 1993, pp. 286-292, 308-309.
  • 8. oltre la stilizzazione esasperata di vie, sentieri, linee elettriche e telefoniche, passaggi, e ferrovie; per utilizzarne i tracciati nell’approfondimento critico della «nazionalizzazione» e della «militarizzazione della natura»: l’unico modo per scongiurare il rischio che l’uomo, gli uomini, finiscano revocati nelle pieghe di quelle carte, come un accidente della prova d’arte del cartografo. In buona sostanza, questo progetto, fra permanenze e variazioni, recupero di senso per la storia, ricostruzione di storie particolari e racconto di storie di storie può aiutare a cartografare faglie e dissesti ancora latenti e a colmare distanze interpretative del rapporto inevitabile e necessario – diretto, mediato, intermediato, voluto, subito, inattinto, sviato – tra gli uomini e le società in guerra e la natura. Un rapporto che inizia laddove c’era, e ancora c’è, quell’affare maledettamente complicato che è la storia. Laddove cerano – ci sono – scritture, letteratura, critica, oralità, racconti, narrazioni di narrazioni; ma anche – soprattutto – donne, uomini, vite, manufatti, sogni, incubi, ideologie; fotografie che pretendono di essere più ‘oggettive’ dell’occhio che le ha filtrate, dei silenzi in cui sono sbiadite e delle kunderiane «cancellazioni» che ne hanno manipolato o rimesso in posa i figuranti; le voci, il technicolor, le scale dei grigi, il murmure, gli alberi, le viti contorte, le disperazioni, le attese, i progetti, le fisionomie; le riserve inesauribili delle storie possibili e di quelle mai raccontate, che non cambiano magari la Storia ma illuminano i sentieri interrotti e le direzioni sbagliate, le orbite a vuoto e gli smarrimenti notturni; e, quindi, non cambiandola, un po’ la cambiano, quella Storia con l’iniziale maiuscola. Cercheremo di seguire quest’avventura storiografica; e di capire in quale modo – dalla parte del terreno e del fango, non da quella della «filosofia del lontano» di un pirandelliano Fileno cartografo – i cinque anni della Grande Guerra soddisfecero l’insistita richiesta che, fin dai primi del Novecento, Olinto Marinelli rivolgeva ai topografi: «qualcosa di più di un morto quadro geometrico del lembo di terra da essi rilevato»16. Angelo Tonnellato 16 O. Marinelli, Alcune questioni relative al moderno indirizzo della geografia, «Rivista Geografica Italiana», IX, 1902, n. 4, p. 236.