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SILVIO ORTONA

      Ero diverso: ufficiale ed ebreo

            Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una testimonianza in
    cui Silvio Ortona ripercorre le tappe della sua maturazione politica:
    inizialmente (come tanti ragazzi ebrei) la sua formazione avviene
    all’interno di una società e di una scuola che aveva subito un forte
    processo di fascistizzazione, che non viene in nessun modo messo in
    discussione. È stato il 1938 l’anno cruciale, quando per molti ebrei, con
    la promulgazione delle leggi razziali, inizia un doloroso distacco dalla
    società e anche dal fascismo, in cui molti avevano sinceramente creduto,
    mentre altri erano rimasti, al più, indifferenti. Si è trattato di un doloroso
    risveglio: annullate le conquiste ottenute con il processo di
    emancipazione che aveva visto gli ebrei italiani crescere e progredire in
    tutti i campi.
            Ma è stato incisivo per Ortona come per Primo Levi, Ada Della
    Torre, Eugenio Gentili Tedeschi, Vanda Maestro anche l’anno vissuto a
    Milano, felicemente rievocato da Ada nel racconto Piccola comunità
    1942-1943 che fa parte di questa raccolta, un anno in cui questi giovani,
    tutti amici, matureranno una nuova visione della realtà, che li porterà,
    all’indomani dell’8 settembre, amilitare in luoghi diversi,ma con uno
    stesso spirito.
            Silvio Ortona è fra i primi a raggiungere le neonate bande
    partigiane che si andavano costituendo subito dopo l’armistizio e Ada
    DellaTorre fa la staffetta, mentre con la famiglia aveva trovato rifugio a
    Torrazzo; degli altri amici hanno notizie rare e sporadiche, ma sanno
    dell’arresto e della deportazione di Luciana, Primo e Vanda.
            Soltanto dopo la guerra quel gruppo a cui “era toccato in sorte un
    tempo terribile” si è ricostituito: alcuni non c’erano più, come Emanuele
    Artom e Vanda, altri erano passati attraverso prove terribili che li
    avevano profondamente segnati, ma l’impegno maturato nella
    Resistenza per la costruzione di un mondo migliore resta una costante
    delle loro esistenze.

  Mi ero laureato il 30 giugno 1937. L’indomani mi presentai al reggimento
per il servizio militare quale ufficiale di complemento. Pochi mesi dopo sarei
stato messo in “congedo assoluto” per motivi “razziali”, decisione che mi
salvò la vita: non ho rivisto nessuno dei miei commilitoni, perché quel
reggimento sparì in Russia.
  Gli amici di quel tempo erano, naturalmente, i compagni di università,
cattolici e valdesi; un solo ebreo, che morì poco dopo. Non eravamo né
fascisti né antifascisti, una posizione che oggi mi appare quasi
incomprensibile.
Temo però che anche adesso, malgrado le maggiori opportunità offerte
dalla democrazia, molti giovani siano su posizioni di analoga indifferenza.
   Le istituzioni fasciste facevano per noi parte della realtà oggettiva, del
mondo in cui si viveva, della natura. Eravamo stati iscritti alla Milizia
universitaria non per adesione al fascismo, ma perché con i suoi corsi
premilitari permetteva di sbrigare più rapidamente il servizio. Ma non ci
eravamo laureati – come era d’obbligo – in camicia nera: poiché esisteva una
alternativa, avevamo scelto di indossare, quel giorno, la divisa militare.
   Senza nessun merito, dunque, ma soltanto perché provocato, divenni, con
la campagna della razza del 1938, antifascista, un antifascista oggettivo,
passivo, povero di idee ed ideali. Ma qualcosa di importante deve essere
successo – senza che ne avessimo chiara coscienza – in quell’anno, se tutti i
miei amici (e non per solidarietà con gli ebrei e con me, ma per motivi
generali, anche se confusi) scoprirono di essere contrari al regime. Molte
fotografie, specialmente di montagna, documentano la continuazione di
quelle amicizie fino a guerra già iniziata.
   Fu un momento traumatico quello in cui uno dopo l’altro gli amici furono
richiamati alle armi per una guerra contro la quale erano ormai interiormente
schierati. Mi parve allora di venir meno alla solidarietà con loro, all’amicizia.
   Ebbi nuovi amici, ebrei. Trovammo lavoro – un gruppo di giovani ebrei
torinesi – a Milano, perché, come là si diceva, A Milàn laùren tücc, anche gli
ebrei ai quali il fascismo voleva impedire di lavorare. Mi pare indispensabile a
questo punto riportare un passo dal Sistema periodico di Primo Levi (capitolo
Oro):
        Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati,
  professori ed operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui
  avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica, in
  montagna. Il fascismo li aveva ridotti al silenzio per vent’anni, e ci spiegarono
  che il fascismo non era soltanto un malgoverno buffonesco e improvvido, ma il
  negatore della giustizia; non aveva soltanto trascinato l’Italia in una guerra
  ingiusta e infausta, ma era sorto e si era consolidato come custode di una
  legalità e di un ordine detestabili, fondati sulla costrizione di chi lavora, sul
  profitto incontrollato di chi sfrutta il lavoro altrui, sul silenzio imposto a chi pensa
  e non vuole essere servo, sulla menzogna sistematica e calcolata. Ci dissero
  che la nostra insofferenza beffarda non bastava.

   Il racconto collettivo di Primo termina con l’8 settembre del 1943 (di lì
comincia il suo personale viaggio agli inferi): “Ci separammo per seguire il
nostro destino, ognuno in una valle diversa”.
   La mia fu una scelta fortunata. Circostanze casuali mi portarono a metà
settembre nel Biellese, dove già si stava formando un precocissimo
movimento partigiano. Non ne dirò qui le vicende. Mi avvenne di essere tra i
fondatori della 2a Brigata Garibaldi, la quale avrebbe poi figliato due divisioni
di tre brigate ciascuna, più i servizi. Può essere più interessante informare
sulla sua composizione iniziale: i partigiani erano in maggioranza giovani,
anzi giovanissimi; pochi erano i soldati provenienti dalle guerre fasciste
(sarebbero arrivati dopo un po’); c’erano alcuni anziani militanti operai; il tutto
diretto da pochi comunisti, reduci dalla prigione e/o dalla guerra di Spagna
(personaggi perlopiù di alta e nobile levatura).
   In questo ambiente (ma me ne resi conto poco a poco) ero per taluni
aspetti un diverso. L’aspetto principale di diversità derivava dal fatto che ero
stato “ufficiale”. Soltanto molto tempo dopo capii che questo voleva dire, per i
giovani e meno giovani compagni, una differenza di classe, dal che derivava
una iniziale diffidenza, rapidamente superata dalla pratica. L’essere ebreo era
un altro fattore di diversità, ma a dire il vero di scarsa importanza, perché i più
non sapevano se non molto vagamente che cosa fosse un ebreo; gli
avvenimenti e la stessa propaganda nemica portarono qualche informazione
in più, dal che derivò, mi pare di ricordare, un’aggiunta di simpatia nei miei
confronti.
   Nella mia famiglia dal lato paterno cinque sono stati i deportati (senza
ritorno), quattro dal lato materno. È così all’incirca per tutti noi. Suona
grottesco e perfino macabro dire che gli ebrei sopravvissuti sono ebrei
fortunati. Eppure tale mi considero, e non soltanto per la sopravvivenza.
   Ho cercato di fornire, nei precedenti dati biografici, elementi sui quali si
possa esercitare il giudizio: chi cercasse una motivazione nella mia – e forse
di altri – partecipazione alla Resistenza rimarrà sorpreso – e deluso – per
aver trovato così poco: una pressione oggettiva cogente e una tardiva ricerca
e scoperta di un poco elaborato concetto di democrazia.
   Eppure pare a me che qualcosa di peculiare e valido anche per il presente
se ne possa trarre.
   In uno dei suoi Quaderni del carcere Antonio Gramsci dichiara la sua
adesione di massima alla tesi, formulata da Arnaldo Momigliano, secondo la
quale gli ebrei italiani avrebbero avuto la ventura di “formarsi una coscienza
nazionale italiana” (pur conservando “peculiarità ebraiche”) in parallelo con la
formazione della coscienza nazionale “dei piemontesi e dei napoletani o dei
siciliani”: “un momento dello stesso processo; e vale a caratterizzarlo”. Pare a
me che questa teoria abbia, sì, un fondamento, ma serva a spiegare soltanto
in piccola parte la peculiare collocazione degli ebrei in Italia. Tuttavia essa
può essere, su un piano diverso e forse più valido, riproposta con riferimento
alla Resistenza.
   Molti di noi, ebrei della mia generazione, si sono formati una cultura e
coscienza democratica mentre se la formavano milioni di altri italiani della
stessa generazione; ciò attraverso le dure esperienze di quegli anni. A noi,
italiani ebrei e non, toccò in sorte di passare dall’adolescenza o dalla
giovinezza alla maturità in quegli anni grandi e terribili, che sono stati
determinanti per la storia successiva.
   Sono passati pochi anni da quando Primo Levi scriveva Se non ora
quando? ed introduceva il “palestinese” Chàim per spiegare al gruppo di
Mendel le stranezze dell’Italia, dove “gli ebrei italiani […] non parlano jiddisch
[…] si vestono come gli altri, hanno le stesse facce degli altri […] e […]
appunto non si distinguono” dagli altri. L’Italia e gli italiani di oggi sono
sensibilmente diversi da quelli raccontati da Primo, attraverso Chàim, soltanto
una quindicina di anni fa.Ma certamente la parzialità delle tesi di Momigliano-
Gramsci e di Levi-Chàim non elimina la peculiarità della nostra storia. Nelle
nostre esperienze resistenziali non furono scindibili le motivazioni ebraiche da
quelle italiane, perché l’azione si collocava di per sé, spontaneamente,
naturalmente, in un quadro più generale – anche se vissuto con ingenuità e
approssimazione –, quello della conquista democratica per tutti, in Italia e –
questo è anche importante – anche in Europa, e idealmente nel mondo.
   Ebbene, credo che proprio in ciò risiedano valori validi anche per le
successive generazioni di ebrei italiani (e di italiani non ebrei), oggi, in
particolare, quando vi è motivo di temere che quella conquista, buona per
ebrei e non, possa essere minacciata.
   Non siamo storici, ma testimoni. Mi pare particolarmente importante
ricordare e far conoscere taluni elementi formativi peculiari degli ebrei italiani,
di cui altri felicemente possono giovarsi.
   Scriveva Geremia (29,7): “Cercate il benessere della città dove vi ho
esiliato, pregate il Signore per essa, poiché dal suo benessere dipende il
vostro”.
   È noto che personalmente non mi sento “esiliato”; ma tanto più considero
essenziale l’appello del profeta in quanto non è in gioco soltanto il benessere.

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Ero diverso: ufficiale ed ebreo (di Silvio Ortona)

  • 1. SILVIO ORTONA Ero diverso: ufficiale ed ebreo Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una testimonianza in cui Silvio Ortona ripercorre le tappe della sua maturazione politica: inizialmente (come tanti ragazzi ebrei) la sua formazione avviene all’interno di una società e di una scuola che aveva subito un forte processo di fascistizzazione, che non viene in nessun modo messo in discussione. È stato il 1938 l’anno cruciale, quando per molti ebrei, con la promulgazione delle leggi razziali, inizia un doloroso distacco dalla società e anche dal fascismo, in cui molti avevano sinceramente creduto, mentre altri erano rimasti, al più, indifferenti. Si è trattato di un doloroso risveglio: annullate le conquiste ottenute con il processo di emancipazione che aveva visto gli ebrei italiani crescere e progredire in tutti i campi. Ma è stato incisivo per Ortona come per Primo Levi, Ada Della Torre, Eugenio Gentili Tedeschi, Vanda Maestro anche l’anno vissuto a Milano, felicemente rievocato da Ada nel racconto Piccola comunità 1942-1943 che fa parte di questa raccolta, un anno in cui questi giovani, tutti amici, matureranno una nuova visione della realtà, che li porterà, all’indomani dell’8 settembre, amilitare in luoghi diversi,ma con uno stesso spirito. Silvio Ortona è fra i primi a raggiungere le neonate bande partigiane che si andavano costituendo subito dopo l’armistizio e Ada DellaTorre fa la staffetta, mentre con la famiglia aveva trovato rifugio a Torrazzo; degli altri amici hanno notizie rare e sporadiche, ma sanno dell’arresto e della deportazione di Luciana, Primo e Vanda. Soltanto dopo la guerra quel gruppo a cui “era toccato in sorte un tempo terribile” si è ricostituito: alcuni non c’erano più, come Emanuele Artom e Vanda, altri erano passati attraverso prove terribili che li avevano profondamente segnati, ma l’impegno maturato nella Resistenza per la costruzione di un mondo migliore resta una costante delle loro esistenze. Mi ero laureato il 30 giugno 1937. L’indomani mi presentai al reggimento per il servizio militare quale ufficiale di complemento. Pochi mesi dopo sarei stato messo in “congedo assoluto” per motivi “razziali”, decisione che mi salvò la vita: non ho rivisto nessuno dei miei commilitoni, perché quel reggimento sparì in Russia. Gli amici di quel tempo erano, naturalmente, i compagni di università, cattolici e valdesi; un solo ebreo, che morì poco dopo. Non eravamo né fascisti né antifascisti, una posizione che oggi mi appare quasi incomprensibile.
  • 2. Temo però che anche adesso, malgrado le maggiori opportunità offerte dalla democrazia, molti giovani siano su posizioni di analoga indifferenza. Le istituzioni fasciste facevano per noi parte della realtà oggettiva, del mondo in cui si viveva, della natura. Eravamo stati iscritti alla Milizia universitaria non per adesione al fascismo, ma perché con i suoi corsi premilitari permetteva di sbrigare più rapidamente il servizio. Ma non ci eravamo laureati – come era d’obbligo – in camicia nera: poiché esisteva una alternativa, avevamo scelto di indossare, quel giorno, la divisa militare. Senza nessun merito, dunque, ma soltanto perché provocato, divenni, con la campagna della razza del 1938, antifascista, un antifascista oggettivo, passivo, povero di idee ed ideali. Ma qualcosa di importante deve essere successo – senza che ne avessimo chiara coscienza – in quell’anno, se tutti i miei amici (e non per solidarietà con gli ebrei e con me, ma per motivi generali, anche se confusi) scoprirono di essere contrari al regime. Molte fotografie, specialmente di montagna, documentano la continuazione di quelle amicizie fino a guerra già iniziata. Fu un momento traumatico quello in cui uno dopo l’altro gli amici furono richiamati alle armi per una guerra contro la quale erano ormai interiormente schierati. Mi parve allora di venir meno alla solidarietà con loro, all’amicizia. Ebbi nuovi amici, ebrei. Trovammo lavoro – un gruppo di giovani ebrei torinesi – a Milano, perché, come là si diceva, A Milàn laùren tücc, anche gli ebrei ai quali il fascismo voleva impedire di lavorare. Mi pare indispensabile a questo punto riportare un passo dal Sistema periodico di Primo Levi (capitolo Oro): Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori ed operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica, in montagna. Il fascismo li aveva ridotti al silenzio per vent’anni, e ci spiegarono che il fascismo non era soltanto un malgoverno buffonesco e improvvido, ma il negatore della giustizia; non aveva soltanto trascinato l’Italia in una guerra ingiusta e infausta, ma era sorto e si era consolidato come custode di una legalità e di un ordine detestabili, fondati sulla costrizione di chi lavora, sul profitto incontrollato di chi sfrutta il lavoro altrui, sul silenzio imposto a chi pensa e non vuole essere servo, sulla menzogna sistematica e calcolata. Ci dissero che la nostra insofferenza beffarda non bastava. Il racconto collettivo di Primo termina con l’8 settembre del 1943 (di lì comincia il suo personale viaggio agli inferi): “Ci separammo per seguire il nostro destino, ognuno in una valle diversa”. La mia fu una scelta fortunata. Circostanze casuali mi portarono a metà settembre nel Biellese, dove già si stava formando un precocissimo movimento partigiano. Non ne dirò qui le vicende. Mi avvenne di essere tra i fondatori della 2a Brigata Garibaldi, la quale avrebbe poi figliato due divisioni di tre brigate ciascuna, più i servizi. Può essere più interessante informare sulla sua composizione iniziale: i partigiani erano in maggioranza giovani,
  • 3. anzi giovanissimi; pochi erano i soldati provenienti dalle guerre fasciste (sarebbero arrivati dopo un po’); c’erano alcuni anziani militanti operai; il tutto diretto da pochi comunisti, reduci dalla prigione e/o dalla guerra di Spagna (personaggi perlopiù di alta e nobile levatura). In questo ambiente (ma me ne resi conto poco a poco) ero per taluni aspetti un diverso. L’aspetto principale di diversità derivava dal fatto che ero stato “ufficiale”. Soltanto molto tempo dopo capii che questo voleva dire, per i giovani e meno giovani compagni, una differenza di classe, dal che derivava una iniziale diffidenza, rapidamente superata dalla pratica. L’essere ebreo era un altro fattore di diversità, ma a dire il vero di scarsa importanza, perché i più non sapevano se non molto vagamente che cosa fosse un ebreo; gli avvenimenti e la stessa propaganda nemica portarono qualche informazione in più, dal che derivò, mi pare di ricordare, un’aggiunta di simpatia nei miei confronti. Nella mia famiglia dal lato paterno cinque sono stati i deportati (senza ritorno), quattro dal lato materno. È così all’incirca per tutti noi. Suona grottesco e perfino macabro dire che gli ebrei sopravvissuti sono ebrei fortunati. Eppure tale mi considero, e non soltanto per la sopravvivenza. Ho cercato di fornire, nei precedenti dati biografici, elementi sui quali si possa esercitare il giudizio: chi cercasse una motivazione nella mia – e forse di altri – partecipazione alla Resistenza rimarrà sorpreso – e deluso – per aver trovato così poco: una pressione oggettiva cogente e una tardiva ricerca e scoperta di un poco elaborato concetto di democrazia. Eppure pare a me che qualcosa di peculiare e valido anche per il presente se ne possa trarre. In uno dei suoi Quaderni del carcere Antonio Gramsci dichiara la sua adesione di massima alla tesi, formulata da Arnaldo Momigliano, secondo la quale gli ebrei italiani avrebbero avuto la ventura di “formarsi una coscienza nazionale italiana” (pur conservando “peculiarità ebraiche”) in parallelo con la formazione della coscienza nazionale “dei piemontesi e dei napoletani o dei siciliani”: “un momento dello stesso processo; e vale a caratterizzarlo”. Pare a me che questa teoria abbia, sì, un fondamento, ma serva a spiegare soltanto in piccola parte la peculiare collocazione degli ebrei in Italia. Tuttavia essa può essere, su un piano diverso e forse più valido, riproposta con riferimento alla Resistenza. Molti di noi, ebrei della mia generazione, si sono formati una cultura e coscienza democratica mentre se la formavano milioni di altri italiani della stessa generazione; ciò attraverso le dure esperienze di quegli anni. A noi, italiani ebrei e non, toccò in sorte di passare dall’adolescenza o dalla giovinezza alla maturità in quegli anni grandi e terribili, che sono stati determinanti per la storia successiva. Sono passati pochi anni da quando Primo Levi scriveva Se non ora quando? ed introduceva il “palestinese” Chàim per spiegare al gruppo di Mendel le stranezze dell’Italia, dove “gli ebrei italiani […] non parlano jiddisch […] si vestono come gli altri, hanno le stesse facce degli altri […] e […]
  • 4. appunto non si distinguono” dagli altri. L’Italia e gli italiani di oggi sono sensibilmente diversi da quelli raccontati da Primo, attraverso Chàim, soltanto una quindicina di anni fa.Ma certamente la parzialità delle tesi di Momigliano- Gramsci e di Levi-Chàim non elimina la peculiarità della nostra storia. Nelle nostre esperienze resistenziali non furono scindibili le motivazioni ebraiche da quelle italiane, perché l’azione si collocava di per sé, spontaneamente, naturalmente, in un quadro più generale – anche se vissuto con ingenuità e approssimazione –, quello della conquista democratica per tutti, in Italia e – questo è anche importante – anche in Europa, e idealmente nel mondo. Ebbene, credo che proprio in ciò risiedano valori validi anche per le successive generazioni di ebrei italiani (e di italiani non ebrei), oggi, in particolare, quando vi è motivo di temere che quella conquista, buona per ebrei e non, possa essere minacciata. Non siamo storici, ma testimoni. Mi pare particolarmente importante ricordare e far conoscere taluni elementi formativi peculiari degli ebrei italiani, di cui altri felicemente possono giovarsi. Scriveva Geremia (29,7): “Cercate il benessere della città dove vi ho esiliato, pregate il Signore per essa, poiché dal suo benessere dipende il vostro”. È noto che personalmente non mi sento “esiliato”; ma tanto più considero essenziale l’appello del profeta in quanto non è in gioco soltanto il benessere.