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L.A.B.A.
LIBERAACCADEMIA DI BELLE ARTI
TOTEMATICHE
Il designer come connettore di competenze,
ipotesi di condivisione progettuale.
Relatore
Prof. Angelo Minisci
Docente di indirizzo
Prof. Angelo Minisci
Diplomando
Adriano Toccafondi
Anno accademico 2011/2012
Matricola
679FI
Introduzione
La tesi cerca di rispondere a tre domande.
Come possiamo definire il ruolo del designer oggi?
Può essere considerato un connettore di competenze?
Ha senso pensare ad un oggetto che lo aiuti ad interagire con le varie figure profes-
sionali?
Se la storia del Design italiano e mondiale è da considerarsi recente, la professione del
designer ha avuto invece, un cambiamento molto veloce.
Si è passati dalla mera necessità di un’espressione di stile a una figura che sia consapevole
di marketing e che soprattutto sappia mettere in relazione varie esigenze e figure profes-
sionali.
La figura del designer oggi deve prendere posizione circa il processo di costruzione e
realizzazione del prodotto o servizio. Se gli ingegneri o i tecnici fanno riferimento alla
tecnica necessaria per la risoluzione di un problema specifico il designer deve riuscire ad
avere un approccio al lavoro con visioni più ampie rispetto al puro metodo applicativo.
Deve cercare inoltre, di far riflettere le varie competenze sulla necessità di prendere strade
diverse da quelle convenzionali, spesso argomentando sugli aspetti peculiari.
Ciò che può risultare complicato è la sensibilizzazione tramite la comunicazione prima del
team di lavoro e successivamente degli utenti a cui è destinato il servizio o il prodotto.
Prendo ad esempio la parola sostenibile che vuol dire tutto e niente pur essendo oggi
molto abusata, per argomentarne la complessità.
Dietro questa parola nel progettare un oggetto ci sono concetti quali: la composizione
dei materiali e la loro modalità di estrazione, la durabilità, l’intercambiabilità, lo smalti-
mento, l’obsolescenza, e tanti ancora.
Avere il compito di spiegare quindi perché un oggetto è sostenibile è impresa ardua.
Una soluzione a questo problema può essere quella dell’utilizzo di alcuni indici, che
definiscono numericamente i concetti sopra elencati. 1
Il passo successivo è quindi quello di sensibilizzare il team e gli utenti finali in modo che
questi soggetti possano condividere la strada intrapresa dal designer.
Il designer assume inoltre, il ruolo di comunicatore prima durante e dopo il progetto.
Da qui nasce l’idea di un totem pensato come oggetto ausiliare, che svolga una funzione
di raccolta e comunicazione in uno spazio delimitato.
La figura fisica del designer trova ausilio nel totem che assolve alle funzioni informative
e restituisce poi l’idea del progetto nelle varie fasi di realizzazione.
Il totem può avere inoltre la funzione accessoria di disinibire l’utente a cui si rivolge.
L’approccio che si ha nei confronti di un “oggetto simbolo” può essere privo di filtri.
Cosa che normalmente non accade nelle forme di comunicazione personali.
Le informazioni e gli indici devono essere restituiti in forma numerica, per sensibilizzare
gli utenti.
La tesi è inoltre la sintesi personale del mondo dell’ Economia e del Design.
Ogni volta che compriamo votiamo.
Ogni volta che decidiamo mettiamo in pratica aspetti positivi e negativi.
Credo che l’abilità di un designer stia principalmente nel trovare un mix che permetta di
arrivare ad un risultato che abbia più vantaggi che svantaggi.
Non solo. Deve anche saperlo comunicare.
Noi come progettisti abbiamo senza dubbio una grande responsabilità.
Il mio è un approccio umile, ma anche consapevole di trattare temi di massima impor-
tanza. Credo inoltre che affrontare il tema in maniera critica preveda di mettere in discus-
sione i principi economici, uno su tutti l’importanza che in occidente diamo al valore del
P.i.l. e di conseguenza stabilire quale debba essere l’approccio del mondo del Design nel
momento in cui si mette in discussione questo valore.
Altri indici dovrebbero essere presi in considerazione come strumento
di conoscenza? Perché non arrivare a ipotizzare quindi un indice?
Potrebbe chiamarsi ISA: acronimo di indice di sostenibilità armonica.
Il progettista è stato catapultato in un mondo del tutto nuovo negli ultimi cinquant’anni. 2
Mai nella storia si era raggiunto un livello di tecnica così alto e anche questo comporta
ovviamente delle riflessioni in merito. Nello specifico gli oggetti possono essere prodotti
praticamente nella sua interezza da macchine.
Viviamo nell’era della tecnica e il ruolo di un progettista viene confinato alla model-
lazione tridimensionale dei programmi dei computer, oppure alla messa in pratica delle
conoscenze tecniche progettuali e al processo di produzione.
Ma perché non mettere l’accento anche sull’aspetto umano di questo lavoro?
Così come ogni altro artista il designer si approccia al mondo dell’arte con una sensibilità
maggiore che lo porta ad avere continuamente a che fare con le emozioni. Non esiste un
progetto se non è accompagnato da emozioni. Anche solo l’incipit, quella spinta iniziale
che un designer sente quando si approccia ad un progetto, quella scintilla che lo respons-
abilizza nel creare qualcosa che ancora non esiste.
Non solo. Le emozioni in questo lavoro pervadono anche ogni momento della progettazi-
one. Emozioni prima, mentre e dopo la realizzazione del progetto.
Un oggetto poi, deve emozionare anche l’utente finale. Se se ne riconosce l’ingegno, la
passione che il progettista ci ha messo per poterlo realizzare, ecco che l’oggetto acquista
un plusvalore.
E allora le emozioni vanno sapute vivere e il designer è colui che le deve saper gestire.
Nello specifico deve saper gestire le sue e quelle degli altri, e inoltre deve poter sempre
avere una visione ampia d’insieme che lo porti ad una critica costruttiva e ad un bilancio
positivo nel risultato finale del bene o del servizio.
La riflessione di tesi è quindi interdisciplinare e vuole essere un’occasione critica sul pro-
getto e sul modo di progettare da punti di vista multipli.
Progettare in un modo migliore è possibile, con la giusta consapevolezza.
Il raggiungimento di risultati, con particolare riguardo alle piccole realtà, è alla nostra
portata nell’immediato. Per farlo è necessario lo strumento della comunicazione.
Il designer può aiutarsi con un oggetto che comunichi in modo diretto tematiche che inter-
essano la società nei quattro temi che reputo fondamentali: l’energia, il trasporto, l’abitare
e l’agricoltura. 3
Mi aiuterò chiamando in causa il mondo della filosofia, della scienza, dell’economia e del
social design.
Sarà un viaggio in quello che già esiste ed è già stato detto e quello che potrà essere da
qui a qualche anno forse.
Perché alcune energie si stanno già muovendo, perché c’è voglia di cambiamento e per-
ché il cambiamento della società è inevitabile per la scarsità delle risorse.
È uno dei principi dell’economia, quello della scarsità delle risorse, che non ammette la
possibilità di una crescita infinita.
Con umiltà ho l’ambizione di conoscere e sperimentare, per capire ogni giorno di più,
cosa significa essere un designer.
4
Lampada Filus Illuminazione - Oggetto Autoprodotto - Adriano Toccafondi (2010)
Adriano Toccafondi
“Il design è l’espressione della volontà
di vivere in armonia.”
5
Il designer come connettore di competenze,
ipotesi di condivisione progettuale.
Totematiche
Prefazione
Nasco a Firenze, ma ho vissuto a Prato e la storia degli ultimi trent’anni di questa città fa
parte di me.
Prato negli anni ottanta non aveva uguali per ritmo economico nel settore tessile in Italia.
Lentamente, ma inesorabilmente, ha visto cambiare il suo tessuto sociale con la progres-
siva crisi del settore che ha portato cambiamenti importanti anche nella mia famiglia.
Quando io raggiungevo i 18 anni eravamo in pieno cambiamento.
Mentre i miei coetanei trovavano ancora il loro posto in fabbrica come operai tessili io
decidevo di proseguire gli studi in Economia.
Nel frattempo i ricordi dei camion pieni di pezze erano sempre più lontani ed io cominci-
avo con i primi contratti a tempo determinato; iniziavo ad entrare nel mondo del lavoro.
La spinta interiore a fare altro però diventava ogni giorno più pressante e la volontà di
realizzare le mie attitudini mi spingevano verso il mondo dell’arte. Iniziai a bussare alle
porte dei capannoni della città che pian piano si erano trasformati da fabbriche di tessuto
a laboratori artigianali.
Iniziai a collaborare con un artista, assistendolo nei processi di costruzione delle sue op-
ere che prevedevano l’utilizzo dei materiali più disparati, principalmente polimeri.
Continuavo a lavorare nel turismo, ma la passione per l’arte, i materiali e i processi indus-
triali diventava sempre più forte.
Mettere le mani sulla materia mi ha dato nuovi stimoli e importanti percezioni di come
questa sia a nostra disposizione per esser plasmata e trasformata.
Così la decisione di ricominciare.
Appassionarsi ad un nuovo percorso formativo, con la consapevolezza che la strada in
salita è sempre quella da scegliere.
Il passo ultimo, quello che mi ha portato a decidere alla fine del percorso triennale di af-
frontare questo tema di tesi è la volontà di cercare una sintesi, un punto d’incontro nelle
mie passioni e nella mia storia di vita.
7
Nell’epoca della comunicazione e di internet, della diversa percezione della distanza e
della straordinaria possibilità di trovarsi sulla rete, le dinamiche di lavoro concettuale
hanno visto una metamorfosi d’approccio.
Il designer diventa una figura di connessione tra competenze, una figura chiave nel team
di lavoro.
Chissà quand’è il momento buono! Chissà quando lo sarà per me!
Spero di essere pronto a riconoscerlo quando passerà.
Il tempo va saputo gestire. Va ascoltato.
L’illuminazione spesso, arriva solo dopo un lungo periodo d’incubazione.
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“Non è tanto importante sviluppare il proprio stile quanto
l’approccio.” – Massimo Vignelli
La sfida contemporanea sta nel capire che la condivisione è la strada giusta da
intraprendere.
Forse questo però, è il concetto più difficile da assimilare e da mettere in pratica.
Gli attori principali di questa sfida sono gli industriali e gli imprenditori, che dovrebbero
capire che la condivisione e il concetto di open data può avere delle immediate conseg-
uenze in termini di competitività, innovazione e utilizzo delle risorse umane e materiali.
La trappola del segreto industriale crea delle isole di alta specificità che non comunicano
con le altre realtà, spesso perché si pensa che l’apertura abbia un costo maggiore.
In realtà è il contrario. Si finisce così per fare quello che si sa fare pensando che vada bene
per un tempo infinito.
La realtà dimostra invece che le esigenze e la consapevolezza delle persone è in continuo
sviluppo.
L’apparato industriale occidentale deve aprirsi se vuole avere una speranza di una nuova
era di sviluppo. Le parole chiave: apertura e condivisione.
“Copyright is for Losers.” – Banksy
La storia personale di ognuno ci porta a vivere esperienze diverse, talvolta agli opposti.
Credo però che prima o dopo ognuno arrivi a percepire che abbiamo un legame con
l’ambiente in cui viviamo e che ciò di cui ci serviamo per soddisfare i nostri bisogni più
o meno primari ci è dato in una forma finita.
C’è una consapevolezza diffusa nel mondo che sia necessario avere un tipo di approccio
diverso, più parsimonioso.
Il compito del designer oggi è quello di trasformare la consapevolezza in progetti reali,
mettendo in pratica un processo talvolta articolato, talvolta difficile.
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“La natura può permettersi di essere prodiga in tutto, l’artista deve essere
economo fino all’estremo” - Paul Klee
é l’approccio al progetto che deve essere economo. Niente è infinito.
“Le persone ignorano il design che ignora le persone” – Frank Chimero
Stesso concetto valido non a caso anche per la politica e nelle decisioni amministrative.
Ognuno è parte del sistema.
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Indice
Capitolo I - Un approccio filosofico.
1.1 L’importanza di capire dove siamo.
1.2 La filosofia nel secolo della tecnica.
1.3 Scenari futuri di convivenza tra tecnica e progettualità.
Capitolo II - L’economia nel progetto.
2.1 La prospettiva di un’economia alternativa.
2.2 Verso un’economia della conoscenza e della condivisione.
2.3 Una società fluida.
2.3 Cosa si intende per produzione di valore reale, la lezione degli
anni dieci.
2.4.1 Lo sviluppo del coworking e codesign in Italia e i punti di aggregazione.
2.4.2 Il ruolo del designer nella prospettiva del fare insieme.
III - Ah il designer! Ma esattamente cos’è che fai?
3.1 Le varie fasi storiche del design.
3.2 Definizione del concetto di innovazione.
3.3 L’evoluzione del ruolo e un approccio di connettore di competenze.
3.4 L’importanza del processo.
IV - Come e con cosa comunica il designer.
4.1.1 L’ importanza degli indici nelle fasi di sviluppo progettuale.
4.1.2 Ipotesi di un nuovo indice applicativo. ISA. Indice di sostenibilità armonica.
4.2 Introduzione all’experience design.
4.3 Panoramica sull’interaction design.
4.4 L’emozione come conseguenza dell’interazione.
4.5 La percezione dello spazio pubblico oggi.
V - Totematiche: ipotesi di condivisione progettuale.
5. “Totematiche”. Un oggetto per il designer.
5.1 Varie ipotesi progettuali: il Totem e le possibili applicazioni.
5.2 Schizzi progettuali e conclusioni. Tavole tecniche.
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Capitolo I
Un approccio filosofico.
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1.1 L’importanza di capire dove siamo.
La filosofia nasce in Grecia in mezzo alla gente, con il nobile intento di inter-
rogarsi pubblicamente sui temi della vita. Dopo un paio di millenni di
evoluzione è giusto considerare che il ruolo della filosofia possa essere sem-
pre lo stesso, ammesso che i problemi su cui è chiamata a riflettere siano la
naturale evoluzione di quelli antichi.
Il design può essere considerato una conseguenza nella misura in cui dà delle
risposte, la realizzazione pratica delle idee che la filosofia eviscera.
Non può quindi esserci un approccio al design senza prima capire in che
contesto viviamo e definire lo scenario in cui ci muoviamo può esserci
d’aiuto.
La tesi inoltre deve avere anche uno scopo applicativo e per questo
contestualizzarsi in uno scenario reale.
Ma come possiamo ipotizzare un approccio futuro se non capiamo dove sia-
mo?
Il Novecento è stato un secolo denso di storia e innovazione; in cento anni la
tecnica dell’uomo si è evoluta ad un ritmo che non ha uguali.
Parto dall’assunto che siamo nell’età della tecnica quindi e che tutti condivi-
dano questo pensiero in quanto oggettivo.
Il dizionario definisce così la tecnica: applicazione delle conoscenze elaborate
dalla scienza a scopi pratici e alla produzione di strumenti per realizzarli.
Nel momento in cui la tecnica diventa il soggetto della storia, tutte le catego-
rie d’interpretazione della società, che mettono al centro l’uomo, perdono di
significato. Vivere nell’era della tecnica significa che l’uomo ha raggiunto un
grado evolutivo tale da demandare la realizzazione di qualsiasi oggetto alle
macchine. Mai nella storia l’uomo si è trovato a poter disporre di così tanta
conoscenza. Ma questo ha una serie di conseguenze.
Brevemente è utile affrontare il tema in uno scenario politico e in uno
15
etico.
Nello scenario della politica, che era stata pensata da Platone come la
tecnica regia, non è più la classe dirigente che decide cosa e come produrre.
Nemmeno l’economia lo fa, perché anche questa si piega alla tecnica.
La tecnica si sostituisce ad altri organi decisionali. Chi è in possesso di ca-
pacità tecniche più elevate acquista automaticamente un ruolo di vantaggio
rispetto ai paesi che non la posseggono. È quindi l’uomo che viene messo in
secondo piano e con lui tutto ciò che è umanistico.
La tecnica destruttura l’approccio democratico nella misura in cui mette
costantemente in discussione la nostra competenza a valutare opportuni
alcuni possibili scenari. Ad esempio dovremmo essere dei fisici nucleari
per valutare l’opportunità della costruzione di una centrale nucleare, ma
siccome non abbiamo le competenze necessarie ci affidiamo al nostro
senso di appartenenza che ci fa direzionare da una parte o dall’altra sulla
spinta di fattori retorici persuasivi delle persone potenti.
Se pensiamo ad un cellulare, pensiamo ad un oggetto con il quale abbiamo
delle interazioni quotidiane ed è un oggetto che racchiude una competenza
tecnica molto superiore alle capacità progettuali comuni dell’uomo medio.
La capacità di persuadere quindi acquista un valore maggiore rispetto
alla vera conoscenza, e viviamo indiscutibilmente sulla nostra pelle gli
effetti dei mass media che hanno principalmente questo scopo.
Dal punto di vista dell’etica invece lo scenario attuale non è migliore.
Il mondo Occidentale ha avuto come riferimento l’etica cristiana, che
ha dato lo spunto per la costituzione di tutto l’ordine giuridico europeo.
Siamo di fronte all’etica delle intenzioni. Lo stesso sistema giuridico
appunto fa riferimento alle intenzioni per regolare svariati casi legislativi.
Si è sempre giudicato in base all’intenzione. La tecnica però destruttura anche
questo scenario. Conoscere le intenzioni delle persone non serve a
molto. Che intenzione avesse Enrico Fermi quando ha inventato la bomba
16
atomica non è interessante, molto più interessante è conoscerne gli effetti.
La tecnica va di pari passo alla conoscenza, che una volta acquisita dall’uomo
viene messa in pratica.
è difficile se non impossibile infatti, dire all’uomo che non può mettere in
pratica una propria conoscenza. Se l’uomo conosce fa, indipendentemente
dalle intenzioni di chi ha contribuito a sviluppare la nuova conoscenza.
In questo scenario il progettista non ha il ruolo di porsi il problema se quello
che fa può essere eticamente giusto o meno, può limitarsi ad applicare cono-
scenze tecniche.
Il designer d’altronde, in quanto progettista, non può evitare di occuparsi dell’
utente per cui è pensato il prodotto o il servizio che intende sviluppare.
Ovvio che il contesto nel quale si muove è fondamentale nelle scelte che
dovrà sostenere. Pensare ad un progetto che abbia applicazione nella parte
di mondo raggiunta dalla tecnica per quella stessa parte di mondo, non è la
stessa cosa che pensarlo per la parte di mondo che non ha corrente elettrica.
I bisogni cambiano in base al contesto, ma sembra logico avvalersi della tec-
nica, come suggeritoci dalle riflessioni filosofiche.
La conoscenza la si deve applicare. Il progettista in questo senso ha la neces-
sità di confrontarsi con delle scelte eticamente forse discutibili, ma non può
far finta che la tecnica e la conoscenza non ci appartenga.
è importante perciò prendere coscienza delle potenzialità degli strumenti che
abbiamo per poterli applicare nei processi di produzione. è importante sapere
dove siamo per capire dove possiamo andare.
Moai - Isola di Pasqua - Scultura autoctona
18
1.2 La filosofia nel secolo della tecnica.
La filosofia ha affrontato nel ventesimo secolo i temi del lavoro e del
cambiamento della società.
Nello specifico, Friederich Nietzsche, Immanuel Kant e Gunther Anders si
occupano delle cause e delle conseguenze sociali della rivoluzione industriale
e della diffusione della tecnica nel mondo occidentale.
Kant definisce un’etica laica, che prescindesse dalla fede in Dio.
“L’uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo.”- I.Kant
Ma questa etica non si è mai realizzata, così come non si è mai messo in pratica
l’idea di democrazia. Il cittadino è considerato tale solo nel momento in cui è
funzione di qualcosa, meccanismo di un sistema più grande di lui. Altrimenti
lo stato non lo riconosce come cittadino, oppure è costretto ai margini della
società. Il fatto stesso di essere uomo non dà diritto di cittadinanza. Ma anche
se si fosse realizzata l’etica Kantiana non funzionerebbe comunque, nella mi-
sura in cui l’uomo non è più l’unico soggetto da trattare come un fine.
L’acqua, l’aria, l’energia possono essere considerati “fine” e non mezzo
perché una loro conservazione e un buon utilizzo ci permetterebbero di vivere
in un ambiente migliore.
L’etica d’altronde funziona solo se è interiorizzata dalla società e da questo
punto di vista non siamo ancora pronti. L’evento tecnologico è stato troppo
rapido rispetto alla nostra evoluzione intellettuale. La nostra psiche ha dei
processi lentissimi.
Gunther Anders è autore di: “L’uomo è antiquato rispetto alle cose che uti-
lizza”. Era un ebreo perseguitato ed emigrò negli Stati Uniti per lavorare alla
Ford. Scrisse ad Heidegger suo maestro: “lei mi ha insegnato che l’uomo è
il pastore dell’essere, io qui invece sono il pastore delle macchine. Il mio
compito non è nemmeno più quello di lavorare, ma si riduce a sorvegliare le
19
macchine.”
Nell’età della tecnica si è avuto in grande quello che il nazismo ha fatto vedere
in piccolo. Il nazismo è un teatrino di provincia rispetto all’età della tecnica.
Nel nazismo si è verificato che la responsabilità non è più in ordine agli effetti
delle azioni, ma solo nella perfetta esecuzione degli ordini del superiore.
Non si estendeva alla conseguenza dell’agire. I comandanti nazisti eseguiva-
no gli ordini.
Alla domanda “Cosa provava a fare quello che faceva?” gli ufficiali non ri-
spondevano, oppure dicevano che a loro si chiedeva solo di eseguire dei co-
mandi.
Erano soltanto gli esecutori di un metodo.
Si capisce bene quindi che se il lavoro diventa la perfetta esecuzione di un
ordine questo si ripercuote inevitabilmente a livello sociale.
Si assiste ad una deresponsabilizzazione diffusa nel mondo del lavoro, che
coinvolge gli attori principali solo nel momento in cui devono rendicontare
del proprio operato al proprio superiore
Si perde di vista quindi l’obiettivo finale. Poco importa se le pistole che ven-
gono prodotte nel bresciano andranno ad uccidere, l’importante per gli operai
che le producono è mettere bene insieme le spolette.
Il loro lavoro finisce lì e non sentono il peso morale di ciò che stanno facendo.
O non conoscono i fini ultimi oppure non sono di loro competenza. Conside-
rando inoltre la tecnica come l’anima della scienza, l’intenzione della tecnica
è già inscritta nello scenario scientifico.
La tecnica quindi non è buona o cattiva, ma ogni volta che l’uomo scopre una
nuova capacità tecnica questa verrà messa in pratica per il semplice fatto che
è a disposizione dell’uomo.
Come si può limitare l’uomo dal fare qualcosa che è capace di fare?
Heiddeger diceva che inquietante non è che il mondo si trasformi in un grande
apparato tecnico. Ancora più inquietante è che non siamo preparati a questa
trasformazione, ma ancora più inquietante è che non abbiamo un pensiero
20
alternativo al pensiero che calcola.
Da qui dobbiamo partire per andare verso il futuro. Tutto in occidente è dis-
chiuso verso il futuro però Nietzche ci ha avvertito che Dio è morto. Dio era
vivo quando creava mondi e faceva storia. Non possiamo pensare al Medio-
evo senza il concetto di Dio, ma se tolgo la parola Dio dall’epoca contempo-
ranea la capirei comunque.
Non la capirei se togliessi il concetto di denaro e di tecnica.
Nietzsche parla di Nichilismo. Siamo in un’atmosfera altamente nichilista.
Tutti i valori si svalutano, manca la risposta al perché e non ci sono scopi
all’orizzonte. I valori si svalutano sempre a favore di altri. Ma quali sono i
valori del futuro. Se Dio è morto tutto l’ottimismo sia in chiave scientifica che
sociologica collassa. L’ottimismo del futuro è sempre stato un punto di forza
dell’Occidente, ma ora non lo è più. Manca la risposta al perché. Il futuro è
imprevedibile, quindi non retroagisce come motivazione e allora si vive in-
tensamente solo il presente.
Lo sguardo al futuro è pura angoscia. E qui arriviamo a un punto morto; ma è
senza dubbio migliore la prospettiva di prendere coscienza del punto storico
in cui siamo per agire di conseguenza.
Intendo dire che tutte le tematiche su cui il Design si può interrogare partono
da questi assunti imprescindibili e oggettivi. Conoscere è sempre meglio che
ignorare anche se la conoscenza prevede di dover prendere atto di situazioni
difficili e sfide importanti da affrontare. Così come l’esempio del pilota che
ha sganciato le bombe atomiche, o le decine di migliaia di militari che uc-
cidono obbedendo ad un ordine. Questo è lo scenario globale, qualcosa di
universalmente accettato, la palude nella quale sguazziamo e il punto da cui
ripartire.
La tecnica rischia di mettere in discussione anche la democrazia, che pur
21
non essendosi mai concretizzata è rimasta sempre un’idea regolatrice della
società. Non viviamo nella prospettiva di un futuro migliore. Per la prima
volta nella storia forse guardiamo ad un futuro con preoccupazione e questo
si riscontra nella nuova generazione.
I giovani vivono in un presente schizofrenico nel quale la prospettiva più
interessante è quella di vivere intensamente senza la possibilità di progettare
un futuro.
I giovani sono emarginati, non vengono chiamati per nome, non sono attori
di niente.
E allora si rifugiano in identità sempre più provocatorie e ai margini della
civiltà, spesso in vite alternative on-line.
Il filosofo Umberto Galimberti riesce ad inquadrare benissimo tutti questi
temi nel suo libro: “L’uomo nell’età della tecnica.”
A tutte queste considerazioni devo far notare che viviamo anche nell’era di
internet, che oltre a permetterci di essere connessi in una rete comune, ci dà la
possibilità di avere accesso ad una grande quantità di notizie e conoscenze.
Per la prima volta nella storia con internet possiamo condividere la nostra
conoscenza potenzialmente con tutti i cittadini del mondo. Quindi se da un
lato la tecnica prevede che il potere sia concentrato in organizzazioni che de-
tengono il know-how dei processi atti a raggiungere uno scopo, dall’altro c’è
la possibilità della grande tentazione della condivisione.
Personalmente credo che la strada della condivisione sia quella da seguire,
pur essendo per ovvie ragioni più complessa.
La filosofia quindi ci apre la strada verso uno scenario che riguarda diretta-
mente l’ Economia e i metodi progettuali.
22
1.3 Scenari futuri di convivenza tra tecnica e progettualità.
Riflettendo su come la progettualità possa ancora avere un ruolo, in
un’epoca in cui la tecnica ha preso il sopravvento, si aprono diversi scenari.
Il primo è quello della creatività.
I computer e le macchine non possono provare emozioni e allo stesso modo
non possono essere creative.
Le macchine sono fatte per interpretare stimoli e input che l’uomo concede,
ma non sono pensate per sostituirsi a noi.
L’altro aspetto imprescindibile è che l’uomo continuerà ad essere il fine ul-
timo. I servizi continueranno ad essere pensati per l’uomo.
Forse l’aspetto più inquietante è di dover convivere con dinamiche multi-
disciplinari. Dover essere sempre a passo con i tempi. Vivere al tempo delle
macchine infatti significa dover stare sempre aggiornati ed avere molte più
competenze specifiche.
Infine la questione etica.
Il mondo è cambiato con l’esplosione della bomba atomica.
Da quel momento l’umanità ha avuto la percezione netta che il livello tecnico
raggiunto era in grado, con la nostra volontà, di cancellarci dalla terra.
Niente è stato più come prima, il problema non poteva essere risolto nem-
meno con la distruzione delle bombe rimanenti, avremmo dovuto cancellare
le informazioni tecniche che ci permettono di costruirle, ma sulla conoscenza
non si torna indietro.
Possiamo solo accettare che è nelle nostre facoltà utilizzarla, sta a noi deci-
dere in che modo. Dobbiamo entrare nell’ottica che la tecnica non è né buona
né cattiva, provando ad avere un approccio possibilista.
23
In questo senso non possiamo tornare indietro. In questo senso il designer
deve prendere coscienza di quello che c’è altrimenti rischia di diventare un
dinosauro attaccato a dei principi che non lo fanno vivere nella realtà.
Se le macchine permettono dei processi di costruzione e assemblaggio nuovi
è giusto farne uso.
Non dico che la questione etica non esista, ma forse è più giusto spostarla
sull’utente finale. Presupposto che l’utente finale non sia altro che l’uomo il
cerchio si chiude: sta a noi decidere.
Motociclista con il suo carico di taniche vuote - India 2012
“La felicità non si compra. Qualcuno ci ha
provato, con scarsi risultati.”
Capitolo II
L’economia nel progetto.
28
2.1 La prospettiva di un’economia alternativa.
Che strumenti ci offre l’Economia per l’interpretazione del tema del pro-
getto?
Si capisce che così com’è importante capire a chi si rivolge il progetto, è
importante capire come comunicare l’aspetto economico che è spesso il prin-
cipale strumento di giudizio sulla qualità dello stesso.
Se è vero che viviamo nell’era postmoderna nella quale le aziende cercano di
far percepire valori intangibili, è anche vero che si ha la necessità di quantifi-
care per dare forza a ciò che si promuove.
L’economia è fatta soprattutto di numeri e percentuali che devono essere co-
municate.
Il designer inoltre, nell’approcciarsi ad un progetto di prodotto deve
forzatamente confrontarsi con i materiali e la loro scarsità. Questa percezione,
per fortuna, è sempre più netta nella società e oltre a dare un valore aggiunto
a progetti che siano ben orientati sulla giusta ricerca di materiali; fa
pensare alla necessità di un ripensamento del sistema economico degli
ultimi cinquant’anni.
Dato per buono l’assunto che il sistema attuale abbia vita breve su temi come
l’obsolescenza programmata e lo spreco di risorse è utile cercare di focaliz-
zare l’attenzione sul legame che esiste tra economia e felicità ad esempio.
L’ indice economico di riferimento, spesso preso in considerazione per moni-
torare la crescita e lo sviluppo di un sistema, è il prodotto interno lordo.
Unico e indiscutibile strumento di misurazione del progresso di un Paese.
Ma si può mettere in discussione questo assunto?
Non sarebbe più logico prendere in considerazione un altro indice, magari
quello che misura la felicità delle persone?
Sono in molti a credere che mettersi in questa ottica di idee implichi un grosso
sforzo individuale di rinuncia.
29
Questo è un concetto chiave che va sviluppato per essere ben compreso. Se è
vero che se pensiamo in grande, al sistema inteso come grande apparato che
muove tutto non abbiamo grandi possibilità di trarne un vantaggio immediato
e concreto; d’altra parte invece la nostra rinuncia ai comportamenti d’acquisto
ritenuti usuali, può portare ad un bilancio positivo anche nel breve termine.
Soprattutto se è attuata in un contesto multiplo, cioè se a muoversi nella giusta
direzione è un gruppo che agisce su un territorio specifico e non un singolo, ci
possiamo rendere protagonisti di un cambiamento proficuo e vantaggioso.
L’unione fa la forza, le decisioni compartecipate portano spesso ad un van-
taggio immediato. Per affrontare questo tema, le conoscenze economiche
e sociali di Stefano Bartolini e Serge Latouche possono aiutare a capire in
maniera critica e costruttiva.
Credo che quando si parla di design si debbano trattare temi concreti, ma
dopo aver preso coscienza che il ruolo del designer sia quello di disegnare
forme ed oggetti, reputo importante cercare di capire cosa deve fare un attimo
dopo avere staccato la matita dal foglio.
Nel momento in cui il designer esce dal suo ufficio, nel momento in cui si
confronta con la società credo che il suo ruolo abbia sicuramente a che fare
con dinamiche sociali.
Per questo motivo penso che i temi più importanti e basilari siano fondamen-
talmente quattro: i trasporti, il sistema agricolo, quello energetico e quello
dell’abitare. Parto da questi temi perché agendo in modo critico mi sento di
poter tranquillamente affermare, che qualora avessimo dei vantaggi positivi
in modo da rendere indipendenti o quasi i cittadini su questi aspetti poco ci
mancherebbe perché potessero vivere a ritmi più sostenibili con un bilan-
cio positivo dell’indice della felicità immediatamente riscontrabile. Non è un
caso che Stefano Bartolini imposti il suo pensiero proprio a partire da questi
temi.
Vediamo ora quali sono le priorità e le azioni che, se messe in pratica, por-
terebbero dei benefici immediati.
30
Il progetto di una casa ad esempio è molto complesso, ma così come nes-
suno può mettere in dubbio che se è pensato con un sistema di coibentazione
adeguato, ne conseguano dei benefici sulla tenuta termica, così nessuno può
dubitare del fatto che il progetto non si limiti alla metratura indoor, ma si es-
tenda fuori, nel quartiere in cui la casa è costruita.
Se si pensa al micro-sistema quartiere come dice Bartolini si deve pensare
sia a spazi pubblici per i bambini, in cui possano essere protetti e giocare in
tranquillità, sia ad una quantità di spazio verde adeguata alla densità di popo-
lazione adulta.
L’energia invece è un tema che vede come punto di partenza imprescindibile
l’assunto che il combustibile fossile sia finito sul pianeta e che la curva di
produzione di greggio sia in fase discendente già da qualche anno.
La mia generazione sarà destinata a vivere un calo vertiginoso della quantità
di energia disponibile, derivante dalla mancanza di petrolio con conseguenze
economiche molto gravi, a meno che non si decida di incentivare la forma di
produzione autonoma di energia dal vento e dal sole, oltre che a prevedere
l’installazione di pompe di calore che sfruttino la geotermia.
Sembra che la soluzione migliore sia un mix di energie rinnovabili che si pos-
sano interscambiare in fase di produzione.
Sul tema dell’agricoltura credo che un buon approccio di progetto sia pensare
che i sistemi idroponici possano sostituire i metodi tradizionali di coltura. La
coltura idroponica diminuisce la quantità d’acqua necessaria a far crescere la
stessa pianta di circa l’80 per cento.
Il suolo non viene danneggiato dall’uso di sostanze chimiche e i luoghi adibiti
alla produzione del cibo vegetale potrebbero essere integrati nel tessuto delle
città ed aiutare una distribuzione a chilometro zero.
Il sistema idroponico inoltre può essere gestito totalmente da un software che
monitora costantemente tutti i valori chimici ed ambientali.
31
Per quanto riguarda i trasporti, chiediamoci cosa penseranno di noi i posteri.
Ci stiamo spostando con delle auto che pesano intorno a una tonnelata con-
sumando in un tempo brevissimo il combustibile fossile che la terra ha pro-
dotto in millenni. Penseranno che le auto erano delle macchine brucia-petrolio
e che ci abbiamo basato l’economia di circa cento anni.
Credo che il futuro siano le bici elettriche o comunque un mezzo che pesi
molto poco.
Come può un designer astrarsi da questi temi?
Deve esserne protagonista, in prima fila. Nelle sfide future, nella ricerca del
giusto compromesso tra forma e materia affinché possa essere prodotto un
oggetto con un costo contenuto che sia in grado di produrre valore da ciò che
la natura ci offre in modo rinnovabile.
Ammesso e non concesso che questo avvenga il mondo deve sicuramente
prepararsi ad una scarsità di approvvigionamento di energia oltre che di ma-
teriali, e sarà costretto a ridurre i ritmi di produzione e consumo.
Su questo tema ci viene in aiuto Serge Latouche, che con la sua teoria della
rivoluzione della decrescita, mette in atto il circolo virtuoso della decrescita
serena che si sintetizza negli aspetti del: rivalutare, riconcettualizzare, ristrut-
turare, ridistribuire, rilocalizzare e ridurre.
Teorie che aprono la strada a tanti dubbi che però almeno ci mettono di fronte
ad una possibile risoluzione, senza lasciarci nel limbo dell’impossibilità di
azione.
Pensare a piccole realtà può quindi aprire la strada al cambiamento?
Si, questa può davvero essere la soluzione più immediata.
Un buon progetto cerca di mettere insieme ciò che l’industria può produrre,
ciò che i designer possono disegnare e ciò che la gente desidera.
32
È chiaro che queste tre cose devono andare insieme.
Oggi il problema ambientale è riconosciuto, d’altra parte cresce il numero di
persone che crede di poter e voler far qualcosa di concreto.
Il problema è che non esiste una risposta univoca. Il primo e fondamentale
punto è che la sostenibilità non è una parola che copre ogni direzione da un
punto di vista ambientale. Se vogliamo veramente prendere in
considerazione la parola sostenibilità, significa approcciarsi ad un cambia-
mento radicale. Passare da un’idea di benessere in cui per vivere meglio bi-
sogna consumare di più, all’idea di consumare di meno e condividere di più.
Sembrerebbe che siano temi legati ai grandi sistemi finanziari e alle grandi
politiche, ma in realtà non è così.
Possiamo fare qualcosa?
Si, anzi anche in termini teorici il cambiamento potrà avvenire solamente
se esistono già delle piccole realtà. Non c’è speranza di avere una società
sostenibile se non ci sono le persone che passano da un’idea usa e getta del
mondo ad un’idea di cura del mondo.
Non ci sarà nessun modo di sostenere tutti se la gente non avrà cura delle
proprie cose. I cambiamenti radicali sono a piccola scala e questa dimensione
non toglie nulla all’attitudine della cura degli oggetti.
Non può nemmeno essere sostenibile se non rallentiamo.
Le persone devono avere delle isole di lentezza in mezzo ad un mondo veloce.
Per questo l’esperienza di Slow-Food è il miglior esempio di sostenibilità in
Italia. Non implica della grandi insoddisfazioni e sacrifici. Si scontra con gli
strumenti globali, ma sono allo stesso tempo è contemporanea.
Non c’è sostenibilità se non ritroviamo il senso del luogo che non significa
ritornare al villaggio. D’altronde la gente nemmeno lo vuole il villaggio chiu-
so del passato però c’è e sta emergendo l’esistenza di globalizzazioni intel-
ligenti in cui più che immaginarsi questi flussi insensati di merci e persone si
vedono delle reti piccole che si collegano a reti più grandi che possono essere
33
autosufficienti.
La rete ha delle grandi possibilità, un sistema in cui tante realtà si uniscono è
la base di un qualcosa che in futuro sicuramente avverrà.
La distribuzione dell’energia e del saper fare è un tema interessante.
Nella produzione d’energia tante piccole e medie centrali si possono mettere
in rete per vendersi l’energia tra di loro. Ci sono già oggi dei centri di ricerca
ufficiali che si occupano dell’economia distribuita. Non sappiamo come sarà
la sostenibilità del futuro, ma abbiamo a disposizione dei dati che sono stati
raccolti in funzione d’esperienze vissute da gruppi di persone anche nel nos-
tro paese. Questo è un punto di partenza.
Le relazioni tra ciò che è globale e ciò che è locale saranno sicuramente di-
verse, non sappiamo se migliori o peggiori, ma saranno diverse.
Siccome esistono già dei sistemi locali che funzionano, la sfida è quella di
creare dei sistemi multipli che connettono i singoli.
Un mondo in cui si mescola la velocità e la lentezza, è lo stesso mondo in cui
la gente si auto-produce ciò di cui ha bisogno. Potrebbero essere i segni del
futuro, sono in molti ad avere delle aspettative in merito.
I designer devono prendere questa strada, a fronte di un mondo che sta an-
dando oggettivamente verso l’impoverimento delle risorse.
Il design è nato su un’etica che deve essere ritrovata?
I contenuti etici di oggi non sono gli stessi di quando è nato il design, quelli
attuali riguardano la democrazia del consumo.
Oggi non andiamo lontano su questo aspetto, perché qualcuno deve poter
consumare di più, ma non tutti i sei miliardi di persone possono farlo.
Siccome abbiamo la capacità di una cultura critica dobbiamo fare un salto di
qualità ed essere parte della soluzione, non del problema.
Nel momento in cui ci si accorge di essere una cultura critica dobbiamo cam-
biare direzione ed andare verso la produzione di oggetti intelligenti che
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sappiano interpretare i nuovi scenari.
Nessuno ha una risposta alla domanda “Cos’è la sostenibilità?” e se ce l’ha
risponde che dovremmo avere tutti un po’ di meno. Per farlo volontariamente
i designer devono esporsi e tracciare chiaramente le linee guida.
Rallentamento, cura e auto capacità di essere protagonisti della propria vita
potrebbero essere una chiave interpretativa.
Cose concrete che possono essere fatte già oggi.
Qualsiasi sia la trasformazione gli esseri umani avranno bisogno di
prodotti e servizi. Le imprese come i designer sono stati parte del problema,
ma possono essere parte della soluzione con una nuova cultura e magari
vivere bene e fare il suo giusto profitto.
Qualsiasi fenomeno innovativo dà dei vincitori e dei perdenti, ma avranno
successo solo quelle imprese che saranno coerenti con i giusti principi.
Chi produceva amianto, per esempio, ha dovuto cambiare mestiere.
Chi produce automobili dovrà farlo a breve se continua con l’approccio che
l’automobile possa essere un mezzo usato da ogni cittadino del mondo.
Devono passare da essere produttori di automobili a sostenitori della mo-
bilità. Una mobilità sostenibile e più complessa che avrà bisogno di sistemi
sofisticati.
Tutti quelli che si occupano di telecomunicazione dovrebbero capire che
questi sistemi hanno bisogno di tanta comunicazione e che cosa vuol dire
avere milioni di creativi con un uno strumento come il telefono che crea delle
forme di organizzazione e business stesso per le imprese.
Ogni oggetto può comunicare.
Il mondo dell’abitare sta cambiando a causa delle necessità nuove che la soci-
età frammentata deve poter soddisfare. Ma l’esperienza di questi ultimi anni
ci ha fatto capire che il singol non consuma mai quanto la metà di una coppia,
ma molto di più.
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Ogni volta che si divide si aumentano i costi, ogni volta che si unisce si ris-
parmia.
Non si deve essere pensatori di strutture abitative uguali a se stesse, ma
abitazioni con uno scopo, c’è tutto un mondo che deve essere in grado di sod-
disfare la realtà delle famiglie e della società del futuro.
Abitare sostenibile non è soltanto l’architettura bioclimatica, quanto piuttosto
interrogarsi su come si possa cambiare il modo di vivere perchè sia sosteni-
bile in ogni sua parte.
Le singole parti, le lampade, i mobili e tutti gli oggetti sono necessari, ma
questa non è una condizione sufficiente.
Solo questo non comporta il radicale cambiamento, perché deve esserci
il cambiamento anche nella quantità di ciò che consumiamo.
Stonehenge (Inghilterra) - Celebrazione del solstizio d’Inverno - 2008
“Copyright is for Losers.” – Banksy
37
2.2 Verso un’economia della conoscenza e della condivisione.
Parto anche qui da una distinzione oggettiva: quella tra lavoro cognitivo
e operativo. È chiaro a tutti che, nel momento in cui il lavoro operativo
può essere interamente eseguito dalle macchine, il campo su cui si confron-
tano le varie realtà economiche mondiali è quello della conoscenza.
Il lavoro è diventato cognitivo quindi. Significa in sintesi che una persona
lavora prendendo delle decisioni.
Anche l’operaio che preme un bottone rosso però, ha attuato un lavoro
cognitivo. Non è un anello in più. Il fatto che la conoscenza dell’operaio sia
attuata cambia tutto per un motivo semplice: la sua personale conoscenza ha
un valore.
Il contributo che dà la conoscenza è diverso da tutto ciò a cui comunemente
diamo valore.
È una risorsa diversa e ogni lavoratore produce conoscenza.
Se la conoscenza ha un valore, come si traduce?
La conoscenza codificabile ha un costo uguale a zero dal momento in cui può
essere trasmessa. È una risorsa moltiplicabile perché può essere divulgata in
modo illimitato. Questo concetto non può essere applicato per i prodotti, nella
misura in cui se ho bisogno di un’unità di materiale per produrre un tavolo,
avrò bisogno di dieci unità per produrne dieci.
Utilizzare la conoscenza mille volte significa produrre mille volte valore. La
conoscenza produce valore moltiplicando gli usi.
Ha un effetto moltiplicatore. È questo che ci ha permesso per la prima volta
nella storia di accrescere la produttività. Ogni anno la parte di mondo svilup-
pata ha prodotto di più per due secoli e mezzo perché ogni anno si avevano a
disposizione le conoscenze già acquisite in precedenza.
E ogni anno ne possono essere create di nuove. Lavorando direttamente
il ferro, ogni ora posso lavorare una certa quantità di materiale, ma se esiste
38
una macchina che fa la stessa forma se ne possono fare un milione invece di
una.
La moltiplicazione della conoscenza è un principio formidabile.
Per moltiplicare la stessa conoscenza si deve replicare quindi in modo
standard.
Il mondo quindi rischia di diventare artificiale?
Non necessariamente. Esisteranno sempre delle peculiarità che derivano da-
gli aspetti culturali e dalla storia del territorio.
Il disegno delle macchine e i processi produttivi possono essere condivisi e
condividendo scopro che posso non essere concorrente, ma compartecipe ad
uno sviluppo comune.
Oggi ciascuno, in Italia più che altrove, pensa che le cose che fa le fa da
solo proteggendosi dagli altri, ma nell’economia della conoscenza il principio
chiave è che condividere non ha un costo. La condivisione è di per se un va-
lore.
Si mettono più competenze insieme, si riducono i rischi di investimento e au-
menta il fatturato perché aumentano le possibilità di produzione con la cono-
scenza altrui.
La risorsa è moltiplicabile e condivisibile. Dal momento in cui il nostro lav-
oro è diventato cognitivo, grazie alla tecnica, ogni ora di lavoro è potenzial-
mente moltiplicabile e condivisibile.
Al contempo il nostro lavoro vale meno perché non abbiamo sfruttato questa
leva, cadendo nella trappola dell’egoismo di un approccio autoreferenziale.
Gran parte del lavoro del fordismo era sostituibile.
Cito una famosa frase dei tempi del fordismo: “Operaio non pensare perché
c’è qualcuno che pensa per te! C’è chi è pagato per pensare per te!”
39
I lavoratori immigrati europei avevano compiti semplici.
Le competenze degli operai erano quindi sostituibili. Questo portò infatti ad
una riduzione drastica dei salari.
Nell’epoca del fordismo si poneva il problema che l’auto prodotta doveva es-
sere rivenduta agli stessi operai. Per permetterlo si adottò un sistema pensato
su misura.
Il meccanismo che portava i salari al minimo però, si bloccò, perché veniva
prodotto di più di quello che veniva comprato.
A quel punto della storia c’è stata un’invenzione politica che ha portato ad
una correzione del fordismo: i sindacati.
Il sindacato che nell’800 era illegale, diventa legale, in modo che l’azienda
avesse come interlocutore un gruppo organizzato.
In questo modo i redditi degli operai sono cresciuti. Solo grazie a questa con-
dizione.
Ma questa situazione è cambiata negli anni settanta, dimostrando che i mo-
nopoli funzionano solo nel breve periodo.
Questa condizione iniziale, di aver spostato i rapporti dentro le fabbriche si è
tradotta nell’inflazione. La domanda che nasce dalla pressione dei redditi da
lavoro tende a superare la producibilità delle fabbriche. Dagli anni 70 in poi
è finito il secolo del fordismo ed è iniziato il processo per cui il lavoro nelle
fabbriche comincia ad essere sostituibile da altro lavoro, perché si trovano
metodi di produzione alternativi: ora si può pensare di decentrare la
produzione.
Questo processo è andato avanti in un modo travolgente in Italia.
Le medie imprese italiane oggi, circa quattromila, producono circa l’80% del
fatturato esternalizzando.
È una trasformazione completa che ha cambiato radicalmentemente il mer-
cato del lavoro. Se il sindacato aumenta le richieste il reparto chiude per pro-
durre fuori. Siamo tornati quindi, a domandarci se il lavoro esecutivo difende
o non difende il lavoro operaio.
40
Il secondo tema è la sostituzione delle macchine. Le macchine prima erano
rigide e ora hanno i software.
Gli operai quindi non fanno niente di preciso, le macchine sono regolate dai
computer. Anche per questo motivo il potere contrattuale diminuisce.
La terza condizione è la Cina, l’India e in genere tutte le economie emer-
genti. L’italiano viene sostituito con un lavoratore estero che viene pagato di
meno.
Il sindacato non può più mettere delle condizioni imperative altrimenti
l’impresa si rivolge a manodopera estera.
Negli ultimi anni l’Italia è stata teatro di questo scenario che è sotto gli occhi
di tutti. Si tocca con mano nella vita di tutti i giorni.
Non è insensato pensare che si possa arrivare anche da noi al livello del costo
cinese.
L’alternativa è quella di rendere meno esecutivo il lavoro. Come?
Dal momento che non tutta la conoscenza si può demandare alle macchine, si
puòpensareaprodottipiùcomplessicherichiedonounaformadell’intelligenza
umana che sa personalizzare il risultato, in una
parola: creare.
Questa è la nuova funzione del lavoro. È un lavoro generativo. Crea cono-
scenze che gestiscono problemi complessi.
Perché la Germania non ha paura della Cina oggi?
Perché i tedeschi sono quasi tutti laureati e fanno delle cose che non sono sos-
tituibili. Noi dobbiamo fare la stessa cosa. Le aziende devono essere in grado
di dare il giusto valore alla propria forza lavoro.
Cosa significa quindi difendere i diritti nel lavoro del futuro?
Diventa più importante difendere il diritto all’apprendimento e alla conoscen-
za, di pari passo all’applicazione delle competenze.
41
Si deve andare inoltre, verso una concezione di lavoro più continuativa.
Sul lungo periodo infatti, l’intercambiabilità e il tempo determinato logorano
le competenze e il valore del personale di lavoro.
È finito il tempo in cui era giusto difendere la bandiera del lavoro insostitui-
bile. Il lavoratore viene difeso dalla sua capacità; dal fatto che alcune cose le
sa fare lui e l’altro no.
Se una fabbrica può essere riprodotta all’estero allora acquista più senso cer-
care di aumentare il valore delle persone che lavorano nelle aziende sul nos-
tro territorio.
L’Italia sembra essere oggi in un condizione di inconsapevolezza.
Viviamo in un contesto di arretratezza culturale.
La sinistra ha sempre rifiutato che il fordismo fosse finito perché per funzion-
are bene aveva bisogno di una sinistra ben radicata nelle istituzioni. Adesso la
sinistra vede una strada in salita.
Come fa il sindacato a trasformare gli operai in una risorsa e non in un
peso?
Il sindacato deve essere pensato in un’altra forma. Si dovrebbe riconoscere la
sua funzione nell’incentivo all’investimento personale.
Dovrebbero cambiare le leggi per cui le aziende dovrebbero avere dei van-
taggi a formare il personale.
Tutti questi investimenti implicano una maggiore predisposizione a mante-
nere i lavoratori in azienda e non necessariamente a trovare ogni occasione
buona per risparmiare con il meccanismo della sostituzione.
Dovrebbe diventare conveniente per l’azienda investire sui suoi dipendenti.
Nello scenario attuale i laureati sono disoccupati perché la loro conoscenza
acquisita fuori dagli ambienti di lavoro normalmente non viene riconosciuta.
Il diploma delle nostre università spesso non è sufficiente a giustificare che il
laureato sappia fare il suo lavoro.
I canali professionali inoltre dovrebbero essere chiari nel promettere qualcosa
che sia più definito.
Manifestazione sindacale Fiat : effetti della globalizzazione.
“Una delle cose più fantastiche riguardo
al tempo e allo spazio è che è impossibile
prendersi in giro all’infinito.”
M.Dooley
43
2.3 Una società fluida.
La comunicazione quindi, date le premesse della condivisione, assume un ruo-
lo centrale, e non si può non considerare l’evoluzione dei metodi d’emissione
dei messaggi.
Com’è cambiato il modo di comunicare e di relazionarci?
Istituzioni come la famiglia, la classe e il vicinato rischiano di diventare
delle condizioni ingessate diametralmente distanti dalla realtà quotidiana.
Se pensiamo al mondo come globale possiamo ipotizzare la cancellazione
di confini più o meno espliciti. Tutto diventa condivisibile e la capacità deci-
sionale può essere decentrata. Lo spazio non è più un limite, ma diventa qual-
cosa di fluido in cui immergersi e decidere se lasciarsi andare alla corrente
oppure muoversi autonomamente.
Qualsiasi dispositivo tecnologico, dal cellulare al tablet ci permette di entrare
nel mondo della rete. La rete ha stravolto la percezione della dimensione del
pianeta dando l’impressione di poter viaggiare pur restando seduti di fronte ad
uno schermo. Anche la geografia politica ha perso il significato di un tempo,
dal momento in cui le decisioni possono essere prese in una riunione in rete.
Lo stesso concetto dello spostamento e della necessità di movimento è stato
stravolto nell’arco di due generazioni.
Stiamo tutti vivendo, in questo senso, una forte crisi d’identità.
Si ha inoltre la percezione sfalsata di poter accrescere illimitatamente il nu-
mero di contatti e scambi, infatti è stato recentemente dimostrato che il nostro
cervello è strutturato per avere un numero limitato di relazioni.
Un altro indiscutibile effetto è la convergenza verso una globalizzazione e
la standardizzazione dei contenuti, dei prodotti e dei servizi in ambito mon-
diale. L’altra illusione è che le persone possano partecipare alle dinamiche
decisionali, in realtà si lascia solo l’impressione che questo possa realmente
essere attuato, salvo i casi delle recenti rivoluzioni di massa del Nord Africa
44
che sono esplose nella rivoluzione sociale denominata primavera araba.
La diffusione di internet in aree arretrate porta delle conseguenze eclatanti in
termini di opportunità.
Molti temi però sono ancora aperti. Si parla proprio in questi giorni della pos-
sibilità che la rete cessi di essere libera e inizi ad essere controllata.
Non solo la rete, ma anche gli altri media hanno un ruolo strategico nel nuovo
scenario mondiale.
Assumono infatti, una funzione di sensibilizzazione verso una cultura del sa-
pere che in molte realtà ha già superato la cultura del prodotto.
La società del futuro farà sempre più riferimento sui nuovi metodi di comuni-
cazione per creare in positivo una diversa etica di soddisfazione dei bisogni.
La rete, internet, la tecnologia, ci stanno allontanando geograficamente e ci
stanno velocizzando, ma è pur sempre vero che la presenza fisica, è un valore
che non può essere messo in secondo piano, dà modo di scambiare opinioni,
idee, di creare.
Se le persone condividono gli spazi sono portate ad interagire tra loro abbat-
tendo l’iniziale distacco emotivo, la condivisione degli spazi ha sempre un
ruolo sociale e sempre ce lo avrà indipendentemente dalle nuove dinamiche
di socializzazione.
Per questo motivo il mio progetto acquista valore, essere fisicamente in uno
spazio non è la stessa cosa di essere nella stessa lista di nomi in un hard disk.
Le persone e le idee vivono anche negli spazi.
Il lato “buono” della rete e delle nuove tecniche di comunicazione è la pos-
sibilità di condividere e compartecipare. Dei grossi passi avanti e impensabili
scenari si stanno aprendo. A noi la decisione se farne uso o meno.
45
2.3 Cosa si intende per produzione di valore reale, la lezione degli anni
dieci.
Ora fondamentale è anche dare un’idea più precisa di quello che dobbiamo
intendere come bene reale.
Come e quando si crea valore reale quindi?
Si crea valore ogni volta che si trasforma la materia per la produzione di un
bene che possa soddisfare un bisogno. Oppure ogni volta che si creano le
condizioni per attuare un servizio.
Inoltre al di là di semplicistiche conclusioni, come ribadire il concetto che una
zucchina o una mela sono un bene reale perché sono cose che si mangiano, si
deve fare chiarezza su cosa produca realmente valore.
Tornando a considerare l’indice del prodotto interno lordo, consideriamo
che anche il fatturato derivante dalle operazioni chirurgiche, o in generale
quello delle prestazioni mediche è messo dentro il paniere di riferimento
dell’indice.
Ma una società che ha un maggiore bisogno di cure mediche è una società
malata. Sarebbe auspicabile che le persone avessero progressivamente sem-
pre minor necessità di cure mediche, ma questo non produrrebbe valore, sec-
ondo l’attuale paniere. Si pone la questione quindi se sia giusto o meno creare
valore in questi termini. La risposta è negativa nella misura in cui si deve
tener conto delle esigenze dell’utente finale che come sempre è l’uomo.
Il sistema finanziario ha fallito per la seconda volta nella storia dopo il 1929
nel 2008. In entrambi i casi si era dato valore a qualcosa che in realtà non ne
aveva.
In maniera forse semplicistica, ma assolutamente reale possiamo affermare
46
che un sistema basato sull’invenzione di valore non può funzionare sul lungo
periodo.
Inoltre nel mondo ci saranno sempre aree geografiche svantaggiate da essere
adibite alla produzione dei beni. Si tenderà ad una delocalizzazione del lavoro
in aree svantaggiate o in via di sviluppo.
Questo fenomeno ha avuto inizio in Europa dalla fine degli anni ottanta ed è
tutt’ora in espansione. È questo uno dei motivi primari della mancanza
del lavoro in Europa. Facciamo produrre altrove e compriamo altrove.
Il nostro valore è quindi, quello della conoscenza.
In Europa sono necessarie ormai solo figure in grado di progettare innovazi-
one per poi andare a realizzarle altrove, in luoghi in cui il costo del lavoro è
inferiore.
Chi meglio del designer può assolvere a tale ruolo?
Il designer immagina futuri scenari, ipotizza la soddisfazione di nuovi bisogni
oppure ripensa alla soddisfazione alternativa e ottimale di bisogni antichi. Il
designer deve avere il ruolo di rendere reali i bisogni che la gente percepisce
solo a livello inconscio.
Il designer osserva altre realtà che funzionano e cerca di replicarle su territori
arretrati.
L’innovazione può essere intesa anche in questo senso: prendere modelli
produttivi che funzionano in determinate realtà e trasferirli in realtà alterna-
tive, cercando di ottimizzarne gli aspetti più deboli.
In questo senso e con queste premesse si può capire meglio cosa si intenda
per produzione di valore. Si produce valore ogni volta che si realizza qual-
cosa che possa realmente essere utile a soddisfare un bisogno, ma si riesce a
47
produrre un valore aggiunto se lo si fa mettendo in pratica i giusti processi e
ancor di più se si contestualizza ad una determinata realtà sociale.
Il designer usa la visione olistica strutturando tutte le varie parti del progetto.
Strumenti come lo storyboard o il moodboard aiutano il designer in questa
ricerca e l’approccio sistematico a questi metodi lo rende sensibile a queste
tematiche.
Riesce inoltre a creare più facilmente valore nella misura in cui lavora in-
sieme agli utenti finali, creando un incontro fra culture interne ed esterne. Il
designer accompagna il progetto nell’organizzazione. Non può esserci azione
senza strategia e non c’è strategia senza un processo interattivo tra i diversi
attori dell’organizzazione.
Il processo è finalizzato a costruire significato in modo collaborativo.
Il designer inoltre dovrebbe facilitare i processi di trasferimento del know-
how e valorizzare il sapere collettivo interno ed esterno al territorio e alle
imprese.
A livello pratico è necessario che varie figure competenti e decisionali pos-
sano finalmente ritrovarsi e decidere appunto di andare nella giusta direzione
con il comune obiettivo di tornare a produrre valore.
Tecnologia d’interazione touch. Ogni oggetto è una potenziale fonte di comunicazione e interazione.
“Non è tanto importante
sviluppare il propio stile quanto
l’approccio.” - Massimo Vignelli
49
2.4.1 Lo sviluppo del CoWorking e Codesign in Italia e i punti di aggre-
gazione.
Il coworking e il codesign sono due ambiti sociali che si sono creati in ris-
posta a necessità di condivisione e ottimizzazione delle risorse.
Queste dinamiche sono sia il frutto della crisi del sistema economico
sia lo specchio dell’approccio di apertura.
Realtà di coworking si stanno manifestando in Italia, soprattutto al nord.
Un esempio valido è talent garden.
“Talent Garden è un ecosistema dove menti brillanti e creative, piene di entu-
siasmo e di passione, di coraggio e di fantasia, possano aiutarsi e competere
allo stesso tempo; sfidarsi e collaborare, confrontarsi e contaminarsi in modo
naturale dando consistenza ed humus imprenditoriale ad un ambiente nel
quale, dai boccioli di nuove idee, potranno fiorire e crescere nuove piantine,
nuove aziende che avranno il terreno migliore per poter crescere, svilupparsi
e diventare grandi.
Banalmente definito CoWorking, il modello di Talent Garden mira non solo
alla condivisione degli spazi di lavoro ma, attraverso una serie di eventi e
iniziative, a raccogliere tutto ciò che germoglia all’interno di un territorio per
svilupparlo tra persone che hanno interessi simili, stimolandone la collabora-
zione e creando un vero “Passion working space”.
Talent Garden è un network di campus locali aperti 24 ore al giorno che pos-
sono ospitare fino a 445 talenti in tutta Italia.
Le sedi vogliono ricreare un giardino immaginario dove, tra mobili ecocom-
patibili e scrivanie in cartone si trovano chaise-longues, mega schermi con
xbox e anche il biliardino per una partita di calcio balilla, perché l’atmosfera
lavorativa non può non avere elementi che possano stimolare la condivisione
e la creatività.
Così crediamo sia necessario fare, come già succede in altre parti del mondo.
50
Anche in Italia i talenti ci sono e sono tanti e cercano di dar vita alle loro idee
e di realizzare i loro sogni lavorando, completamente isolati, in uno scantin-
ato o nella propria casa.
É stato necessario aprire per loro uno spazio fisico, un luogo dove poter ospi-
tare persone capaci e permettergli di lavorare liberamente a ciò che
desiderano.
Un luogo che può ospitare competenze diverse ma contigue, quali il web e la
comunicazione, in cui le persone che risiedono all’interno sono selezionate
dalla stessa comunità che vive il luogo e che sceglie con chi condividere gli
spazi.
E’ fondamentale, riuscire a far connettere e collaborare questi talenti in uno
spazio comune.” (1)
Si parte da un concetto di condivisione degli spazi e delle conoscenze per
avere dei vantaggi in termini di operatività e di gestione.
Si paga una quota per potervi accedere in modo da ridurre le spese, ma per
le premesse dei capitoli precedenti è facile intuire come alle dinamiche di
condivisione degli spazi corrisponda una condivisione di altro tipo. Da una
necessità se ne fa una virtù.
Il CoDesign o design partecipato significa invece una maggiore sensibilità
del progettista a tutto ciò che può risultare sensibile all’azienda. Sempre più
difficilmente possiamo intuire dal mercato segnali inequivocabili, il designer
più di altre figure professionali può percepirne l’importanza.
In questo senso la collaborazione del designer è più importante rispetto ad
altre figure professionali. L’approccio a questa dimensione collaborativa ha
come scopo l’emersione di qualcosa che si deve ancora manifestare.
Il designer in questo contesto è una figura che annusa nuovi stimoli e situazio-
ni nella realtà e collabora con l’azienda nella ricerca e nello sviluppo di queste
tematiche. Più precisamente attraverso una relazione bilaterale tra l’azienda e
il mondo. Per figurare questo concetto potremmo visualizzare una membrana
(1) Dal sito di TalentGarden : http://www.talentgarden.it
51
che faccia da filtro e attivazione di un processo.
Altri possibili scenari vengono aperti nel momento in cui si include anche il
consumatore finale come compartecipante al processo di produzione e diffu-
sione dei prodotti o servizi.
Il designer può responsabilizzare quindi l’utente finale fino a farlo sentire
parte del processo di sviluppo aziendale.
Il CoMaking infine, può spingersi oltre andando a cercare particolari soggetti
che siano in grado di testare il prodotto.
La libertà del progetto e dei soggetti coinvolti genera la crescente partecipazi-
one necessaria in ogni atto progettuale realmente innovativo.
52
2.4.2 Il ruolo del designer nella prospettiva del fare insieme.
Il designer e il suo approccio alla progettazione è cambiato nella misura in
cui cinquanta, sessant’anni fa era sufficiente ispirarsi ad un segno per dar vita
ad un nuovo progetto. Adesso questa esperienza creativa rimane ovviamente,
ma acquista un ruolo più importante il processo di sviluppo che è caratteriz-
zato da un numero considerevole di decisioni, non solo creative ma anche
culturali, ecologiche, ergonomiche, sociali ed economiche.
Infine se si considerano questi aspetti come validi dobbiamo dare la
giusta importanza anche all’aspetto politico.
Le decisioni politiche sono spesso conseguenza di un processo di valutazi-
one.
Il designer spesso, utilizzando processi simili, è la figura professionale più
preparata a dare delle risposte in termini di amministrazione.
In che senso il designer è un mestiere nuovo?
La necessità di una figura specializzata si inizia a sentire con
l’introduzione dell’industria nella produzione di oggetti d’uso. È se voglia-
mo la necessità creata dall’evoluzione dell’artigianato artistico. Era un po’
l’intento del Bauhaus di mettere l’industria nella posizione decisionale di
definizione del rapporto ottimale tra decisioni tecniche ed estetiche.
Ci viene in aiuto Burdek che definisce il design una disciplina autonoma
perché si occupa di progettazione formale. È utile quindi dare una prospettiva
di interpretazione misurabile e quantificabile.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, mentre gli effetti
dell’industrializzazione aprivano la strada alla globalizzazione, anche il dis-
egno industriale si è evoluto passando da un approccio emotivo alla razional-
izzazione schematica di processo delle fasi di costruzione e produzione.
53
Il metodo o processo è stato quindi materia di trasmissione orale e scritta,
qualcosa che poteva essere appreso come conoscenza e non solo limitata
all’idea della creatività.
Un designer si deve allenare a pensare in modo logico e sistematico.
Quali sono stati quindi gli sviluppi nella metodologia del design?
L’applicazione del metodo puro scientifico rischia di annebbiare il lato
dell’azione intellettuale o comunque di renderla poco individuabile.
L’agire fisico è in effetti ben documentabile, mentre quello concettuale può
rimanere più nascosto pur dando per buona la necessità dell’uso della semi-
otica, dell’ermeneutica e della fenomenologia; indirizzando verso una visione
delle scienze umane applicate al design.
Possiamo individuare gli anni sessanta come il periodo degli inizi della met-
odologia del design presso la HFG di Ulm. Questo era necessario perché
l’industria assegnava ai designer compiti di natura nuova.
Nel 1973 Horst Rittel definisce il metodo come: ricerca sistematica della pri-
ma generazione.
Veniva così individuata la seguente sequenza di processo:
Comprendi e definisci la mission.1.	
Raccogli informazioni (condizioni attuali, possibilità tecniche).2.	
Analizza le informazioni acquisite (le conclusioni si traggono dalle in-3.	
formazioni confrontandole con la “mission”, ovvero le caratteristiche del
target).
Sviluppa soluzioni alternative (questa fase dovrebbe in ogni caso con-4.	
cludersi con lo sviluppo di almeno una soluzione e la dimostrazione della
sua fattibilità).
Giudica i pro e i contro delle alternative e deciditi per una o più soluzioni5.	
(questa fase può prevedere simulazioni allo scopo di fornire un’immagine
54
della qualità delle soluzioni).
Prova e migliora. Si testano le soluzioni e si offrono al responsabile della6.	
decisione per disporre della loro realizzazione.
Se è la forma a rappresentare la soluzione del problema del design ed è il con-
testo che definisce la forma, allora la discussione comprende anche l’unità di
forma e contesto.
Con questa asserzione di Alexander si aprì il dibattito che ha acquistato at-
tualità negli anni novanta.
Fino agli anni ottanta infatti, con il termine di contesto si intendevano sempre
soltanto le richieste concrete che il designer doveva tenere in considerazione
progettando: le condizioni ergonomiche, le specifiche di costruzione, le alter-
native di produzione e così via.
I contesti sono diventati il vero e proprio tema del design.
Adesso prima deve essere formulato lo scenario sociale e descritto lo sfondo
sul quale
il prodotto può concretarsi, nell’ottica di un approccio all’utente finale.
I problemi della progettazione formale non sono più soltanto problemi di for-
ma nel momento in cui ci si interroga sull’applicazione reale in un contesto
socio economico, mettere in scena o almeno consegnare modelli interpretativi
per un progetto.
Non dovremmo chiederci come si fa una cosa, quanto piuttosto che signifi-
cato abbia e quali attuazioni pratiche ha nella realtà.
Capitolo III
Ah il designer! Ma esattamente cos’è che fai?
Bruno Munari 1907 - 1998 - Designer e Grafico italiano
“L’arte è ricerca continua, assimilazione
delle esperienze passate, aggiunta di espe-
rienze nuove, nella forma, nel contenuto,
nella materia, nei mezzi.” - Bruno Munari
58
3.1 Le varie fasi storiche del design.
Il design italiano ha saputo elaborare sin dal secondo dopoguerra una speci-
fica cultura critica che ha posto le basi per il successivo sviluppo a livello ac-
cademico di un approccio alla ricerca del tutto peculiare che solo oggi inizia
ad essere riconosciuto a livello internazionale.
Si può dire infatti che la ricerca di design Made in Italy ha preso progressi-
vamente le distanze sia dalla volontà di emulare le scienze nei metodi e negli
strumenti, sia dalla tentazione di rimanere nell’ambito artistico.
A partire dagli anni ’90 è divenuto invece un efficace strumento di elabora-
zione di metodi e strumenti scientifici per il design al servizio del sistema
professionale, delle imprese e delle istituzioni. È divenuto cioè il luogo da
un lato della codifica e diffusione di conoscenze e competenze contestuali,
patrimonio unico del territorio italiano, e dall’altro catalizzatore e diffusore
di conoscenze scientifiche elaborate a livello globale, nei luoghi di ricerca e
innovazione scientifica.
La crescente complessità della natura dei prodotti industriali e la maggiore
complessità dei processi deputati alla loro produzione e consumo rendono
oggi pressante la necessità di investire nella ricerca in design, supportandone
la crescita e lo sviluppo.
Ricerca in questo senso può essere intesa come sviluppo di processi
o applicazione di materiali che portano all’innovazione.
La ricerca nel campo del design mostra come possa essere strumento efficace
per produrre innovazione in molti ambiti strategici per il sistema nazionale,
ma in generale per le economie contemporanee, al di fuori dei comuni stereo-
tipi che accompagnano la visione di questa disciplina.
Questa consapevolezza deve guidare gli attori della ricerca e le istituzioni
59
che li devono sostenere a intraprendere una strada di azioni più strutturate e
soprattutto integrate a livello internazionale.
Quindici, venti anni fa, in tempi in cui, nel resto del mondo, il design sem-
brava ancora congelato nelle sue categorie classiche di design dei prodotti,
degli interni e della comunicazione grafica, il ramo italiano era stato in grado
di aprire nuovi filoni di ricerca: dal design dei materiali, al design delle inter-
facce da quello dell’interazione e dei servizi fino al design strategico.
In tempi più recenti, la ricerca Sistema Design Italia aveva messo sotto os-
servazione, e di fatto riconosciuto come design, delle attività rivolte a campi
di applicazione inusuali per il design del tempo come i prodotti alimentari, il
turismo e i sistemi territoriali.
In Italia, 20 anni fa quindi, l’incontro tra il design e le tematiche dell’ambiente
e della sostenibilità, era già stato spostato dall’angusto terreno dell’ecodesign
a quello del design strategico e dei nuovi servizi collaborativi.
Il presente invece è paradossale nella misura in cui tutti oggi invocano il
design come salvatore dell’economia italiana, ma l’idea di design che viene
proposta è uno stereotipo ormai troppo semplicistico.
Si dice che il design dovrebbe essere capace di trasformare la qualità italiana
in prodotti italiani di qualità, riconosciuti internazionalmente.
Ma quali sono le qualità italiane più importanti da valorizzare?
Cosa si deve intendere oggi parlando di prodotti italiani?
E infine, la nuova generazione di designer deve essere in grado di capire le
qualità italiane e di trasformarle in prodotti che siano coerenti con l’epoca
in cui viviamo?
I luoghi comuni sul design italiano salvatore dell’economia interna sono peri-
60
colosi. Nel momento stesso in cui esaltano il design, lo banalizzano. Ridu-
cono le qualità italiane ad una lista di marchi.
Vedono il design solo come uno strumento per competere sui mercati inter-
nazionali, e non, come è stato nella tradizione della nostra cultura del pro-
getto, come un operatore culturale orientato al miglioramento della qualità
della vita e dell’ambiente.
Così facendo, questo modo di proporre il ruolo del design non solo non
riconosce il valore italiano del passato, ma non ha neppure le possibilità di
comprenderne le potenzialità per il futuro, riducendolo a mero strumento di
spettacolarizzazione della produzione.
Un terreno questo non solo insostenibile sul piano ambientale e sociale, ma
probabilmente inefficiente anche su quello della concorrenza. Insomma il
paradosso del design italiano è che proprio quando il design viene finalmente
scoperto come possibile fattore di sviluppo, rischia di essere ucciso, schiac-
ciato da una retorica superficiale sulle qualità italiane.
Questo nasce da un malinteso sugli scopi.
Il design potrebbe aiutare l’Italia e la sua economia. Non perché diventa
l’interprete ed il propagandista di uno stile, lo stile italiano, ma come un op-
eratore che sa comprendere le qualità profonde che l’Italia può esprimere.
Pertanto, sa dare un senso all’espressione della qualità italiana.
Ma anche perché essendo aperto sul mondo e sulla contemporaneità, sa tra-
durre i temi emergenti a livello globale. Tutto ciò, però, racchiude un’attività
critica e riflessiva coordinata e capace di costruire un nuovo sapere proget-
tuale.
Richiede cioè una nuova stagione di ricerca progettuale.
Altre strade di pensiero possono aprirsi quindi se si capisce che il progetto
deve essere interpretato in maniera ampia.
61
Oltre ai già citati esempi come applicazioni nel settore del turismo o della
distribuzione dell’acqua nella rete idrica si può considerare il caso di Slow
Food.
Slow Food è una realtà tutta italiana e valorizza allo stesso tempo prodotti
comunità e territori. Inoltre tende promuovere un’idea alternativa di
qualità della vita.
Slow Food è un magnifico esempio di design italiano contemporaneo ed an-
che il risultato di un grande programma di ricerca progettuale. Un design
implicito, visto che nessuno dei protagonisti si definisce designer.
Ma anche un’attività esemplare di come oggi potrebbe essere il design e la
ricerca in design per lo sviluppo di qualità sostenibili applicate al territorio.
Il frutto e al tempo stesso il generatore, di un vasto intreccio di ricerche pr-
ogettuali che collegano il tema delle qualità dei prodotti e dei luoghi, con
quello del territorio e dei suoi modelli economici e sociali.
Credo che queste ultime osservazioni possano dare una chiave di lettura in-
teressante su ciò che la ricerca progettuale in Italia potrebbe fare e su ciò che,
per altro, in larga misura già comincia a fare: dal design del prodotto a quello
dei servizi, dal design della comunicazione a quello degli interni, fino al de-
sign strategico che è chiamato a promuovere l’identità e lo sviluppo sociale
ed economico di luoghi e comunità.
In questo modo si presentano nuovi possibili committenti: non solo imprese,
ma anche enti pubblici, associazioni e comunità.
Muoversi su questo terreno può rappresentare un grande punto di forza per la
ricerca progettuale in Italia tra valori ambientali, sociali, economici e culturali
dei luoghi.
E questo non solo per la qualità della vita in generale, ma anche per il valore
62
economico che, grazie ad essi, può essere generato.
Riconoscendo questo dato di fatto, in Italia più che altrove, la ricerca di de-
sign potrebbe avere su questi temi la sua specificità ed il suo punto di forza.
Un terreno di applicazione e di ricerca su cui ridefinire e consolidare il profilo
internazionale del design Italiano.
Un’attività che potrebbe portare un contributo originale e concreto ai grandi
temi sociali ed ambientali con cui non solo l’Italia, ma il mondo intero si
confronta.
63
3.2 Definizione del concetto di innovazione.
Credo che un’attenta analisi e una linea d’interpretazione sia doverosa anche
sul tema dell’innovazione.
Che cosa si intende per innovazione? La sua interpretazione è univoca op-
pure no?
L’innovazione può essere definita come un’attività di pensiero che elevando
il livello di conoscenza attuale perfeziona un processo migliorando il tenore
di vita dell’uomo.
Innovazione inoltre è un cambiamento che porta ad un progresso umano de-
finendo valori e risultati positivi.
Un’invenzione o un’idea creativa però, non costituisce innovazione fintanto
che non viene utilizzata per soddisfare un’esigenza concreta.
Il concetto di innovazione è spesso frainteso e interpretato in modo scorretto.
Inoltre si tende a farne un utilizzo smodato e inopportuno, spesso diventa la
bandiera da sventolare da parte di politici o amministratori che non ne padro-
neggiano il significato.
La parola innovazione potrebbe essere associata ad un progresso tecnologico
oppure ad una modifica che apporti dei vantaggi oggettivi su qualcosa di già
esistente.
Il concetto può estendersi però a qualcosa di immateriale.
Anche un’idea è innovazione. L’innovazione aziendale può avvenire a di-
versi livelli, può essere nella produzione di un nuovo prodotto, ma può anche
riguardare l’organizzazione stessa della forza lavoro, il posizionamento sul
mercato o la soddisfazione di altri bisogni.
64
L’innovazione inoltre è sempre da associare ad un aspetto culturale.
Difficilmente si può parlare di innovazione in contesti culturalmente arretrati.
Nell’epoca della globalizzazione le aree del mondo in cui si fa innovazione
tendono a decentrarsi.
Si tende a concentrare la cultura specifica in aree particolari. Di per se questo
non è un ostacolo al progresso, a patto che le conoscenze acquisite vengano
condivise.
È giusto specificare che una comunicazione innovativa non richiede neces-
sariamente mezzi innovativi. Il mezzo rimane tale. È piuttosto come viene
utilizzato il mezzo che fa la differenza. In questo senso non è necessario un
mezzo tecnologico, possiamo usare anche una penna e un foglio. Quello che
conta è il contenuto. È il messaggio che deve essere innovativo e il messaggio
si palesa tramite il mezzo.
L’innovazione quindi si misura sull’impatto che ha sulla società e sul suo tes-
suto economico.
Poco importa che un prodotto sia l’ultimo ritrovato di tecnologia se non può
essere utilizzato dalle persone o se per funzionare richiede standard applica-
tivi che l’ambiente in cui viene proposto non possiede.
Il totem può avere quindi una funzione di indagine, può essere utile per effet-
tuare dei sondaggi oppure per sensibilizzare le persone prima del lancio di un
prodotto o un servizio.
L’innovazione può essere il valore immateriale di un’idea, ma questa deve
essere poi messa in pratica perché si possa parlare di vera innovazione.
L’innovazione è un processo che richiede disciplina e metodo, fatica e rigore.
Spesso il processo è lungo e prevede di tenere in considerazione lo stato at-
tuale delle cose e le varie esperienze fallimentari precedenti.
65
L’innovazione va comunicata non solo sponsorizzando le qualità di un pro-
dotto, ma divulgando le potenzialità di un sistema industriale.
Nel caso specifico dell’Italia dovremmo essere più bravi a comunicare le
risorse di innovazione che derivano da un tessuto economico e sociale basato
sulla piccola e media impresa.
Dovremmo dare valore a qualcosa che troppo spesso è associato ad uno svan-
taggio.
Se pensiamo al mito della Caverna di Platone o pensiamo alla distanza che
le persone prendono inizialmente da un prodotto innovativo capiamo che ci
sono dei punti in comune.
Le persone hanno sempre paura di ciò che non conoscono, in questo senso la
comunicazione di qualcosa di innovativo acquista importanza.
Le persone vanno anche educate e i messaggi devono essere chiari e ben
comprensibili.
Perché la comunicazione su un tema innovativo possa essere efficace si deve
passare per un percorso attuativo temporale:
conoscenza primitiva.1.	
persuasione.2.	
decisione.3.	
conferma.4.	
L’innovazione deve essere compresa e spesso le persone hanno bisogno di
immagini o simboli primordiali che riportino l’inconscio a dei valori non im-
mediatamente associabili.
Per questo spesso sono utili simboli, oppure i colori a cui sono associate le
emozioni.
L’innovazione può essere definita conseguenza della creatività?
Si. Nella misura in cui si arriva a progettare qualcosa che prima non esist-
eva.
66
L’innovazione quindi è indissolubilmente collegata alla creatività. Si parte
sempre da qualcosa di esistente per arrivare tramite il mezzo della creatività
a soluzioni alternative oppure si arriva ad immaginare qualcosa che ancora
non c’è sfruttando la pura immaginazione. Entrambe le strade sono efficaci.
Spesso la mente umana funziona per associazioni di idee ed immagini, per-
cezioni uditive e sensoriali. Questi stimoli vengono associati per analogia o
opposizione.
Il processo della creatività che porta ad un’innovazione è talvolta inaspettato
e sorprendente.
L’idea può arrivare mentre stiamo pensando a tutt’altro o siamo immersi in
attività del tutto estranee al contesto.
La mente umana è creativa per definizione, ma ognuno sviluppa la capacità
di pensiero a modo suo.
Tuttavia un processo di massima può essere utile da tenere ad esempio o per
capire meglio in che fase ci troviamo. Uno strumento in più per il designer.
Il creative solution founding altro non è che un metodo per elaborare nuove
opportunità per il raggiungimento di un obiettivo.
Il primo passo è quello di individuare la sfida e il totem assolve chiaramente
a questa funzione. La raccolta dei suggerimenti e la successiva considerazi-
one è lo strumento giusto per aver chiaro almeno lo scopo.
Poi il designer passa alla produzione di idee che si palesano per analogia,
per matrice, per proiezione o per associazione.
L’ultimo passo è quello dell’azione che viene restituita graficamente dallo
schermo del totem.
Formulare la sfida
Produrre le idee
Pianificare l’azione
Identificare i bisogni
Analizzare lo stato delle cose
Identificare e formulare la sfida
Tecniche analogiche
Tecniche proiettiveTecniche associative
Tecniche matriciali
Classificare le idee
Selezionare le idee
Definire il progetto
Il processo del Creative Solution Founding.
68
3.3 L’evoluzione del ruolo e un approccio di connettore di competenze.
Affinché si possa parlare di design collaborativo, è necessaria una fase
di meta-progettazione che abiliti l’approccio ad un lavoro collettivo attraver-
so gli spazi, le regole e il metodo da seguire.
Da dove parte un progetto e cosa fa il designer?
Sicuramente da un senso comune, sul quale costruire il progetto. Si parte
quindi da un concetto, dalla delimitazione di questo in un perimetro di com-
petenza. Il nucleo è centrale, ma allo stesso tempo poroso, in modo che possa
quindi essere contaminato dai contributi dei singoli individui.
Al designer spetta il compito di guida.
è la figura che porta i partecipanti sulla giusta strada affinché la soluzione
possa essere partorita. Attorno al nucleo quindi potranno aggregarsi nuovi
progetti e significati.
In questo senso un totem serve da catalizzatore, qualcosa di visibile e tangi-
bile che comunica un’idea precisa. Più precisamente il nucleo dell’idea.
Il designer ha il compito però anche di incanalare le energie che altrimenti
andrebbero disperse.
Deve poter attuare una scelta, dare una direzione creativa a energie che
rischierebbero altrimenti di disperdersi.
Quando è giusto intraprendere questo genere di percorso?
Gli ambiti di applicazione del collaboration design sono molteplici; tre
dei più efficaci sono:
Quando si intende condividere una vision e disegnare insieme, intorno a1.	
questo polo di attrazione, una serie di scenari per rendere concreta l’idea.
Si voglia quindi dare importanza a nuovi nuclei di significato possibili.
Quando si ha la necessità di mettere a fattor comune un obiettivo strate-2.	
gico e dare forma in modalità collaborativa agli specifici progetti che ne
69
costituiranno la parte di realizzazione per coinvolgere le persone nella
definizione degli obiettivi.
Quando si vuole portare a bordo di nuovi progetti ad alto tasso di in-3.	
novazione, specie in materia di design dei servizi, il maggior numero di
persone, raccogliendone le idee e facilitandone così il metabolismo.
Scegliere l’ambito d’applicazione giusto per il collaboration design è un pun-
to cruciale; ma ancor più decisivo risulta il modo in cui attivarlo. L’approccio
efficace è uno solo: avere metodo.
Comunicare gli steps del processo nella maniera più chiara e semplice pos-
sibile, ad esempio: quali siano le fasi di un workshop collaborativo e quale sia
soprattutto l’obiettivo centrale.
Mantenere l’attenzione focalizzata sui sotto-obiettivi attraverso ritmi serrati e
un rigoroso rispetto dei tempi.
Definire con la massima precisione la natura dell’output che ne deve emerg-
ere. Stabilire esattamente i ruoli delle persone, in un’ottica di autorganizzazi-
one paritaria ma, al tempo stesso, funzionale al raggiungimento di singoli
obiettivi specifici.
C’è un ultimo ingrediente, fondamentale: l’accompagnamento del design del-
la collaborazione da parte di un team di facilitatori professionisti.
Un facilitatore capace di compiere il giusto passo indietro progettuale, infatti,
è la conditio sine qua non del buon funzionamento del processo collabora-
tivo, che potrà così contare su una visione sistemica dell’intero progetto dalla
corretta distanza. Per abbracciare la complessità in tutta la sua ampiezza, per
passare realmente dal senso all’azione.
“La serie di operazioni del metodo progettuale è fatta di valori oggettivi che
diventano strumenti operativi nelle mani dei progettisti creativi.” (2)
(2) Bruno Munari “Da cosa nasce cosa. Appunti per una metodologia progettuale” Laterza
1981
70
3.4 L’importanza del processo.
Si parla molto della definizione del ruolo del designer rispetto a quello
dell’architetto e a quello dell’ingegnere. Credo sia utile anche su questo avere
un atteggiamento di apertura piuttosto che di chiusura. Aldilà di semplicis-
tiche classificazioni e identificazioni di appartenenza ad albi professionali o
di meri aspetti legali, non possiamo non considerare che il metodo di lavoro
sia per molti aspetti simile.
Credo non esistano degli schemi universalmente validi e che nell’approcciarsi
al metodo ognuno debba seguire il suo percorso personale, ma credo anche
che fare riferimento a schemi esistenti sia un utile punto di partenza.
Come possiamo trovare una connessione tra queste figure professionali e la
creatività?
Sono tutte figure creative nella misura in cui pensano a qualcosa che ancora
non c’è.
Siamo quindi nell’ambito della creatività. Importante però è capire che cre-
atività non è sinonimo di “improvvisazione senza metodo”.
Progettare è facile quando si sa come si fa, ma prima si deve provare e ripro-
vare fino a quando non troviamo quello che fa per noi.
L’abito con le nostre misure, quello che indossiamo con disinvoltura.
Il metodo progettuale non è qualcosa di definitivo quindi, ma è qualcosa di
modificabile qualora si ipotizzino valori altri che migliorino oggettivamente
il processo. Esattamente paragonabile al concetto dell’open source.
Questo aspetto è assolutamente legato all’esperienza personale del proget-
tista, che può proporre nuovi metodi condividendo la sua esperienza con altri
professionisti.
Nella progettazione si può seguire un percorso Top-Down oppure Bottom-
Up.
Il primo parte da una visione generale per arrivare a studiare i dettagli, mentre
il secondo dallo studio dei particolari per poi connetterli e formare un sistema
71
completo.
A questo proposito è interessante citare il fisico Richard P. Feynman che af-
ferma: l’adozione di un metodo Bottom-Up avrebbe evitato l’esplosione dello
Space Shuttle Challenger nel 1986 causata da una guarnizione di gomma di
cui non si era testata la resistenza alle bassissime temperature.
Uno schema possibile:
Esigenza di mercato e sviluppo concettuale.1.	
Progettazione di massima.2.	
Progettazione di dettaglio.3.	
Prodotto e sue specifiche.4.	
La progettazione di massima deve essere accompagnata da un’analisi dei cos-
ti, al fine di verificare che il costo dei sottoinsiemi sia adeguato.
Il progetto può essere migliorato e l’analisi dovrebbe essere effettuata consid-
erando ad esempio il rapporto costi e prestazioni.
Individuiamo le fasi distinte:
Identificazione delle esigenze.1.	
Ideazione della soluzione e sua definizione concettuale.2.	
Progettazione di massima.3.	
Progettazione esecutiva.4.	
Realizzazione.5.	
Esercizio.6.	
Modifiche.7.	
Obsolescenza.8.	
Consideriamo proseguendo con l’analisi, tenendo fermo il concetto che non
72
esiste un procedimento esaustivo e universale, che non possiamo inoltre pre-
scindere dal singolo oggetto e dall’ambiente in cui andrà ad operare.
Teniamo presenti i momenti logici per analizzare le loro relazioni.
Nel 1990 Tim Brennan ad una presentazione del dipartimento Creative Ser-
vices di Apple spiegò così il modello: “Qualcuno ci chiama con un progetto,
noi facciamo un po’ di roba, i soldi ne conseguono.”
Partiamo quindi da questa definizione di processo provocatoriamente generi-
ca per capire cosa c’è nel mezzo.
In realtà Tim Brennan non aveva fatto altro che enunciare il modello definito
semplicemente complicato:
Input1.	
Processo2.	
Output3.	
Semplicemente complicato con appendice invece, prevede anche un feed-
back:
Input1.	
Processo2.	
Output con feedback.3.	
Il diagramma dell’altalena: ci fa capire come è inutile pensare di progettare
qualcosa se prima non ci chiediamo cosa l’utente avrebbe voluto. Si rischia
di effettuare tutta una serie di passaggi inutili per ottenere un risultato non
condiviso.
Nel 1972 Don Koberg e Jim Bagnall espandono l’archetipo modello di pro-
gettazione two steps aggiungendo dei passaggi:
Accettazione1.	
Analisi2.
73
Definizione3.	
Ideazione4.	
Selezione5.	
Implemento6.	
Valutazione7.	
Può essere utile anche non andare dritti al bersaglio. Il designer dovrebbe
avere un’oscillazione periodica tra analisi e sintesi. Il percorso per essere
compiuto dovrebbe andare ripetutamente in entrambe le direzioni.
Input1.	
Sintesi2.	
Analisi3.	
Output4.	
Nigel Cross nel 2000 nota che, benché nel suo complesso il percorso pro-
gettuale debba convergere verso la soluzione, ci siano in esso anche fasi di
deliberata divergenza con cui ampliare la ricerca o cercare nuove idee e punti
di partenza.
Quindi, in conclusione non esiste un metodo univoco e sportattutto le fasi non
devono essere rigide.
Il designer ha il difficile ruolo di facilitatore e allo stesso tempo regolatore del
sistema del processo che intende attuare.
Deve riconoscere le fasi e l’opportunità di tornare ad un punto temporalmente
precedente qualora vi siano i presupposti, ma deve anche saper dire di no
quando serve.
Il team di lavoro deve riconoscere e condividere questo ruolo, per cui il de-
signer deve essere bravo a comunicarlo.
1972. Don Koberg e Jim Bagnall espandono
l’archetipo modello di progettazione
two steps aggiungendo dei passaggi.
Accettazione
Definizione
Analisi
Ideazione
Selezione
Implemento
Valutazione
1
23
4
5
6
7
Capitolo IV
Come e cosa comunica un designer.
77
4.1.1 L’ importanza degli indici nelle varie fasi di sviluppo
progettuale.
Credo che una panoramica sugli indici sia importante per due motivi. Il primo
è che in un ambito di progettazione la definizione di parametri di
riferimento possa dare delle indicazioni precise sulle strade da prendere.
Il secondo è che a questo punto dell’analisi, nel momento in cui diamo per
buono che il design e l’economia possono essere considerate sotto molteplici
aspetti sfere comuni, i numeri e i grafici possono restituire le informazioni
necessarie per una migliore comprensione.
Quando si parla di indici è d’obbligo una prima differenziazione tra indicatori
assoluti e indicatori relativi. I primi sono misurabili direttamente e spesso,
grazie alla tecnologia, in tempo reale. I secondi invece si estrapolano da un
rapporto tra due o più fattori. Molti fenomeni sono quantificabili in un ap-
proccio alla sostenibilità.
Un’ulteriore distinzione è tra indicatori fisici, dotati cioè di una unità di mi-
sura che individuano dei livelli ( classificabili con colori ) e indicatori multi-
dimensionali.
Quest’ultimi sono costituiti da un’aggregazione di altri indici dello stesso tipo
o di tipi diversi.
Esempio di indicatore fisico: stoccaggio mensile di rifiuti differenziati.
Esempio di indicatore multidimensionale: rapporto tra la quantità dei rifiuti e
il prodotto interno lordo di una regione. Gli indici multidimensionali hanno la
grande qualità di comunicare in modo più efficace un concetto.
Come si esprimono?
Possono essere espressi sia in percentuale sia in termini assoluti. Possono
essere individuate scale di valore. Quello che deve rimanere come punto fer-
mo è la necessità di comunicarli nella maniera più semplice e diretta.
78
Devono avere inoltre una funzione di comparazione fra sistemi o campi di
applicazione alternativi.
Può risultare utile un’ulteriore distinzione tra indici descrittivi e indici
prestazionali.
Indici descrittivi: sono piuttosto elementari e di immediata percezione.
Di solito misurano cosa sta succedendo relativamente alle varie componenti
ambientali.
Indici prestazionali: sono indicatori descrittivi associati a target, soglie di va-
lore o livelli individuabili. Questi misurano la distanza dall’obiettivo che ci
si è prefissati di raggiungere. Spesso sono i migliori da applicare in contesti
decisionali di amministrazione politica e di sviluppo sociale. Misurano quindi
quanto è efficace qualcosa in un tempo dato.
Sono gli indici che spingono all’azione ed entrano in contatto con l’utente
invogliandolo verso un’ interazione.
Anthony Friend definisce quindi il seguente modello denominato P.S.R.:
Pressioni1.	
Stato2.	
Risposte3.	
Questo modello pone l’accento sulla relazione uomo ambiente.
Secondo questo modello prima le attività umane esercitano pressioni
sull’ambiente, cambiandone lo stato, poi rispondono per adattare il sistema
della biosfera.
Negli anni ‘90 l’OCSE prende il modello P.S.R. come riferimento e arriva a
ipotizzare la sostituzione del concetto di pressioni con qualcosa di più defini-
to: i punti guida.
I punti guida sono i fattori economici e ambientali che variano nel tempo.
79
I determinanti sono i fattori di sviluppo sociale ed economico significativi per
i loro risvolti ambientali.
Nella seconda metà degli anni ‘90 l’Agenzia Ambientale Europea finalmente
adottò uno schema di classificazione ancora più completo: D.P.S.I.R.
Determinanti1.	
Pressioni2.	
Stato3.	
Impatti4.	
Risposte ambientali5.	
Lo schema D.P.S.I.R. è oggi uno schema molto noto, utilizzato per classifi-
care gli indicatori.
Gli indicatori determinanti descrivono le attività socio-economiche
che causano le pressioni ambientali.
Esempio di indicatori determinanti: numero di abitanti di un bacino territori-
ale.
Gli indicatori di pressione descrivono le azioni dell’uomo che direttamente
causano modifiche sullo stato delle componenti ambientali (cioè direttamente
impattanti per l’ambiente), come i prelievi di risorse naturali.
Esempio di indicatore di pressione: portata dei prelievi di acqua.
Il rapporto tra un indicatore di pressione con un indicatore determinante, tra
di loro correlati, fornisce un indice d’efficienza ambientale.
Ad esempio: il rapporto tra gli scarichi di reflui e gli abitanti presenti indica se
gli insediamenti hanno un’efficienza depurativa più o meno alta.
Gli indicatori di stato descrivono le condizioni di qualità delle varie compo-
nenti ambientali.
Esempio di indicatore di stato: la portata di un fiume.
80
Gli indicatori d’impatto descrivono le modifiche di stato per effetto delle
pressioni antropiche.
Esempio di indicatori d’impatto: la riduzione di portata fluviale a valle di un
prelievo.
Sirilevainparticolarechegliindicatorid’impattodovrebberoesserel’obiettivo
conoscitivo fondamentale di ogni studio sul territorio e sull’ambiente.
Il rapporto tra un indicatore d’impatto ed un indicatore di pressione,
tra di loro correlati, fornisce un indice di sensibilità ambientale della
componente interessata. Ad esempio: in un fiume il rapporto tra i nitrati pre-
senti e quelli scaricati indica una sensibilità ambientale più o meno elevata.
Gli indicatori di risposta descrivono le azioni umane intraprese per risolvere
un problema ambientale.
Esempio di indicatore di risposta: la depurazione degli inquinanti o la
riduzione dei consumi di risorse naturali.
L’OCSE ha individuato nel tempo diversi requisiti per la scelta di un indica-
tore.
Sono generalmente utili strumenti quali la rilevanza, la consistenza analitica,
la misurabilità.
Si è capito che altra condizione indispensabile è che l’indice deve essere
adatto a rappresentare qualitativamente una realtà.
Deve essere inoltre efficace nel senso che deve essere in grado di rappresen-
tare correttamente il fenomeno d’interesse e poi anche efficiente nel senso che
deve poter rispondere in tempo reale alle variazioni numeriche.
Quest’ultimo fattore dipende pesantemente dall’azione umana, dalle banche
dati con rilevamenti precedenti dello stesso fenomeno e dai costi delle strut-
ture di raccolta dati.
In questo ambito l’interazione proposta da un totem potrebbe diminuire
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Tesi di Adriano Toccafondi

  • 1. L.A.B.A. LIBERAACCADEMIA DI BELLE ARTI TOTEMATICHE Il designer come connettore di competenze, ipotesi di condivisione progettuale. Relatore Prof. Angelo Minisci Docente di indirizzo Prof. Angelo Minisci Diplomando Adriano Toccafondi Anno accademico 2011/2012 Matricola 679FI
  • 2.
  • 3. Introduzione La tesi cerca di rispondere a tre domande. Come possiamo definire il ruolo del designer oggi? Può essere considerato un connettore di competenze? Ha senso pensare ad un oggetto che lo aiuti ad interagire con le varie figure profes- sionali? Se la storia del Design italiano e mondiale è da considerarsi recente, la professione del designer ha avuto invece, un cambiamento molto veloce. Si è passati dalla mera necessità di un’espressione di stile a una figura che sia consapevole di marketing e che soprattutto sappia mettere in relazione varie esigenze e figure profes- sionali. La figura del designer oggi deve prendere posizione circa il processo di costruzione e realizzazione del prodotto o servizio. Se gli ingegneri o i tecnici fanno riferimento alla tecnica necessaria per la risoluzione di un problema specifico il designer deve riuscire ad avere un approccio al lavoro con visioni più ampie rispetto al puro metodo applicativo. Deve cercare inoltre, di far riflettere le varie competenze sulla necessità di prendere strade diverse da quelle convenzionali, spesso argomentando sugli aspetti peculiari. Ciò che può risultare complicato è la sensibilizzazione tramite la comunicazione prima del team di lavoro e successivamente degli utenti a cui è destinato il servizio o il prodotto. Prendo ad esempio la parola sostenibile che vuol dire tutto e niente pur essendo oggi molto abusata, per argomentarne la complessità. Dietro questa parola nel progettare un oggetto ci sono concetti quali: la composizione dei materiali e la loro modalità di estrazione, la durabilità, l’intercambiabilità, lo smalti- mento, l’obsolescenza, e tanti ancora. Avere il compito di spiegare quindi perché un oggetto è sostenibile è impresa ardua. Una soluzione a questo problema può essere quella dell’utilizzo di alcuni indici, che definiscono numericamente i concetti sopra elencati. 1
  • 4. Il passo successivo è quindi quello di sensibilizzare il team e gli utenti finali in modo che questi soggetti possano condividere la strada intrapresa dal designer. Il designer assume inoltre, il ruolo di comunicatore prima durante e dopo il progetto. Da qui nasce l’idea di un totem pensato come oggetto ausiliare, che svolga una funzione di raccolta e comunicazione in uno spazio delimitato. La figura fisica del designer trova ausilio nel totem che assolve alle funzioni informative e restituisce poi l’idea del progetto nelle varie fasi di realizzazione. Il totem può avere inoltre la funzione accessoria di disinibire l’utente a cui si rivolge. L’approccio che si ha nei confronti di un “oggetto simbolo” può essere privo di filtri. Cosa che normalmente non accade nelle forme di comunicazione personali. Le informazioni e gli indici devono essere restituiti in forma numerica, per sensibilizzare gli utenti. La tesi è inoltre la sintesi personale del mondo dell’ Economia e del Design. Ogni volta che compriamo votiamo. Ogni volta che decidiamo mettiamo in pratica aspetti positivi e negativi. Credo che l’abilità di un designer stia principalmente nel trovare un mix che permetta di arrivare ad un risultato che abbia più vantaggi che svantaggi. Non solo. Deve anche saperlo comunicare. Noi come progettisti abbiamo senza dubbio una grande responsabilità. Il mio è un approccio umile, ma anche consapevole di trattare temi di massima impor- tanza. Credo inoltre che affrontare il tema in maniera critica preveda di mettere in discus- sione i principi economici, uno su tutti l’importanza che in occidente diamo al valore del P.i.l. e di conseguenza stabilire quale debba essere l’approccio del mondo del Design nel momento in cui si mette in discussione questo valore. Altri indici dovrebbero essere presi in considerazione come strumento di conoscenza? Perché non arrivare a ipotizzare quindi un indice? Potrebbe chiamarsi ISA: acronimo di indice di sostenibilità armonica. Il progettista è stato catapultato in un mondo del tutto nuovo negli ultimi cinquant’anni. 2
  • 5. Mai nella storia si era raggiunto un livello di tecnica così alto e anche questo comporta ovviamente delle riflessioni in merito. Nello specifico gli oggetti possono essere prodotti praticamente nella sua interezza da macchine. Viviamo nell’era della tecnica e il ruolo di un progettista viene confinato alla model- lazione tridimensionale dei programmi dei computer, oppure alla messa in pratica delle conoscenze tecniche progettuali e al processo di produzione. Ma perché non mettere l’accento anche sull’aspetto umano di questo lavoro? Così come ogni altro artista il designer si approccia al mondo dell’arte con una sensibilità maggiore che lo porta ad avere continuamente a che fare con le emozioni. Non esiste un progetto se non è accompagnato da emozioni. Anche solo l’incipit, quella spinta iniziale che un designer sente quando si approccia ad un progetto, quella scintilla che lo respons- abilizza nel creare qualcosa che ancora non esiste. Non solo. Le emozioni in questo lavoro pervadono anche ogni momento della progettazi- one. Emozioni prima, mentre e dopo la realizzazione del progetto. Un oggetto poi, deve emozionare anche l’utente finale. Se se ne riconosce l’ingegno, la passione che il progettista ci ha messo per poterlo realizzare, ecco che l’oggetto acquista un plusvalore. E allora le emozioni vanno sapute vivere e il designer è colui che le deve saper gestire. Nello specifico deve saper gestire le sue e quelle degli altri, e inoltre deve poter sempre avere una visione ampia d’insieme che lo porti ad una critica costruttiva e ad un bilancio positivo nel risultato finale del bene o del servizio. La riflessione di tesi è quindi interdisciplinare e vuole essere un’occasione critica sul pro- getto e sul modo di progettare da punti di vista multipli. Progettare in un modo migliore è possibile, con la giusta consapevolezza. Il raggiungimento di risultati, con particolare riguardo alle piccole realtà, è alla nostra portata nell’immediato. Per farlo è necessario lo strumento della comunicazione. Il designer può aiutarsi con un oggetto che comunichi in modo diretto tematiche che inter- essano la società nei quattro temi che reputo fondamentali: l’energia, il trasporto, l’abitare e l’agricoltura. 3
  • 6. Mi aiuterò chiamando in causa il mondo della filosofia, della scienza, dell’economia e del social design. Sarà un viaggio in quello che già esiste ed è già stato detto e quello che potrà essere da qui a qualche anno forse. Perché alcune energie si stanno già muovendo, perché c’è voglia di cambiamento e per- ché il cambiamento della società è inevitabile per la scarsità delle risorse. È uno dei principi dell’economia, quello della scarsità delle risorse, che non ammette la possibilità di una crescita infinita. Con umiltà ho l’ambizione di conoscere e sperimentare, per capire ogni giorno di più, cosa significa essere un designer. 4
  • 7. Lampada Filus Illuminazione - Oggetto Autoprodotto - Adriano Toccafondi (2010) Adriano Toccafondi “Il design è l’espressione della volontà di vivere in armonia.” 5
  • 8. Il designer come connettore di competenze, ipotesi di condivisione progettuale. Totematiche
  • 9. Prefazione Nasco a Firenze, ma ho vissuto a Prato e la storia degli ultimi trent’anni di questa città fa parte di me. Prato negli anni ottanta non aveva uguali per ritmo economico nel settore tessile in Italia. Lentamente, ma inesorabilmente, ha visto cambiare il suo tessuto sociale con la progres- siva crisi del settore che ha portato cambiamenti importanti anche nella mia famiglia. Quando io raggiungevo i 18 anni eravamo in pieno cambiamento. Mentre i miei coetanei trovavano ancora il loro posto in fabbrica come operai tessili io decidevo di proseguire gli studi in Economia. Nel frattempo i ricordi dei camion pieni di pezze erano sempre più lontani ed io cominci- avo con i primi contratti a tempo determinato; iniziavo ad entrare nel mondo del lavoro. La spinta interiore a fare altro però diventava ogni giorno più pressante e la volontà di realizzare le mie attitudini mi spingevano verso il mondo dell’arte. Iniziai a bussare alle porte dei capannoni della città che pian piano si erano trasformati da fabbriche di tessuto a laboratori artigianali. Iniziai a collaborare con un artista, assistendolo nei processi di costruzione delle sue op- ere che prevedevano l’utilizzo dei materiali più disparati, principalmente polimeri. Continuavo a lavorare nel turismo, ma la passione per l’arte, i materiali e i processi indus- triali diventava sempre più forte. Mettere le mani sulla materia mi ha dato nuovi stimoli e importanti percezioni di come questa sia a nostra disposizione per esser plasmata e trasformata. Così la decisione di ricominciare. Appassionarsi ad un nuovo percorso formativo, con la consapevolezza che la strada in salita è sempre quella da scegliere. Il passo ultimo, quello che mi ha portato a decidere alla fine del percorso triennale di af- frontare questo tema di tesi è la volontà di cercare una sintesi, un punto d’incontro nelle mie passioni e nella mia storia di vita. 7
  • 10. Nell’epoca della comunicazione e di internet, della diversa percezione della distanza e della straordinaria possibilità di trovarsi sulla rete, le dinamiche di lavoro concettuale hanno visto una metamorfosi d’approccio. Il designer diventa una figura di connessione tra competenze, una figura chiave nel team di lavoro. Chissà quand’è il momento buono! Chissà quando lo sarà per me! Spero di essere pronto a riconoscerlo quando passerà. Il tempo va saputo gestire. Va ascoltato. L’illuminazione spesso, arriva solo dopo un lungo periodo d’incubazione. 8
  • 11. “Non è tanto importante sviluppare il proprio stile quanto l’approccio.” – Massimo Vignelli La sfida contemporanea sta nel capire che la condivisione è la strada giusta da intraprendere. Forse questo però, è il concetto più difficile da assimilare e da mettere in pratica. Gli attori principali di questa sfida sono gli industriali e gli imprenditori, che dovrebbero capire che la condivisione e il concetto di open data può avere delle immediate conseg- uenze in termini di competitività, innovazione e utilizzo delle risorse umane e materiali. La trappola del segreto industriale crea delle isole di alta specificità che non comunicano con le altre realtà, spesso perché si pensa che l’apertura abbia un costo maggiore. In realtà è il contrario. Si finisce così per fare quello che si sa fare pensando che vada bene per un tempo infinito. La realtà dimostra invece che le esigenze e la consapevolezza delle persone è in continuo sviluppo. L’apparato industriale occidentale deve aprirsi se vuole avere una speranza di una nuova era di sviluppo. Le parole chiave: apertura e condivisione. “Copyright is for Losers.” – Banksy La storia personale di ognuno ci porta a vivere esperienze diverse, talvolta agli opposti. Credo però che prima o dopo ognuno arrivi a percepire che abbiamo un legame con l’ambiente in cui viviamo e che ciò di cui ci serviamo per soddisfare i nostri bisogni più o meno primari ci è dato in una forma finita. C’è una consapevolezza diffusa nel mondo che sia necessario avere un tipo di approccio diverso, più parsimonioso. Il compito del designer oggi è quello di trasformare la consapevolezza in progetti reali, mettendo in pratica un processo talvolta articolato, talvolta difficile. 9
  • 12. “La natura può permettersi di essere prodiga in tutto, l’artista deve essere economo fino all’estremo” - Paul Klee é l’approccio al progetto che deve essere economo. Niente è infinito. “Le persone ignorano il design che ignora le persone” – Frank Chimero Stesso concetto valido non a caso anche per la politica e nelle decisioni amministrative. Ognuno è parte del sistema. 10
  • 13. Indice Capitolo I - Un approccio filosofico. 1.1 L’importanza di capire dove siamo. 1.2 La filosofia nel secolo della tecnica. 1.3 Scenari futuri di convivenza tra tecnica e progettualità. Capitolo II - L’economia nel progetto. 2.1 La prospettiva di un’economia alternativa. 2.2 Verso un’economia della conoscenza e della condivisione. 2.3 Una società fluida. 2.3 Cosa si intende per produzione di valore reale, la lezione degli anni dieci. 2.4.1 Lo sviluppo del coworking e codesign in Italia e i punti di aggregazione. 2.4.2 Il ruolo del designer nella prospettiva del fare insieme. III - Ah il designer! Ma esattamente cos’è che fai? 3.1 Le varie fasi storiche del design. 3.2 Definizione del concetto di innovazione. 3.3 L’evoluzione del ruolo e un approccio di connettore di competenze. 3.4 L’importanza del processo. IV - Come e con cosa comunica il designer. 4.1.1 L’ importanza degli indici nelle fasi di sviluppo progettuale. 4.1.2 Ipotesi di un nuovo indice applicativo. ISA. Indice di sostenibilità armonica. 4.2 Introduzione all’experience design. 4.3 Panoramica sull’interaction design. 4.4 L’emozione come conseguenza dell’interazione. 4.5 La percezione dello spazio pubblico oggi. V - Totematiche: ipotesi di condivisione progettuale. 5. “Totematiche”. Un oggetto per il designer. 5.1 Varie ipotesi progettuali: il Totem e le possibili applicazioni. 5.2 Schizzi progettuali e conclusioni. Tavole tecniche. In 14 18 22 28 37 43 45 49 52 58 63 66 68 75 83 85 90 95 105 115 118 127 11
  • 14.
  • 15. Capitolo I Un approccio filosofico.
  • 16. 14 1.1 L’importanza di capire dove siamo. La filosofia nasce in Grecia in mezzo alla gente, con il nobile intento di inter- rogarsi pubblicamente sui temi della vita. Dopo un paio di millenni di evoluzione è giusto considerare che il ruolo della filosofia possa essere sem- pre lo stesso, ammesso che i problemi su cui è chiamata a riflettere siano la naturale evoluzione di quelli antichi. Il design può essere considerato una conseguenza nella misura in cui dà delle risposte, la realizzazione pratica delle idee che la filosofia eviscera. Non può quindi esserci un approccio al design senza prima capire in che contesto viviamo e definire lo scenario in cui ci muoviamo può esserci d’aiuto. La tesi inoltre deve avere anche uno scopo applicativo e per questo contestualizzarsi in uno scenario reale. Ma come possiamo ipotizzare un approccio futuro se non capiamo dove sia- mo? Il Novecento è stato un secolo denso di storia e innovazione; in cento anni la tecnica dell’uomo si è evoluta ad un ritmo che non ha uguali. Parto dall’assunto che siamo nell’età della tecnica quindi e che tutti condivi- dano questo pensiero in quanto oggettivo. Il dizionario definisce così la tecnica: applicazione delle conoscenze elaborate dalla scienza a scopi pratici e alla produzione di strumenti per realizzarli. Nel momento in cui la tecnica diventa il soggetto della storia, tutte le catego- rie d’interpretazione della società, che mettono al centro l’uomo, perdono di significato. Vivere nell’era della tecnica significa che l’uomo ha raggiunto un grado evolutivo tale da demandare la realizzazione di qualsiasi oggetto alle macchine. Mai nella storia l’uomo si è trovato a poter disporre di così tanta conoscenza. Ma questo ha una serie di conseguenze. Brevemente è utile affrontare il tema in uno scenario politico e in uno
  • 17. 15 etico. Nello scenario della politica, che era stata pensata da Platone come la tecnica regia, non è più la classe dirigente che decide cosa e come produrre. Nemmeno l’economia lo fa, perché anche questa si piega alla tecnica. La tecnica si sostituisce ad altri organi decisionali. Chi è in possesso di ca- pacità tecniche più elevate acquista automaticamente un ruolo di vantaggio rispetto ai paesi che non la posseggono. È quindi l’uomo che viene messo in secondo piano e con lui tutto ciò che è umanistico. La tecnica destruttura l’approccio democratico nella misura in cui mette costantemente in discussione la nostra competenza a valutare opportuni alcuni possibili scenari. Ad esempio dovremmo essere dei fisici nucleari per valutare l’opportunità della costruzione di una centrale nucleare, ma siccome non abbiamo le competenze necessarie ci affidiamo al nostro senso di appartenenza che ci fa direzionare da una parte o dall’altra sulla spinta di fattori retorici persuasivi delle persone potenti. Se pensiamo ad un cellulare, pensiamo ad un oggetto con il quale abbiamo delle interazioni quotidiane ed è un oggetto che racchiude una competenza tecnica molto superiore alle capacità progettuali comuni dell’uomo medio. La capacità di persuadere quindi acquista un valore maggiore rispetto alla vera conoscenza, e viviamo indiscutibilmente sulla nostra pelle gli effetti dei mass media che hanno principalmente questo scopo. Dal punto di vista dell’etica invece lo scenario attuale non è migliore. Il mondo Occidentale ha avuto come riferimento l’etica cristiana, che ha dato lo spunto per la costituzione di tutto l’ordine giuridico europeo. Siamo di fronte all’etica delle intenzioni. Lo stesso sistema giuridico appunto fa riferimento alle intenzioni per regolare svariati casi legislativi. Si è sempre giudicato in base all’intenzione. La tecnica però destruttura anche questo scenario. Conoscere le intenzioni delle persone non serve a molto. Che intenzione avesse Enrico Fermi quando ha inventato la bomba
  • 18. 16 atomica non è interessante, molto più interessante è conoscerne gli effetti. La tecnica va di pari passo alla conoscenza, che una volta acquisita dall’uomo viene messa in pratica. è difficile se non impossibile infatti, dire all’uomo che non può mettere in pratica una propria conoscenza. Se l’uomo conosce fa, indipendentemente dalle intenzioni di chi ha contribuito a sviluppare la nuova conoscenza. In questo scenario il progettista non ha il ruolo di porsi il problema se quello che fa può essere eticamente giusto o meno, può limitarsi ad applicare cono- scenze tecniche. Il designer d’altronde, in quanto progettista, non può evitare di occuparsi dell’ utente per cui è pensato il prodotto o il servizio che intende sviluppare. Ovvio che il contesto nel quale si muove è fondamentale nelle scelte che dovrà sostenere. Pensare ad un progetto che abbia applicazione nella parte di mondo raggiunta dalla tecnica per quella stessa parte di mondo, non è la stessa cosa che pensarlo per la parte di mondo che non ha corrente elettrica. I bisogni cambiano in base al contesto, ma sembra logico avvalersi della tec- nica, come suggeritoci dalle riflessioni filosofiche. La conoscenza la si deve applicare. Il progettista in questo senso ha la neces- sità di confrontarsi con delle scelte eticamente forse discutibili, ma non può far finta che la tecnica e la conoscenza non ci appartenga. è importante perciò prendere coscienza delle potenzialità degli strumenti che abbiamo per poterli applicare nei processi di produzione. è importante sapere dove siamo per capire dove possiamo andare.
  • 19. Moai - Isola di Pasqua - Scultura autoctona
  • 20. 18 1.2 La filosofia nel secolo della tecnica. La filosofia ha affrontato nel ventesimo secolo i temi del lavoro e del cambiamento della società. Nello specifico, Friederich Nietzsche, Immanuel Kant e Gunther Anders si occupano delle cause e delle conseguenze sociali della rivoluzione industriale e della diffusione della tecnica nel mondo occidentale. Kant definisce un’etica laica, che prescindesse dalla fede in Dio. “L’uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo.”- I.Kant Ma questa etica non si è mai realizzata, così come non si è mai messo in pratica l’idea di democrazia. Il cittadino è considerato tale solo nel momento in cui è funzione di qualcosa, meccanismo di un sistema più grande di lui. Altrimenti lo stato non lo riconosce come cittadino, oppure è costretto ai margini della società. Il fatto stesso di essere uomo non dà diritto di cittadinanza. Ma anche se si fosse realizzata l’etica Kantiana non funzionerebbe comunque, nella mi- sura in cui l’uomo non è più l’unico soggetto da trattare come un fine. L’acqua, l’aria, l’energia possono essere considerati “fine” e non mezzo perché una loro conservazione e un buon utilizzo ci permetterebbero di vivere in un ambiente migliore. L’etica d’altronde funziona solo se è interiorizzata dalla società e da questo punto di vista non siamo ancora pronti. L’evento tecnologico è stato troppo rapido rispetto alla nostra evoluzione intellettuale. La nostra psiche ha dei processi lentissimi. Gunther Anders è autore di: “L’uomo è antiquato rispetto alle cose che uti- lizza”. Era un ebreo perseguitato ed emigrò negli Stati Uniti per lavorare alla Ford. Scrisse ad Heidegger suo maestro: “lei mi ha insegnato che l’uomo è il pastore dell’essere, io qui invece sono il pastore delle macchine. Il mio compito non è nemmeno più quello di lavorare, ma si riduce a sorvegliare le
  • 21. 19 macchine.” Nell’età della tecnica si è avuto in grande quello che il nazismo ha fatto vedere in piccolo. Il nazismo è un teatrino di provincia rispetto all’età della tecnica. Nel nazismo si è verificato che la responsabilità non è più in ordine agli effetti delle azioni, ma solo nella perfetta esecuzione degli ordini del superiore. Non si estendeva alla conseguenza dell’agire. I comandanti nazisti eseguiva- no gli ordini. Alla domanda “Cosa provava a fare quello che faceva?” gli ufficiali non ri- spondevano, oppure dicevano che a loro si chiedeva solo di eseguire dei co- mandi. Erano soltanto gli esecutori di un metodo. Si capisce bene quindi che se il lavoro diventa la perfetta esecuzione di un ordine questo si ripercuote inevitabilmente a livello sociale. Si assiste ad una deresponsabilizzazione diffusa nel mondo del lavoro, che coinvolge gli attori principali solo nel momento in cui devono rendicontare del proprio operato al proprio superiore Si perde di vista quindi l’obiettivo finale. Poco importa se le pistole che ven- gono prodotte nel bresciano andranno ad uccidere, l’importante per gli operai che le producono è mettere bene insieme le spolette. Il loro lavoro finisce lì e non sentono il peso morale di ciò che stanno facendo. O non conoscono i fini ultimi oppure non sono di loro competenza. Conside- rando inoltre la tecnica come l’anima della scienza, l’intenzione della tecnica è già inscritta nello scenario scientifico. La tecnica quindi non è buona o cattiva, ma ogni volta che l’uomo scopre una nuova capacità tecnica questa verrà messa in pratica per il semplice fatto che è a disposizione dell’uomo. Come si può limitare l’uomo dal fare qualcosa che è capace di fare? Heiddeger diceva che inquietante non è che il mondo si trasformi in un grande apparato tecnico. Ancora più inquietante è che non siamo preparati a questa trasformazione, ma ancora più inquietante è che non abbiamo un pensiero
  • 22. 20 alternativo al pensiero che calcola. Da qui dobbiamo partire per andare verso il futuro. Tutto in occidente è dis- chiuso verso il futuro però Nietzche ci ha avvertito che Dio è morto. Dio era vivo quando creava mondi e faceva storia. Non possiamo pensare al Medio- evo senza il concetto di Dio, ma se tolgo la parola Dio dall’epoca contempo- ranea la capirei comunque. Non la capirei se togliessi il concetto di denaro e di tecnica. Nietzsche parla di Nichilismo. Siamo in un’atmosfera altamente nichilista. Tutti i valori si svalutano, manca la risposta al perché e non ci sono scopi all’orizzonte. I valori si svalutano sempre a favore di altri. Ma quali sono i valori del futuro. Se Dio è morto tutto l’ottimismo sia in chiave scientifica che sociologica collassa. L’ottimismo del futuro è sempre stato un punto di forza dell’Occidente, ma ora non lo è più. Manca la risposta al perché. Il futuro è imprevedibile, quindi non retroagisce come motivazione e allora si vive in- tensamente solo il presente. Lo sguardo al futuro è pura angoscia. E qui arriviamo a un punto morto; ma è senza dubbio migliore la prospettiva di prendere coscienza del punto storico in cui siamo per agire di conseguenza. Intendo dire che tutte le tematiche su cui il Design si può interrogare partono da questi assunti imprescindibili e oggettivi. Conoscere è sempre meglio che ignorare anche se la conoscenza prevede di dover prendere atto di situazioni difficili e sfide importanti da affrontare. Così come l’esempio del pilota che ha sganciato le bombe atomiche, o le decine di migliaia di militari che uc- cidono obbedendo ad un ordine. Questo è lo scenario globale, qualcosa di universalmente accettato, la palude nella quale sguazziamo e il punto da cui ripartire. La tecnica rischia di mettere in discussione anche la democrazia, che pur
  • 23. 21 non essendosi mai concretizzata è rimasta sempre un’idea regolatrice della società. Non viviamo nella prospettiva di un futuro migliore. Per la prima volta nella storia forse guardiamo ad un futuro con preoccupazione e questo si riscontra nella nuova generazione. I giovani vivono in un presente schizofrenico nel quale la prospettiva più interessante è quella di vivere intensamente senza la possibilità di progettare un futuro. I giovani sono emarginati, non vengono chiamati per nome, non sono attori di niente. E allora si rifugiano in identità sempre più provocatorie e ai margini della civiltà, spesso in vite alternative on-line. Il filosofo Umberto Galimberti riesce ad inquadrare benissimo tutti questi temi nel suo libro: “L’uomo nell’età della tecnica.” A tutte queste considerazioni devo far notare che viviamo anche nell’era di internet, che oltre a permetterci di essere connessi in una rete comune, ci dà la possibilità di avere accesso ad una grande quantità di notizie e conoscenze. Per la prima volta nella storia con internet possiamo condividere la nostra conoscenza potenzialmente con tutti i cittadini del mondo. Quindi se da un lato la tecnica prevede che il potere sia concentrato in organizzazioni che de- tengono il know-how dei processi atti a raggiungere uno scopo, dall’altro c’è la possibilità della grande tentazione della condivisione. Personalmente credo che la strada della condivisione sia quella da seguire, pur essendo per ovvie ragioni più complessa. La filosofia quindi ci apre la strada verso uno scenario che riguarda diretta- mente l’ Economia e i metodi progettuali.
  • 24. 22 1.3 Scenari futuri di convivenza tra tecnica e progettualità. Riflettendo su come la progettualità possa ancora avere un ruolo, in un’epoca in cui la tecnica ha preso il sopravvento, si aprono diversi scenari. Il primo è quello della creatività. I computer e le macchine non possono provare emozioni e allo stesso modo non possono essere creative. Le macchine sono fatte per interpretare stimoli e input che l’uomo concede, ma non sono pensate per sostituirsi a noi. L’altro aspetto imprescindibile è che l’uomo continuerà ad essere il fine ul- timo. I servizi continueranno ad essere pensati per l’uomo. Forse l’aspetto più inquietante è di dover convivere con dinamiche multi- disciplinari. Dover essere sempre a passo con i tempi. Vivere al tempo delle macchine infatti significa dover stare sempre aggiornati ed avere molte più competenze specifiche. Infine la questione etica. Il mondo è cambiato con l’esplosione della bomba atomica. Da quel momento l’umanità ha avuto la percezione netta che il livello tecnico raggiunto era in grado, con la nostra volontà, di cancellarci dalla terra. Niente è stato più come prima, il problema non poteva essere risolto nem- meno con la distruzione delle bombe rimanenti, avremmo dovuto cancellare le informazioni tecniche che ci permettono di costruirle, ma sulla conoscenza non si torna indietro. Possiamo solo accettare che è nelle nostre facoltà utilizzarla, sta a noi deci- dere in che modo. Dobbiamo entrare nell’ottica che la tecnica non è né buona né cattiva, provando ad avere un approccio possibilista.
  • 25. 23 In questo senso non possiamo tornare indietro. In questo senso il designer deve prendere coscienza di quello che c’è altrimenti rischia di diventare un dinosauro attaccato a dei principi che non lo fanno vivere nella realtà. Se le macchine permettono dei processi di costruzione e assemblaggio nuovi è giusto farne uso. Non dico che la questione etica non esista, ma forse è più giusto spostarla sull’utente finale. Presupposto che l’utente finale non sia altro che l’uomo il cerchio si chiude: sta a noi decidere.
  • 26. Motociclista con il suo carico di taniche vuote - India 2012 “La felicità non si compra. Qualcuno ci ha provato, con scarsi risultati.”
  • 27.
  • 28.
  • 30. 28 2.1 La prospettiva di un’economia alternativa. Che strumenti ci offre l’Economia per l’interpretazione del tema del pro- getto? Si capisce che così com’è importante capire a chi si rivolge il progetto, è importante capire come comunicare l’aspetto economico che è spesso il prin- cipale strumento di giudizio sulla qualità dello stesso. Se è vero che viviamo nell’era postmoderna nella quale le aziende cercano di far percepire valori intangibili, è anche vero che si ha la necessità di quantifi- care per dare forza a ciò che si promuove. L’economia è fatta soprattutto di numeri e percentuali che devono essere co- municate. Il designer inoltre, nell’approcciarsi ad un progetto di prodotto deve forzatamente confrontarsi con i materiali e la loro scarsità. Questa percezione, per fortuna, è sempre più netta nella società e oltre a dare un valore aggiunto a progetti che siano ben orientati sulla giusta ricerca di materiali; fa pensare alla necessità di un ripensamento del sistema economico degli ultimi cinquant’anni. Dato per buono l’assunto che il sistema attuale abbia vita breve su temi come l’obsolescenza programmata e lo spreco di risorse è utile cercare di focaliz- zare l’attenzione sul legame che esiste tra economia e felicità ad esempio. L’ indice economico di riferimento, spesso preso in considerazione per moni- torare la crescita e lo sviluppo di un sistema, è il prodotto interno lordo. Unico e indiscutibile strumento di misurazione del progresso di un Paese. Ma si può mettere in discussione questo assunto? Non sarebbe più logico prendere in considerazione un altro indice, magari quello che misura la felicità delle persone? Sono in molti a credere che mettersi in questa ottica di idee implichi un grosso sforzo individuale di rinuncia.
  • 31. 29 Questo è un concetto chiave che va sviluppato per essere ben compreso. Se è vero che se pensiamo in grande, al sistema inteso come grande apparato che muove tutto non abbiamo grandi possibilità di trarne un vantaggio immediato e concreto; d’altra parte invece la nostra rinuncia ai comportamenti d’acquisto ritenuti usuali, può portare ad un bilancio positivo anche nel breve termine. Soprattutto se è attuata in un contesto multiplo, cioè se a muoversi nella giusta direzione è un gruppo che agisce su un territorio specifico e non un singolo, ci possiamo rendere protagonisti di un cambiamento proficuo e vantaggioso. L’unione fa la forza, le decisioni compartecipate portano spesso ad un van- taggio immediato. Per affrontare questo tema, le conoscenze economiche e sociali di Stefano Bartolini e Serge Latouche possono aiutare a capire in maniera critica e costruttiva. Credo che quando si parla di design si debbano trattare temi concreti, ma dopo aver preso coscienza che il ruolo del designer sia quello di disegnare forme ed oggetti, reputo importante cercare di capire cosa deve fare un attimo dopo avere staccato la matita dal foglio. Nel momento in cui il designer esce dal suo ufficio, nel momento in cui si confronta con la società credo che il suo ruolo abbia sicuramente a che fare con dinamiche sociali. Per questo motivo penso che i temi più importanti e basilari siano fondamen- talmente quattro: i trasporti, il sistema agricolo, quello energetico e quello dell’abitare. Parto da questi temi perché agendo in modo critico mi sento di poter tranquillamente affermare, che qualora avessimo dei vantaggi positivi in modo da rendere indipendenti o quasi i cittadini su questi aspetti poco ci mancherebbe perché potessero vivere a ritmi più sostenibili con un bilan- cio positivo dell’indice della felicità immediatamente riscontrabile. Non è un caso che Stefano Bartolini imposti il suo pensiero proprio a partire da questi temi. Vediamo ora quali sono le priorità e le azioni che, se messe in pratica, por- terebbero dei benefici immediati.
  • 32. 30 Il progetto di una casa ad esempio è molto complesso, ma così come nes- suno può mettere in dubbio che se è pensato con un sistema di coibentazione adeguato, ne conseguano dei benefici sulla tenuta termica, così nessuno può dubitare del fatto che il progetto non si limiti alla metratura indoor, ma si es- tenda fuori, nel quartiere in cui la casa è costruita. Se si pensa al micro-sistema quartiere come dice Bartolini si deve pensare sia a spazi pubblici per i bambini, in cui possano essere protetti e giocare in tranquillità, sia ad una quantità di spazio verde adeguata alla densità di popo- lazione adulta. L’energia invece è un tema che vede come punto di partenza imprescindibile l’assunto che il combustibile fossile sia finito sul pianeta e che la curva di produzione di greggio sia in fase discendente già da qualche anno. La mia generazione sarà destinata a vivere un calo vertiginoso della quantità di energia disponibile, derivante dalla mancanza di petrolio con conseguenze economiche molto gravi, a meno che non si decida di incentivare la forma di produzione autonoma di energia dal vento e dal sole, oltre che a prevedere l’installazione di pompe di calore che sfruttino la geotermia. Sembra che la soluzione migliore sia un mix di energie rinnovabili che si pos- sano interscambiare in fase di produzione. Sul tema dell’agricoltura credo che un buon approccio di progetto sia pensare che i sistemi idroponici possano sostituire i metodi tradizionali di coltura. La coltura idroponica diminuisce la quantità d’acqua necessaria a far crescere la stessa pianta di circa l’80 per cento. Il suolo non viene danneggiato dall’uso di sostanze chimiche e i luoghi adibiti alla produzione del cibo vegetale potrebbero essere integrati nel tessuto delle città ed aiutare una distribuzione a chilometro zero. Il sistema idroponico inoltre può essere gestito totalmente da un software che monitora costantemente tutti i valori chimici ed ambientali.
  • 33. 31 Per quanto riguarda i trasporti, chiediamoci cosa penseranno di noi i posteri. Ci stiamo spostando con delle auto che pesano intorno a una tonnelata con- sumando in un tempo brevissimo il combustibile fossile che la terra ha pro- dotto in millenni. Penseranno che le auto erano delle macchine brucia-petrolio e che ci abbiamo basato l’economia di circa cento anni. Credo che il futuro siano le bici elettriche o comunque un mezzo che pesi molto poco. Come può un designer astrarsi da questi temi? Deve esserne protagonista, in prima fila. Nelle sfide future, nella ricerca del giusto compromesso tra forma e materia affinché possa essere prodotto un oggetto con un costo contenuto che sia in grado di produrre valore da ciò che la natura ci offre in modo rinnovabile. Ammesso e non concesso che questo avvenga il mondo deve sicuramente prepararsi ad una scarsità di approvvigionamento di energia oltre che di ma- teriali, e sarà costretto a ridurre i ritmi di produzione e consumo. Su questo tema ci viene in aiuto Serge Latouche, che con la sua teoria della rivoluzione della decrescita, mette in atto il circolo virtuoso della decrescita serena che si sintetizza negli aspetti del: rivalutare, riconcettualizzare, ristrut- turare, ridistribuire, rilocalizzare e ridurre. Teorie che aprono la strada a tanti dubbi che però almeno ci mettono di fronte ad una possibile risoluzione, senza lasciarci nel limbo dell’impossibilità di azione. Pensare a piccole realtà può quindi aprire la strada al cambiamento? Si, questa può davvero essere la soluzione più immediata. Un buon progetto cerca di mettere insieme ciò che l’industria può produrre, ciò che i designer possono disegnare e ciò che la gente desidera.
  • 34. 32 È chiaro che queste tre cose devono andare insieme. Oggi il problema ambientale è riconosciuto, d’altra parte cresce il numero di persone che crede di poter e voler far qualcosa di concreto. Il problema è che non esiste una risposta univoca. Il primo e fondamentale punto è che la sostenibilità non è una parola che copre ogni direzione da un punto di vista ambientale. Se vogliamo veramente prendere in considerazione la parola sostenibilità, significa approcciarsi ad un cambia- mento radicale. Passare da un’idea di benessere in cui per vivere meglio bi- sogna consumare di più, all’idea di consumare di meno e condividere di più. Sembrerebbe che siano temi legati ai grandi sistemi finanziari e alle grandi politiche, ma in realtà non è così. Possiamo fare qualcosa? Si, anzi anche in termini teorici il cambiamento potrà avvenire solamente se esistono già delle piccole realtà. Non c’è speranza di avere una società sostenibile se non ci sono le persone che passano da un’idea usa e getta del mondo ad un’idea di cura del mondo. Non ci sarà nessun modo di sostenere tutti se la gente non avrà cura delle proprie cose. I cambiamenti radicali sono a piccola scala e questa dimensione non toglie nulla all’attitudine della cura degli oggetti. Non può nemmeno essere sostenibile se non rallentiamo. Le persone devono avere delle isole di lentezza in mezzo ad un mondo veloce. Per questo l’esperienza di Slow-Food è il miglior esempio di sostenibilità in Italia. Non implica della grandi insoddisfazioni e sacrifici. Si scontra con gli strumenti globali, ma sono allo stesso tempo è contemporanea. Non c’è sostenibilità se non ritroviamo il senso del luogo che non significa ritornare al villaggio. D’altronde la gente nemmeno lo vuole il villaggio chiu- so del passato però c’è e sta emergendo l’esistenza di globalizzazioni intel- ligenti in cui più che immaginarsi questi flussi insensati di merci e persone si vedono delle reti piccole che si collegano a reti più grandi che possono essere
  • 35. 33 autosufficienti. La rete ha delle grandi possibilità, un sistema in cui tante realtà si uniscono è la base di un qualcosa che in futuro sicuramente avverrà. La distribuzione dell’energia e del saper fare è un tema interessante. Nella produzione d’energia tante piccole e medie centrali si possono mettere in rete per vendersi l’energia tra di loro. Ci sono già oggi dei centri di ricerca ufficiali che si occupano dell’economia distribuita. Non sappiamo come sarà la sostenibilità del futuro, ma abbiamo a disposizione dei dati che sono stati raccolti in funzione d’esperienze vissute da gruppi di persone anche nel nos- tro paese. Questo è un punto di partenza. Le relazioni tra ciò che è globale e ciò che è locale saranno sicuramente di- verse, non sappiamo se migliori o peggiori, ma saranno diverse. Siccome esistono già dei sistemi locali che funzionano, la sfida è quella di creare dei sistemi multipli che connettono i singoli. Un mondo in cui si mescola la velocità e la lentezza, è lo stesso mondo in cui la gente si auto-produce ciò di cui ha bisogno. Potrebbero essere i segni del futuro, sono in molti ad avere delle aspettative in merito. I designer devono prendere questa strada, a fronte di un mondo che sta an- dando oggettivamente verso l’impoverimento delle risorse. Il design è nato su un’etica che deve essere ritrovata? I contenuti etici di oggi non sono gli stessi di quando è nato il design, quelli attuali riguardano la democrazia del consumo. Oggi non andiamo lontano su questo aspetto, perché qualcuno deve poter consumare di più, ma non tutti i sei miliardi di persone possono farlo. Siccome abbiamo la capacità di una cultura critica dobbiamo fare un salto di qualità ed essere parte della soluzione, non del problema. Nel momento in cui ci si accorge di essere una cultura critica dobbiamo cam- biare direzione ed andare verso la produzione di oggetti intelligenti che
  • 36. 34 sappiano interpretare i nuovi scenari. Nessuno ha una risposta alla domanda “Cos’è la sostenibilità?” e se ce l’ha risponde che dovremmo avere tutti un po’ di meno. Per farlo volontariamente i designer devono esporsi e tracciare chiaramente le linee guida. Rallentamento, cura e auto capacità di essere protagonisti della propria vita potrebbero essere una chiave interpretativa. Cose concrete che possono essere fatte già oggi. Qualsiasi sia la trasformazione gli esseri umani avranno bisogno di prodotti e servizi. Le imprese come i designer sono stati parte del problema, ma possono essere parte della soluzione con una nuova cultura e magari vivere bene e fare il suo giusto profitto. Qualsiasi fenomeno innovativo dà dei vincitori e dei perdenti, ma avranno successo solo quelle imprese che saranno coerenti con i giusti principi. Chi produceva amianto, per esempio, ha dovuto cambiare mestiere. Chi produce automobili dovrà farlo a breve se continua con l’approccio che l’automobile possa essere un mezzo usato da ogni cittadino del mondo. Devono passare da essere produttori di automobili a sostenitori della mo- bilità. Una mobilità sostenibile e più complessa che avrà bisogno di sistemi sofisticati. Tutti quelli che si occupano di telecomunicazione dovrebbero capire che questi sistemi hanno bisogno di tanta comunicazione e che cosa vuol dire avere milioni di creativi con un uno strumento come il telefono che crea delle forme di organizzazione e business stesso per le imprese. Ogni oggetto può comunicare. Il mondo dell’abitare sta cambiando a causa delle necessità nuove che la soci- età frammentata deve poter soddisfare. Ma l’esperienza di questi ultimi anni ci ha fatto capire che il singol non consuma mai quanto la metà di una coppia, ma molto di più.
  • 37. 35 Ogni volta che si divide si aumentano i costi, ogni volta che si unisce si ris- parmia. Non si deve essere pensatori di strutture abitative uguali a se stesse, ma abitazioni con uno scopo, c’è tutto un mondo che deve essere in grado di sod- disfare la realtà delle famiglie e della società del futuro. Abitare sostenibile non è soltanto l’architettura bioclimatica, quanto piuttosto interrogarsi su come si possa cambiare il modo di vivere perchè sia sosteni- bile in ogni sua parte. Le singole parti, le lampade, i mobili e tutti gli oggetti sono necessari, ma questa non è una condizione sufficiente. Solo questo non comporta il radicale cambiamento, perché deve esserci il cambiamento anche nella quantità di ciò che consumiamo.
  • 38. Stonehenge (Inghilterra) - Celebrazione del solstizio d’Inverno - 2008 “Copyright is for Losers.” – Banksy
  • 39. 37 2.2 Verso un’economia della conoscenza e della condivisione. Parto anche qui da una distinzione oggettiva: quella tra lavoro cognitivo e operativo. È chiaro a tutti che, nel momento in cui il lavoro operativo può essere interamente eseguito dalle macchine, il campo su cui si confron- tano le varie realtà economiche mondiali è quello della conoscenza. Il lavoro è diventato cognitivo quindi. Significa in sintesi che una persona lavora prendendo delle decisioni. Anche l’operaio che preme un bottone rosso però, ha attuato un lavoro cognitivo. Non è un anello in più. Il fatto che la conoscenza dell’operaio sia attuata cambia tutto per un motivo semplice: la sua personale conoscenza ha un valore. Il contributo che dà la conoscenza è diverso da tutto ciò a cui comunemente diamo valore. È una risorsa diversa e ogni lavoratore produce conoscenza. Se la conoscenza ha un valore, come si traduce? La conoscenza codificabile ha un costo uguale a zero dal momento in cui può essere trasmessa. È una risorsa moltiplicabile perché può essere divulgata in modo illimitato. Questo concetto non può essere applicato per i prodotti, nella misura in cui se ho bisogno di un’unità di materiale per produrre un tavolo, avrò bisogno di dieci unità per produrne dieci. Utilizzare la conoscenza mille volte significa produrre mille volte valore. La conoscenza produce valore moltiplicando gli usi. Ha un effetto moltiplicatore. È questo che ci ha permesso per la prima volta nella storia di accrescere la produttività. Ogni anno la parte di mondo svilup- pata ha prodotto di più per due secoli e mezzo perché ogni anno si avevano a disposizione le conoscenze già acquisite in precedenza. E ogni anno ne possono essere create di nuove. Lavorando direttamente il ferro, ogni ora posso lavorare una certa quantità di materiale, ma se esiste
  • 40. 38 una macchina che fa la stessa forma se ne possono fare un milione invece di una. La moltiplicazione della conoscenza è un principio formidabile. Per moltiplicare la stessa conoscenza si deve replicare quindi in modo standard. Il mondo quindi rischia di diventare artificiale? Non necessariamente. Esisteranno sempre delle peculiarità che derivano da- gli aspetti culturali e dalla storia del territorio. Il disegno delle macchine e i processi produttivi possono essere condivisi e condividendo scopro che posso non essere concorrente, ma compartecipe ad uno sviluppo comune. Oggi ciascuno, in Italia più che altrove, pensa che le cose che fa le fa da solo proteggendosi dagli altri, ma nell’economia della conoscenza il principio chiave è che condividere non ha un costo. La condivisione è di per se un va- lore. Si mettono più competenze insieme, si riducono i rischi di investimento e au- menta il fatturato perché aumentano le possibilità di produzione con la cono- scenza altrui. La risorsa è moltiplicabile e condivisibile. Dal momento in cui il nostro lav- oro è diventato cognitivo, grazie alla tecnica, ogni ora di lavoro è potenzial- mente moltiplicabile e condivisibile. Al contempo il nostro lavoro vale meno perché non abbiamo sfruttato questa leva, cadendo nella trappola dell’egoismo di un approccio autoreferenziale. Gran parte del lavoro del fordismo era sostituibile. Cito una famosa frase dei tempi del fordismo: “Operaio non pensare perché c’è qualcuno che pensa per te! C’è chi è pagato per pensare per te!”
  • 41. 39 I lavoratori immigrati europei avevano compiti semplici. Le competenze degli operai erano quindi sostituibili. Questo portò infatti ad una riduzione drastica dei salari. Nell’epoca del fordismo si poneva il problema che l’auto prodotta doveva es- sere rivenduta agli stessi operai. Per permetterlo si adottò un sistema pensato su misura. Il meccanismo che portava i salari al minimo però, si bloccò, perché veniva prodotto di più di quello che veniva comprato. A quel punto della storia c’è stata un’invenzione politica che ha portato ad una correzione del fordismo: i sindacati. Il sindacato che nell’800 era illegale, diventa legale, in modo che l’azienda avesse come interlocutore un gruppo organizzato. In questo modo i redditi degli operai sono cresciuti. Solo grazie a questa con- dizione. Ma questa situazione è cambiata negli anni settanta, dimostrando che i mo- nopoli funzionano solo nel breve periodo. Questa condizione iniziale, di aver spostato i rapporti dentro le fabbriche si è tradotta nell’inflazione. La domanda che nasce dalla pressione dei redditi da lavoro tende a superare la producibilità delle fabbriche. Dagli anni 70 in poi è finito il secolo del fordismo ed è iniziato il processo per cui il lavoro nelle fabbriche comincia ad essere sostituibile da altro lavoro, perché si trovano metodi di produzione alternativi: ora si può pensare di decentrare la produzione. Questo processo è andato avanti in un modo travolgente in Italia. Le medie imprese italiane oggi, circa quattromila, producono circa l’80% del fatturato esternalizzando. È una trasformazione completa che ha cambiato radicalmentemente il mer- cato del lavoro. Se il sindacato aumenta le richieste il reparto chiude per pro- durre fuori. Siamo tornati quindi, a domandarci se il lavoro esecutivo difende o non difende il lavoro operaio.
  • 42. 40 Il secondo tema è la sostituzione delle macchine. Le macchine prima erano rigide e ora hanno i software. Gli operai quindi non fanno niente di preciso, le macchine sono regolate dai computer. Anche per questo motivo il potere contrattuale diminuisce. La terza condizione è la Cina, l’India e in genere tutte le economie emer- genti. L’italiano viene sostituito con un lavoratore estero che viene pagato di meno. Il sindacato non può più mettere delle condizioni imperative altrimenti l’impresa si rivolge a manodopera estera. Negli ultimi anni l’Italia è stata teatro di questo scenario che è sotto gli occhi di tutti. Si tocca con mano nella vita di tutti i giorni. Non è insensato pensare che si possa arrivare anche da noi al livello del costo cinese. L’alternativa è quella di rendere meno esecutivo il lavoro. Come? Dal momento che non tutta la conoscenza si può demandare alle macchine, si puòpensareaprodottipiùcomplessicherichiedonounaformadell’intelligenza umana che sa personalizzare il risultato, in una parola: creare. Questa è la nuova funzione del lavoro. È un lavoro generativo. Crea cono- scenze che gestiscono problemi complessi. Perché la Germania non ha paura della Cina oggi? Perché i tedeschi sono quasi tutti laureati e fanno delle cose che non sono sos- tituibili. Noi dobbiamo fare la stessa cosa. Le aziende devono essere in grado di dare il giusto valore alla propria forza lavoro. Cosa significa quindi difendere i diritti nel lavoro del futuro? Diventa più importante difendere il diritto all’apprendimento e alla conoscen- za, di pari passo all’applicazione delle competenze.
  • 43. 41 Si deve andare inoltre, verso una concezione di lavoro più continuativa. Sul lungo periodo infatti, l’intercambiabilità e il tempo determinato logorano le competenze e il valore del personale di lavoro. È finito il tempo in cui era giusto difendere la bandiera del lavoro insostitui- bile. Il lavoratore viene difeso dalla sua capacità; dal fatto che alcune cose le sa fare lui e l’altro no. Se una fabbrica può essere riprodotta all’estero allora acquista più senso cer- care di aumentare il valore delle persone che lavorano nelle aziende sul nos- tro territorio. L’Italia sembra essere oggi in un condizione di inconsapevolezza. Viviamo in un contesto di arretratezza culturale. La sinistra ha sempre rifiutato che il fordismo fosse finito perché per funzion- are bene aveva bisogno di una sinistra ben radicata nelle istituzioni. Adesso la sinistra vede una strada in salita. Come fa il sindacato a trasformare gli operai in una risorsa e non in un peso? Il sindacato deve essere pensato in un’altra forma. Si dovrebbe riconoscere la sua funzione nell’incentivo all’investimento personale. Dovrebbero cambiare le leggi per cui le aziende dovrebbero avere dei van- taggi a formare il personale. Tutti questi investimenti implicano una maggiore predisposizione a mante- nere i lavoratori in azienda e non necessariamente a trovare ogni occasione buona per risparmiare con il meccanismo della sostituzione. Dovrebbe diventare conveniente per l’azienda investire sui suoi dipendenti. Nello scenario attuale i laureati sono disoccupati perché la loro conoscenza acquisita fuori dagli ambienti di lavoro normalmente non viene riconosciuta. Il diploma delle nostre università spesso non è sufficiente a giustificare che il laureato sappia fare il suo lavoro. I canali professionali inoltre dovrebbero essere chiari nel promettere qualcosa che sia più definito.
  • 44. Manifestazione sindacale Fiat : effetti della globalizzazione. “Una delle cose più fantastiche riguardo al tempo e allo spazio è che è impossibile prendersi in giro all’infinito.” M.Dooley
  • 45. 43 2.3 Una società fluida. La comunicazione quindi, date le premesse della condivisione, assume un ruo- lo centrale, e non si può non considerare l’evoluzione dei metodi d’emissione dei messaggi. Com’è cambiato il modo di comunicare e di relazionarci? Istituzioni come la famiglia, la classe e il vicinato rischiano di diventare delle condizioni ingessate diametralmente distanti dalla realtà quotidiana. Se pensiamo al mondo come globale possiamo ipotizzare la cancellazione di confini più o meno espliciti. Tutto diventa condivisibile e la capacità deci- sionale può essere decentrata. Lo spazio non è più un limite, ma diventa qual- cosa di fluido in cui immergersi e decidere se lasciarsi andare alla corrente oppure muoversi autonomamente. Qualsiasi dispositivo tecnologico, dal cellulare al tablet ci permette di entrare nel mondo della rete. La rete ha stravolto la percezione della dimensione del pianeta dando l’impressione di poter viaggiare pur restando seduti di fronte ad uno schermo. Anche la geografia politica ha perso il significato di un tempo, dal momento in cui le decisioni possono essere prese in una riunione in rete. Lo stesso concetto dello spostamento e della necessità di movimento è stato stravolto nell’arco di due generazioni. Stiamo tutti vivendo, in questo senso, una forte crisi d’identità. Si ha inoltre la percezione sfalsata di poter accrescere illimitatamente il nu- mero di contatti e scambi, infatti è stato recentemente dimostrato che il nostro cervello è strutturato per avere un numero limitato di relazioni. Un altro indiscutibile effetto è la convergenza verso una globalizzazione e la standardizzazione dei contenuti, dei prodotti e dei servizi in ambito mon- diale. L’altra illusione è che le persone possano partecipare alle dinamiche decisionali, in realtà si lascia solo l’impressione che questo possa realmente essere attuato, salvo i casi delle recenti rivoluzioni di massa del Nord Africa
  • 46. 44 che sono esplose nella rivoluzione sociale denominata primavera araba. La diffusione di internet in aree arretrate porta delle conseguenze eclatanti in termini di opportunità. Molti temi però sono ancora aperti. Si parla proprio in questi giorni della pos- sibilità che la rete cessi di essere libera e inizi ad essere controllata. Non solo la rete, ma anche gli altri media hanno un ruolo strategico nel nuovo scenario mondiale. Assumono infatti, una funzione di sensibilizzazione verso una cultura del sa- pere che in molte realtà ha già superato la cultura del prodotto. La società del futuro farà sempre più riferimento sui nuovi metodi di comuni- cazione per creare in positivo una diversa etica di soddisfazione dei bisogni. La rete, internet, la tecnologia, ci stanno allontanando geograficamente e ci stanno velocizzando, ma è pur sempre vero che la presenza fisica, è un valore che non può essere messo in secondo piano, dà modo di scambiare opinioni, idee, di creare. Se le persone condividono gli spazi sono portate ad interagire tra loro abbat- tendo l’iniziale distacco emotivo, la condivisione degli spazi ha sempre un ruolo sociale e sempre ce lo avrà indipendentemente dalle nuove dinamiche di socializzazione. Per questo motivo il mio progetto acquista valore, essere fisicamente in uno spazio non è la stessa cosa di essere nella stessa lista di nomi in un hard disk. Le persone e le idee vivono anche negli spazi. Il lato “buono” della rete e delle nuove tecniche di comunicazione è la pos- sibilità di condividere e compartecipare. Dei grossi passi avanti e impensabili scenari si stanno aprendo. A noi la decisione se farne uso o meno.
  • 47. 45 2.3 Cosa si intende per produzione di valore reale, la lezione degli anni dieci. Ora fondamentale è anche dare un’idea più precisa di quello che dobbiamo intendere come bene reale. Come e quando si crea valore reale quindi? Si crea valore ogni volta che si trasforma la materia per la produzione di un bene che possa soddisfare un bisogno. Oppure ogni volta che si creano le condizioni per attuare un servizio. Inoltre al di là di semplicistiche conclusioni, come ribadire il concetto che una zucchina o una mela sono un bene reale perché sono cose che si mangiano, si deve fare chiarezza su cosa produca realmente valore. Tornando a considerare l’indice del prodotto interno lordo, consideriamo che anche il fatturato derivante dalle operazioni chirurgiche, o in generale quello delle prestazioni mediche è messo dentro il paniere di riferimento dell’indice. Ma una società che ha un maggiore bisogno di cure mediche è una società malata. Sarebbe auspicabile che le persone avessero progressivamente sem- pre minor necessità di cure mediche, ma questo non produrrebbe valore, sec- ondo l’attuale paniere. Si pone la questione quindi se sia giusto o meno creare valore in questi termini. La risposta è negativa nella misura in cui si deve tener conto delle esigenze dell’utente finale che come sempre è l’uomo. Il sistema finanziario ha fallito per la seconda volta nella storia dopo il 1929 nel 2008. In entrambi i casi si era dato valore a qualcosa che in realtà non ne aveva. In maniera forse semplicistica, ma assolutamente reale possiamo affermare
  • 48. 46 che un sistema basato sull’invenzione di valore non può funzionare sul lungo periodo. Inoltre nel mondo ci saranno sempre aree geografiche svantaggiate da essere adibite alla produzione dei beni. Si tenderà ad una delocalizzazione del lavoro in aree svantaggiate o in via di sviluppo. Questo fenomeno ha avuto inizio in Europa dalla fine degli anni ottanta ed è tutt’ora in espansione. È questo uno dei motivi primari della mancanza del lavoro in Europa. Facciamo produrre altrove e compriamo altrove. Il nostro valore è quindi, quello della conoscenza. In Europa sono necessarie ormai solo figure in grado di progettare innovazi- one per poi andare a realizzarle altrove, in luoghi in cui il costo del lavoro è inferiore. Chi meglio del designer può assolvere a tale ruolo? Il designer immagina futuri scenari, ipotizza la soddisfazione di nuovi bisogni oppure ripensa alla soddisfazione alternativa e ottimale di bisogni antichi. Il designer deve avere il ruolo di rendere reali i bisogni che la gente percepisce solo a livello inconscio. Il designer osserva altre realtà che funzionano e cerca di replicarle su territori arretrati. L’innovazione può essere intesa anche in questo senso: prendere modelli produttivi che funzionano in determinate realtà e trasferirli in realtà alterna- tive, cercando di ottimizzarne gli aspetti più deboli. In questo senso e con queste premesse si può capire meglio cosa si intenda per produzione di valore. Si produce valore ogni volta che si realizza qual- cosa che possa realmente essere utile a soddisfare un bisogno, ma si riesce a
  • 49. 47 produrre un valore aggiunto se lo si fa mettendo in pratica i giusti processi e ancor di più se si contestualizza ad una determinata realtà sociale. Il designer usa la visione olistica strutturando tutte le varie parti del progetto. Strumenti come lo storyboard o il moodboard aiutano il designer in questa ricerca e l’approccio sistematico a questi metodi lo rende sensibile a queste tematiche. Riesce inoltre a creare più facilmente valore nella misura in cui lavora in- sieme agli utenti finali, creando un incontro fra culture interne ed esterne. Il designer accompagna il progetto nell’organizzazione. Non può esserci azione senza strategia e non c’è strategia senza un processo interattivo tra i diversi attori dell’organizzazione. Il processo è finalizzato a costruire significato in modo collaborativo. Il designer inoltre dovrebbe facilitare i processi di trasferimento del know- how e valorizzare il sapere collettivo interno ed esterno al territorio e alle imprese. A livello pratico è necessario che varie figure competenti e decisionali pos- sano finalmente ritrovarsi e decidere appunto di andare nella giusta direzione con il comune obiettivo di tornare a produrre valore.
  • 50. Tecnologia d’interazione touch. Ogni oggetto è una potenziale fonte di comunicazione e interazione. “Non è tanto importante sviluppare il propio stile quanto l’approccio.” - Massimo Vignelli
  • 51. 49 2.4.1 Lo sviluppo del CoWorking e Codesign in Italia e i punti di aggre- gazione. Il coworking e il codesign sono due ambiti sociali che si sono creati in ris- posta a necessità di condivisione e ottimizzazione delle risorse. Queste dinamiche sono sia il frutto della crisi del sistema economico sia lo specchio dell’approccio di apertura. Realtà di coworking si stanno manifestando in Italia, soprattutto al nord. Un esempio valido è talent garden. “Talent Garden è un ecosistema dove menti brillanti e creative, piene di entu- siasmo e di passione, di coraggio e di fantasia, possano aiutarsi e competere allo stesso tempo; sfidarsi e collaborare, confrontarsi e contaminarsi in modo naturale dando consistenza ed humus imprenditoriale ad un ambiente nel quale, dai boccioli di nuove idee, potranno fiorire e crescere nuove piantine, nuove aziende che avranno il terreno migliore per poter crescere, svilupparsi e diventare grandi. Banalmente definito CoWorking, il modello di Talent Garden mira non solo alla condivisione degli spazi di lavoro ma, attraverso una serie di eventi e iniziative, a raccogliere tutto ciò che germoglia all’interno di un territorio per svilupparlo tra persone che hanno interessi simili, stimolandone la collabora- zione e creando un vero “Passion working space”. Talent Garden è un network di campus locali aperti 24 ore al giorno che pos- sono ospitare fino a 445 talenti in tutta Italia. Le sedi vogliono ricreare un giardino immaginario dove, tra mobili ecocom- patibili e scrivanie in cartone si trovano chaise-longues, mega schermi con xbox e anche il biliardino per una partita di calcio balilla, perché l’atmosfera lavorativa non può non avere elementi che possano stimolare la condivisione e la creatività. Così crediamo sia necessario fare, come già succede in altre parti del mondo.
  • 52. 50 Anche in Italia i talenti ci sono e sono tanti e cercano di dar vita alle loro idee e di realizzare i loro sogni lavorando, completamente isolati, in uno scantin- ato o nella propria casa. É stato necessario aprire per loro uno spazio fisico, un luogo dove poter ospi- tare persone capaci e permettergli di lavorare liberamente a ciò che desiderano. Un luogo che può ospitare competenze diverse ma contigue, quali il web e la comunicazione, in cui le persone che risiedono all’interno sono selezionate dalla stessa comunità che vive il luogo e che sceglie con chi condividere gli spazi. E’ fondamentale, riuscire a far connettere e collaborare questi talenti in uno spazio comune.” (1) Si parte da un concetto di condivisione degli spazi e delle conoscenze per avere dei vantaggi in termini di operatività e di gestione. Si paga una quota per potervi accedere in modo da ridurre le spese, ma per le premesse dei capitoli precedenti è facile intuire come alle dinamiche di condivisione degli spazi corrisponda una condivisione di altro tipo. Da una necessità se ne fa una virtù. Il CoDesign o design partecipato significa invece una maggiore sensibilità del progettista a tutto ciò che può risultare sensibile all’azienda. Sempre più difficilmente possiamo intuire dal mercato segnali inequivocabili, il designer più di altre figure professionali può percepirne l’importanza. In questo senso la collaborazione del designer è più importante rispetto ad altre figure professionali. L’approccio a questa dimensione collaborativa ha come scopo l’emersione di qualcosa che si deve ancora manifestare. Il designer in questo contesto è una figura che annusa nuovi stimoli e situazio- ni nella realtà e collabora con l’azienda nella ricerca e nello sviluppo di queste tematiche. Più precisamente attraverso una relazione bilaterale tra l’azienda e il mondo. Per figurare questo concetto potremmo visualizzare una membrana (1) Dal sito di TalentGarden : http://www.talentgarden.it
  • 53. 51 che faccia da filtro e attivazione di un processo. Altri possibili scenari vengono aperti nel momento in cui si include anche il consumatore finale come compartecipante al processo di produzione e diffu- sione dei prodotti o servizi. Il designer può responsabilizzare quindi l’utente finale fino a farlo sentire parte del processo di sviluppo aziendale. Il CoMaking infine, può spingersi oltre andando a cercare particolari soggetti che siano in grado di testare il prodotto. La libertà del progetto e dei soggetti coinvolti genera la crescente partecipazi- one necessaria in ogni atto progettuale realmente innovativo.
  • 54. 52 2.4.2 Il ruolo del designer nella prospettiva del fare insieme. Il designer e il suo approccio alla progettazione è cambiato nella misura in cui cinquanta, sessant’anni fa era sufficiente ispirarsi ad un segno per dar vita ad un nuovo progetto. Adesso questa esperienza creativa rimane ovviamente, ma acquista un ruolo più importante il processo di sviluppo che è caratteriz- zato da un numero considerevole di decisioni, non solo creative ma anche culturali, ecologiche, ergonomiche, sociali ed economiche. Infine se si considerano questi aspetti come validi dobbiamo dare la giusta importanza anche all’aspetto politico. Le decisioni politiche sono spesso conseguenza di un processo di valutazi- one. Il designer spesso, utilizzando processi simili, è la figura professionale più preparata a dare delle risposte in termini di amministrazione. In che senso il designer è un mestiere nuovo? La necessità di una figura specializzata si inizia a sentire con l’introduzione dell’industria nella produzione di oggetti d’uso. È se voglia- mo la necessità creata dall’evoluzione dell’artigianato artistico. Era un po’ l’intento del Bauhaus di mettere l’industria nella posizione decisionale di definizione del rapporto ottimale tra decisioni tecniche ed estetiche. Ci viene in aiuto Burdek che definisce il design una disciplina autonoma perché si occupa di progettazione formale. È utile quindi dare una prospettiva di interpretazione misurabile e quantificabile. Dalla fine della seconda guerra mondiale, mentre gli effetti dell’industrializzazione aprivano la strada alla globalizzazione, anche il dis- egno industriale si è evoluto passando da un approccio emotivo alla razional- izzazione schematica di processo delle fasi di costruzione e produzione.
  • 55. 53 Il metodo o processo è stato quindi materia di trasmissione orale e scritta, qualcosa che poteva essere appreso come conoscenza e non solo limitata all’idea della creatività. Un designer si deve allenare a pensare in modo logico e sistematico. Quali sono stati quindi gli sviluppi nella metodologia del design? L’applicazione del metodo puro scientifico rischia di annebbiare il lato dell’azione intellettuale o comunque di renderla poco individuabile. L’agire fisico è in effetti ben documentabile, mentre quello concettuale può rimanere più nascosto pur dando per buona la necessità dell’uso della semi- otica, dell’ermeneutica e della fenomenologia; indirizzando verso una visione delle scienze umane applicate al design. Possiamo individuare gli anni sessanta come il periodo degli inizi della met- odologia del design presso la HFG di Ulm. Questo era necessario perché l’industria assegnava ai designer compiti di natura nuova. Nel 1973 Horst Rittel definisce il metodo come: ricerca sistematica della pri- ma generazione. Veniva così individuata la seguente sequenza di processo: Comprendi e definisci la mission.1. Raccogli informazioni (condizioni attuali, possibilità tecniche).2. Analizza le informazioni acquisite (le conclusioni si traggono dalle in-3. formazioni confrontandole con la “mission”, ovvero le caratteristiche del target). Sviluppa soluzioni alternative (questa fase dovrebbe in ogni caso con-4. cludersi con lo sviluppo di almeno una soluzione e la dimostrazione della sua fattibilità). Giudica i pro e i contro delle alternative e deciditi per una o più soluzioni5. (questa fase può prevedere simulazioni allo scopo di fornire un’immagine
  • 56. 54 della qualità delle soluzioni). Prova e migliora. Si testano le soluzioni e si offrono al responsabile della6. decisione per disporre della loro realizzazione. Se è la forma a rappresentare la soluzione del problema del design ed è il con- testo che definisce la forma, allora la discussione comprende anche l’unità di forma e contesto. Con questa asserzione di Alexander si aprì il dibattito che ha acquistato at- tualità negli anni novanta. Fino agli anni ottanta infatti, con il termine di contesto si intendevano sempre soltanto le richieste concrete che il designer doveva tenere in considerazione progettando: le condizioni ergonomiche, le specifiche di costruzione, le alter- native di produzione e così via. I contesti sono diventati il vero e proprio tema del design. Adesso prima deve essere formulato lo scenario sociale e descritto lo sfondo sul quale il prodotto può concretarsi, nell’ottica di un approccio all’utente finale. I problemi della progettazione formale non sono più soltanto problemi di for- ma nel momento in cui ci si interroga sull’applicazione reale in un contesto socio economico, mettere in scena o almeno consegnare modelli interpretativi per un progetto. Non dovremmo chiederci come si fa una cosa, quanto piuttosto che signifi- cato abbia e quali attuazioni pratiche ha nella realtà.
  • 57.
  • 58. Capitolo III Ah il designer! Ma esattamente cos’è che fai?
  • 59. Bruno Munari 1907 - 1998 - Designer e Grafico italiano “L’arte è ricerca continua, assimilazione delle esperienze passate, aggiunta di espe- rienze nuove, nella forma, nel contenuto, nella materia, nei mezzi.” - Bruno Munari
  • 60. 58 3.1 Le varie fasi storiche del design. Il design italiano ha saputo elaborare sin dal secondo dopoguerra una speci- fica cultura critica che ha posto le basi per il successivo sviluppo a livello ac- cademico di un approccio alla ricerca del tutto peculiare che solo oggi inizia ad essere riconosciuto a livello internazionale. Si può dire infatti che la ricerca di design Made in Italy ha preso progressi- vamente le distanze sia dalla volontà di emulare le scienze nei metodi e negli strumenti, sia dalla tentazione di rimanere nell’ambito artistico. A partire dagli anni ’90 è divenuto invece un efficace strumento di elabora- zione di metodi e strumenti scientifici per il design al servizio del sistema professionale, delle imprese e delle istituzioni. È divenuto cioè il luogo da un lato della codifica e diffusione di conoscenze e competenze contestuali, patrimonio unico del territorio italiano, e dall’altro catalizzatore e diffusore di conoscenze scientifiche elaborate a livello globale, nei luoghi di ricerca e innovazione scientifica. La crescente complessità della natura dei prodotti industriali e la maggiore complessità dei processi deputati alla loro produzione e consumo rendono oggi pressante la necessità di investire nella ricerca in design, supportandone la crescita e lo sviluppo. Ricerca in questo senso può essere intesa come sviluppo di processi o applicazione di materiali che portano all’innovazione. La ricerca nel campo del design mostra come possa essere strumento efficace per produrre innovazione in molti ambiti strategici per il sistema nazionale, ma in generale per le economie contemporanee, al di fuori dei comuni stereo- tipi che accompagnano la visione di questa disciplina. Questa consapevolezza deve guidare gli attori della ricerca e le istituzioni
  • 61. 59 che li devono sostenere a intraprendere una strada di azioni più strutturate e soprattutto integrate a livello internazionale. Quindici, venti anni fa, in tempi in cui, nel resto del mondo, il design sem- brava ancora congelato nelle sue categorie classiche di design dei prodotti, degli interni e della comunicazione grafica, il ramo italiano era stato in grado di aprire nuovi filoni di ricerca: dal design dei materiali, al design delle inter- facce da quello dell’interazione e dei servizi fino al design strategico. In tempi più recenti, la ricerca Sistema Design Italia aveva messo sotto os- servazione, e di fatto riconosciuto come design, delle attività rivolte a campi di applicazione inusuali per il design del tempo come i prodotti alimentari, il turismo e i sistemi territoriali. In Italia, 20 anni fa quindi, l’incontro tra il design e le tematiche dell’ambiente e della sostenibilità, era già stato spostato dall’angusto terreno dell’ecodesign a quello del design strategico e dei nuovi servizi collaborativi. Il presente invece è paradossale nella misura in cui tutti oggi invocano il design come salvatore dell’economia italiana, ma l’idea di design che viene proposta è uno stereotipo ormai troppo semplicistico. Si dice che il design dovrebbe essere capace di trasformare la qualità italiana in prodotti italiani di qualità, riconosciuti internazionalmente. Ma quali sono le qualità italiane più importanti da valorizzare? Cosa si deve intendere oggi parlando di prodotti italiani? E infine, la nuova generazione di designer deve essere in grado di capire le qualità italiane e di trasformarle in prodotti che siano coerenti con l’epoca in cui viviamo? I luoghi comuni sul design italiano salvatore dell’economia interna sono peri-
  • 62. 60 colosi. Nel momento stesso in cui esaltano il design, lo banalizzano. Ridu- cono le qualità italiane ad una lista di marchi. Vedono il design solo come uno strumento per competere sui mercati inter- nazionali, e non, come è stato nella tradizione della nostra cultura del pro- getto, come un operatore culturale orientato al miglioramento della qualità della vita e dell’ambiente. Così facendo, questo modo di proporre il ruolo del design non solo non riconosce il valore italiano del passato, ma non ha neppure le possibilità di comprenderne le potenzialità per il futuro, riducendolo a mero strumento di spettacolarizzazione della produzione. Un terreno questo non solo insostenibile sul piano ambientale e sociale, ma probabilmente inefficiente anche su quello della concorrenza. Insomma il paradosso del design italiano è che proprio quando il design viene finalmente scoperto come possibile fattore di sviluppo, rischia di essere ucciso, schiac- ciato da una retorica superficiale sulle qualità italiane. Questo nasce da un malinteso sugli scopi. Il design potrebbe aiutare l’Italia e la sua economia. Non perché diventa l’interprete ed il propagandista di uno stile, lo stile italiano, ma come un op- eratore che sa comprendere le qualità profonde che l’Italia può esprimere. Pertanto, sa dare un senso all’espressione della qualità italiana. Ma anche perché essendo aperto sul mondo e sulla contemporaneità, sa tra- durre i temi emergenti a livello globale. Tutto ciò, però, racchiude un’attività critica e riflessiva coordinata e capace di costruire un nuovo sapere proget- tuale. Richiede cioè una nuova stagione di ricerca progettuale. Altre strade di pensiero possono aprirsi quindi se si capisce che il progetto deve essere interpretato in maniera ampia.
  • 63. 61 Oltre ai già citati esempi come applicazioni nel settore del turismo o della distribuzione dell’acqua nella rete idrica si può considerare il caso di Slow Food. Slow Food è una realtà tutta italiana e valorizza allo stesso tempo prodotti comunità e territori. Inoltre tende promuovere un’idea alternativa di qualità della vita. Slow Food è un magnifico esempio di design italiano contemporaneo ed an- che il risultato di un grande programma di ricerca progettuale. Un design implicito, visto che nessuno dei protagonisti si definisce designer. Ma anche un’attività esemplare di come oggi potrebbe essere il design e la ricerca in design per lo sviluppo di qualità sostenibili applicate al territorio. Il frutto e al tempo stesso il generatore, di un vasto intreccio di ricerche pr- ogettuali che collegano il tema delle qualità dei prodotti e dei luoghi, con quello del territorio e dei suoi modelli economici e sociali. Credo che queste ultime osservazioni possano dare una chiave di lettura in- teressante su ciò che la ricerca progettuale in Italia potrebbe fare e su ciò che, per altro, in larga misura già comincia a fare: dal design del prodotto a quello dei servizi, dal design della comunicazione a quello degli interni, fino al de- sign strategico che è chiamato a promuovere l’identità e lo sviluppo sociale ed economico di luoghi e comunità. In questo modo si presentano nuovi possibili committenti: non solo imprese, ma anche enti pubblici, associazioni e comunità. Muoversi su questo terreno può rappresentare un grande punto di forza per la ricerca progettuale in Italia tra valori ambientali, sociali, economici e culturali dei luoghi. E questo non solo per la qualità della vita in generale, ma anche per il valore
  • 64. 62 economico che, grazie ad essi, può essere generato. Riconoscendo questo dato di fatto, in Italia più che altrove, la ricerca di de- sign potrebbe avere su questi temi la sua specificità ed il suo punto di forza. Un terreno di applicazione e di ricerca su cui ridefinire e consolidare il profilo internazionale del design Italiano. Un’attività che potrebbe portare un contributo originale e concreto ai grandi temi sociali ed ambientali con cui non solo l’Italia, ma il mondo intero si confronta.
  • 65. 63 3.2 Definizione del concetto di innovazione. Credo che un’attenta analisi e una linea d’interpretazione sia doverosa anche sul tema dell’innovazione. Che cosa si intende per innovazione? La sua interpretazione è univoca op- pure no? L’innovazione può essere definita come un’attività di pensiero che elevando il livello di conoscenza attuale perfeziona un processo migliorando il tenore di vita dell’uomo. Innovazione inoltre è un cambiamento che porta ad un progresso umano de- finendo valori e risultati positivi. Un’invenzione o un’idea creativa però, non costituisce innovazione fintanto che non viene utilizzata per soddisfare un’esigenza concreta. Il concetto di innovazione è spesso frainteso e interpretato in modo scorretto. Inoltre si tende a farne un utilizzo smodato e inopportuno, spesso diventa la bandiera da sventolare da parte di politici o amministratori che non ne padro- neggiano il significato. La parola innovazione potrebbe essere associata ad un progresso tecnologico oppure ad una modifica che apporti dei vantaggi oggettivi su qualcosa di già esistente. Il concetto può estendersi però a qualcosa di immateriale. Anche un’idea è innovazione. L’innovazione aziendale può avvenire a di- versi livelli, può essere nella produzione di un nuovo prodotto, ma può anche riguardare l’organizzazione stessa della forza lavoro, il posizionamento sul mercato o la soddisfazione di altri bisogni.
  • 66. 64 L’innovazione inoltre è sempre da associare ad un aspetto culturale. Difficilmente si può parlare di innovazione in contesti culturalmente arretrati. Nell’epoca della globalizzazione le aree del mondo in cui si fa innovazione tendono a decentrarsi. Si tende a concentrare la cultura specifica in aree particolari. Di per se questo non è un ostacolo al progresso, a patto che le conoscenze acquisite vengano condivise. È giusto specificare che una comunicazione innovativa non richiede neces- sariamente mezzi innovativi. Il mezzo rimane tale. È piuttosto come viene utilizzato il mezzo che fa la differenza. In questo senso non è necessario un mezzo tecnologico, possiamo usare anche una penna e un foglio. Quello che conta è il contenuto. È il messaggio che deve essere innovativo e il messaggio si palesa tramite il mezzo. L’innovazione quindi si misura sull’impatto che ha sulla società e sul suo tes- suto economico. Poco importa che un prodotto sia l’ultimo ritrovato di tecnologia se non può essere utilizzato dalle persone o se per funzionare richiede standard applica- tivi che l’ambiente in cui viene proposto non possiede. Il totem può avere quindi una funzione di indagine, può essere utile per effet- tuare dei sondaggi oppure per sensibilizzare le persone prima del lancio di un prodotto o un servizio. L’innovazione può essere il valore immateriale di un’idea, ma questa deve essere poi messa in pratica perché si possa parlare di vera innovazione. L’innovazione è un processo che richiede disciplina e metodo, fatica e rigore. Spesso il processo è lungo e prevede di tenere in considerazione lo stato at- tuale delle cose e le varie esperienze fallimentari precedenti.
  • 67. 65 L’innovazione va comunicata non solo sponsorizzando le qualità di un pro- dotto, ma divulgando le potenzialità di un sistema industriale. Nel caso specifico dell’Italia dovremmo essere più bravi a comunicare le risorse di innovazione che derivano da un tessuto economico e sociale basato sulla piccola e media impresa. Dovremmo dare valore a qualcosa che troppo spesso è associato ad uno svan- taggio. Se pensiamo al mito della Caverna di Platone o pensiamo alla distanza che le persone prendono inizialmente da un prodotto innovativo capiamo che ci sono dei punti in comune. Le persone hanno sempre paura di ciò che non conoscono, in questo senso la comunicazione di qualcosa di innovativo acquista importanza. Le persone vanno anche educate e i messaggi devono essere chiari e ben comprensibili. Perché la comunicazione su un tema innovativo possa essere efficace si deve passare per un percorso attuativo temporale: conoscenza primitiva.1. persuasione.2. decisione.3. conferma.4. L’innovazione deve essere compresa e spesso le persone hanno bisogno di immagini o simboli primordiali che riportino l’inconscio a dei valori non im- mediatamente associabili. Per questo spesso sono utili simboli, oppure i colori a cui sono associate le emozioni. L’innovazione può essere definita conseguenza della creatività? Si. Nella misura in cui si arriva a progettare qualcosa che prima non esist- eva.
  • 68. 66 L’innovazione quindi è indissolubilmente collegata alla creatività. Si parte sempre da qualcosa di esistente per arrivare tramite il mezzo della creatività a soluzioni alternative oppure si arriva ad immaginare qualcosa che ancora non c’è sfruttando la pura immaginazione. Entrambe le strade sono efficaci. Spesso la mente umana funziona per associazioni di idee ed immagini, per- cezioni uditive e sensoriali. Questi stimoli vengono associati per analogia o opposizione. Il processo della creatività che porta ad un’innovazione è talvolta inaspettato e sorprendente. L’idea può arrivare mentre stiamo pensando a tutt’altro o siamo immersi in attività del tutto estranee al contesto. La mente umana è creativa per definizione, ma ognuno sviluppa la capacità di pensiero a modo suo. Tuttavia un processo di massima può essere utile da tenere ad esempio o per capire meglio in che fase ci troviamo. Uno strumento in più per il designer. Il creative solution founding altro non è che un metodo per elaborare nuove opportunità per il raggiungimento di un obiettivo. Il primo passo è quello di individuare la sfida e il totem assolve chiaramente a questa funzione. La raccolta dei suggerimenti e la successiva considerazi- one è lo strumento giusto per aver chiaro almeno lo scopo. Poi il designer passa alla produzione di idee che si palesano per analogia, per matrice, per proiezione o per associazione. L’ultimo passo è quello dell’azione che viene restituita graficamente dallo schermo del totem.
  • 69. Formulare la sfida Produrre le idee Pianificare l’azione Identificare i bisogni Analizzare lo stato delle cose Identificare e formulare la sfida Tecniche analogiche Tecniche proiettiveTecniche associative Tecniche matriciali Classificare le idee Selezionare le idee Definire il progetto Il processo del Creative Solution Founding.
  • 70. 68 3.3 L’evoluzione del ruolo e un approccio di connettore di competenze. Affinché si possa parlare di design collaborativo, è necessaria una fase di meta-progettazione che abiliti l’approccio ad un lavoro collettivo attraver- so gli spazi, le regole e il metodo da seguire. Da dove parte un progetto e cosa fa il designer? Sicuramente da un senso comune, sul quale costruire il progetto. Si parte quindi da un concetto, dalla delimitazione di questo in un perimetro di com- petenza. Il nucleo è centrale, ma allo stesso tempo poroso, in modo che possa quindi essere contaminato dai contributi dei singoli individui. Al designer spetta il compito di guida. è la figura che porta i partecipanti sulla giusta strada affinché la soluzione possa essere partorita. Attorno al nucleo quindi potranno aggregarsi nuovi progetti e significati. In questo senso un totem serve da catalizzatore, qualcosa di visibile e tangi- bile che comunica un’idea precisa. Più precisamente il nucleo dell’idea. Il designer ha il compito però anche di incanalare le energie che altrimenti andrebbero disperse. Deve poter attuare una scelta, dare una direzione creativa a energie che rischierebbero altrimenti di disperdersi. Quando è giusto intraprendere questo genere di percorso? Gli ambiti di applicazione del collaboration design sono molteplici; tre dei più efficaci sono: Quando si intende condividere una vision e disegnare insieme, intorno a1. questo polo di attrazione, una serie di scenari per rendere concreta l’idea. Si voglia quindi dare importanza a nuovi nuclei di significato possibili. Quando si ha la necessità di mettere a fattor comune un obiettivo strate-2. gico e dare forma in modalità collaborativa agli specifici progetti che ne
  • 71. 69 costituiranno la parte di realizzazione per coinvolgere le persone nella definizione degli obiettivi. Quando si vuole portare a bordo di nuovi progetti ad alto tasso di in-3. novazione, specie in materia di design dei servizi, il maggior numero di persone, raccogliendone le idee e facilitandone così il metabolismo. Scegliere l’ambito d’applicazione giusto per il collaboration design è un pun- to cruciale; ma ancor più decisivo risulta il modo in cui attivarlo. L’approccio efficace è uno solo: avere metodo. Comunicare gli steps del processo nella maniera più chiara e semplice pos- sibile, ad esempio: quali siano le fasi di un workshop collaborativo e quale sia soprattutto l’obiettivo centrale. Mantenere l’attenzione focalizzata sui sotto-obiettivi attraverso ritmi serrati e un rigoroso rispetto dei tempi. Definire con la massima precisione la natura dell’output che ne deve emerg- ere. Stabilire esattamente i ruoli delle persone, in un’ottica di autorganizzazi- one paritaria ma, al tempo stesso, funzionale al raggiungimento di singoli obiettivi specifici. C’è un ultimo ingrediente, fondamentale: l’accompagnamento del design del- la collaborazione da parte di un team di facilitatori professionisti. Un facilitatore capace di compiere il giusto passo indietro progettuale, infatti, è la conditio sine qua non del buon funzionamento del processo collabora- tivo, che potrà così contare su una visione sistemica dell’intero progetto dalla corretta distanza. Per abbracciare la complessità in tutta la sua ampiezza, per passare realmente dal senso all’azione. “La serie di operazioni del metodo progettuale è fatta di valori oggettivi che diventano strumenti operativi nelle mani dei progettisti creativi.” (2) (2) Bruno Munari “Da cosa nasce cosa. Appunti per una metodologia progettuale” Laterza 1981
  • 72. 70 3.4 L’importanza del processo. Si parla molto della definizione del ruolo del designer rispetto a quello dell’architetto e a quello dell’ingegnere. Credo sia utile anche su questo avere un atteggiamento di apertura piuttosto che di chiusura. Aldilà di semplicis- tiche classificazioni e identificazioni di appartenenza ad albi professionali o di meri aspetti legali, non possiamo non considerare che il metodo di lavoro sia per molti aspetti simile. Credo non esistano degli schemi universalmente validi e che nell’approcciarsi al metodo ognuno debba seguire il suo percorso personale, ma credo anche che fare riferimento a schemi esistenti sia un utile punto di partenza. Come possiamo trovare una connessione tra queste figure professionali e la creatività? Sono tutte figure creative nella misura in cui pensano a qualcosa che ancora non c’è. Siamo quindi nell’ambito della creatività. Importante però è capire che cre- atività non è sinonimo di “improvvisazione senza metodo”. Progettare è facile quando si sa come si fa, ma prima si deve provare e ripro- vare fino a quando non troviamo quello che fa per noi. L’abito con le nostre misure, quello che indossiamo con disinvoltura. Il metodo progettuale non è qualcosa di definitivo quindi, ma è qualcosa di modificabile qualora si ipotizzino valori altri che migliorino oggettivamente il processo. Esattamente paragonabile al concetto dell’open source. Questo aspetto è assolutamente legato all’esperienza personale del proget- tista, che può proporre nuovi metodi condividendo la sua esperienza con altri professionisti. Nella progettazione si può seguire un percorso Top-Down oppure Bottom- Up. Il primo parte da una visione generale per arrivare a studiare i dettagli, mentre il secondo dallo studio dei particolari per poi connetterli e formare un sistema
  • 73. 71 completo. A questo proposito è interessante citare il fisico Richard P. Feynman che af- ferma: l’adozione di un metodo Bottom-Up avrebbe evitato l’esplosione dello Space Shuttle Challenger nel 1986 causata da una guarnizione di gomma di cui non si era testata la resistenza alle bassissime temperature. Uno schema possibile: Esigenza di mercato e sviluppo concettuale.1. Progettazione di massima.2. Progettazione di dettaglio.3. Prodotto e sue specifiche.4. La progettazione di massima deve essere accompagnata da un’analisi dei cos- ti, al fine di verificare che il costo dei sottoinsiemi sia adeguato. Il progetto può essere migliorato e l’analisi dovrebbe essere effettuata consid- erando ad esempio il rapporto costi e prestazioni. Individuiamo le fasi distinte: Identificazione delle esigenze.1. Ideazione della soluzione e sua definizione concettuale.2. Progettazione di massima.3. Progettazione esecutiva.4. Realizzazione.5. Esercizio.6. Modifiche.7. Obsolescenza.8. Consideriamo proseguendo con l’analisi, tenendo fermo il concetto che non
  • 74. 72 esiste un procedimento esaustivo e universale, che non possiamo inoltre pre- scindere dal singolo oggetto e dall’ambiente in cui andrà ad operare. Teniamo presenti i momenti logici per analizzare le loro relazioni. Nel 1990 Tim Brennan ad una presentazione del dipartimento Creative Ser- vices di Apple spiegò così il modello: “Qualcuno ci chiama con un progetto, noi facciamo un po’ di roba, i soldi ne conseguono.” Partiamo quindi da questa definizione di processo provocatoriamente generi- ca per capire cosa c’è nel mezzo. In realtà Tim Brennan non aveva fatto altro che enunciare il modello definito semplicemente complicato: Input1. Processo2. Output3. Semplicemente complicato con appendice invece, prevede anche un feed- back: Input1. Processo2. Output con feedback.3. Il diagramma dell’altalena: ci fa capire come è inutile pensare di progettare qualcosa se prima non ci chiediamo cosa l’utente avrebbe voluto. Si rischia di effettuare tutta una serie di passaggi inutili per ottenere un risultato non condiviso. Nel 1972 Don Koberg e Jim Bagnall espandono l’archetipo modello di pro- gettazione two steps aggiungendo dei passaggi: Accettazione1. Analisi2.
  • 75. 73 Definizione3. Ideazione4. Selezione5. Implemento6. Valutazione7. Può essere utile anche non andare dritti al bersaglio. Il designer dovrebbe avere un’oscillazione periodica tra analisi e sintesi. Il percorso per essere compiuto dovrebbe andare ripetutamente in entrambe le direzioni. Input1. Sintesi2. Analisi3. Output4. Nigel Cross nel 2000 nota che, benché nel suo complesso il percorso pro- gettuale debba convergere verso la soluzione, ci siano in esso anche fasi di deliberata divergenza con cui ampliare la ricerca o cercare nuove idee e punti di partenza. Quindi, in conclusione non esiste un metodo univoco e sportattutto le fasi non devono essere rigide. Il designer ha il difficile ruolo di facilitatore e allo stesso tempo regolatore del sistema del processo che intende attuare. Deve riconoscere le fasi e l’opportunità di tornare ad un punto temporalmente precedente qualora vi siano i presupposti, ma deve anche saper dire di no quando serve. Il team di lavoro deve riconoscere e condividere questo ruolo, per cui il de- signer deve essere bravo a comunicarlo.
  • 76. 1972. Don Koberg e Jim Bagnall espandono l’archetipo modello di progettazione two steps aggiungendo dei passaggi. Accettazione Definizione Analisi Ideazione Selezione Implemento Valutazione 1 23 4 5 6 7
  • 77.
  • 78. Capitolo IV Come e cosa comunica un designer.
  • 79. 77 4.1.1 L’ importanza degli indici nelle varie fasi di sviluppo progettuale. Credo che una panoramica sugli indici sia importante per due motivi. Il primo è che in un ambito di progettazione la definizione di parametri di riferimento possa dare delle indicazioni precise sulle strade da prendere. Il secondo è che a questo punto dell’analisi, nel momento in cui diamo per buono che il design e l’economia possono essere considerate sotto molteplici aspetti sfere comuni, i numeri e i grafici possono restituire le informazioni necessarie per una migliore comprensione. Quando si parla di indici è d’obbligo una prima differenziazione tra indicatori assoluti e indicatori relativi. I primi sono misurabili direttamente e spesso, grazie alla tecnologia, in tempo reale. I secondi invece si estrapolano da un rapporto tra due o più fattori. Molti fenomeni sono quantificabili in un ap- proccio alla sostenibilità. Un’ulteriore distinzione è tra indicatori fisici, dotati cioè di una unità di mi- sura che individuano dei livelli ( classificabili con colori ) e indicatori multi- dimensionali. Quest’ultimi sono costituiti da un’aggregazione di altri indici dello stesso tipo o di tipi diversi. Esempio di indicatore fisico: stoccaggio mensile di rifiuti differenziati. Esempio di indicatore multidimensionale: rapporto tra la quantità dei rifiuti e il prodotto interno lordo di una regione. Gli indici multidimensionali hanno la grande qualità di comunicare in modo più efficace un concetto. Come si esprimono? Possono essere espressi sia in percentuale sia in termini assoluti. Possono essere individuate scale di valore. Quello che deve rimanere come punto fer- mo è la necessità di comunicarli nella maniera più semplice e diretta.
  • 80. 78 Devono avere inoltre una funzione di comparazione fra sistemi o campi di applicazione alternativi. Può risultare utile un’ulteriore distinzione tra indici descrittivi e indici prestazionali. Indici descrittivi: sono piuttosto elementari e di immediata percezione. Di solito misurano cosa sta succedendo relativamente alle varie componenti ambientali. Indici prestazionali: sono indicatori descrittivi associati a target, soglie di va- lore o livelli individuabili. Questi misurano la distanza dall’obiettivo che ci si è prefissati di raggiungere. Spesso sono i migliori da applicare in contesti decisionali di amministrazione politica e di sviluppo sociale. Misurano quindi quanto è efficace qualcosa in un tempo dato. Sono gli indici che spingono all’azione ed entrano in contatto con l’utente invogliandolo verso un’ interazione. Anthony Friend definisce quindi il seguente modello denominato P.S.R.: Pressioni1. Stato2. Risposte3. Questo modello pone l’accento sulla relazione uomo ambiente. Secondo questo modello prima le attività umane esercitano pressioni sull’ambiente, cambiandone lo stato, poi rispondono per adattare il sistema della biosfera. Negli anni ‘90 l’OCSE prende il modello P.S.R. come riferimento e arriva a ipotizzare la sostituzione del concetto di pressioni con qualcosa di più defini- to: i punti guida. I punti guida sono i fattori economici e ambientali che variano nel tempo.
  • 81. 79 I determinanti sono i fattori di sviluppo sociale ed economico significativi per i loro risvolti ambientali. Nella seconda metà degli anni ‘90 l’Agenzia Ambientale Europea finalmente adottò uno schema di classificazione ancora più completo: D.P.S.I.R. Determinanti1. Pressioni2. Stato3. Impatti4. Risposte ambientali5. Lo schema D.P.S.I.R. è oggi uno schema molto noto, utilizzato per classifi- care gli indicatori. Gli indicatori determinanti descrivono le attività socio-economiche che causano le pressioni ambientali. Esempio di indicatori determinanti: numero di abitanti di un bacino territori- ale. Gli indicatori di pressione descrivono le azioni dell’uomo che direttamente causano modifiche sullo stato delle componenti ambientali (cioè direttamente impattanti per l’ambiente), come i prelievi di risorse naturali. Esempio di indicatore di pressione: portata dei prelievi di acqua. Il rapporto tra un indicatore di pressione con un indicatore determinante, tra di loro correlati, fornisce un indice d’efficienza ambientale. Ad esempio: il rapporto tra gli scarichi di reflui e gli abitanti presenti indica se gli insediamenti hanno un’efficienza depurativa più o meno alta. Gli indicatori di stato descrivono le condizioni di qualità delle varie compo- nenti ambientali. Esempio di indicatore di stato: la portata di un fiume.
  • 82. 80 Gli indicatori d’impatto descrivono le modifiche di stato per effetto delle pressioni antropiche. Esempio di indicatori d’impatto: la riduzione di portata fluviale a valle di un prelievo. Sirilevainparticolarechegliindicatorid’impattodovrebberoesserel’obiettivo conoscitivo fondamentale di ogni studio sul territorio e sull’ambiente. Il rapporto tra un indicatore d’impatto ed un indicatore di pressione, tra di loro correlati, fornisce un indice di sensibilità ambientale della componente interessata. Ad esempio: in un fiume il rapporto tra i nitrati pre- senti e quelli scaricati indica una sensibilità ambientale più o meno elevata. Gli indicatori di risposta descrivono le azioni umane intraprese per risolvere un problema ambientale. Esempio di indicatore di risposta: la depurazione degli inquinanti o la riduzione dei consumi di risorse naturali. L’OCSE ha individuato nel tempo diversi requisiti per la scelta di un indica- tore. Sono generalmente utili strumenti quali la rilevanza, la consistenza analitica, la misurabilità. Si è capito che altra condizione indispensabile è che l’indice deve essere adatto a rappresentare qualitativamente una realtà. Deve essere inoltre efficace nel senso che deve essere in grado di rappresen- tare correttamente il fenomeno d’interesse e poi anche efficiente nel senso che deve poter rispondere in tempo reale alle variazioni numeriche. Quest’ultimo fattore dipende pesantemente dall’azione umana, dalle banche dati con rilevamenti precedenti dello stesso fenomeno e dai costi delle strut- ture di raccolta dati. In questo ambito l’interazione proposta da un totem potrebbe diminuire