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RIFORMISMO
Un modo di essere volto al progresso

Premessa
L’attuale contesto storico evidenzia le mancanze di un’intera classe politica dalle quali le istituzioni
appaiono immobili e incapaci di far fronte alle istanze dei cittadini da un lato e di governare
efficacemente tanto i fenomeni interni quanto quelli provenienti dall’esterno.
Oggi più che mai penso, sia tanto necessaria quanto utile avviare e portare a compimento una
stagione riformista – che l’Italia non ha mai conosciuto così come una vera rivoluzione al pari di
quella francese, inglese o americana - in grado di incidere sensibilmente sull’intero sistema politico
– sociale del nostro Paese per alzarne il livello qualitativo e raggiungere gli standard che ci separano
anni luce dal resto dei nostri partner europei e non.
Le righe che seguiranno rappresenteranno le mie convinzioni e il mio endorsement sul riformismo,
senza trasformare il tutto in un saggio particolarmente impegnativo o in una guida per chi voglia
confrontarsi e lanciarsi in candidature.
Le pagine che leggerete sono la sintesi dei miei pensieri e la descrizione della cultura politica alla
quale appartengo e che contraddistingue i principali partiti progressisti europei e di derivazione
anglosassone che dovrebbe essere l’elemento portante per i democratici italiani i cui valori fondanti
risiedono nella Costituzione.

1
Sezione 1
Perché il riformismo
L’enciclopedia online Treccani definisce il riformismo: “in genere ogni metodo d’azione politica
che, ripudiando sia i sistemi rivoluzionari sia il conservatorismo, riconosce la possibilità di
modificare l’ordinamento politico sociale esistente solo attraverso l’attuazione di organiche, ma
grandi riforme.
Storicamente il riformismo è legato all’affermazione del sistema parlamentare e alla convinzione
che sia possibile realizzare una trasformazione sociale attraverso lo strumento legislativo.
Il termine fu introdotto nel vocabolario politico in occasione della campagna condotta in Inghilterra,
tra la fine del XVIII e l’inizio del IX secolo per l’allargamento del suffragio elettorale, culminata
nel Great Reform Bill del 1832. Ripreso successivamente nell’ambito del movimento socialista,
assunse un significato più specifico con particolare riferimento alla contrapposizione tra riforme e
rivoluzione, nella prospettiva del superamento dei rapporti capitalistici di produzione e del
corrispondente assetto politico. La corrente riformista, ossia la tendenza favorevole a un’azione
gradualistica che privilegiava l’azione legale e le rivendicazioni immediate dei lavoratori, fu alla
base dello sviluppo del movimento sindacale e politico di vari paesi europei.
A partire dalla seconda metà del XX secolo si definiscono riformisti i partiti socialdemocratici o
socialisti che hanno abbandonato l’ideologia marxista e che si propongono quindi non di superare il
capitalismo, ma di correggerne i difetti”1.
Come riportato nella citazione il riformismo affinché possa esistere necessita di alcune condizioni:
democrazia - rappresentata dal primato del sistema parlamentare - e conseguente società aperta e la
convinzione di poter attuare riforme organiche di sistema attraverso lo strumento legislativo che a
loro volta, a parere di chi scrive possono attuarsi solo se l’intero sistema politico-istituzionale (che
dovrebbe veder la presenza di un partito riformista) sia efficiente e non aver timore della sfida del
nuovo a discapito del conservatorismo.
È necessaria la presenza di un partito fortemente riformista per avviare quel necessario processo di
riforme avvertite ed annunciate nel corso di questi anni senza mai attuarle se non interrotte dopo
poco aver iniziato l’iter parlamentare. Un partito riformista ha sempre la carta fondamentale come
guida nel proprio percorso politico, sarebbe impensabile essere riformisti distanziandosi dai diritti e
dai valori fondamentali presenti nella costituzione, questo vale per il Partito Democratico
statunitense – ai quali valori è saldamente ancorato così come il Partito Repubblicano, essendo
quest’ultimo conservatore - e con lo stesso rigore deve essere percepito ed attuato dal Partito
Democratico italiano. Uno dei nodi più difficili da sciogliere consiste nell’individuare le
caratteristiche del Partito Democratico, l’identità, il sentiero politico che intende intraprendere,
2
quale visione della società possiede e vuole trasmettere, quali valori da difendere e quali da
cambiare o introdurre nella collettività, quale tipo di organizzazione dotarsi.
Tutto questo potrebbe facilmente deviare il discorso sul congresso del partito che si celebrerà nei
prossimi mesi, ma secondo me la questione base da chiarire è l’identità che il partito vuole
assumere, perché difficilmente potrà realizzarsi la stagione riformista di cui l’Italia ha estremamente
bisogno per abbandonare definitivamente l’ultimo ventennio che ha aggravato i problemi senza
offrire una soluzione credibile.
Il Pd dovrebbe chiarire e scegliere definitivamente la sua collocazione europea di forza politica, non
può più indugiare in questa scelta, perché non avendo chiaramente davanti agli occhi chi si vuol
essere difficilmente potrà riempire di contenuto politico lo spazio che occupa. In tempi recenti –
prima del voto dello scorso febbraio – è stata spesso utilizzato in riferimento al Pd il termine
“progressista”, eravamo tutti progressisti facenti parte di una casa più ampia – quella europea – che
ci avrebbe ispirato e guidato in un percorso sovranazionale; sono stato e sono pienamente d’accordo
nel definire il Pd progressista, solo che la definizione di progresso è preceduta dall’aggettivo
“democratico”, al quale affiancando l’obbiettivo del progresso si traccia la rotta e si guarda a ciò
che si deve realizzare. Negli ultimi mesi si è un po’ smarrita l’identità democratica, quasi fosse
un’entità astratta della quale nessuno vede o percepisce niente per essere quasi sostituita dal
progressismo. Ma io credo e sostengo che il progresso non si può raggiungere senza una forte
componente (non nel senso di corrente ma intesa come elemento identitario) democratica che miri
alla costruzione del progresso sociale per tutte le varie classi sociali della nazione. Così Veltroni ha
offerto una spiegazione dell’aggettivo democratico in un articolo apparso su la Repubblica dello
scorso mese di aprile sulla quale mi trova in pieno accordo: “essere democratici è attingere alla più
vitale delle culture politiche del riformismo. Quella che si è manifestata con le grandi conquiste
sociali e civili, da Roosevelt a Obama. È un’identità post ideologica fondata sulla convivenza di
valori di valori puri e di un riformismo realista…..Essere democratici significa considerare
intangibili valori come la legalità e la giustizia sociale, avere una cultura aperta dei diritti e una
idea della società come una comunità inclusiva. Significa sapere che la società civile non è solo un
deposito di rabbia da usare elettoralmente”2.
Come avete potuto notare, partito e riformismo non sono due binari che viaggiano paralleli in attesa
di un’eventuale congiunzione ma sono due elementi imprescindibili l’uno verso l’altro per costruire
un nuovo orizzonte e un diverso tipo di società. Il Pd deve decidere se continuare ad essere la
singola somma di portatori nostalgici delle culture e ideologie precedenti oppure diventare quel
soggetto nuovo, post-ideologico in grado di unire la speranza, le buone intenzioni con la praticità
decisionale di migliorare le condizioni economiche e socio-culturali dei propri concittadini. Il Pd
non ha bisogno di copiare metodi organizzativi di altre forze politiche appartenenti alla stessa casa
comune dei progressisti europei, non deve mettere in pratica una semplice e banale operazione di
maquillage di pezzi di altre entità ma scegliere di essere quel soggetto fortemente democratico
capace di crearsi e rinnovarsi per essere il più vicino possibile alle esigenze della società e capace di
interpretare i mutamenti delle variabili storiche che si riflettono sull’intero sistema Italia.

3
Un primo passo da compiere per un partito riformatore o che ad esso tende, è il riformismo di prima
istanza, ossia la capacità di non giustificare il ruolo politico come esercizio di una professione ma
creare il valore dello spirito di servizio per la causa comune e di dotarsi di un’organizzazione
efficace per poter assolvere il difficile ruolo di riformare il Paese, che comporta dapprima la
capacità di riformare sé stessi; perché un’organizzazione di partito che non risulti essere saldamente
costituita, intesa ed attuata, difficilmente potrà apportare un contributo rilevante nell’azione di
governo del partito. Bisogna riformare il partito in quegli elementi che comportano uno squilibrio
tra gli incarichi istituzionali evitando l’introduzione e la conseguente applicazione delle deroghe che
per soddisfare interessi di parte chiudono e circoscrivono il partito a sé stesso non consentendo la
più ampia partecipazione ed anche il rinnovamento che caratterizza un partito riformista. Vi è la
necessità di creare un luogo comune nel quale tutti i cittadini interessati possono incontrarsi,
discutere, partecipare alle scelte da compiere e liberamente contendersi ogni incarico sulla base
della competizione e non di un antico senso di appartenenza a logiche ristrette; un luogo nel quale
per ciascun incarico politico siano oggetto di attenzione le qualità personali dei partecipanti alla
competizione e il linguaggio parlato nella società e non circoscritte lobby di partito. Occorre inoltre
mirare ad un più vero e completo radicamento sul territorio, attraverso il quale mettersi a completo
servizio dei cittadini offrendo l’impegno della formazione all’impegno civico di chi vuole occuparsi
della vita degli altri; dimostrare vicinanza e capacità di ricezione e interpretazione delle opinioni
che si formano tra i cittadini. In altre parole, rendere il partito uno strumento e un mezzo nel quale
chi liberamente sceglie di dedicare parte del suo tempo alla propria comunità non trovi ostacoli
burocratici e organismi oligarchici a sbarrargli la strada, ma applicazione diretta dei principi di
libera partecipazione, competizione all’assunzione di incarichi nel partito e soprattutto
contendibilità delle rappresentanze politiche all’interno dell’organizzazione. Un partito moderno e
aperto, del quale l’apertura non assume significato di tenere semplicemente la sezione aperta ma il
consentire la piena realizzazione intellettuale e pragmatica dei tanti individui che formano la grande
platea del noi nell’istituzione partito e nella comunità.
Un esperimento ancora controverso sono state le c.d. primarie, aperte in una prima fase e ristrette
nell’ultima. Personalmente credo che le primarie debbano essere aperte per lasciar spazio all’idea di
libera formazione del pensiero politico e consentire un’autonomia di giudizio ad ogni singolo
elettore sulla valutazione di una qualunque componente dell’organizzazione. Circoscrivere le
primarie giustificherebbe il conservatorismo che come abbiamo già detto (leggere la definizione), è
uno dei poli opposti del riformismo. Rischiare, non aver timore di qualcosa di nuovo, è qui che
risiede secondo me la più grande opera di rinnovamento del partito, perché ciò che salta agli occhi
dell’elettore primario non è il nome di un candidato a qualcosa – appartenente ad una corrente o un
totale sconosciuto – ma il progetto, le idee, le intenzioni, le parole che questi utilizza e la sua
visione della società che intende realizzare. Per contrastare l’idea delle primarie c’è chi afferma –
osservando quanto accaduto negli Usa nel corso di questi due secoli di organizzazione politica –
come conseguenza diretta di esse, l’aver provocato la scomparsa dei partiti anziché un’effettiva
democratizzazione. Una tesi che a parere di chi scrive non trova giustificazione data la diversa
organizzazione politica (sia istituzionale che partitica) del sistema statunitense in quanto dopo più di
due secoli il Partito Democratico americano è il partito più antico del mondo che nel terzo
millennio non ha smarrito ma ha rinsaldato quel riformismo di prima istanza che lo ha riportato alla
4
guida della nazione dopo otto anni e che da un ventennio a questa parte lo ha visto sempre
primeggiare nel voto popolare dei cinquantadue stati in occasione di ogni elezione presidenziale.
Quanto detto sull’impostazione di partito credo valga in pari valore anche per l’istituzione – dal
Comune al Parlamento o meglio negli eletti – perché è da un’organizzazione istituzionale aperta che
si crea una società inclusiva.
Può sembrare un controsenso, aprire le porte delle istituzioni oltre quanto già viene mostrato tramite
i mezzi di comunicazione ad hoc della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica che
trasmettono in diretta i lavori parlamentari (comprese le commissioni), ma nel corso degli ultimi
decenni gli eletti hanno trasformato il ruolo pro tempore di amministratori dello Stato e di
rappresentanza dell’elettorato in una professione, in un privilegio del quale anche qui poche
oligarchie possono usufruirne a discapito di migliaia di cittadini che dedicano alla politica parte del
loro tempo e che potrebbero offrire un contributo straordinario negli organi decisori della vita della
Repubblica.
Tutto ciò appare un controsenso, un qualcosa di straordinario nella sua accezione negativa, facendo
partecipare chiunque alla vita istituzionale rallentando così i tempi delle decisioni e dei lavori.
Effettivamente può essere difficile su scala nazionale dove i numeri sono altissimi e sarebbe
estremamente difficile consultare il popolo, ma sui livelli più bassi, soprattutto nelle città, questo
potrebbe avvenire con più facilità dato il contesto più ristretto. Un’istituzione aperta non è sinonimo
di inefficienza e tempi di lavoro lenti, al contrario, rappresenterebbe un quadro in cui attuare il
programma di governo sul quale si è chiesto il voto e rendere la vita degli elettori più partecipativa.
In un contesto storico come il tempo presente, caratterizzato dalla crisi e da molte difficoltà –
soprattutto finanziarie – un’istituzione (intesa come chi esercita le cariche elettive) riformata da
politici riformisti non avrebbe paura timore di confrontarsi con la società civile e spiegare le scelte
che sono state fatte oppure ampliare il dibattito ex ante. Sono anche le abitudini degli eletti che
possono cambiare la cultura di un popolo. Nei paesi, città, province e regioni, - i quattro contesti
che renderebbero questa concezione di istituzione aperta più fattibile – non penso sia qualcosa di
abnorme se un’amministrazione intera (come la giunta) o i principali esponenti di essa (un sindaco
o un presidente di provincia o regione), periodicamente si espongono ad un dibattito sereno ed
onesto con le proprie comunità sull’azione amministrativa intrapresa, perché non c’è niente di più
democratico che coinvolgere i propri elettori e soprattutto chi sul programma con il quale ti sei
rappresentato non ti ha donato il suo voto.
Un esempio forse esplica in maniera più esaustiva questo pensiero: prendiamo in esame una
fattispecie concreta che si realizza in Melfi (così come in tanti altri contesti). Vi è necessità di dover
riparare il manto stradale che a causa delle intemperie, dell’elevata circolazione dei veicoli e della
stagione invernale è stato danneggiato. La risposta più semplice che viene offerta a chiunque provi
ad accennare a questo è la famosa frase: “non ci sono soldi”. Non c’è nulla di più sbagliato che un
concittadino possa accettare, in considerazione del bilancio in attivo dell’amministrazione. Dunque,
l’istituzione amministrata da una classe politica riformista come potrebbe muoversi? Sono diverse
le strade che potrebbero essere intraprese: 1. Gli amministratori locali richiedono un contributo
straordinario da versare all’erario comunale e spiegano la scelta serenamente di fronte alla
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cittadinanza in un incontro pubblico; 2. Gli stessi amministratori organizzano un’assemblea
pubblica (anche se potrebbe farlo il partito più riformista) nella quale portano a conoscenza la
cittadinanza del perché non sia possibile risolvere in quel momento quel tipo di problema cercando
di informare la comunità sull’elemento che impedisce la risoluzione del problema (es. il patto di
stabilità); 3. Gli amministratori in pubblica sede di confronto su temi discretamente difficili
descrivono i pro e i contro delle scelte che si accingono ad effettuare porgendo l’attenzione anche
ad eventuali accorgimenti o criticità suggerite con chi ci si confronta.
Tutto ciò non significa che nell’adozione di una linea politica da seguire le amministrazioni devono
chiedere consiglio ai cittadini amministrati, sarebbe soltanto una farsa come già ha dimostrato il
metodo citato applicato da un movimento attualmente presente nelle aule parlamentari e deleterio
tanto per l’istituzione quanto per il partito riformista che la guida, perché dimostra la sua totale
incapacità di scelta e decisoria.
Un partito riformista, ha le idee ben chiare sulla collocazione e sull’impronta qualitativa e
identitaria della propria comunità che vuole creare, ma non per questo deve rinunciare all’apertura a
trecentosessanta gradi, della sua capacità politico-amministrativa di guida. L’esempio richiamato,
come ho già accennato, è più semplice renderlo applicabile in una piccola comunità, anche se a mio
parere, si dispongono di tutti i mezzi per poter allargare il contesto ai livelli superiori. E il caso
esemplare potrebbe essere l’introduzione di una nuova tassa a livello statale per poter gestire
un’emergenza economica. Come potrebbe un governo far questo senza allarmare il Paese per
l’introduzione di una nuova tassa che graverebbe oltre il dovuto sugli equilibri economici delle
famiglie italiane? Il Presidente del Consiglio potrebbe andare in tv (vedi Il Presidente Kennedy tra il
1961 e il 1963) e spiegare alla nazione le motivazioni della scelta di introdurre la nuova tassa,
cercando di porre l’attenzione non sul gettito economico che questa comporta ma sul come
intendere questo ulteriore sforzo fiscale che si chiede. Sono convinto che a parte le manovre
politiche avverse all’azione di governo, se si è onesti e si spiega efficacemente il progetto che si
vuole attuare, cambierebbe il modo di intendere quel sacrificio che si chiede, perché si vuole
realizzare qualcosa a vantaggio della collettività coinvolgendo chi materialmente contribuirà non
solo economicamente ma anche nei principi e nei metodi. Il riformismo è anche lungimiranza. E se
la cultura, il modo di intendere la vita pubblica e l’amministrazione di un’istituzione non riesce a
farla evolvere un soggetto riformista, il conservatorismo e il populismo non solo continueranno ad
occupare spazio, ma aggraveranno ciò che già di negativo coinvolge alcuni settori della nazione.
È il senso di far sentire e consentire partecipi i cittadini che alzano il livello di un popolo e di uno
Stato, l’individualismo non ha mai creato effetti positivi nel lungo periodo, ha illuso nel breve
periodo di essere l’arma risolutrice di un problema, presentando un benessere finto pro tempore, per
poi far precipitare la situazione non nella situazione appena modificata ma riportandola ad uno
status peggiore delle condizioni di partenza.
Tutto ciò può sembrare utopistico, ma una vera forza riformista cerca, sperimenta convintamente
nuovi metodi e sistemi, sobbarcandosi anche il rischio di un potenziale fallimento, ma come da
definizione richiamata all’inizio, il riformismo altro non è la capacità di cambiare gli aspetti politici
e sociali mediante grandi e poche riforme brillantemente realizzate e cambiare anche se stessi per
6
poter essere lo strumento più idoneo a creare progresso economico e culturale di un unico grande
territorio racchiuso tra i confini d’Alpe a nord e il mar Mediterraneo a sud.

Sezione 2
Valori e Società

Generalmente è il linguaggio dei valori che ognuno di noi usa per guardare il mondo, e questo fa si
che la società sia più aperta ed inclusiva abbandonando l’isolamento.
Una politica riformista deve essere il traino nel volere e costruire una società secondo il dettato
dell’articolo 3 della costituzione e farne un credo comune; mettere in campo soluzioni che tengano
presente che ogni individuo che viene al mondo è destinatario di certi diritti che in alcuna
circostanza a nessuno possono essere negati. Attraverso il nostro agire facciamo quel che vogliamo
per la nostra vita e i riformisti hanno il dovere di trasformare tutte quelle situazioni che ostacolano
il crearsi di condizioni migliori per tutti e non solo per piccole entità sociali.
I riformisti attribuiscono valore alla famiglia e agli obblighi generazionali che questa comporta; alla
comunità, patriottismo, cittadinanza, al senso del dovere del sacrificio in nome della nazione che
garantisce eguali condizioni di partenza affinché si possa esprimere nel miglior modo possibile la
propria personalità. Attribuiscono valore alla fede – che può tradursi in una religione formale o in
precetti etici – e in tutto ciò che esprime il nostro rispetto reciproco: onestà, equità, umiltà,
gentilezza, cortesia e compassione1.
Tutti i riformisti sono consapevoli che l’autonomia e l’indipendenza possono trasformarsi in
egoismo e sregolatezza, il patriottismo in xenofobia, la fede e la sicurezza delle proprie ragioni in
chiusura mentale e crudeltà verso il prossimo, il tendere alla carità in un rifiuto alla capacità di
farcela da soli. Un’azione riformista sradica valori – tristemente affermati in questi anni – come il
successo facile, l’aggirare gli ostacoli perché inglobati in un sistema di particolari conoscenze che
garantiscono qualunque accesso, il non cercare l’indipendenza perché si ha qualcuno sul quale
attingere e cercare assistenza perpetua, il rifiuto di una responsabilità personale nell’aver ottenuto
con qualunque mezzo ciò che si desidera ed afferma convintamente il valore dell’indipendenza,
disciplina, l’esser disposti a rischiare per realizzare il proprio essere e raggiungere i propri desideri,
il duro lavoro e la presenza costante di una responsabilità personale in ogni comportamento che si
pone in essere nella comunità.
Mentre la legge sui diritti civili del 1964 e la legge sul diritto di voto del 1965 erano ancora in
discussione Martin Luther King replicò in un intervento: “Forse è vero che la legge non può
convincere un uomo ad accettarmi, ma può impedirgli di linciarmi, e penso che questo abbia una
sua importanza”2. Chiunque si definisca riformista o riformatore non può non comprendere che la
società attuale necessita di un non più rinviabile cambiamento culturale e la costituzione di una
7
nuova società e per poter realizzare questo progetto deve cambiare anche la politica (il capitolo
precedente ha occupato spazio sufficiente su questo tema). È decisamente il tempo che la politica –
ed una classe politica riformista – sali in cattedra nella nazione per affermare che nessuna ricchezza
economica posseduta è in grado di produrre risultati positivi se non si sono ricevuti gli insegnamenti
del duro lavoro e della gratificazione a lungo termine; vana è la pretesa di ottenere maggiore
conoscenza se la cultura è costantemente depotenziata e la moralità demonizzata. In questo istante
si tradiscono i nostri valori, e solo un’efficace, stabile e duratura stagione riformista è in grado di
superare le negatività ricordate.
Pensare ad una società fondata sui valori comuni, senso diffuso di mutua responsabilità e solidarietà
sociale espresse non solo in luoghi circoscritti della vita personale di un individuo (famiglia, lavoro,
ecc.) ma nell’intera comunità alla quale si appartiene e nelle azioni di governo riformiste,
determinano che i democratici siano la principale rappresentazione del riformismo. I democratici
credono nella cultura come strumento per il successo individuale e la coesione sociale. Il principio
guida di un riformismo volto al progresso sociale deve essere: “Come pensi ti farebbe sentire?”,
perché per la trasformazioni di una società nella quale gli italiani (soprattutto i più giovani
purtroppo) osannano l’essere ricchi, magri, famosi è d’obbligo e per i riformisti lo è, andare oltre i
propri limiti e la propria visione.
Finora è stato applaudito chiunque abbia affermato di avere a cuore le generazioni attuali e future
ma pochissimo si è riusciti a realizzare; si afferma di credere nelle pari opportunità e nella famiglia,
ma nessuna misura adottata è stata sufficientemente efficace ed incisiva per creare
un’organizzazione del lavoro che incentivi lo sviluppo della famiglia ed ampli lo spazio temporale
da dedicare ad essa nell’arco di una giornata di un italiano medio; totalmente assente è stata la reale
valorizzazione delle donne, c’è voluta una legge sulle quote rosa per introdurre nella società questo
principio. I riformisti non avrebbero mai legiferato in questa materia perché le pari opportunità sono
una condizione di partenza riconosciuta.
Se si vuol davvero far evolvere la società italiana bisogna pagare un prezzo per i nostri valori ed
essere disposti a qualunque sacrificio per realizzarli. Si parte dal chiedersi se in quei valori
realmente si crede ed agire di conseguenza. Solo i riformisti hanno un vero interesse a creare una
società moderna e seria, si pongono l’interrogativo e gli rispondono realizzando gli obbiettivi fissati
assumendosi il rischio di affrontare una sfida utopistica e tanto grande da far perdere anche qualche
voto per strada, perché il dovere morale è governare per il progresso e il bene comune in una società
onnicomprensiva e non escludente fondata sulla demonizzazione delle diversità.

8
Sezione 3
Esempi di riformismo
Il primo esempio di riformismo che voglio ricordare è il New Deal degli anni ’30 del 1900 - attuato
dal presidente Franklin Delano Roosevelt – un insieme di interventi e riforme su spesa pubblica,
politica monetaria e tassazione.
Nei primi cento giorni la presidenza Roosevelt inviò al congresso una lunga serie di disegni di
legge, messaggi, ed esortazioni. “Il congresso approvò in quindici giorni provvedimenti in favore
dei disoccupati, dell’industria, dell’agricoltura, del lavoro, dei trasporti, del sistema bancario,
della moneta”1. Tra le misure adottate in questa fase – successivamente ribattezzata “Primo New
Deal” – ricordiamo: il “Federal Emergency Act che autorizzò uno stanziamento di 500 milioni di
dollari da assegnare agli stati per sussidi diretti; l’attuazione di questo programma fu affidata a un
operatore sociale di New York, Harry Hopkins, convinto assertore della necessità che il governo,
per rispetto nei confronti del disoccupato, dovesse fornirgli un’occupazione retribuita anziché
limitarsi a versargli un sussidio. Vennero messi a punto progetti di ogni tipo per dare lavoro ai
disoccupati: manutenzione stradale, costruzione di scuole, parchi, campi-gioco. Durante l’inverno
del 1934, più di quattro milioni di persone lavorarono a queste opere pubbliche. Un altro
provvedimento assistenziale istituì il Civilian Conservation Corps (CCC), un’organizzazione che
assumeva giovani disoccupati per lavorare a progetti di tutela dell’ambiente.
Durante i “cento giorni” il congresso approvò anche l’istituzione della Public Works
Administration, un ente che, con uno stanziamento di 3,3 miliardi di dollari e sotto la direzione del
ministro degli interni Harold Ickers, costruì scuole, tribunali, ospedali, dighe, ponti, strade, edifici
pubblici, persino portaerei.
Una realizzazione che diede risultati altamente spettacolari fu la Tennessee Valley Authority (TVA),
uno degli enti più noti e ammirati tra quelli creati dal New Deal […]. La TVA costruì dighe e
centrali idroelettriche per garantirsi la disponibilità di energia a basso prezzo e si impegnò nella
realizzazione di un programma di controllo delle acque, di recupero delle terre incolte, di
forestazione, costruendo inoltre case, scuole, centri ricreativi. La disponibilità di energia elettrica
a basso costo non attirò tutte le industrie che si era sperato, ma l’opera della TVA contribuì a
migliorare nettamente le condizioni di vita in tutto il bacino del fiume Tennessee”2.
Il New Deal non fu solo adozione di misure economiche, non vennero tralasciate le riforme volte al
rafforzamento del sistema bancario al fine di prevenire i fallimenti degli anni ’20. Seguirono negli
anni 1933 e 1934 il “Glass – Steagall Banking del 1933 che estese i poteri del sistema federale di
riserva, vietò alle banche commerciali di operare nel settore degli investimenti finanziari, limitò il
ricorso al credito bancario per fini speculativi, e soprattutto creò la Federal Bank Deposit
Insurance Corporation che garantiva la copertura dei depositi dei singoli risparmiatori fino
all’ammontare di 5000 dollari.
9
Il Federal Securities Act del 1933 rese obbligatoria una seria documentazione per le nuove
emissioni di titoli e una preventiva registrazione presso la commissione per il commercio.
Il Securities and Exchange Act del 1934 attribuì poi questo compito a una specifica commissione
per i titoli e la borsa che ebbe anche ampi poteri per regolamentare i mercati azionari. Il
provvedimento cercò inoltre di prevenire speculazioni come quelle del 1929 vietando la cessione di
azioni “a termine” senza il pagamento di almeno il 55% del valore delle transazioni”3.
Le politiche del New Deal iniziarono a produrre i primi risultati nel 1935 con l’istituzione della
“Works Progress Aministration (WPA, poi ribattezzata Works Projects Administration), allo scopo
di gestire nuove misure destinate a prendere il posto dei provvedimenti d’emergenza del 1933. Da
quel momento gli interventi diretti in materia di assistenza vennero attribuiti alle autorità locali,
mentre la WPA doveva concentrare i suoi sforzi su programmi che creassero nuovi posti di lavoro.
Nel giro di otto anni l’ente diede un’occupazione a otto milioni e mezzo di persone, spendendo
circa undici miliardi di dollari […]. La WPA costruì, restaurò o ampliò un gran numero di strade,
ponti edifici scolastici, ospedali, aeroporti, portando a termine anche progetti di risanamento
urbano e opere di rimboschimento.
I progetti più singolari della WPA furono quelli destinati ad aiutare scrittori, artisti e attori
disoccupati. Il Federal Writers’ Project curò la redazione di una serie di guide statali e regionali di
ottimo livello, catalogò archivi storici, curò schedari per la consultazione dei quotidiani, pubblicò
opere di storia locale e raccolte sul folclore regionale, riunì le testimonianze degli ex schiavi negri
ancora viventi. Il Federal Arts Project offrì a parecchie migliaia di artisti senza lavoro
l’opportunità di abbellire uffici postali, scuole, biblioteche, tribunali e altri edifici pubblici con
affreschi ispirati alle vicende della storia degli Stati Uniti o al mondo del lavoro.
Nell’ambito del Federal Music Project orchestre organizzate dalla WPA tennero concerti sinfonici
cui presenziarono oltre cento milioni di persone, e furono organizzati corsi musicali cui
parteciparono oltre mezzo milione di alunni al mese. Ancora più temerario e bersaglio di infinite
critiche fu il Federal Theater Project: le sue compagnie itineranti, che davano lavoro a circa
12.500 attori e tecnici, misero in scena una serie di spettacoli teatrali (spesso sperimentali), di
balletti, di spettacoli di marionette e di rappresentazioni circensi in cittadine dove non si era mai
visto nulla del genere”4.
La riforma più innovativa approvata dal congresso durante il lungo periodo del New Deal fu il
National Labor Relations Act. “La nuova legge, ben presto ribattezzata familiarmente Wagner Act,
chiarì che il governo appoggiava in concreto e senza riserve il diritto dei lavoratori di associarsi in
sindacato. Essa istituì, in sostituzione della soppressa NRA5, un nuovo ente nazionale autorizzato a
sottoscrivere contratti per conto dei lavoratori e anche a impedire alla direzione delle aziende il
ricorso a pratiche irregolari come la stesura di “liste nere” e i “sindacati d’impresa”. La legge
estese notevolmente il ruolo del governo nelle relazioni industriali e aprì la strada a un incremento
senza precedenti del numero degli iscritti ai sindacati e del potere di queste associazioni”6.

10
Il secondo esempio degno di nota di riformismo si è manifestato non più tardi di quindici anni fa,
quando con le elezioni politiche inglesi del 1997, i laburisti dopo 18 anni di opposizione ritornano
al governo con Tony Blair.
Con Blair premier la Gran Bretagna ha conosciuto una grande stagione riformista, soprattutto nei
settori istruzione, welfare e sanità insieme ad altri ambiti di intervento. La più grande riforma (come
strategia unica che ha consegnato al Regno Unito il lungo periodo di riforme) attuata dal governo
laburista si è concentrata sull’efficienza del settore pubblico mediante l’attuazione della Delivery
Unit che ha determinato la riduzione delle liste di attesa negli ospedali del servizio sanitario
nazionale in parallelo con l’apertura agli investimenti privati nella sanità, il miglioramento dei
risultati nei test nazionali standard di matematica delle scuole elementari grazie alla strategia per
l’aritmetica che insieme a maggiore libertà per le scuole ed un sistema delle tasse universitarie
ispirato al modello statunitense hanno prodotto i primi risultati positivi già durante il corso della
seconda legislatura. Si è ritoccato il sistema del welfare mediante l’indipendenza dai sussidi, sono
stati istituiti i primi ospedali privatizzati, si è riformata la legge sul diritto d’asilo (che ha previsto
l’espulsione per chi si vede negata la richiesta di asilo dopo accordi con i paesi d’origine affinché
questi non applichino la tortura o la pena di morte e rispettino le leggi europee sui diritti umani per i
rimpatriati), si è creata concorrenza nel settore privato è stata emanata una legislazione contro i
comportamenti antisociali ed è stato introdotto un nuovo sistema di formazione per il personale
delle strutture di assistenza all’infanzia7.
Mi sono volutamente soffermato su questi due esempi di riformismo che hanno coinvolto nel lungo
periodo le nazioni che hanno visto realizzarsi le politiche qui accennate, ma occorre sapere che il
riformismo non ha esaurito la sua funzione negli Stati Uniti degli anni ’30 e nella Gran Bretagna di
fine ‘900 e inizio del 2000; si ricorda il riformismo tedesco simultaneamente al periodo inglese con
Gerhard Schröeder, l’autore dell’Agenda 2010 che ha rilanciato l’economia e lo stato sociale della
Germania posizionandola sul gradino più alto del podio delle economie europee ed è attualmente in
corso negli Stati Uniti d’America sotto la presidenza democratica guidata da Barack Obama che ha
approvato tre anni fa la riforma sanitaria (la c.d. Obama Care) in favore dei ceti più deboli
garantendone così l’assistenza (e qui si capisce che il riformismo non è distante dai diritti ma li
rafforza e ne crea di nuovi), e le leggi sulle energie alternative, immigrazione e diritto allo studio
universitario attualmente in discussione nel Congresso americano.

11
Sezione 4
Conclusioni

Mi rendo conto che tre o quattro esempi forse non sono sufficienti per descrivere ampiamente quel
fantastico mondo politico che è il riformismo – non sarebbero né sufficienti né esaurienti queste
poche pagine – che tramite questo scritto ho cercato di far capire come quanto sia necessaria in
Italia aprire una stagione riformista che modifichi le consuetudini negative di questo lungo periodo
che viaggia in un tunnel buio del quale si fatica a vedere la luce.
Io penso che il riformismo sia l’unica ancora di salvezza per la nazione e per tutti noi, a maggior
ragione in un contesto di crisi come l’attuale, perché il protagonista di questo scritto come
largamente dimostrato da autori più autorevoli del sottoscritto e da uomini politici che hanno
guidato e guidano tre delle otto potenze mondiali offre il meglio di sé nei momenti particolarmente
difficili della nostra storia. Spero di aver fornito adeguati spunti di riflessione non per creare un
movimento o una corrente, ma un nuovo modo di pensare la politica, il partito e le istituzioni.
Vincenzo Mongelli

12
NOTE E BIBLIOGRAFIA

Sezione 1
1. http://www.treccani.it/enciclopedia/riformismo/
2.http://www.repubblica.it/politica/2013/04/08/news/walter_veltroni_lettera_a_repubblica_evitiamo_le_sciss
ioni_per_salvare_il_pd-56165880/?ref=search

Sezione 2
1. OBAMA Barack, 2008, L’audacia della speranza, BURextra
2. Martin Luther King, op.cit. OBAMA Barack, 2008, L’audacia della speranza, pag.78
3. OBAMA Barack, 2008, L’audacia della speranza, BURextra

Sezione 3
1. Jones Maldwyn A., 2011, Storia degli Stati Uniti d’America, pag.415
2. Jones Maldwyn A., 2011, Storia degli Stati Uniti d’America, pag.416
3. Jones Maldwyn A., 2011, Storia degli Stati Uniti d’America, pag.417
4. Jones Maldwyn A., 2011, Storia degli Stati Uniti d’America, pagg.419-420
5. sta per National Rifle Association
6. Jones Maldwyn A., 2011, Storia degli Stati Uniti d’America, pag.421
7. Blair Tony, 2010, Un viaggio, Rizzoli

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Il Riformismo

  • 1. RIFORMISMO Un modo di essere volto al progresso Premessa L’attuale contesto storico evidenzia le mancanze di un’intera classe politica dalle quali le istituzioni appaiono immobili e incapaci di far fronte alle istanze dei cittadini da un lato e di governare efficacemente tanto i fenomeni interni quanto quelli provenienti dall’esterno. Oggi più che mai penso, sia tanto necessaria quanto utile avviare e portare a compimento una stagione riformista – che l’Italia non ha mai conosciuto così come una vera rivoluzione al pari di quella francese, inglese o americana - in grado di incidere sensibilmente sull’intero sistema politico – sociale del nostro Paese per alzarne il livello qualitativo e raggiungere gli standard che ci separano anni luce dal resto dei nostri partner europei e non. Le righe che seguiranno rappresenteranno le mie convinzioni e il mio endorsement sul riformismo, senza trasformare il tutto in un saggio particolarmente impegnativo o in una guida per chi voglia confrontarsi e lanciarsi in candidature. Le pagine che leggerete sono la sintesi dei miei pensieri e la descrizione della cultura politica alla quale appartengo e che contraddistingue i principali partiti progressisti europei e di derivazione anglosassone che dovrebbe essere l’elemento portante per i democratici italiani i cui valori fondanti risiedono nella Costituzione. 1
  • 2. Sezione 1 Perché il riformismo L’enciclopedia online Treccani definisce il riformismo: “in genere ogni metodo d’azione politica che, ripudiando sia i sistemi rivoluzionari sia il conservatorismo, riconosce la possibilità di modificare l’ordinamento politico sociale esistente solo attraverso l’attuazione di organiche, ma grandi riforme. Storicamente il riformismo è legato all’affermazione del sistema parlamentare e alla convinzione che sia possibile realizzare una trasformazione sociale attraverso lo strumento legislativo. Il termine fu introdotto nel vocabolario politico in occasione della campagna condotta in Inghilterra, tra la fine del XVIII e l’inizio del IX secolo per l’allargamento del suffragio elettorale, culminata nel Great Reform Bill del 1832. Ripreso successivamente nell’ambito del movimento socialista, assunse un significato più specifico con particolare riferimento alla contrapposizione tra riforme e rivoluzione, nella prospettiva del superamento dei rapporti capitalistici di produzione e del corrispondente assetto politico. La corrente riformista, ossia la tendenza favorevole a un’azione gradualistica che privilegiava l’azione legale e le rivendicazioni immediate dei lavoratori, fu alla base dello sviluppo del movimento sindacale e politico di vari paesi europei. A partire dalla seconda metà del XX secolo si definiscono riformisti i partiti socialdemocratici o socialisti che hanno abbandonato l’ideologia marxista e che si propongono quindi non di superare il capitalismo, ma di correggerne i difetti”1. Come riportato nella citazione il riformismo affinché possa esistere necessita di alcune condizioni: democrazia - rappresentata dal primato del sistema parlamentare - e conseguente società aperta e la convinzione di poter attuare riforme organiche di sistema attraverso lo strumento legislativo che a loro volta, a parere di chi scrive possono attuarsi solo se l’intero sistema politico-istituzionale (che dovrebbe veder la presenza di un partito riformista) sia efficiente e non aver timore della sfida del nuovo a discapito del conservatorismo. È necessaria la presenza di un partito fortemente riformista per avviare quel necessario processo di riforme avvertite ed annunciate nel corso di questi anni senza mai attuarle se non interrotte dopo poco aver iniziato l’iter parlamentare. Un partito riformista ha sempre la carta fondamentale come guida nel proprio percorso politico, sarebbe impensabile essere riformisti distanziandosi dai diritti e dai valori fondamentali presenti nella costituzione, questo vale per il Partito Democratico statunitense – ai quali valori è saldamente ancorato così come il Partito Repubblicano, essendo quest’ultimo conservatore - e con lo stesso rigore deve essere percepito ed attuato dal Partito Democratico italiano. Uno dei nodi più difficili da sciogliere consiste nell’individuare le caratteristiche del Partito Democratico, l’identità, il sentiero politico che intende intraprendere, 2
  • 3. quale visione della società possiede e vuole trasmettere, quali valori da difendere e quali da cambiare o introdurre nella collettività, quale tipo di organizzazione dotarsi. Tutto questo potrebbe facilmente deviare il discorso sul congresso del partito che si celebrerà nei prossimi mesi, ma secondo me la questione base da chiarire è l’identità che il partito vuole assumere, perché difficilmente potrà realizzarsi la stagione riformista di cui l’Italia ha estremamente bisogno per abbandonare definitivamente l’ultimo ventennio che ha aggravato i problemi senza offrire una soluzione credibile. Il Pd dovrebbe chiarire e scegliere definitivamente la sua collocazione europea di forza politica, non può più indugiare in questa scelta, perché non avendo chiaramente davanti agli occhi chi si vuol essere difficilmente potrà riempire di contenuto politico lo spazio che occupa. In tempi recenti – prima del voto dello scorso febbraio – è stata spesso utilizzato in riferimento al Pd il termine “progressista”, eravamo tutti progressisti facenti parte di una casa più ampia – quella europea – che ci avrebbe ispirato e guidato in un percorso sovranazionale; sono stato e sono pienamente d’accordo nel definire il Pd progressista, solo che la definizione di progresso è preceduta dall’aggettivo “democratico”, al quale affiancando l’obbiettivo del progresso si traccia la rotta e si guarda a ciò che si deve realizzare. Negli ultimi mesi si è un po’ smarrita l’identità democratica, quasi fosse un’entità astratta della quale nessuno vede o percepisce niente per essere quasi sostituita dal progressismo. Ma io credo e sostengo che il progresso non si può raggiungere senza una forte componente (non nel senso di corrente ma intesa come elemento identitario) democratica che miri alla costruzione del progresso sociale per tutte le varie classi sociali della nazione. Così Veltroni ha offerto una spiegazione dell’aggettivo democratico in un articolo apparso su la Repubblica dello scorso mese di aprile sulla quale mi trova in pieno accordo: “essere democratici è attingere alla più vitale delle culture politiche del riformismo. Quella che si è manifestata con le grandi conquiste sociali e civili, da Roosevelt a Obama. È un’identità post ideologica fondata sulla convivenza di valori di valori puri e di un riformismo realista…..Essere democratici significa considerare intangibili valori come la legalità e la giustizia sociale, avere una cultura aperta dei diritti e una idea della società come una comunità inclusiva. Significa sapere che la società civile non è solo un deposito di rabbia da usare elettoralmente”2. Come avete potuto notare, partito e riformismo non sono due binari che viaggiano paralleli in attesa di un’eventuale congiunzione ma sono due elementi imprescindibili l’uno verso l’altro per costruire un nuovo orizzonte e un diverso tipo di società. Il Pd deve decidere se continuare ad essere la singola somma di portatori nostalgici delle culture e ideologie precedenti oppure diventare quel soggetto nuovo, post-ideologico in grado di unire la speranza, le buone intenzioni con la praticità decisionale di migliorare le condizioni economiche e socio-culturali dei propri concittadini. Il Pd non ha bisogno di copiare metodi organizzativi di altre forze politiche appartenenti alla stessa casa comune dei progressisti europei, non deve mettere in pratica una semplice e banale operazione di maquillage di pezzi di altre entità ma scegliere di essere quel soggetto fortemente democratico capace di crearsi e rinnovarsi per essere il più vicino possibile alle esigenze della società e capace di interpretare i mutamenti delle variabili storiche che si riflettono sull’intero sistema Italia. 3
  • 4. Un primo passo da compiere per un partito riformatore o che ad esso tende, è il riformismo di prima istanza, ossia la capacità di non giustificare il ruolo politico come esercizio di una professione ma creare il valore dello spirito di servizio per la causa comune e di dotarsi di un’organizzazione efficace per poter assolvere il difficile ruolo di riformare il Paese, che comporta dapprima la capacità di riformare sé stessi; perché un’organizzazione di partito che non risulti essere saldamente costituita, intesa ed attuata, difficilmente potrà apportare un contributo rilevante nell’azione di governo del partito. Bisogna riformare il partito in quegli elementi che comportano uno squilibrio tra gli incarichi istituzionali evitando l’introduzione e la conseguente applicazione delle deroghe che per soddisfare interessi di parte chiudono e circoscrivono il partito a sé stesso non consentendo la più ampia partecipazione ed anche il rinnovamento che caratterizza un partito riformista. Vi è la necessità di creare un luogo comune nel quale tutti i cittadini interessati possono incontrarsi, discutere, partecipare alle scelte da compiere e liberamente contendersi ogni incarico sulla base della competizione e non di un antico senso di appartenenza a logiche ristrette; un luogo nel quale per ciascun incarico politico siano oggetto di attenzione le qualità personali dei partecipanti alla competizione e il linguaggio parlato nella società e non circoscritte lobby di partito. Occorre inoltre mirare ad un più vero e completo radicamento sul territorio, attraverso il quale mettersi a completo servizio dei cittadini offrendo l’impegno della formazione all’impegno civico di chi vuole occuparsi della vita degli altri; dimostrare vicinanza e capacità di ricezione e interpretazione delle opinioni che si formano tra i cittadini. In altre parole, rendere il partito uno strumento e un mezzo nel quale chi liberamente sceglie di dedicare parte del suo tempo alla propria comunità non trovi ostacoli burocratici e organismi oligarchici a sbarrargli la strada, ma applicazione diretta dei principi di libera partecipazione, competizione all’assunzione di incarichi nel partito e soprattutto contendibilità delle rappresentanze politiche all’interno dell’organizzazione. Un partito moderno e aperto, del quale l’apertura non assume significato di tenere semplicemente la sezione aperta ma il consentire la piena realizzazione intellettuale e pragmatica dei tanti individui che formano la grande platea del noi nell’istituzione partito e nella comunità. Un esperimento ancora controverso sono state le c.d. primarie, aperte in una prima fase e ristrette nell’ultima. Personalmente credo che le primarie debbano essere aperte per lasciar spazio all’idea di libera formazione del pensiero politico e consentire un’autonomia di giudizio ad ogni singolo elettore sulla valutazione di una qualunque componente dell’organizzazione. Circoscrivere le primarie giustificherebbe il conservatorismo che come abbiamo già detto (leggere la definizione), è uno dei poli opposti del riformismo. Rischiare, non aver timore di qualcosa di nuovo, è qui che risiede secondo me la più grande opera di rinnovamento del partito, perché ciò che salta agli occhi dell’elettore primario non è il nome di un candidato a qualcosa – appartenente ad una corrente o un totale sconosciuto – ma il progetto, le idee, le intenzioni, le parole che questi utilizza e la sua visione della società che intende realizzare. Per contrastare l’idea delle primarie c’è chi afferma – osservando quanto accaduto negli Usa nel corso di questi due secoli di organizzazione politica – come conseguenza diretta di esse, l’aver provocato la scomparsa dei partiti anziché un’effettiva democratizzazione. Una tesi che a parere di chi scrive non trova giustificazione data la diversa organizzazione politica (sia istituzionale che partitica) del sistema statunitense in quanto dopo più di due secoli il Partito Democratico americano è il partito più antico del mondo che nel terzo millennio non ha smarrito ma ha rinsaldato quel riformismo di prima istanza che lo ha riportato alla 4
  • 5. guida della nazione dopo otto anni e che da un ventennio a questa parte lo ha visto sempre primeggiare nel voto popolare dei cinquantadue stati in occasione di ogni elezione presidenziale. Quanto detto sull’impostazione di partito credo valga in pari valore anche per l’istituzione – dal Comune al Parlamento o meglio negli eletti – perché è da un’organizzazione istituzionale aperta che si crea una società inclusiva. Può sembrare un controsenso, aprire le porte delle istituzioni oltre quanto già viene mostrato tramite i mezzi di comunicazione ad hoc della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica che trasmettono in diretta i lavori parlamentari (comprese le commissioni), ma nel corso degli ultimi decenni gli eletti hanno trasformato il ruolo pro tempore di amministratori dello Stato e di rappresentanza dell’elettorato in una professione, in un privilegio del quale anche qui poche oligarchie possono usufruirne a discapito di migliaia di cittadini che dedicano alla politica parte del loro tempo e che potrebbero offrire un contributo straordinario negli organi decisori della vita della Repubblica. Tutto ciò appare un controsenso, un qualcosa di straordinario nella sua accezione negativa, facendo partecipare chiunque alla vita istituzionale rallentando così i tempi delle decisioni e dei lavori. Effettivamente può essere difficile su scala nazionale dove i numeri sono altissimi e sarebbe estremamente difficile consultare il popolo, ma sui livelli più bassi, soprattutto nelle città, questo potrebbe avvenire con più facilità dato il contesto più ristretto. Un’istituzione aperta non è sinonimo di inefficienza e tempi di lavoro lenti, al contrario, rappresenterebbe un quadro in cui attuare il programma di governo sul quale si è chiesto il voto e rendere la vita degli elettori più partecipativa. In un contesto storico come il tempo presente, caratterizzato dalla crisi e da molte difficoltà – soprattutto finanziarie – un’istituzione (intesa come chi esercita le cariche elettive) riformata da politici riformisti non avrebbe paura timore di confrontarsi con la società civile e spiegare le scelte che sono state fatte oppure ampliare il dibattito ex ante. Sono anche le abitudini degli eletti che possono cambiare la cultura di un popolo. Nei paesi, città, province e regioni, - i quattro contesti che renderebbero questa concezione di istituzione aperta più fattibile – non penso sia qualcosa di abnorme se un’amministrazione intera (come la giunta) o i principali esponenti di essa (un sindaco o un presidente di provincia o regione), periodicamente si espongono ad un dibattito sereno ed onesto con le proprie comunità sull’azione amministrativa intrapresa, perché non c’è niente di più democratico che coinvolgere i propri elettori e soprattutto chi sul programma con il quale ti sei rappresentato non ti ha donato il suo voto. Un esempio forse esplica in maniera più esaustiva questo pensiero: prendiamo in esame una fattispecie concreta che si realizza in Melfi (così come in tanti altri contesti). Vi è necessità di dover riparare il manto stradale che a causa delle intemperie, dell’elevata circolazione dei veicoli e della stagione invernale è stato danneggiato. La risposta più semplice che viene offerta a chiunque provi ad accennare a questo è la famosa frase: “non ci sono soldi”. Non c’è nulla di più sbagliato che un concittadino possa accettare, in considerazione del bilancio in attivo dell’amministrazione. Dunque, l’istituzione amministrata da una classe politica riformista come potrebbe muoversi? Sono diverse le strade che potrebbero essere intraprese: 1. Gli amministratori locali richiedono un contributo straordinario da versare all’erario comunale e spiegano la scelta serenamente di fronte alla 5
  • 6. cittadinanza in un incontro pubblico; 2. Gli stessi amministratori organizzano un’assemblea pubblica (anche se potrebbe farlo il partito più riformista) nella quale portano a conoscenza la cittadinanza del perché non sia possibile risolvere in quel momento quel tipo di problema cercando di informare la comunità sull’elemento che impedisce la risoluzione del problema (es. il patto di stabilità); 3. Gli amministratori in pubblica sede di confronto su temi discretamente difficili descrivono i pro e i contro delle scelte che si accingono ad effettuare porgendo l’attenzione anche ad eventuali accorgimenti o criticità suggerite con chi ci si confronta. Tutto ciò non significa che nell’adozione di una linea politica da seguire le amministrazioni devono chiedere consiglio ai cittadini amministrati, sarebbe soltanto una farsa come già ha dimostrato il metodo citato applicato da un movimento attualmente presente nelle aule parlamentari e deleterio tanto per l’istituzione quanto per il partito riformista che la guida, perché dimostra la sua totale incapacità di scelta e decisoria. Un partito riformista, ha le idee ben chiare sulla collocazione e sull’impronta qualitativa e identitaria della propria comunità che vuole creare, ma non per questo deve rinunciare all’apertura a trecentosessanta gradi, della sua capacità politico-amministrativa di guida. L’esempio richiamato, come ho già accennato, è più semplice renderlo applicabile in una piccola comunità, anche se a mio parere, si dispongono di tutti i mezzi per poter allargare il contesto ai livelli superiori. E il caso esemplare potrebbe essere l’introduzione di una nuova tassa a livello statale per poter gestire un’emergenza economica. Come potrebbe un governo far questo senza allarmare il Paese per l’introduzione di una nuova tassa che graverebbe oltre il dovuto sugli equilibri economici delle famiglie italiane? Il Presidente del Consiglio potrebbe andare in tv (vedi Il Presidente Kennedy tra il 1961 e il 1963) e spiegare alla nazione le motivazioni della scelta di introdurre la nuova tassa, cercando di porre l’attenzione non sul gettito economico che questa comporta ma sul come intendere questo ulteriore sforzo fiscale che si chiede. Sono convinto che a parte le manovre politiche avverse all’azione di governo, se si è onesti e si spiega efficacemente il progetto che si vuole attuare, cambierebbe il modo di intendere quel sacrificio che si chiede, perché si vuole realizzare qualcosa a vantaggio della collettività coinvolgendo chi materialmente contribuirà non solo economicamente ma anche nei principi e nei metodi. Il riformismo è anche lungimiranza. E se la cultura, il modo di intendere la vita pubblica e l’amministrazione di un’istituzione non riesce a farla evolvere un soggetto riformista, il conservatorismo e il populismo non solo continueranno ad occupare spazio, ma aggraveranno ciò che già di negativo coinvolge alcuni settori della nazione. È il senso di far sentire e consentire partecipi i cittadini che alzano il livello di un popolo e di uno Stato, l’individualismo non ha mai creato effetti positivi nel lungo periodo, ha illuso nel breve periodo di essere l’arma risolutrice di un problema, presentando un benessere finto pro tempore, per poi far precipitare la situazione non nella situazione appena modificata ma riportandola ad uno status peggiore delle condizioni di partenza. Tutto ciò può sembrare utopistico, ma una vera forza riformista cerca, sperimenta convintamente nuovi metodi e sistemi, sobbarcandosi anche il rischio di un potenziale fallimento, ma come da definizione richiamata all’inizio, il riformismo altro non è la capacità di cambiare gli aspetti politici e sociali mediante grandi e poche riforme brillantemente realizzate e cambiare anche se stessi per 6
  • 7. poter essere lo strumento più idoneo a creare progresso economico e culturale di un unico grande territorio racchiuso tra i confini d’Alpe a nord e il mar Mediterraneo a sud. Sezione 2 Valori e Società Generalmente è il linguaggio dei valori che ognuno di noi usa per guardare il mondo, e questo fa si che la società sia più aperta ed inclusiva abbandonando l’isolamento. Una politica riformista deve essere il traino nel volere e costruire una società secondo il dettato dell’articolo 3 della costituzione e farne un credo comune; mettere in campo soluzioni che tengano presente che ogni individuo che viene al mondo è destinatario di certi diritti che in alcuna circostanza a nessuno possono essere negati. Attraverso il nostro agire facciamo quel che vogliamo per la nostra vita e i riformisti hanno il dovere di trasformare tutte quelle situazioni che ostacolano il crearsi di condizioni migliori per tutti e non solo per piccole entità sociali. I riformisti attribuiscono valore alla famiglia e agli obblighi generazionali che questa comporta; alla comunità, patriottismo, cittadinanza, al senso del dovere del sacrificio in nome della nazione che garantisce eguali condizioni di partenza affinché si possa esprimere nel miglior modo possibile la propria personalità. Attribuiscono valore alla fede – che può tradursi in una religione formale o in precetti etici – e in tutto ciò che esprime il nostro rispetto reciproco: onestà, equità, umiltà, gentilezza, cortesia e compassione1. Tutti i riformisti sono consapevoli che l’autonomia e l’indipendenza possono trasformarsi in egoismo e sregolatezza, il patriottismo in xenofobia, la fede e la sicurezza delle proprie ragioni in chiusura mentale e crudeltà verso il prossimo, il tendere alla carità in un rifiuto alla capacità di farcela da soli. Un’azione riformista sradica valori – tristemente affermati in questi anni – come il successo facile, l’aggirare gli ostacoli perché inglobati in un sistema di particolari conoscenze che garantiscono qualunque accesso, il non cercare l’indipendenza perché si ha qualcuno sul quale attingere e cercare assistenza perpetua, il rifiuto di una responsabilità personale nell’aver ottenuto con qualunque mezzo ciò che si desidera ed afferma convintamente il valore dell’indipendenza, disciplina, l’esser disposti a rischiare per realizzare il proprio essere e raggiungere i propri desideri, il duro lavoro e la presenza costante di una responsabilità personale in ogni comportamento che si pone in essere nella comunità. Mentre la legge sui diritti civili del 1964 e la legge sul diritto di voto del 1965 erano ancora in discussione Martin Luther King replicò in un intervento: “Forse è vero che la legge non può convincere un uomo ad accettarmi, ma può impedirgli di linciarmi, e penso che questo abbia una sua importanza”2. Chiunque si definisca riformista o riformatore non può non comprendere che la società attuale necessita di un non più rinviabile cambiamento culturale e la costituzione di una 7
  • 8. nuova società e per poter realizzare questo progetto deve cambiare anche la politica (il capitolo precedente ha occupato spazio sufficiente su questo tema). È decisamente il tempo che la politica – ed una classe politica riformista – sali in cattedra nella nazione per affermare che nessuna ricchezza economica posseduta è in grado di produrre risultati positivi se non si sono ricevuti gli insegnamenti del duro lavoro e della gratificazione a lungo termine; vana è la pretesa di ottenere maggiore conoscenza se la cultura è costantemente depotenziata e la moralità demonizzata. In questo istante si tradiscono i nostri valori, e solo un’efficace, stabile e duratura stagione riformista è in grado di superare le negatività ricordate. Pensare ad una società fondata sui valori comuni, senso diffuso di mutua responsabilità e solidarietà sociale espresse non solo in luoghi circoscritti della vita personale di un individuo (famiglia, lavoro, ecc.) ma nell’intera comunità alla quale si appartiene e nelle azioni di governo riformiste, determinano che i democratici siano la principale rappresentazione del riformismo. I democratici credono nella cultura come strumento per il successo individuale e la coesione sociale. Il principio guida di un riformismo volto al progresso sociale deve essere: “Come pensi ti farebbe sentire?”, perché per la trasformazioni di una società nella quale gli italiani (soprattutto i più giovani purtroppo) osannano l’essere ricchi, magri, famosi è d’obbligo e per i riformisti lo è, andare oltre i propri limiti e la propria visione. Finora è stato applaudito chiunque abbia affermato di avere a cuore le generazioni attuali e future ma pochissimo si è riusciti a realizzare; si afferma di credere nelle pari opportunità e nella famiglia, ma nessuna misura adottata è stata sufficientemente efficace ed incisiva per creare un’organizzazione del lavoro che incentivi lo sviluppo della famiglia ed ampli lo spazio temporale da dedicare ad essa nell’arco di una giornata di un italiano medio; totalmente assente è stata la reale valorizzazione delle donne, c’è voluta una legge sulle quote rosa per introdurre nella società questo principio. I riformisti non avrebbero mai legiferato in questa materia perché le pari opportunità sono una condizione di partenza riconosciuta. Se si vuol davvero far evolvere la società italiana bisogna pagare un prezzo per i nostri valori ed essere disposti a qualunque sacrificio per realizzarli. Si parte dal chiedersi se in quei valori realmente si crede ed agire di conseguenza. Solo i riformisti hanno un vero interesse a creare una società moderna e seria, si pongono l’interrogativo e gli rispondono realizzando gli obbiettivi fissati assumendosi il rischio di affrontare una sfida utopistica e tanto grande da far perdere anche qualche voto per strada, perché il dovere morale è governare per il progresso e il bene comune in una società onnicomprensiva e non escludente fondata sulla demonizzazione delle diversità. 8
  • 9. Sezione 3 Esempi di riformismo Il primo esempio di riformismo che voglio ricordare è il New Deal degli anni ’30 del 1900 - attuato dal presidente Franklin Delano Roosevelt – un insieme di interventi e riforme su spesa pubblica, politica monetaria e tassazione. Nei primi cento giorni la presidenza Roosevelt inviò al congresso una lunga serie di disegni di legge, messaggi, ed esortazioni. “Il congresso approvò in quindici giorni provvedimenti in favore dei disoccupati, dell’industria, dell’agricoltura, del lavoro, dei trasporti, del sistema bancario, della moneta”1. Tra le misure adottate in questa fase – successivamente ribattezzata “Primo New Deal” – ricordiamo: il “Federal Emergency Act che autorizzò uno stanziamento di 500 milioni di dollari da assegnare agli stati per sussidi diretti; l’attuazione di questo programma fu affidata a un operatore sociale di New York, Harry Hopkins, convinto assertore della necessità che il governo, per rispetto nei confronti del disoccupato, dovesse fornirgli un’occupazione retribuita anziché limitarsi a versargli un sussidio. Vennero messi a punto progetti di ogni tipo per dare lavoro ai disoccupati: manutenzione stradale, costruzione di scuole, parchi, campi-gioco. Durante l’inverno del 1934, più di quattro milioni di persone lavorarono a queste opere pubbliche. Un altro provvedimento assistenziale istituì il Civilian Conservation Corps (CCC), un’organizzazione che assumeva giovani disoccupati per lavorare a progetti di tutela dell’ambiente. Durante i “cento giorni” il congresso approvò anche l’istituzione della Public Works Administration, un ente che, con uno stanziamento di 3,3 miliardi di dollari e sotto la direzione del ministro degli interni Harold Ickers, costruì scuole, tribunali, ospedali, dighe, ponti, strade, edifici pubblici, persino portaerei. Una realizzazione che diede risultati altamente spettacolari fu la Tennessee Valley Authority (TVA), uno degli enti più noti e ammirati tra quelli creati dal New Deal […]. La TVA costruì dighe e centrali idroelettriche per garantirsi la disponibilità di energia a basso prezzo e si impegnò nella realizzazione di un programma di controllo delle acque, di recupero delle terre incolte, di forestazione, costruendo inoltre case, scuole, centri ricreativi. La disponibilità di energia elettrica a basso costo non attirò tutte le industrie che si era sperato, ma l’opera della TVA contribuì a migliorare nettamente le condizioni di vita in tutto il bacino del fiume Tennessee”2. Il New Deal non fu solo adozione di misure economiche, non vennero tralasciate le riforme volte al rafforzamento del sistema bancario al fine di prevenire i fallimenti degli anni ’20. Seguirono negli anni 1933 e 1934 il “Glass – Steagall Banking del 1933 che estese i poteri del sistema federale di riserva, vietò alle banche commerciali di operare nel settore degli investimenti finanziari, limitò il ricorso al credito bancario per fini speculativi, e soprattutto creò la Federal Bank Deposit Insurance Corporation che garantiva la copertura dei depositi dei singoli risparmiatori fino all’ammontare di 5000 dollari. 9
  • 10. Il Federal Securities Act del 1933 rese obbligatoria una seria documentazione per le nuove emissioni di titoli e una preventiva registrazione presso la commissione per il commercio. Il Securities and Exchange Act del 1934 attribuì poi questo compito a una specifica commissione per i titoli e la borsa che ebbe anche ampi poteri per regolamentare i mercati azionari. Il provvedimento cercò inoltre di prevenire speculazioni come quelle del 1929 vietando la cessione di azioni “a termine” senza il pagamento di almeno il 55% del valore delle transazioni”3. Le politiche del New Deal iniziarono a produrre i primi risultati nel 1935 con l’istituzione della “Works Progress Aministration (WPA, poi ribattezzata Works Projects Administration), allo scopo di gestire nuove misure destinate a prendere il posto dei provvedimenti d’emergenza del 1933. Da quel momento gli interventi diretti in materia di assistenza vennero attribuiti alle autorità locali, mentre la WPA doveva concentrare i suoi sforzi su programmi che creassero nuovi posti di lavoro. Nel giro di otto anni l’ente diede un’occupazione a otto milioni e mezzo di persone, spendendo circa undici miliardi di dollari […]. La WPA costruì, restaurò o ampliò un gran numero di strade, ponti edifici scolastici, ospedali, aeroporti, portando a termine anche progetti di risanamento urbano e opere di rimboschimento. I progetti più singolari della WPA furono quelli destinati ad aiutare scrittori, artisti e attori disoccupati. Il Federal Writers’ Project curò la redazione di una serie di guide statali e regionali di ottimo livello, catalogò archivi storici, curò schedari per la consultazione dei quotidiani, pubblicò opere di storia locale e raccolte sul folclore regionale, riunì le testimonianze degli ex schiavi negri ancora viventi. Il Federal Arts Project offrì a parecchie migliaia di artisti senza lavoro l’opportunità di abbellire uffici postali, scuole, biblioteche, tribunali e altri edifici pubblici con affreschi ispirati alle vicende della storia degli Stati Uniti o al mondo del lavoro. Nell’ambito del Federal Music Project orchestre organizzate dalla WPA tennero concerti sinfonici cui presenziarono oltre cento milioni di persone, e furono organizzati corsi musicali cui parteciparono oltre mezzo milione di alunni al mese. Ancora più temerario e bersaglio di infinite critiche fu il Federal Theater Project: le sue compagnie itineranti, che davano lavoro a circa 12.500 attori e tecnici, misero in scena una serie di spettacoli teatrali (spesso sperimentali), di balletti, di spettacoli di marionette e di rappresentazioni circensi in cittadine dove non si era mai visto nulla del genere”4. La riforma più innovativa approvata dal congresso durante il lungo periodo del New Deal fu il National Labor Relations Act. “La nuova legge, ben presto ribattezzata familiarmente Wagner Act, chiarì che il governo appoggiava in concreto e senza riserve il diritto dei lavoratori di associarsi in sindacato. Essa istituì, in sostituzione della soppressa NRA5, un nuovo ente nazionale autorizzato a sottoscrivere contratti per conto dei lavoratori e anche a impedire alla direzione delle aziende il ricorso a pratiche irregolari come la stesura di “liste nere” e i “sindacati d’impresa”. La legge estese notevolmente il ruolo del governo nelle relazioni industriali e aprì la strada a un incremento senza precedenti del numero degli iscritti ai sindacati e del potere di queste associazioni”6. 10
  • 11. Il secondo esempio degno di nota di riformismo si è manifestato non più tardi di quindici anni fa, quando con le elezioni politiche inglesi del 1997, i laburisti dopo 18 anni di opposizione ritornano al governo con Tony Blair. Con Blair premier la Gran Bretagna ha conosciuto una grande stagione riformista, soprattutto nei settori istruzione, welfare e sanità insieme ad altri ambiti di intervento. La più grande riforma (come strategia unica che ha consegnato al Regno Unito il lungo periodo di riforme) attuata dal governo laburista si è concentrata sull’efficienza del settore pubblico mediante l’attuazione della Delivery Unit che ha determinato la riduzione delle liste di attesa negli ospedali del servizio sanitario nazionale in parallelo con l’apertura agli investimenti privati nella sanità, il miglioramento dei risultati nei test nazionali standard di matematica delle scuole elementari grazie alla strategia per l’aritmetica che insieme a maggiore libertà per le scuole ed un sistema delle tasse universitarie ispirato al modello statunitense hanno prodotto i primi risultati positivi già durante il corso della seconda legislatura. Si è ritoccato il sistema del welfare mediante l’indipendenza dai sussidi, sono stati istituiti i primi ospedali privatizzati, si è riformata la legge sul diritto d’asilo (che ha previsto l’espulsione per chi si vede negata la richiesta di asilo dopo accordi con i paesi d’origine affinché questi non applichino la tortura o la pena di morte e rispettino le leggi europee sui diritti umani per i rimpatriati), si è creata concorrenza nel settore privato è stata emanata una legislazione contro i comportamenti antisociali ed è stato introdotto un nuovo sistema di formazione per il personale delle strutture di assistenza all’infanzia7. Mi sono volutamente soffermato su questi due esempi di riformismo che hanno coinvolto nel lungo periodo le nazioni che hanno visto realizzarsi le politiche qui accennate, ma occorre sapere che il riformismo non ha esaurito la sua funzione negli Stati Uniti degli anni ’30 e nella Gran Bretagna di fine ‘900 e inizio del 2000; si ricorda il riformismo tedesco simultaneamente al periodo inglese con Gerhard Schröeder, l’autore dell’Agenda 2010 che ha rilanciato l’economia e lo stato sociale della Germania posizionandola sul gradino più alto del podio delle economie europee ed è attualmente in corso negli Stati Uniti d’America sotto la presidenza democratica guidata da Barack Obama che ha approvato tre anni fa la riforma sanitaria (la c.d. Obama Care) in favore dei ceti più deboli garantendone così l’assistenza (e qui si capisce che il riformismo non è distante dai diritti ma li rafforza e ne crea di nuovi), e le leggi sulle energie alternative, immigrazione e diritto allo studio universitario attualmente in discussione nel Congresso americano. 11
  • 12. Sezione 4 Conclusioni Mi rendo conto che tre o quattro esempi forse non sono sufficienti per descrivere ampiamente quel fantastico mondo politico che è il riformismo – non sarebbero né sufficienti né esaurienti queste poche pagine – che tramite questo scritto ho cercato di far capire come quanto sia necessaria in Italia aprire una stagione riformista che modifichi le consuetudini negative di questo lungo periodo che viaggia in un tunnel buio del quale si fatica a vedere la luce. Io penso che il riformismo sia l’unica ancora di salvezza per la nazione e per tutti noi, a maggior ragione in un contesto di crisi come l’attuale, perché il protagonista di questo scritto come largamente dimostrato da autori più autorevoli del sottoscritto e da uomini politici che hanno guidato e guidano tre delle otto potenze mondiali offre il meglio di sé nei momenti particolarmente difficili della nostra storia. Spero di aver fornito adeguati spunti di riflessione non per creare un movimento o una corrente, ma un nuovo modo di pensare la politica, il partito e le istituzioni. Vincenzo Mongelli 12
  • 13. NOTE E BIBLIOGRAFIA Sezione 1 1. http://www.treccani.it/enciclopedia/riformismo/ 2.http://www.repubblica.it/politica/2013/04/08/news/walter_veltroni_lettera_a_repubblica_evitiamo_le_sciss ioni_per_salvare_il_pd-56165880/?ref=search Sezione 2 1. OBAMA Barack, 2008, L’audacia della speranza, BURextra 2. Martin Luther King, op.cit. OBAMA Barack, 2008, L’audacia della speranza, pag.78 3. OBAMA Barack, 2008, L’audacia della speranza, BURextra Sezione 3 1. Jones Maldwyn A., 2011, Storia degli Stati Uniti d’America, pag.415 2. Jones Maldwyn A., 2011, Storia degli Stati Uniti d’America, pag.416 3. Jones Maldwyn A., 2011, Storia degli Stati Uniti d’America, pag.417 4. Jones Maldwyn A., 2011, Storia degli Stati Uniti d’America, pagg.419-420 5. sta per National Rifle Association 6. Jones Maldwyn A., 2011, Storia degli Stati Uniti d’America, pag.421 7. Blair Tony, 2010, Un viaggio, Rizzoli 13