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1. Santo Natale
“Veniva nel mondo
la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo,
e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne fra la sua gente,
ma i suoi non l’hanno accolto.
A quanti però l’hanno accolto,
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome.”
(Giovanni 1,9-12)
Vigilia di Natale a Firenze
Canto di Natale
Dario era arrivato molto stanco a quel Natale, più degli altri anni.
Era stato al lavoro fino al giorno prima. Aveva pure un principio di influenza e, come se non
bastasse, nei pomeriggi immediatamente precedenti, appena uscito dal lavoro si era imposto di andare
di corsa ai negozi per comprare dei regali, seppur pochi quell'anno. E tutto questo perché quell'anno
non aveva voluto ridursi a fare i preparativi proprio nell'ultimo giorno, e così aveva preferito fare un
po' di rincorse pur di finire tutto un giorno prima, ed essere libero il giorno della vigilia.
Ed ora finalmente era libero, sì, ma libero per fare cosa?
Ora che aveva esaurito tutta la tensione per arrivare a finire ogni cosa per tempo.
Ora che era libero anche dal lavoro. E nel lavoro aveva trovato sempre un buon motivo per
alzarsi la mattina e dare un senso alla giornata.
Che poi non era proprio esatto dire un “senso”... piuttosto era più giusto dire che era il modo di
riempirsi la giornata, ma sbrigare le sue pratiche di import-export non gli sembrava che potesse essere
definito niente di più. Ed ora poi che aveva terminato ogni occupazione, di lavoro e non, gli sembrava
che gli fosse rimasto solo un grande vuoto.
Meno senso del senza senso!
Forse sarebbe dovuto andare a dormire tutto il giorno, e risvegliarsi la mattina dopo, così
magari da vedere che davvero “Babbo Natale era sceso giù dal camino” e gli aveva portato dei regali.
Ma, già, a Babbo Natale non credeva neanche quando era bambino. Su quell'illusione si basava tanta
parte della “atmosfera di Natale” del mondo infantile. Il magico che entra nel quotidiano, che
evidentemente risultava insufficiente, così ansioso di essere completato.
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E poi c'era sempre da mettere in conto quella cosa che “a Natale siamo tutti più buoni”, cosa
che l'affascinava così tanto da bambino, e continuava ad affascinarlo anche ora, in teoria. Solo che una
piccola lucina razionale gli si accendeva ogni volta, suggerendogli che non ha senso essere buoni “un
giorno all'anno” e poi farsi la guerra tutti gli altri, quando poi in realtà lo sapeva bene che anche
questo era solo un alibi per non impegnarsi ad esserlo veramente neanche un giorno! Certo, la ragione
sa costruire sempre schermi per non far vedere la nostra pochezza!
E così, con tutto il suo fardello di pensieri brutti e senso di vuoto, in quella vigilia di Natale
libera da impegni, che nel suo intento era da dedicare a se stesso, si poteva concedere il lusso di
immergersi con calma nel clima natalizio della sua città. Era quindi uscito per farsi un giro nelle vie del
centro di Firenze, circondato, al posto del brutto e del vuoto che si sentiva dentro, dal bello e da un
molto affollato senso di pieno, con la pienezza di quel succedersi denso di architetture maestose, di
fronte alla nostra piccolezza umana, alte allo sguardo di chi cammina a piedi, eppure basse e vicine a
chi si volge tutto intorno a se stesso per guardarle. Così avvolgenti. Soffocanti, quasi. Troppe. Forse il
suo vuoto del momento era la condizione ideale per fare spazio a tutto questo pieno.
Eppure Firenze era la sua città. Da sempre. Ma voleva respirarne a pieni polmoni il clima
natalizio, ed ora, con tutto il tempo e tutta la calma per girarla in lungo e in largo, doveva ammettere
che non l'aveva mai vista così bella.
La gente lo sfiorava mentre camminava, ma erano tutti molto lontani, in realtà.
Vicina invece, ad ogni passo che faceva, c'era la città, la sua città, Firenze, così unica nel
mondo, per riconoscimento universale, ma quel giorno così unica per lui.
Ogni angolo aveva qualcosa che lo colpiva. Aveva qualcosa di incredibilmente bello che lo
sfidava.
Gli piaceva, gli piaceva molto, camminare e guardare a destra e a sinistra, e salire con lo sguardo
fino al ricamo del profilo dei tetti, e poi ripoggiare lo sguardo su un particolare vicino. Certo capiva
bene perché tanti stranieri da tutto il mondo, anche dall'Estremo Oriente, si mettevano idealmente in
processione per assistere a tutto questo.
Ora era in Piazza Santa Croce, che se ne stava lì come abbracciata, ai suoi due lati, da due
braccia di case dal sapore antico, e con all'inizio il profilo austero di Dante Alighieri pronto dall'alto a
giudicare tutto e tutti. E, dietro di lui, la facciata della Basilica, con tutti quei triangoli, quelli spigoli,
quelle sue punte, che però non erano fatte per salire al cielo: triangoli appiattiti verso il basso, verso
un orizzonte terreno, sormontavano giganteschi quadrati, e cerchi inscritti in triangoli e quadrati... la
Basilica insomma indicava pur l'alto con i suoi indici, ma stava salda qui in mezzo a noi.
Qui, proprio uscendo da questa chiesa, uscendo da quella sua foresta di alte colonne ottagonali,
dal quel sepolcro cumulativo di universali glorie italiche, dove ogni passo è un pezzo di storia, ogni
piccolo passo ha sotto i suoi piedi “un grande passo per l'umanità”, proprio lì Stendhal era stato colto
dalla “sindrome di Stendhal”, cioè la sindrome che da lui prende il nome, che vuol dire semplicemente
che aveva come percepito, tutto a un tratto, che tutto questo era troppo per i nostri miseri
contenitori umani. Li esuberava. Straripava.
Anche Dario ne era molto colpito, mentre continuava il suo giro. Dato che era di Firenze, era
per così dire abituato, ed era stato sempre molto disattento verso bellezze che gli sembravano
normali. Ora no, le guardava, come fosse la prima volta.
Giunto in Piazza della Signoria lo spettacolo dava una replica, con il Palazzo Vecchio e quel suo
“balcone” su in cima, da cui spuntava la torre dell'orologio, quella di Arnolfo, che sembrava cascare
addosso, tutta sporgente com'era. Al suo lato c'era la armoniosa Loggia dei Lanzi, forse gentilmente
costruita per parare la pioggia sulla testa delle statue che si riposavano lì sotto, mentre altre statue,
più coraggiose e più grandi, anzi addirittura giganti, osavano sfidarla stando in mezzo alla piazza. Sotto
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di quegli uomini giganteschi, che sembravano come a passeggio in piazza, piccoli omettini
passeggiavano a loro volta. Dario, per lo più a naso all'insù, si soffermava ora su un dettaglio ora su un
altro. Mentre camminava ancora lo circondavano, a destra e a sinistra, pareti di bugnato color terra
sormontate ciascuna dal proprio primo piano, il “piano nobile”, impreziosito con finestre in bifore.
Vera decorazione in verticale delle strade. Come arazzi. Affreschi.
Arrivato al Duomo la facciata lo soverchiava, costretto com'era a starne così vicino a causa
dell'esiguità della piazza. Forse l'avevano fatta così apposta per questo: per costringere la gente e
stare a naso all'insù, e sentirsi inferiori, cioè riconoscere la sua superiorità, riconoscere che il Bene
vince sul Male, e sulla piccolezza umana. Ed il vincitore allora magnanimamente è disposto a dargli in
cambio la sublimità della bellezza... delle cuspidi, dei rosoni, delle tarsie verdi che si alternano alle
bianche, dell'armonia delle proporzioni. E con quell'armonia, e quella ritmicità di alternanza, che poi
proseguiva anche lungo i lati, geometrica, cerebrale, intellettuale, non rivolta solo verso l'alto come i
pinnacoli gotici, ma terrenamente frutto dell'ingegno umano, della capacità di giocare del suo cervello.
Così anche l'altezza divina si riconciliava con l'umano, quella chiesa era al tempo stesso umana e
divina, era l'inno dell'incarnazione di Dio in Terra, già, cioè proprio del Natale, anche se in realtà era
intitolata alla Madre di Dio, che era quella che l'incarnazione aveva resa possibile.
E Dario era ora sopraffatto da tutta questa bellezza. Stordito.
Inaspettatamente, aveva sentito all'inizio la testa girargli un po', e il cuore farsi più accelerato,
mentre ormai diventava completamente ignaro delle persone che gli stavano intorno. E dall'iniziale
giramento di testa era passato proprio ad un chiaro senso di vertigini. Ma non cascava a terra. Era
solo malfermo sulle gambe, mentre continuava a camminare. I pensieri andavano e venivano per conto
loro. Il suo respiro era diventato un affanno.
Ad un tratto come in un sogno sentì una voce dentro di sé che gli ripeteva con insistenza: “Non
sei nessuno! Non sei nessuno! Cosa hai fatto nella tua vita per essere degno di tutto questo? per
essere degno di tutta questa bellezza? qual'è il senso della tua inutile esistenza?”
Ed è a quel punto che l'aveva visto.
Ghignante, come la sua voce.
Scuro come se fosse notte solo per lui, mentre intorno era giorno.
“Non sei nessuno! Non sei nessuno!”, continuava quella demoniaca visione. E lui non poteva che
convenire. Sì, era vero, non era nessuno...
Dopo la vertigine gli arrivarono anche dei forti tremiti. Ma a questo punto Dario sentì però
un'altra voce, con un timbro diverso, più dolce, che gli diceva: “Ma questa bellezza è qui anche per
te! Ti è stata data, come a chiunque la cerchi, e non ti sarà tolta!” E quella voce veniva da un altro
uomo, completamente diverso dal primo... emanava luce, e questo, incredibilmente, in quella
situazione gli sembrava una cosa normale. A Dario era immediatamente chiaro che si trovava di fronte
ad un demonio e ad un angelo, ma era troppo confuso, stordito, e preso alla sprovvista, per poter
riflettere sulla unicità di quella situazione. Non riusciva a trovare strana la cosa: in altri momenti
avrebbe detto a se stesso che forse era diventato pazzo, che erano dei chiari segni di psicosi, ma in
quel momento non poteva, era dentro anche lui alla sua visione, non era uno spettatore...
Non esisteva più nessun altro intorno a lui. Almeno così gli sembrava.
“Tutta questa bellezza ti salverà”, continuava la voce “buona”.
“Ma tu non sei nessuno, niente e nessuno ti può salvare!” rispondeva l'altro, perverso. Un
surreale battibecco tra le due figure misteriose.
Già, “Solo la bellezza salverà il Mondo”, aveva scritto Dostoevskij nell'Idiota, o forse il
significato era “salverà la Pace”, che in fondo è lo stesso, perché il Mondo tutto non può nemmeno
esistere senza la Pace, ed ora era a questa bellezza sovra eccessiva che Dario chiedeva di essere
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salvato, mentre ne era al tempo stesso perso.
“Solo la bellezza salverà il Mondo...” o forse ne sancirà la definitiva inadeguatezza?...
Solo la bellezza, ma quale bellezza?
Il grottesco litigio continuava e Dario aveva il volto rigato di lacrime, e l'equilibrio precario, al
punto che si appoggiava con la schiena a una parete.
“Chi ti credi di essere, essere inutile e insignificante?” faceva l'uno.
“Ma tu sei al centro di tutto questo, e tutta questa bellezza è stata apparecchiata apposta per
te, davanti a te.” rispondeva l'altro. E continuavano così.
Non si erano fisicamente accapigliati, come avrebbe fatto immaginare il tono duro con cui si
parlavano, anzi, non si erano mai nemmeno toccati! Già perché non si toccavano nemmeno, pur nel
trasporto della lite? Come se appartenessero a due universi diversi, come se un campo magnetico
opposto provocasse repulsione tra di loro. Solo con le loro parole, i loro sguardi, con i loro pensieri si
erano, sì, percossi l'un l'altro. Ed ogni frase arrivava forte come un vento, spingendo anche i capelli
indietro. Bagliori di luce, come da un un cavo scoperto di alta tensione, squarciavano l'aria sopra di
loro. Era una scena tremenda, spaventosa come un film dell'orrore, ma eppure affascinante al tempo
stesso.
Continuarono così per un po', continuarono a lungo, o almeno, per un tempo che sembrava
lungo, mentre tutto intorno era fermo, fino a quando l'uomo di luce concluse.
Tutto a un tratto.
Come se avesse proprio lui il diritto già stabilito all'ultima parola.
Sibillino ed enigmatico disse: “Ma ricorda, ricordatelo bene, dopo: tutto questo è niente...
capirai poi.”
Poi come erano apparse, così, repentinamente quanto misteriosamente, le due figure
scomparvero.
Come risucchiate nel vuoto.
Sì. Forse Dario era semplicemente uscito pazzo.
O forse in quel suo delirio era stato solo lucidamente consapevole della verità del mondo che lo
circondava. Un mondo così abbondante, ma pure così incompleto...
Un mondo al tempo stesso troppo, ma non mai abbastanza...
Cominciava a respirare un po' meglio adesso, tornava a vedere pian piano la realtà che lo
circondava, le persone, i colori, ora che non vedeva più le strane figure.
Ma era stanco. Spossato. Ancora con un certo affanno, e sudato.
Ridestato dal suo sogno surreale, dal suo incubo si potrebbe dire, si era accorto che in realtà era
rimasto sempre lì nei paraggi del Duomo... non si era mosso...
Vicino alla facciata, come ogni anno, c'era montato un grande presepe, proprio accanto a dove
Dario si era ridestato. E la prima cosa su cui gli cadde l'occhio fu la culla-mangiatoia, ancora vuota del
bambino. Come normale per la Vigilia di Natale. Ma per lui ormai “quello che è normale” e “quello che
non lo è” aveva nuovi connotati: ancora stordito, confuso, si domandava: “Perché è vuota?? Perché
non c'è? Dov'è? Dove è andato?” Se lo domandava come se quella assenza fosse piena di un
significato voluto, e soprattutto voluto apposta per lui.
“Perché non sei venuto? Dove sei?” Gli sembrava che non ci fosse bellezza sufficiente per
colmare quella mancanza.
Ancora molto confuso per la sua recente esperienza, scosso fino nelle sicurezze più profonde,
Dario era ora vulnerabile come non era mai stato. E quel primo dettaglio su cui aveva riaperto gli
occhi aveva acquistato una densità di significato che lo martellava...
La culla vuota...
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Quella mancanza lo feriva, e lo portò a chiedersi:
“E se fossimo soli? Se il mondo fosse solo gelidamente, e inutilmente, bello, e non avesse in sé
altra vita? Cosa conterebbe allora questa bellezza?”
E a quel punto perché dovrebbero esserci cattedrali e opere d'arte, ma anche perché cime
innevate e mari al tramonto, e prati fioriti e profumo di brughiera?
Perché tutto questo? Perché se non comunica con nessun altro che con se stesso? Se non può
parlare?
Solamente in quel momento, proprio in quel momento, gli tornò alla mente la frase: “Ricorda,
ricordatelo bene, tutto questo è niente.”...
E allora s'illuminò. E capì.
Già era proprio così. Tutta questa bellezza sarebbe stata davvero niente, senza l'incontro tra i
suoi autori. Se fosse rimasta una bellezza muta.
Ma eppure proprio ora era stata per lui, come dire... così tanta... troppa... accecante... e questo
voleva dire che aveva davvero parlato, che quell'incontro c'era stato, eccome che c'era stato!
Se la bellezza può arrivare ad essere troppa vuol dire che il suo significato va oltre, ce la fa ad
andare oltre, la somma delle forme mute. Quando tanta bellezza era arrivata fin nel profondo di Dario,
e lo aveva spiazzato e stordito, e lo aveva anche alla fine svuotato del suo ultimo geloso presidio
dell'ego, fino anche quel po' di ego che, depresso e dubitante di se stesso, conservava solo come
ultima riserva, allora gli aveva lasciato lo spazio interiore per percepire un'altra bellezza.
Quella antica. Ed eterna. Ed infinita.
Ancora stordito dinanzi a quella mangiatoia, Dario si era accorto di aver così scacciato anche i
suoi ultimi demoni di tristezza.
Certo qualcuno domani gli avrebbe semplicemente detto che era stato stato tutto un sogno. Una
allucinazione. Gli avrebbero spiegato con calma che era stato vittima della sindrome di Stendhal, o
vittima di un malessere simile, e così con poca fatica avrebbero chiuso la questione. Forse era stato
davvero così.
Forse era stato come chiudere gli occhi e sognare, ma non per lui.
Per lui tutto questo stordimento era stato, al contrario, come avere aperto gli occhi.
E aver rimesso le cose a posto.
E così, quando il giorno dopo qualcuno in chiesa avrebbe letto: “Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo”, ora, finalmente, gli era ben chiaro cosa voleva dire. E cioè che, per
nostra fortuna, la promessa di riempire quella culla verrà mantenuta anche questa volta, perché in
realtà questo è già avvenuto una volta per tutte nella storia, e da allora, proprio da quell'ora, in quel
momento lontano, noi tutti sappiamo che ogni gelida e muta bellezza si è potuta riempire di significato.
Sì. Ora può anche parlare! Parla finalmente...
Perché la bellezza della natura e la bellezza dell'arte si sono specchiate, e attraverso di loro i
loro autori si sono potuti dire, compiaciuti, l'uno all'altro:
“Ti piace, hai visto come sono stato bravo? Ho imparato bene? Non sono stato bravo anch'io?”
E l'altro di risposta: “Beh, ma l'ho fatto apposta per te, tutto questo. Solo per farti piacere... e
per questo sono venuto da te. Perché alla fine poi sono venuto. Lo vedi che sono venuto?”.
Un'altra sola lacrima era scesa su una guancia di Dario. Una sola.
Così anche quell'anno, nella notte, qualcuno avrebbe annunciato questa venuta.
Mancavano ancora circa dodici ore a quel momento. Ma ora, finalmente dopo tanto tempo, Dario
era molto più disposto a godersi tutte quante le ore di quell'attesa.
A respirare a pieni polmoni il clima di Natale, e pure a “sentirsi più buono”.
E a regredire, e tornare bambino, e godere dell'attesa. Trepidante.
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Felice ora - perché no? - anche di farsi instupidire dalle luci colorate dei negozi, dopo che
sarebbe calato il buio del pomeriggio, insieme alle luci dei festoni appesi sopra le strade.
E voleva davvero godersele tutte quelle ore, perché dodici in fondo passano in fretta.
La gente veloce gli strusciava accanto.
Dalla porta di un negozio si sentivano uscire le note di “Bianco Natale”, e Dario riprese il suo
cammino.
In attesa. In dolce attesa.
2. La Santa Pasqua
“Perché cercate tra i morti colui che è vivo?
Non è qui, è resuscitato.
Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea,
dicendo che bisognava che il Figlio dell'uomo
fosse consegnato in mano ai peccatori,
che fosse crocifisso e resuscitasse il terzo giorno”.
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Ed esse si ricordarono delle sue parole.
E, tornate dal sepolcro,annunziarono
tutto questo agli Undici e a tutti gli altri.
(Luca 24, 5-9)
La Torta Pasqualina
Racconto di Pasqua
La signora Maria Aldobrandi si era messa di buona lena già dalla mattina ad iniziare i primi
preparativi per il pranzo di Pasqua del giorno dopo.
Aveva scelto di prendersi tutto questo tempo perché era da sola a sobbarcarsi tutto il lavoro, e il
giorno dopo voleva anche andare alla Messa, per cui prima del pranzo avrebbe avuto giusto il tempo di
apparecchiare e riscaldare il tutto.
Quando era vivo suo marito, ed erano più giovani, erano abituati ad andare alla Messa della
notte, quella con la liturgia della luce, le candele nel buio, e che spesso aveva anche la celebrazione di
battesimi. Alla chiesa andavano a piedi, a braccetto nel buio, e quando tornavano non sentivano
sonno, anche se era tardi, risvegliati dall'eccitazione del momento. E così i preparativi per il pranzo di
Pasqua li faceva tutti nella mattinata successiva, ma ora non se la sentiva più di uscire la notte da
sola, specie pensando alla via del ritorno, ben oltre la mezzanotte, e così alla Messa ci andava la
mattina dopo. Per questo motivo ormai tutti i preparativi del pranzo di Pasqua li faceva il giorno prima.
Ma in realtà più che altro le piaceva fare le cose con calma, con il televisore di sottofondo che le
teneva compagnia. Da quando era morto suo marito aveva preso l'abitudine di non stare nemmeno più
a cambiare canale, mentre faceva le cose di casa: metteva un canale, di solito Rai 1, il “canale
Nazionale” di una volta, e a volte lo chiamava così anche ora, e lo lasciava acceso tutto il giorno,
spegnendo solo quando usciva per andare a fare la spesa, o per andare dal dottore. O al cimitero. Era
il quadrilatero della sua vita attuale: casa, mercato, dottore, cimitero. Poi la domenica alla Messa, e
così ricominciava il quadrilatero di un altra settimana.
Quella Pasqua era una Pasqua più importante delle altre: tornava suo figlio, che adesso lavorava
in Germania. Per Natale non era venuto: era stato dai genitori della sua nuova ragazza, la ragazza
tedesca, Birgit, e quindi era ormai dall'estate precedente che non lo vedeva. Si erano messi insieme a
novembre, e pretendere che lui lasciasse la sua fresca innamorata, dopo poco più di un mese circa, per
passare le vacanze in Italia dalla mamma era davvero troppo, poteva capirlo anche lei. Ed anche
pensare che potesse portarla giù così presto era improponibile, e così si erano aggiunti altri mesi al
tempo che non vedeva suo figlio. C'era il telefono, è vero, ma non è la stessa cosa, sentirsi solamente
e non potersi vedere, lei era sempre un po' imbarazzata al telefono, e non apparteneva certo alla
generazione delle video telefonate al computer... no, davvero.
Sì, era cresciuto il suo Mario, e ora c'era anche questa Birgit... la cose cambiavano, cambiava
tutto.
Lei si era appoggiata molto al figlio, quando il marito era morto, poi questo era diventato grande,
era diventato un uomo, come succede quasi sempre, e si era laureato in chimica. Non trovando lavoro
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in Italia dopo un po' di ricerche alla fine era andato in Germania, dove c'era la migliore offerta che
aveva trovato, ed ormai erano due anni. Diceva che si trovava bene, che gli piaceva là. E da allora lei
era sola, nella casa dove aveva vissuto con il marito, nella casa dove avevano cresciuto il figlio.
Ad un certo punto squillò il telefono, e corse all'apparecchio, in salotto, impaziente.
“Pronto... pronto? Sono Mario...” Fece la voce nella cornetta.
“Mario! Come stai? Sono la mamma... mi senti? Pronto?” …
“Lo so che sei la mamma, ho chiamato io! Tutto bene qui. Domani siamo lì... viene anche Birgit,
così la conosci. Viaggeremo di notte, perché avevo da fare fino all'ultimo. Tra poco andiamo alla
stazione. Vedrai, ti piacerà Birgit! Mi ha detto molte volte che vuole conoscerti, e vuole fare
esperienza di vera cucina italiana, si aspetta maccheroni e pizza tutti i giorni!”
“Ma che maccheroni! Sto facendo la Torta Pasqualina... e poi la “tasca”, sai la “tasca
ripiena”...”
“Cioè le vuoi fare la “sagra della Pasqua ligure”... bene, bene, le piacerà senz'altro! I suoi mi
hanno fatto il “festival del Natale tedesco”... mi sembra la migliore risposta... Allora arriveremo di
primo mattino, poi andiamo tutti insieme alla Messa”
“Vai, vi aspetto, allora. Ciao, Mario, ciao. A domani, ciccetto.” Tagliò corto lei, sempre
imbarazzata dall'uso del telefono.
Abbassò la cornetta. Motivata ulteriormente dalla telefonata la signora Maria Aldobrandi si mise
subito all'opera in cucina. Anche perché, oltre a suo figlio e a Birgit, a pranzo avrebbe avuto anche
sua sorella, con il marito e la figlia, cioè sua nipote Tiziana... E loro non avrebbero portato niente per
il pranzo, come al solito... Forse avrebbero portato una bottiglia di vino, forse avrebbero portato una
colomba pasquale, che lei si sarebbe limitata ad aggiungere dentro l'armadio di cucina alla sua
“collezione” di colombe pasquali: una specie di voliera dolce...
Cominciò con la Torta Pasqualina, quella che per lei era la più faticosa, perché c'era da tirare
delle sottilissime sfoglie di pasta con farina e olio, e non una sola, perché lei ne faceva tre strati per il
fondo della torta e tre strati per la copertura. Qualcuno diceva che ci volevano trentatré strati, come
gli anni di Cristo, ma lei si era sempre rifiutata anche solo di provarci: era già una faticaccia tirarne tre
sopra e tre sotto. Perché dovevano essere strati sottilissimi, ma compatti ed elastici, e quindi la pasta
veniva fatta prima in piccole sfere solide che solo dei muscoli ben robusti spianavano in sfoglia. Ed i
suoi muscoli non erano più quelli di quando era giovane.
Negli ultimi tempi in cui era vivo tirare la sfoglia era un affare di competenza del marito: “Fai te
che sei un uomo, e sei forte” gli diceva, e lui rispondeva ogni volta, immancabilmente “Ti fa comodo
che ci sia un uomo solo quando c'è da durar fatica, vero?” che maliziosamente alludeva alla lontana a
ricorrenti questioni di letto. E lei: “Va là, che non hai voglia di far fatica! E vedi di tirarla bella fina!”.
Raramente finiva con queste poche battute, ma la tiravano per le lunghe per tutto il tempo in cui
tiravano la sfoglia.
Prima di pensare alla sfoglia però aveva pensato al ripieno, con i carciofi che davano il senso
della primavera incipiente, e quindi della rinascita della natura come simbolo della rinascita della
Pasqua, rinascita resa simbolicamente anche con le uova celate nell'interno della torta. Una parte dei
carciofi li tritava grossolanamente, un'altra parte li faceva a piccoli spicchietti, perché le piaceva che si
vedessero e si sentissero nell'interno della torta, anche se mescolati agli spinaci tritati...
Già... li spinaci!!! Se li stava dimenticando... Ma dove aveva la testa? Stava perdendo i colpi,
cominciava a dimenticare le cose, ed anche per questo preferiva non dover fare le cose di fretta. Li
aveva presi freschi, perché non le piaceva usare spinaci surgelati, ma allora li doveva pulire, preparare,
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cuocere...
Li mise in bagno per sciogliere tutta la terra, e dopo un po' di risciacquo cominciò a pulirli con
movimenti rapidi. Una scottata appena, e poi, dopo averli strizzati per levare l'acqua, li aveva tritati.
Ora il ripieno si poteva mescolare, con insieme gli spinaci, i carciofi, la ricotta, un uovo mescolato
dentro, e poi sale, pepe... Fatto il ripieno aveva preso una alla volta tre delle sfoglie così
faticosamente prodotte e le aveva messe nella teglia, spennellandole una alla volta con olio perché
rimanessero staccate. I bordi li aveva lasciati larghi a sporgere dalla teglia, per rimboccarli al momento
di coprire la torta. Ora poteva metterci il ripieno, e dopo averlo messo farci con un cucchiaio degli
incavi per metterci in ciascuno un uovo. La Pasqua celava le sue sorprese, che potevano venir
scoperte da quelli che le cercavano, che non si fermavano alla superficie. E nel caso della torta erano
le uova, segno di nascita, o di rinascita per chi la morte l'avesse già assaggiata...
Anche la tasca di vitello ripiena celava la sua sorpresa all'interno, e c'era anche qui una sorpresa
verde, all'interno dell'involucro bruno della carne, e infatti anche questo era un piatto che si adattava
bene per celebrare la Pasqua: con un po' di ottimismo si può sempre pensare che quando la realtà
sembra oscura al suo interno cela già i segni del rinnovamento, della vita nuova. Anche questo piatto
voleva prepararlo il giorno prima, perché “non sembra, ma con la fretta le cose si fanno sempre male”,
si diceva tra sé la signora Maria. Sorridendo.
Già, questa frase la faceva sorridere perché la diceva sempre anche a suo marito...
Capitava alle volte che lui entrava di corsa in soggiorno, perché stava per incominciare una
partita in televisione, e nella fretta urtava con lo stinco (dolorosissimo!) l'angolo del tavolino basso che
stava davanti al divano... “Non sembra, ma con la fretta le cose si fanno sempre male...” si affrettava
allora a dire lei con serafico sarcasmo, con un sorrisetto a presa di giro... Seguiva una bestemmia di
lui, udendo la quale lei abbandonava il sorrisetto, e cominciavano un batti e ribatti a cui poneva
termine solo l'inizio della partita, quando suo marito decideva che lei potesse dirgli qualunque cosa
che lui non le avrebbe più risposto...
Ora poteva dedicarsi al primo piatto, e anche questo poteva prepararlo il giorno prima perché
quello che aveva deciso di fare era una teglia di lasagne. Non le voleva alla bolognese però, cioè con il
ragù, ma anche in questo caso aveva pensato che dovessero essere come un omaggio alla primavera e
alla sua voglia di rinascita, con ortaggi freschi, e in particolare asparagi e piselli, e niente pomodoro.
'Sta volta la questione della sfoglia era più facile, perché per le lasagne aveva deciso di comprarla
già fatta. Questo sempre per risparmiare le sue povere braccia, ma in realtà anche perché, per lei,
tirare la sfoglia delle lasagne era come un rito matrimoniale che ora non poteva più celebrare: era suo
marito che girava la manovella della macchina per fare le sfoglie di pasta fresca, mentre lei le
accompagnava dolcemente con le mani, come fosse una levatrice di sfoglie, quando uscivano. A volte
poi si davano il cambio, e la manovella la girava lei. In due in pochi minuti facevano tutte le sfoglie per
le lasagne. Ma in quegli anni facevano anche tagliolini, ognolotti, pappardelle. Presa la via di fare la
sfoglia fresca si può dire che ogni domenica facevano qualcosa di diverso. Erano il pezzo forte del
pranzo della domenica. Quasi si può dire il segno, che era domenica. Vista così ora, almeno da quel
punto di vista, era come se non ci fosse più domenica, ma almeno era rimasta Pasqua!
Le restava di preparare il contorno, un gratin di carciofi, porri e patate, tanto per restare in
tema, ed era l'ultima cosa da fare perché poi come dolce aveva pensato ad una delle sue colombe, un
po' perché non era molto portata per i dolci, e poi non aveva altro tempo, pazienza...
Ma non ce la fece a continuare. Ormai era venuta sera, e lei non si era interrotta neanche un
momento, cominciava proprio ad essere stanca.
“Mi sento molto stanca, ora...” pensò la signora Maria Aldobrandi, che sentiva ogni giorno di più
il peso dell'età.
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“Mi corico un momento, che recupero un po' di energie. Solo un momento. Poi riprendo”...
In realtà cascò subito addormentata. Sognò.
E sognò subito il marito.
“Ciao, Bruno! Era così tanto che non ci vedevamo... Come stai? Sembri molto... per così dire...
Ah! Ah! Vivo! Ah! Ah!”
“Ridi, ridi, tu! Sono vivo sì, non lo vedi?”
Quel sogno aveva preso una piega surreale, e al tempo stesso così rispettosa della realtà
oggettiva della vita e della morte.
“Non me lo dovresti chiedere se son vivo, proprio tu poi, con tutte le tue Messe e i Rosari...
Non lo sai che Lui è la Vita, Lui è la Resurrezione!” Aggiunse il marito, molto più serio.
“Lo conosci allora?” domandò con ingenuità lei, ma lui ignorò la domanda, e tirò dritto nel
discorso: “Ti stai dando un sacco da fare, vedo...”
“Sì, e sono anche molto stanca, sempre di più. Mi ci vorrebbe che mi dessi una mano tu, ma non
ci sei mai, quando c'è bisogno... Come quando c'era da fare un po' di pulizie in casa, e trovavi tutte le
scuse per uscire di casa, e non aiutare... e ora ti sei trovato la più grossa delle scuse!! La scusa
gigante! Non sarai morto per questo? Tu non vuoi proprio darlo il cencio, questa è la verità, e te le
inventi proprio tutte!”
Il sogno continuava nel suo tono decisamente surreale...
“Oh, ma certo sei un bel tipo... Ma non vorrai mica litigare anche qui? Ah! Ah!”
“No, no! Si vede che sei migliorato, non puzzi nemmeno più di sigaretta, che poi ne riempivi di
puzza tutta la casa...”
“E sì, si vede che sono diventato bravo!... Allora ciao, ci vediamo! A presto...” furono le sue
ultime parole.
E così passò la notte. E arrivò la mattina. E arrivò finalmente anche Mario, suo figlio, con la
ragazza tedesca, dopo il viaggio durato tutta la notte.
Mario entrò in casa senza suonare: in fondo era sempre casa sua, ed aveva sempre con sé le sue
chiavi, attaccate al mazzo delle chiavi di casa tedesche. Così, prima che arrivasse anche per lui il
momento del matrimonio con la bella Birgit, le chiavi di casa avevano già anticipato tra di loro
l'evento.
Entrando in casa chiamò semplicemente, con sbrigativa allegria, “Mamma! Siamo arrivati!” ed
incominciò ad avanzare. “Vieni Birgit, la mamma sarà in camera a riposare... Le facciamo una
sorpresa!”
Entrarono in camera, ed infatti la signora Maria Aldobrandi era lì.
Era sul letto sdraiata. Ferma, come se dormisse, ma con gli occhi innaturalmente aperti verso il
vuoto, immobili.
Mario restò un attimo perplesso, ma poi capì tutto ad un tratto che la sua mamma se n'era
andata.
La guardò qualche istante, cercando qualche segno di vita che potesse confortarlo ma non ne
notò nessuno.
Solo, se ne accorse dopo un po', un lieve sorriso sulle labbra.
(Nel pensare a questo racconto mi sono ispirato anche ad un “sonetto shakespeariano” che
avevo composto molti anni fa. Lo avevo chiamato “shakespeariano” perché ci avevo messo rime in
schema ABBA CC DEED FF, e si intitola per l'appunto “Vedovanza”, cioè “Widowerhood”. Essendo
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l'inglese in questo più preciso dell'italiano va detto che il termine indica un vedovo uomo, perché per
una vedova c'è un'altra parola)
WIDOWERHOOD
Do you remember the times that I said
"don't be afraid to leave this land
'cause we are tight in His hand"?
Well, come back, I need your aid!
For today I miss you more
than I could expect before.
Don't you remember the time we have lost
hurting each-other trying to know
how to ride emotions that come and go?
Well, we tested that love has his cost
but that cost seems to be so sweet
since the day we stopped to meet.
(Per chi non sa l'inglese segue traduzione)
Ti ricordi delle volte che ho detto
“non aver paura di lasciare questa terra
perché siamo stretti nelle mani di Dio”?
Bene, torna indietro, ho bisogno del tuo aiuto!
Perché oggi sento la tua mancanza
più di quanto mi sarei potuto aspettare prima.
Non ti ricordi il tempo che abbiamo perso
ferendoci l'un l'altro cercando di capire
come cavalcare emozioni che vanno e vengono?
Bene, abbiamo sperimentato che l'amore ha il suo
costo
ma quel costo sembra essere così dolce
fin dal giorno che abbiamo finito di incontrarci.
3. Il Corpus Domini
Riconoscete in questo pane, colui che fu crocifisso;
nel calice, il sangue sgorgato dal suo fianco.
Prendete e mangiate il corpo di Cristo,
bevete il suo sangue,
poiché ora siete membra di Cristo.
Per non disgregarvi, mangiate questo vincolo di unità;
per non svilirvi, bevete il prezzo del vostro riscatto:
poiché ora siete membra di Cristo.
(Dall'Ufficio della Solennità del
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo)
Il povero Pat
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Racconto per il Corpus Domini
Padre O'Brien sarebbe stato molto indaffarato durante quella festa del Corpus Domini: la sera
della vigilia c'era da fare il funerale del povero Pat. Cioè Patrick, che tutti chiamavano Pat, morto alle
soglie degli ottant'anni con un silenzioso arresto cardiaco nel sonno della notte prima.
Più esattamente la Messa di vigilia della festa sarebbe stata celebrata in memoria del povero Pat,
e il giorno dopo, che era festa grande, dopo la Messa solenne celebrata il pomeriggio, avrebbero
avuto, come da tradizione risalente nel paese fin dal Seicento, la processione del Corpus Domini.
Quindi la Messa solenne sarebbe stata il pomeriggio, e non ci sarebbe stata Messa la mattina,
perché l'insieme delle celebrazioni compresa la processione sarebbe durato almeno tre ore, troppe per
cominciare tutto con il normale orario della Messa, cioè a mezzogiorno... e di fare la Messa due ore
prima neanche parlarne!! Tradizionalmente il sabato sera l'intero villaggio lo passava al Pub, con le
conseguenze immaginabili di abbondanti consumazioni alcoliche, ma ad onta del dopo sbronza nessuno
poi voleva mancare di rispetto al giorno del Signore, e la soluzione era stata trovata ormai da diversi
parroci precedenti, e confermata da tutti i successori, proponendo come unica Messa domenicale di
quel piccolo villaggio solo quella a mezzogiorno.
E così la pace spirituale del villaggio, dello spirito in tutti i sensi si dovrebbe dire, era salva.
Il funerale non cambiava le abitudini, perché, alla memoria del povero Pat, dopo l'ultima palata di
terra gettata sulla bara, era ben inteso che si sarebbero trovati tutti al Pub a bere in suo nome, e
ricordarlo ciascuno con un brindisi diverso, con il racconto di un episodio della vita. Ed ecco perché il
giorno della processione del Corpus Domini, senza alcuna obiezione da parte dei fedeli, il tutto era
poi spostato al pomeriggio.
Il “povero Pat”, come lo chiamavano tutti nel villaggio da quando era morto, era davvero un
personaggio famoso nel villaggio, una persona importante a cui tutti volevano bene.
Non che avesse mai fatto niente di realmente “importante” nella sua permanenza terrena nel
piccolo villaggio.
Non aveva fondato ditte commerciali, né imprese di costruzioni, ne aziende manifatturiere.
Non aveva scritto romanzi che cantassero la bellezza delle ventose cliff affacciate sull'Atlantico.
Non aveva ritratto con pittura ad olio gli scorci migliori del paesaggio, quelli con quelle case,
ormai apprezzate e valorizzate anche dagli stranieri, con i caratteristici tetti di paglia, né aveva
ritratto le sue donne. Quelle le aveva amate, sì, ma non poteva vantare particolari record amatori,
come invece, con esattezza invero dubbia, veniva fatto dalla maggioranza degli abitanti maschili del
villaggio.
Non era andato in America per tentare l'avventura, per tornare carico di soldi e di fama, come
pure di rimpianti e umiliazioni ben nascoste. Non era andato, non se l'era sentita.
Il povero Pat non aveva fatto niente di importante, ma era amato da tutti. Postino per tutti i
villaggi della costa fin dall'età di diciassette anni, a cinquant'anni si era già trovato in pensione, e da
allora il suo sforzo di impegno quotidiano lo riservava al Pub, con scontata rassegnazione della moglie,
che anzi, abituata alle sue lunghe assenze per il lavoro, non notava poi molta differenza. Peraltro poi la
moglie era morta poco dopo che lui era andato in pensione, e con i due figli ormai grandi e sposati
praticamente niente lo teneva più lontano dal Pub. Del Pub era in pratica l'anima, più ancora che lo
stesso gestore, che in fondo si alternava nel locale con la figlia, e lì Pat aveva potuto conoscere anche
le nuove generazioni, quelli che non erano ancora nati quando andava su e giù per la costa a portare
posta.
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E così quando il povero Pat era mancato certo non c'era nessuno nel villaggio che non ne fosse
sinceramente dispiaciuto, che non la sentisse proprio come la perdita di un parente. Ci fu così un
momento di dubbio su chi dovesse portare a spalla la sua bara nel tragitto, chi ne avesse più diritto
cioè, dato che i due figli da soli non ce l'avrebbero potuta fare.
Qualcuno pensò che spettasse a chi era più frequentemente seduto vicino a lui nel Pub, ma fu
così che si accorsero che Pat si sedeva un po' con tutti, ora con uno ora con l'altro, ora con i vecchi
compagni di scuola che erano rimasti ancora in vita, ora con i ragazzi loro nipoti.
E quando era seduto da solo erano gli altri che, a turno, lo cercavano. “Pat, senti un po'
questa...” “Pat, dimmi un po' cosa ne pensi...”. Quando non erano i suoi consolidati amici a cercarlo
poteva capitare invece che fossero le loro mogli a venire a sfogarsi da lui dopo aver litigato,
ingiungendogli di “dirgliene quattro a quello scimunito!!”: “Parlaci un po' tu, è meglio, perché se ci
parlo io non so cosa gli faccio!”.
A tutti Pat dedicava il suo tempo, a tutti dava una risposta, e non si poteva individuare chi gli
fosse stato più vicino di altri in vita.
Decisero allora che, visto che erano alla vigilia del Corpus Domini, la bara la avrebbero portata i
portatori designati per la processione, quelli che il giorno dopo avrebbero portato il pesante ostensorio
con cui veniva esposta l'Ostia consacrata. L'ostensorio in realtà era solo la parte più alta della
pesante “macchina” in legno rivestito di argento dorato, risalente al settecento, che aveva lo scopo di
innalzare l'ostia due metri sopra le teste di chiunque, e al tempo stesso dare stabilità nei confronti del
vento laterale. Riusciva così a pesare novantacinque chili e così ci volevano sei persone robuste per
portarlo tenendola sopra le spalle. Negli ultimi anni erano sempre gli stessi, i più robusti e collaudati.
A loro fu chiesto di portare la bara col corpo di Pat, letteralmente adottato da tutto il villaggio che
così si faceva carico, con qualcosa che somigliava ad un funerale di stato, quel piccolo stato
indipendente che era il villaggio, anche del suo ultimo saluto.
E così fu.
Mentre portavano sulle spalle la bara il vento dell'Atlantico li spingeva forte verso destra e
dovevano faticare molto per camminare in linea retta. Il percorso dalla chiesa al cimitero era
abbastanza lungo, perché la chiesa era ad un capo del villaggio, ed il cimitero abbastanza fuori,
esattamente dall'altra parte però, con la strada che traversava nel mezzo il villaggio, passando proprio
davanti al Pub, e poi, arrivata al mare, costeggiava la scogliera a strapiombo sul mare.
Mentre il corteo camminava a turno qualcuno risaliva la fila fino in cima, fino alla bara e la
toccava brevemente con la mano, poi si lasciava risorpassare dal lento fiume di persone. E dopo lui
partiva un altro, e toccava la bara. E poi un altro e un altro, fino a che tutti gli abitanti del villaggio
non avevano toccato il legno che separava le loro mani dal corpo dell'amico. Pat era stato il loro amico
in vita, ma ora era ancora in mezzo a loro, era nei loro cuori, e volevano che ci restasse.
Dopo la Messa, il corteo funebre, la cerimonia al cimitero, la riempitura della sepoltura con la
terra, il ritorno in paese, giunta ormai sera, continuarono tutti a stare insieme al Pub. Era il loro modo
normale di ricordare i loro cari defunti, e il povero Pat oltre tutto in quel posto era di casa.
Non fecero certo un giro solo di birre, dato che continuarono fino a notte inoltrata a dedicare
brindisi al loro amico...
Il giorno dopo, giorno di festa, tutti potevano dormire un po' di più. Il silenzio generale era
parzialmente rotto solo dal vento che spirava dall'Atlantico, lungo le scogliere della contea di Galway.
Il silenzio finì proprio quando un quarto a mezzogiorno suonarono con forza le campane per
chiamare alla Messa di mezzogiorno... che non c'era! Padre O'Brien si era dimenticato di spegnere il
meccanismo automatico che ogni domenica faceva suonare le campane un quarto d'ora prima della
Messa! Quella domenica avrebbero dovuto suonare il pomeriggio...
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Beh, una sveglia a una certa ora ci voleva pure per il villaggio, magari perché alla fine almeno
pranzassero con la colazione... o facessero colazione con il pranzo, secondo i gusti...
Abbondarono i caffè, il villaggio si rimetteva in piedi, piano piano.
Per il pranzo si ritrovarono, come da programma festivo normale, nelle case dei parenti più
stretti. Suocere invitavano i figli, ma soprattutto le nuore, per batterle in cucina. Nipoti andavano a
trovare i nonni. I non sposati erano ospitati dalle famiglie dei fratelli sposati.
E così si consumava il pranzo della domenica, con studiata lentezza.
E arrivò l'ora della solenne celebrazione del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, che nel
villaggio tutti chiamavano ancora con il suo nome latino, semplicemente Corpus Domini, il Corpo del
Signore.
La Messa sembrava troppo lunga agli abitanti del villaggio, tutti riuniti dentro la chiesa, ma del
resto a loro sembrava troppo lunga ogni volta: devoti sì, lo erano, ma tanti discorsi non li reggevano.
Poi iniziarono la processione, e questo ebbe un sapore liberatorio ai loro occhi.
Il percorso era in parte coincidente a quello del giorno precedente: partiti dalla chiesa ancora
attraversavano il paese percorrendolo nella sua via principale, e poi ancora continuavano in direzione
del mare. Fino ad affacciarsi all'alta scogliera. Come per offrire all'oceano il loro dono.
Come se un rito cristiano e un rito pagato si fondessero benevolmente, insieme dando sicurezza
agli uomini che ci si affidavano.
Anche mentre portavano sulle spalle il pesante ostensorio, come il giorno prima con la bara, il
vento dell'Atlantico li spingeva forte, e ancora dovevano faticare molto per camminare in linea retta.
Come il giorno prima i sei portatori sbuffavano ogni tanto, ma non volevano farsi dare il cambio da
quelli che erano pronti come riserva: in realtà non venivano mai dati i cambi nella processione, non si
ricordava a memoria d'uomo che fosse successo, ci sarebbe voluto uno strappo muscolare perché
qualcuno lo richiedesse. Era motivo di orgoglio essere ritenuti i più robusti del villaggio per questo
compito.
L'erba ricopriva a ciuffi i terreni ai lati della strada, ciuffi piegati e abbassati dal vento. Verdi
distese d'erba ondeggiante, un “mare d'erba” come molte volte i poeti, ormai non più originali,
l'avevano chiamato.
La strada una volta giunta alla scogliera, non potendo continuare oltre, girava in direzione del
cimitero, costeggiando il mare, e questo infatti era il percorso dei cortei funebri, ma loro invece,
arrivati al mare, girarono in tondo e continuarono tornando indietro per la stessa via, in direzione della
chiesa. Durante il cammino cantavano ripetendo sempre i soli tre canti che avevano per la
processione.
Qualcuno invece, ritenendosi stonato, stava in silenzio. Qualcuno parlava col vicino.
Qualcuno cantava, sì, ma ritardando di quasi un verso il canto, perché non lo ricordava e
aspettava… l'imbeccata degli altri. È chiaro che il risultato dal punto musicale era quello che era...
Arrivarono infine alla piazzetta davanti alla chiesa, e qui, fuori programma, i sei portatori
appoggiarono a terra l'ostensorio, invece di entrare subito dalla porta.
“Senti, Padre, ti dobbiamo fare una domanda... - iniziò il primo di loro - Pat è morto ma noi
sappiamo che non è veramente morto, ma vive nel Signore, nella resurrezione, e per questo, dopo che
abbiamo pregato per lui, l'abbiamo salutato con pinte di birra e non con lacrime. Non è vero?
Abbiamo portato in spalla il suo corpo ma non l'abbiamo mai pianto come morto, ma abbiamo
fatto festa con lui al Pub.
E anche Cristo è morto in croce ma noi sappiamo che è ancora in mezzo a noi, non è vero?
Allora, dopo averlo portato sulle nostre spalle, dopo aver portato in spalla il suo corpo, come
abbiamo fatto per il povero Pat, lo dobbiamo piangere come morto?
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Perché non salutiamo anche lui al Pub, come si deve, con delle belle pinte di birra? Se col suo
corpo è presente realmente in mezzo a noi, se è uno di noi, se come Pat è uno di noi, non dovremmo
festeggiare anche lui come Pat al Pub, o forse vorresti che lui invece lo piangessimo come morto?”
La logica era ineccepibile, per quanto non convenzionale. Quell'accostamento tra corpi suonava
un po' eretico, certo, ma forse non troppo.
Padre O'Brien, preso alla sprovvista dalla domanda, tentennò il capo, poi rimase un po' come
sopra pensiero, il grosso testone immobile.
Come sospesi per aria, come tante piccole luci di una notte stellata, tutti gli occhi erano rivolti
verso di lui. E lui muto, corrucciò un sopracciglio.
Poi lentamente aprì la bocca. Rimase ancora un istante in sospeso, così, con la bocca aperta.
E infine con voce tonante fece: "Tutti al Pub!!"
In risposta si elevò un boato tale che poté essere udito anche dal villaggio che stava dall'altra
parte della collina, quello più lontano dal mare.
La mattina dopo invece il silenzio era totale nel villaggio, era giorno lavorativo è vero, ormai
passata la festività, ma non sembrava veramente esserlo.
Nessuno si presentò per aprire il piccolo drug store locale,
ma peraltro nessuno si presentò per comprare.
Nessuno aprì la bottega artigiana di lavori in cuoio,
ma tanto nessuno dei lavoranti ci si presentò.
Nessuno aspettava alla fermata dell'autobus,
dove però nessun autobus era passato.
Beh, almeno fino a mezzogiorno...
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4. Pentecoste
Veni, Sancte Spíritus,
et emítte cǽlitus
lucis tuæ rádium.
Veni, pater páuperum,
veni, dator múnerum,
veni, lumen córdium.
Consolátor óptime,
dulcis hospes ánimæ,
dulce refrigérium.
In labóre réquies,
in æstu tempéries,
in fletu solácium.
O lux beatíssima,
reple cordis íntima
tuórum fidélium.
Sine tuo númine,
nihil est in hómine
nihil est innóxium.
Lava quod est sórdidum,
riga quod est áridum,
sana quod est sáucium.
Flecte quod est rígidum,
fove quod est frígidum,
rege quod est dévium.
Vieni, Santo Spirito,
mandaci dal cielo
un raggio della tua luce.
Vieni, padre dei poveri,
vieni, datore dei doni,
vieni, luce dei cuori.
Consolatore perfetto,
ospite dolce dell'anima,
soave refrigerio.
Nella fatica, riposo,
nella calura, riparo,
nel pianto, conforto.
O luce beatissima,
invadi nel profondo
il cuore dei tuoi fedeli.
Senza il tuo soccorso,
nulla è nell'uomo,
nulla senza colpa.
Lava ciò che è sordido,
bagna ciò che è arido,
sana ciò che sanguina.
Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido,
raddrizza ciò ch'è sviato.
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Da tuis fidélibus,
in te confidéntibus,
sacrum septenárium.
Da virtútis méritum,
da salútis éxitum,
da perénne gáudium.
Amen.
Dona ai tuoi fedeli
che solo in te confidano
i tuoi santi doni.
Dona virtù e premio,
dona morte santa,
dona gioia eterna.
Amen.
Sequenza di Pentecoste
Ottakring
Racconto di Pentecoste
Le piaceva vivere ad Ottakring, che di Vienna era quartiere occidentale ma eppure era così
pieno di vita orientale. Soprattutto pieno - più che di viennesi - di serbi, e poi di turchi, greci, croati,
bulgari, rumeni, ma anche, in minor numero, marocchini, senegalesi, italiani, spagnoli. Il posto più vivo
di Vienna, pensava lei, e come lei pensavano molti giovani della città, che non solo vi venivano ad
abitare per i prezzi più bassi degli appartamenti, ma che anche vi si ritrovavano in massa la sera
riempendo i suoi locali, anche quando di giorno abitavano in altre zone della città.
Katrin viveva da un po' di tempo in quel quartiere, ed era pure lì che lavorava, passando le sue
serate e nottate per l'appunto in uno tra i tanti locali, bar, pub...
Per Katrin la giornata iniziava a mezzogiorno, quando si svegliava... e terminava alle cinque della
notte, tutto un po' tardi, in effetti... Ma la colpa era del lavoro, diceva, lavorando in un pub del
quartiere che chiudeva ben dopo la mezzanotte. Intorno alle due di notte, per la precisione. E dopo la
chiusura c'erano da sistemare i tavoli, le sedie, pulire i bicchieri, metterli a posto. Tutta colpa del
lavoro, diceva, se andava a letto tardi.
Ma non era ancora così tardi, in fondo, si diceva. Ed allora quando aveva finito si attardava
ancora un po' con quei clienti che si erano trattenuti a parlare davanti all'ingresso del locale mentre
lei era dentro a sistemare. Con la bella stagione in molti ancora rimanevano nella piazza fino all'ultimo
momento dell'orario ufficiale di chiusura, ed invero c'era chi restava anche dopo. Ora poi che era
arrivato giugno la temperatura sensibilmente superiore invitava ad attardarsi ancora di più. La bottiglia
di birra in mano, qualcuno seduto sui gradini del portone, altri in piedi di fronte. E Katrin lì, sempre in
mezzo a loro. Qualcuno poi salutava, pensando al lavoro del giorno dopo, ma lei restava fino all'ultimo
con chi resisteva di più.
Ma non era ancora troppo tardi, in fondo. E lei con quell'ultimo resistente allora si attardava
ancora. Immancabilmente. Ogni notte.
Quella notte il “resistente” di turno si chiamava Andreas.
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“Allora, dimmi un po'... è tanto che lavori qui al Café Club International? Ti trovi bene?” le fece
lui quando furono soli, per cominciare a spostare un po' la conversazione su di un piano più personale.
“Tanto, o poco, dipende dai punti di vista... In questo locale ci sono ormai da sei mesi: io direi
che è tanto. Prima gli altri lavori mi duravano molto meno! Gli altri impieghi erano comunque sempre
nei locali qui intorno. A me piace fare tardi al banco, mi piace girare tra i tavoli e vedere sempre gente
nuova. Sì, mi trovo bene tutto sommato.”
Iniziò a raccontargli un po' della sua recente vita lavorativa: aveva sempre lavorato nei bar e nei
pub della animata vita serale e notturna di Ottakring. Certo trovando il modo di perderli anche, i
lavori, di solito dopo aver litigato furiosamente per qualche motivo futile con il padrone del locale del
momento.
Dato che il lavoro da quelle parti non mancava, però, ne aveva sempre trovati di nuovi, avendo
indubbiamente una sempre maggiore esperienza da esibire come curriculum. A questo ultimo lavoro
però teneva particolarmente, dato che era nel locale storico della rinascita del quartiere, almeno così
le avevano detto, perché quando lei era arrivata ad Ottakring questa era già diventata la zona più di
tendenza tra i giovani di Vienna, insieme alla vicina zona del Gürtel. Quindi ora faceva il suo lavoro
senza parlare molto, e cercava di non avere storie. Detto questo, parlarono poi di molti altri
argomenti, non solo del suo lavoro, scoprendo così affinità e diversità. Indagando, sondando, curiosi,
voraci. Con quel Andreas sentiva una vicinanza istintiva che non le capitava spesso di sentire, ed una
distanza che le veniva voglia di colmare.
Iniziarono a camminare in direzione della casa di lui. Arrivati sotto casa di Andreas appoggiarono
per terra le loro bottiglie di birra, ormai vuote. “Vieni, sali su da me che ci beviamo un'altra birra.”
Lei senza parole lo seguì.
Non era il bicchiere della staffa quello che li aspettava su in casa da Andreas, lo sapevano
entrambi, non aveva alcun mobile bar in camera da letto, e non si allungarono verso il collo di nessuna
bottiglia le sue dita, quando ebbero chiuso la porta alle loro spalle, ma lungo il collo di lei, sfiorandone
la pelle. Era come un segnale convenuto, riconosciuto da entrambi, per cui si strinsero forte e si
baciarono. I vestiti poi se li levarono velocemente mentre si avvicinavano alla camera di lui. Era bella
Katrin, i capelli castano chiari, si sarebbero detti biondo cenere appena lavati, e gli occhi azzurri,
asciutta, sportiva, soda in ogni parte del suo corpo. Le mani di Andreas avevano ora molti altri punti
da sfiorare...
Ad un certo punto della notte Katrin si alzò da letto e iniziò a rivestirsi, silenziosa, furtiva, per
non svegliare Andreas. Ma Andreas sollevando leggermente la testa, evidentemente sveglio, le fece:
“Perché non resti, ormai? È tardi, pensa a dormire”
“No, io non mi fermo mai. Devo tornare a casa.”
“Devo? Che significa? Te l'ha ordinato il dottore?” Ma lei silenziosa continuava a prepararsi.
Ora si allacciava le stringhe... “Va beh, fai un po' come ti pare, io continuo a dormire...”
Katrin tornò a passo lento nel suo piccolo appartamento, che non era molto distante: era
anch'esso nel quartiere dove lavorava, anzi in effetti l'aveva scelto volutamente nei paraggi appena
aveva iniziato a cercare lavoro in giro per i locali del quartiere.
Il quartiere le era piaciuto subito, a pelle, come si dice, dalla prima volta che ci era capitata
insieme a delle amiche. Si era subito detta che voleva vivere lì, voleva lavorare lì. Le era piaciuto per
quella sua incredibile vitalità, per le molte diversità che vi si incontrano, i tanti colori, gli odori, ma
forse sotto sotto anche per la possibilità di nascondersi nell'anonimato, in mezzo a così tanta
animazione. Forse voleva come dissolversi in tanto movimento, in tanta varietà umana. Lei veniva da
un piccolo paesino della Carinzia dove l'idea di non essere conosciuta da tutti era addirittura
inimmaginabile. Tutti sapevano, tutti consigliavano, tutti si preoccupavano. Perché dovevano
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preoccuparsi per lei? “La vita è la mia!” pensava lei “perché non si fanno tutti quanti i fatti loro?”. Si
sentiva giudicata, in realtà, da quando aveva lasciato il fidanzato dei tempi della scuola, ragazzo noto a
tutti, e notoriamente inconsolabile... Era lei la strega causa del suo dolore... Ma che colpa ne aveva?
Erano così giovani quando si erano messi insieme. Inconsapevoli. E ora non lo amava più. L'aveva mai
amato, poi? E lui, l'inconsolabile, l'aveva amata davvero? Non lo sapeva lei... pensavano forse di
saperlo gli altri?
Arrivò a casa sua con dieci minuti di camminata circa. L'appartamento era al primo piano... non
aveva bisogno quindi di prendere il rumoroso ascensore, e salì allora i gradini con il passo felpato di
chi non vuole svegliare nessuno, o forse con l'unico passo che le energie residue le consentivano,
concedendosi però ugualmente il lusso di cambiarsi e di lavarsi i denti, prima di buttarsi sul letto.
Anche nel colmo della stanchezza ci teneva a non lasciarsi andare. La sua vita era una alternanza di
controllo e perdita di controllo, ritualità ossessiva e lasciarsi andare dionisiaco. Ed alla fine si
addormentò che erano ormai le cinque. Come al solito...
La mattina dopo... cioè a mezzogiorno... la testa era ancora un po' pesante per il troppo bere
della sera prima. L'aspettava la quotidiana camminata in lungo e in largo nel vivace e colorato mercato
all'aperto di Brunnenstrasse, sotto casa.
Il suo rituale preferito...
Il Brunnenmarkt abbondava di peperoni gialli enormi, dalla Turchia. E rossi.
E melanzane loro compagne.
Uva bianca siciliana dagli acini grandi ciascuno come piccole albicocche.
Cocomeri sdraiati al sole (mancanti solo di occhiali da sole...), già tagliati in spicchi giganti di un
quarto di cocomero, che apparivano come fossero offerti a ciclopiche fauci più che non destinati ad
essere ulteriormente tagliati in pezzi.
Collezioni di sottili e allungati peperoncini rossi, gialli, verdi, bianchi, disposti per gruppi di
colore, un gruppo accanto all'altro.
E poi vestitini multicolori appesi alle grucce, pantaloni e magliette piegati e impilati, grossi
mucchi di calzini, padelle, posate, borse, valige, canestri di vimini, rotoli di tessuto, e tutto quello che
può servire per una vita colorata ed economica.
E gente, tanta gente di tutti i tipi, di tutte le provenienze, ma soprattutto orientale, turchi,
serbi, e poi di tutti i paesi balcanici rappresentati in buon ordine... sparso.
Katrin, quando la mattina tardi si alzava, si preparava rapidamente e poi usciva per fare il giro
dei banchi dell'enorme mercato all'aperto, mangiando per pranzo qualcosa fuori (l'offerta era
sovrabbondante) e comprando a volte qualcosa che l'aveva colpita particolarmente, oltre ad un po' di
colorata frutta da mangiare a casa.
Quella camminata era come la sua cura, la sua terapia per la tristezza, perché, alzandosi, ogni
volta la prendeva un senso di vuoto, di disperazione senza che se la sapesse spiegare. Non sapeva
perché, ma si metteva a piangere.
“Giro a vuoto! Non combino nulla, non so dove sto andando... Non so chi sono!!” Anche quella
mattina iniziò a singhiozzare, appena alzata. Sentiva ormai da molto tempo questo malessere interiore
che non sapeva spiegare, ma di cui pure aveva certezza. “C'è qualcosa che non va in me...” si diceva
nei momenti di lucidità. E anche quella mattina allora si preparò in fretta per uscire, come un automa,
per tuffarsi tra la gente, per non pensare. Per fuggire dal suo male oscuro.
Dopo il lungo bagno di folla, tornata a casa, si mangiò un po' di frutta ed a quel punto era quasi
arrivata l'ora di tornare al lavoro, il punto di riferimento principale della sua vita in quel momento. E ci
teneva ad essere particolarmente puntuale quel pomeriggio perché era di sabato, quando a qualunque
ora l'afflusso era maggiore che negli altri giorni.
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Ore di lavoro passarono svelte, clienti si alternavano svelti davanti ai suoi occhi, alcune facce
ormai note, alcune facce nuove, boccali e bicchieri anch'essi si alternavano.
Finito l'orario c'era il lavoro di sistemare tutto ed essendo sabato notte era più lungo degli altri
giorni, naturalmente. Ma alla fine fu tutto a posto anche quella notte, e si concesse il suo rilassamento
abituale di fine lavoro, con quanti restavano ancora in giro a parlare.
C'era anche Andreas, l'aveva già visto prima, anzi l'aveva anche servito al suo tavolo con amici,
con professionale distacco, solo indugiando un poco con lo sguardo su di lui.
Era lì fuori, ma rimase con un altro gruppo di persone, senza avvicinarsi. Incrociarono lo sguardo
alcune volte, ma lei lo distolse subito ogni volta, come se non lo conoscesse nemmeno, mentre lui
restava con gli occhi ancora su di lei, perplesso, non capendo, indeciso se farsi avanti, percorrere
alcuni metri, o rispettare quella sua ostentata indifferenza. Prevalse il timore. Non fece nulla, mentre
Katrin sembrava ai suoi occhi più disinvolta, esuberante, effervescente, con l'attenzione di molti su di
lei. Quando i suoi amici lo salutarono anche lui si incamminò verso casa sua, non sapendo cosa
pensare. Katrin invece continuò l'abituale prova di resistenza, questa volta più prolungata perché era
sabato, e quindi per il giorno dopo molti sapevano di poter restare più a lungo a dormire. La selezione
naturale causata da chi di volta volta andava via, ed una sua istintiva inclinazione la fece legare un po'
di più con Mathias, tra gli altri del gruppo. Nessun discorso intimo questa volta, non rimasero da soli a
parlare, ma quando ancora c'era qualcuno che si attardava salutarono e andarono a casa di lui.
Mathias le piaceva e lei piaceva a lui, tutto qui, non esplorarono altro. Non voleva sapere altro per
passare la notte con lui.
E ancora tornò per dormire a casa propria, come sempre.
Quella mattina il pianto di Katrin fu più prolungato, più profondo, più disperato del solito. Non
aveva dormito bene, si era svegliata verso le sette, poi ancora alle otto, e alla fine alle nove si era
alzata. Certo in debito di sonno.
Non pensando di riuscire a riprendere sonno a questo punto se ne uscì per andare a correre,
come almeno una volta alla settimana era abituata a fare. Anche quello era un modo per sfogare
energie represse. Percorrendo tutta Ottakringerstrasse raggiunse, come era solita fare nel suo jogging,
il parco di Steinhofgründe.
Si riteneva fortunata ad abitare non lontano da quel parco cittadino, verso cui si dirigeva sempre
quando andava a correre, in modo da godersi un po' il suo verde. Correva nei suoi ampi prati
circondati da foreste, di querce nelle zone più aride, di faggi nella zona della collina di Gallitzinberg.
Qua e là zone più umide con piccoli stagni vivacizzavano il paesaggio. Gli animali non avevano molto
timore degli uomini e gli era capitato diverse volte di vedere cerbiatti, picchi e altri animali.
Cominciava già a sentirsi in riserva di energie quando vide da lontano, che emergeva da sopra i
rami degli alberi del parco, il “limone” della chiesa di Sankt Leopold, la bella chiesa in jugendstil di
Otto Wagner. Il cosiddetto “limone” per i viennesi era la sua cupola giallo dorata, a forma appunto di
monumentale limone, ritta in piedi come in attesa del suo gigantesco spremiagrumi spaziale. La vedeva
ogni volta che era andava a correre nel parco, ma mai le era venuto in mente di entrare. Si avvicinò
maggiormente. Quattro giganteschi angeli sembravano come montare di guardia nella sua facciata.
Affannata per la corsa, accaldata per il sole di inizio giugno, e con tutti i turbamenti che quella
mattina la agitavano, questa volta decise di entrare, di fare una piccola visita in chiesa. Ricordava
ancora bene quando da bambina era abituata a fare la “visitina” alla piccola chiesa del suo paese,
sempre aperta come usava da quelle parti. Ricordava come era sudata quando entrava, ma non faceva
jogging allora, giocava a calcio con i coetanei bambini maschi in un prato vicino alla chiesetta. E tutta
sudata sentiva il sudore ghiacciarsi sulla schiena quando entrava in quel luogo in penombra, quella
cosa che le mamme sanzionano sempre con un “Ti farai venire una polmonite!” ma che a lei piaceva
21
tanto proprio per quell'improvviso fresco dopo tanto caldo, quel senso di calma dopo l'agitazione
agonistica, quella pacificazione che portava nel suo animo istintivamente bellicoso... E di pacificazione
sapeva di avere fortemente bisogno, in quei giorni.
Era domenica, appunto, e per questo a quell'ora la chiesa era aperta, e aperta senza bisogno di
pagare alcun biglietto di ingresso per quella che normalmente era la chiesa museo dello jugendstil di
Otto Wagner, perché in quel momento stavano celebrando la Messa delle 10:30. Messa ormai
inoltrata, però.
Quella domenica in particolare era quella della Solennità della Pentecoste, la festa dello Spirito di
Dio che scende sugli uomini e li rinnova, con il ricordo della discesa sugli apostoli innanzitutto, ma poi
ancora del continuo incontro tra Dio e tutti quanti lo cercano.
Quando Katrin era entrata erano già alla Sequenza di Pentecoste, che appunto evocava lo Spirito
Santo. Si soffermò un poco al limite della porta, ascoltando il canto dal fondo della chiesa... “Lava ciò
che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina.” … e Katrin, sanguinante nel suo cuore,
cominciava a pensare che quelle parole fossero state scritte apposta per lei... “Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido, raddrizza ciò ch'è sviato.” Katrin sentiva tanto bisogno di essere scaldata.
Poi quando tutti alla fine della Messa si mossero verso l'uscita lei invece si mosse nella direzione
opposta, verso l'altare.
“Dobbiamo chiudere signorina!” Le fece un uomo che evidentemente era il responsabile delle
porte.
“Un momento... solo un momento... la prego!”
“Va beh, stia pure, intanto che sistemo in sacrestia...” Le rispose l'uomo.
Katrin si inoltrò allora nel chiaro e luminoso ambiente della chiesa. Sopra l'altare, come
galleggiante nel nulla, quasi immateriale, una leggera cupola di metallo dorato ricordava col suo colore
la santità sottostante di altare e tabernacolo. Dietro la cupola si intravedeva il disegno sulla parete di
fondo, ancora più in alto, di un Cristo a braccia aperte, con dei santi tutto intorno, anche in questo
caso con molto oro a indicare la santità. Tutta la chiesa in realtà era come fatta di luce e di oro, di
pareti immacolate e decorazioni d'oro: la santità voleva penetrare tutto con le sue dita, nelle
intenzioni di Otto Wagner, fino nell'aria che respiriamo, intrecciarsi con la luce.
Per un momento Katrin incrociò lo sguardo del Cristo sulla parete. Con le braccia aperte
sembrava invitare tutti a rivolgersi a lui, senza timore. E quello sguardo ora la incalzava, la
attraversava... tutta la disperazione che si portava dentro in quei giorni rivenne a galla e, sopraffatta
di emozione, iniziò a piangere.
“Signore, tu lo sai che puoi tutto... C'è qualcosa che non va in me... sto male, lo sai. Ho bisogno
di te...”
Ancora lacrime. In silenzio. La testa china verso il basso, per pudore di essere vista.
Poi d'un tratto fu scossa da un tremito...
Alzò di nuovo lo sguardo verso il volto di Cristo ed ora la luce della luminosa chiesa le sembrava
quasi accecante.
Fu pervasa, tutto all'improvviso, da un grande senso di pace.
Scossa ancora da un tremito, si sentiva ora come pacificata con tutto. Come avesse in sé un
forza nuova, quel dolore che si portava dentro ora, inspiegabilmente, non c'era più. Era guarita,
risanata. Serena, finalmente...
E davvero in un solo momento tutto era cambiato, tutto era nuovo adesso. In fondo non era
questa la Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo, Spirito di vita nuova? Tutto cambia, tutto fa
nuovo. Se solo avessimo la fede come un granellino di senape per chiederlo...
Uscita di chiesa Katrin respirò la bella e luminosa giornata primaverile. Ricominciò a sentire
22
profumo di fiori nell'aria.
Non aveva fretta, camminava passo passo ora. Era felice.
Si diresse pian piano in direzione della casa di Andreas, sperando di trovarlo in casa.
Ma ben decisa che se non l'avesse trovato l'avrebbe aspettato davanti al portone.
E che se non fosse tornato quel giorno sarebbe ripassata il giorno dopo.
E quello successivo, se necessario...
La leggenda del santo narratore
(chiaramente il titolo fa riferirimento, facendone omaggio, a “La leggenda del santo bevitore” di Joseph
Roth)
Roberto viveva in un chiaro stato di disagio spirituale, da un po' di tempo a questa parte.
La diagnosi certa, la situazione stabile, incancrenita ormai.
Di fatto era molto tempo che non si confessava, ma non era questo il problema in realtà,
piuttosto forse questa era la conseguenza. Il fatto è che era sistematicamente di cattivo umore (vi
intravedeva, negli sprazzi di lucidità, il peccato capitale di accidia), e provava continui risentimenti
verso i colleghi di lavoro - che certo però se lo meritavano! pensava – (e qui intravedeva il peccato
capitale di ira), e in più non voleva ammettere con sua moglie il suo attuale disagio, anzi lui con lei si
doveva mostrare sempre come quello sicuro di sé, completamente sicuro che lei non potesse aiutarlo
(e qui intravedeva la radice del peccato capitale di superbia).
Insomma interiormente, spiritualmente, era un rottame. E lo sapeva bene, anche se lo
dissimulava completamente.
Quel sabato pomeriggio aveva qualche ora libera.
Decise di salire al vicino santuario, su in collina.
Decise di andarci a piedi, come per espiazione, unendo il segno ancestrale del pellegrinaggio a
piedi al suo bisogno fisico di sfogarsi un po' da quella inquietudine che sentiva in sé.
Si congedò dalla moglie, che peraltro aveva impegni vari in città (che lui non si dette pena di
approfondire), dicendole che faceva una girata a piedi. Beh, questo almeno era vero, anche se lacunoso
dei dettagli. Salendo su, passo passo, si ripeteva tutti questi pensieri, trovando la lucidità di
individuare tutto questo come un malessere spirituale.
Arrivato al santuario si affacciò guardingo, timoroso, come se fosse un intruso, uno ...“imbucato
ad un party”: era molto che non entrava in una chiesa infatti, e comunque le ultime volte era stato in
eventi collettivi, come un paio di matrimoni ed un funerale, dove poteva starsene tranquillamente in
fondo, nascosto nella calca, ed erano stati sostanzialmente momenti più dedicati alla socialità che alla
preghiera. Non ci aveva mai messo la sua identità più profonda, per affacciarla ad altre e più ampie
profondità, ma solo la sua facciata, aveva interpretato un ruolo. In fondo era come faceva sul lavoro, e
forse, gli doleva ammetterlo, anche con la moglie. Ma ora c'era silenzio, la chiesa era tutta per lui,
solo per lui, e non si poteva nascondere dietro ad altri, né aveva alcun ruolo da interpretare. Avanzò
quindi timidamente in direzione dell'altare.
Giunto all'incrocio del transetto si accorse però che non era solo: alla sua destra c'era un uomo
immobile e silenzioso seduto su una panca, con la lunga veste talare nera dei monaci che reggevano
quel santuario. Era molto anziano, con la barba completamente bianca, la pelle chiara e sottile che
sembrava trasparente. Roberto, preso di sorpresa, ebbe un leggero sussulto e allora, come per darsi
un tono, gli disse: “Buongiorno. Ehm... Stavo cercando un prete per confessarmi...”
23
“L'hai trovato.” fu la laconica risposta. Rimase un po' in silenzio. Roberto cominciava a provare
disagio, non sapeva come rompere il ghiaccio, quell'uomo lo fissava. Ma non ce ne fu bisogno, fu il
taciturno padre a rompere il silenzio, dicendo “Mi chiamo padre Cristoforo.”
Restò a fissarlo per un po', e poi a bruciapelo gli domandò: “Ma dimmi, cosa fai nella vita?” Non
gli dette il tempo di rispondere che lavorava in un anonimo ufficio del suo comune, che continuò.
“E scrivere, dimmi, scrivi? Non hai mai scritto niente nella tua vita?” gli chiese con tono
impaziente padre Cristoforo, fissandolo intensamente con i suoi occhi azzurri. Come passandogli
attraverso.
“Mah, ai tempi della scuola avevo scritto qualche poesia, sa, come si fa sempre a quell'età...”
“Bene, bene...” Gli fece padre Cristoforo con fare misterioso. “Entra allora...”
Si accomodarono nel confessionale che era lì vicino in quella parte della chiesa.
“Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ti ascolto...” e a questo punto conviene
mantenere il riserbo su quanto confidato nell'intimità della Confessione.
Al termine, ricevuta l'assoluzione, Roberto si congedò e si diresse verso casa facendo la stessa
strada a piedi come aveva fatto all'andata, avendo così tempo di pensare.
Più di ogni altra cosa continuava a pensare a quella particolare penitenza che gli aveva chiesto padre
Cristoforo: gli aveva detto “Per penitenza, tu che hai detto che sai scrivere, dovrai comporre un
racconto ispirato alla grande festa del Santo Natale. O della Pasqua, fai te.”
“Che strana penitenza.” – rifletteva tra sé e sé Roberto mentre si allontanava passo passo dal
monastero – non gli era mai capitato. Normalmente la penitenza assegnata erano state delle preghiere
che poi ripeteva frettolosamente, per arrivare in fretta al completamento della sua confessione e
sentirsi così, alla fine, a posto. Altre volte qualche prete in vena di maggiori attenzioni gli indicava
delle letture bibliche particolari da leggere, con una qualche attinenza con le cose che lui gli aveva
detto.
Questa volta no.
“Scrivi, scrivi, mi raccomando...” Aveva concluso padre Cristoforo.
Arrivato a casa non gli era venuta ancora in mente nessun storia che potesse tramutare in
racconto, nonostante che durante il cammino vi avesse pensato molto. Ma forse non funziona così, si
diceva, forse quando uno meno se lo aspetta, quando non ci pensa, viene baciato in fronte dall'angelo
degli scrittori ed ha tutto chiaro, tutto insieme. Eppure non poteva accontentarsi di aspettare. Per sua
abitudine la penitenza la compiva immediatamente dopo l'assoluzione, per tendenza ossessiva del suo
carattere più che per pietas, ed ora trovarsi a non sapere nemmeno se ce l'avrebbe fatta a completarla
gli dava un senso di inquietudine che non gli piaceva per niente...
Il giorno dopo... ancora niente. Eppure aveva più tempo libero, visto che era domenica.
E il giorno successivo... ancora niente. Ogni tanto ci tornava a pensare, durante il giorno, al
lavoro, mentre mangiava, in macchina tornando a casa. Ma niente. Cominciava a temere di non farcela.
Poi il terzo giorno, mentre ancora era in macchina che tornava a casa, tutto insieme gli venne in
mente una storia e appena a casa iniziò subito a metterla per scritto, per non rischiare di dimenticarla.
Si dedicò con insistenza al lavoro di finirla in giornata, per il timore di perdere l'ispirazione: è vero
che da ragazzo qualcosa aveva scritto, ma era passato tanto tempo e non confidava molto nelle proprie
capacità di scrittore. Così in qualche modo, anche senza curare molto i dettagli, la finì di scrivere
prima di notte. E tirò infine il suo atteso sospiro di sollievo...
…....
Venne di nuovo il sabato, il sabato pomeriggio che si era ancora preso libero per andare al
santuario, anche perché doveva mostrare il racconto che aveva scritto: prima che andasse via padre
24
Cristoforo gli aveva estorto la promessa che lui gli avrebbe portato il risultato della sua fatica
letteraria. Era ormai per lui un impegno preso ma anche padre Cristoforo probabilmente si sentiva
impegnato da questa promessa.
E infatti era ancora là in fondo alla chiesa, come l'altra volta, come se lo aspettasse, nella
penombra.
Tutto sorridente dietro la barba bianca, gli occhi socchiusi di contentezza, padre Cristoforo
appena lo vide gli tese la mano con inaspettata voracità, inaspettata per l'età e per la seria aurea di
sacralità che mostrava nel suo parlare. Ma non era per stringergli la sua che allungava la mano, perché
accompagnò il gesto con le parole “Allora, cosa aspetti? fa vedere! Fammi vedere quello che hai
scritto!” E quasi gli tolse di mano i fogli.
Si sedette su una panca, ignorando per qualche minuto la presenza di Roberto, assorto nella
lettura, un po' incurvato, forse per la debolezza della schiena data dall'età, forse per vedere meglio
quanto scritto sui fogli, con la vista anch'essa indebolita per l'età, forse piuttosto per chiudere
idealmente il mondo fuori, letteralmente voltargli le spalle mentre lui si dedicava alla lettura del
racconto, che sembrava l'unica cosa che gli importasse.
Questo però lasciava in sospeso anche Roberto... Come se dovesse attendere un verdetto.
Finalmente padre Cristoforo alzò lo sguardo, lo lasciò sospeso per qualche secondo, e poi disse:
“Bello...” Solo questa unica parola, “bello”, lasciando ancora a Roberto il senso di sospensione in cui
l'aveva messo.
“Ma ora dimmi, come hai passato la settimana?” - aggiunse dopo un po' padre Cristoforo - “Ti
senti meglio ora?”. Roberto non se la sentì di mentire, non a padre Cristoforo, e gli accennò che
ancora non andava, era inquieto, nervoso. Gli era piaciuto concentrarsi sulla sua storia, sulla festa del
Natale, quando “siamo tutti più buoni”, quando aspettiamo Gesù bambino, e i regali, e la magia della
notte santa. Poi però, finito il racconto, era pian piano ritornato al suo solito umore, complice una
“incomprensione” sul lavoro che aveva dato il segnale di inizio...
“Eh beh, cosa vuoi, ci vuole tempo, ci vuole pazienza... - gli rispose padre Cristoforo - Vieni,
dimmi tutto...”
Andò a finire come prevedibile che Roberto ricevette un'altra penitenza, cioè la stessa penitenza
di scrivere un racconto su una grande festa cristiana, ma su un'altra festa naturalmente.
…...
“Non mi viene in mente niente! Niente!!” si diceva ancora una volta Roberto dinanzi alla pagina
vuota, in preda al blocco dello scrittore...
“Cosa ci scrivo ora? Ma non poteva darmi un'altra penitenza? Qualche preghiera... un brano
della Bibbia... o andare a piedi al santuario partendo dalla piazza del Comune... ma anche in
ginocchio!! Era meglio...”
Poi però febbrile, trovata un'idea, una traccia esile di storia, si gettava a scrivere, di corsa,
senza mangiare niente per cena, per non interrompere, solo alzandosi per prendere qualcosa dal frigo
da portarsi alla scrivania.
Sua moglie ad un certo punto gli diceva “Vieni a letto, cosa aspetti?” ma lui niente, le
rispondeva “Ho da fare...” e lei si rassegnava a dormire da sola, paziente. Era, si potrebbe dire, il suo
contributo personale al suo strano sforzo di santificazione.
Continuava così fino a notte fonda, anche se la mattina dopo aveva il lavoro: quattro ore di
sonno possono bastare - si diceva - se uno va a letto soddisfatto di sé, convinto di aver fatto quello
che doveva fino in fondo, e quindi in pace col mondo. Se invece fosse andato a letto all'ora solita, ma
troncando la sua opera, non sarebbe riuscito a dormire, si sarebbe girato nel letto infelice ed infine il
25
suo sonno, una volta arrivato, sarebbe stato come immeritato ed abusivo, e non l'avrebbe lasciato
riposato. Doveva allora continuare come un artista maledetto di inizio novecento, bruciato, divorato
dalla sua arte.
Per un momento aveva pensato anche che forse l'avrebbe aiutato scrivere con solo una candela
accesa ad illuminarlo, per concentrarsi tutto sulla pagina bianca e su quel che ci scriveva sopra. Poi si
era dato del buffone da sé stesso e non ne aveva fatto di niente. Ma eppure continuava così, nel buio
comunque rotto solo dalla lampada della scrivania, curvo, gobboni, immerso in quello che scriveva,
accanito, come se la sua vita dipendesse da quello che scriveva. Febbrile. Frenetico.
E così via, racconto dopo racconto. Settimana dopo settimana seguitava ad andare a trovare
padre Cristoforo, ritornava ad avere il piacere di intravederlo nella semi oscurità, in fondo alla chiesa,
sorridente, e poi ancora si vedeva assegnata la strana penitenza a cui ormai era abituato, e di nuovo
lottava per trovare qualcosa da scrivere, una storia, un'idea, per poi però di nuovo ritrovarsi alla fine
sempre con la storia finita...
….....
Andò avanti così per quanto? due, tre, quattro settimane? Ormai ogni settimana era scandita dal
nuovo incarico che febbrilmente lo prendeva, lo catturava ogni volta. Non esisteva più il suo lavoro di
giorno, durante il quale continuava a pensare al soggetto del nuovo racconto, non esisteva la moglie,
che era fin troppo paziente, invero.
Ogni volta portava con se tutti i suoi racconti, insieme all'ultimo, finché il pacco di fogli fu così
voluminoso che se lo fece rilegare in una copisteria, in un unico libro.
Ora con quel pacco di fogli rilegati sotto il braccio Roberto sentiva di aver concluso le sue
fatiche, sentiva di non poter aggiungere un rigo di più. E di non averne neanche bisogno, in realtà, o
almeno non più, perché tutte le parole di conforto sul Natale, sulla Pasqua, sulla Pentecoste e altre
feste, sulla presenza misteriosa di Dio nella vita dei suoi immaginari personaggi le aveva scritte in
realtà innanzitutto per se stesso. Aveva così di nuovo percepito quella presenza misteriosa ma reale
che aveva sentito un tempo anche lui, ma di cui si era dimenticato. Racconto dopo racconto si era
sentito più leggero, come liberato di un peso alla volta, uno dopo l'altro, fino alla leggerezza più
completa.
Ora capiva il senso di quella penitenza che pure in principio gli era parsa così strana, e voleva
ringraziarne padre Cristoforo. Anzi questa volta era proprio impaziente di vederlo, per ringraziarlo.
Quell'uomo venuto dal nulla lo aveva scrutato fino in fondo alla sua anima. Lo aveva cambiato. Forse
gli aveva detto chi era veramente.
Entrato, gettò lo sguardo a destra e a sinistra nella chiesa, partendo dal punto dove era solito
vederlo.
Ma non lo vide...
Eppure a quell'ora l'aveva sempre visto lì, - si diceva tra sé e sé – ma poteva avere avuto altri
impegni, o forse non si era sentito bene, speriamo di no, alla sua età...
Avanzò anche questa volta in direzione dell'altare, poi guardò verso il transetto di destra...
niente, quello di sinistra... nemmeno.
Vide allora un altro monaco con una lunga veste nera fatta come quella di padre Cristoforo, ma
non così anziano, e senza barba, e pensò di chiedere a lui.
“Buongiorno. Scusi... Cercavo padre Cristoforo... “
“Buongiorno anche a lei. Però devo dirle che qui non c'è nessun padre Cristoforo, né c'è mai
stato. Mi dispiace...” Rispose il monaco, con il suo sguardo interrogativo che indugiava su di lui,
mentre dentro di sé si domandava se forse non si era confuso con qualche altro padre del monastero, e
26
quale potesse essere il nome giusto.
“Ma non è possibile, io l'ho visto qui tutti i sabati... - azzardò Roberto titubante - Sa, un padre
magro, con la barba bianca...”.
“Ah, allora a questo punto è chiaro che non è nessuno di questo monastero. Qui nessuno di noi
porta la barba, mi creda. Ora se permette avrei da fare in sagrestia...” disse, e uscì senza tanti
complimenti da una porta sul fondo della chiesa, lasciandolo solo...
Nessun padre Cristoforo nel santuario, aveva detto! ...
Ci fu un assoluto silenzio, appena il monaco fu uscito.
Roberto ora era rimasto solo con i suoi racconti sotto il braccio. Scritti per quel padre Cristoforo
venuto dal nulla.
Ma con se aveva ora anche dei sentimenti che non provava da molto tempo. Ed era ben deciso a
tenerseli ben stretti.
Erano il regalo di padre Cristoforo.
Beh... chiunque egli fosse.
© 2013-2014 Stefano Chierici
Altri racconti possibili: (oltre a Natale, Pasqua, Corpus Domini, Pentecoste) racconto della
Solennità dell'Annunciazione (donna incinta), racconto della Commemorazione dei Defunti (ricordo di
Antonio), racconto della Solennità di Tutti i Santi (tutti, proprio tutti santi: un santo sconosciuto)

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Quattro feste in a4

  • 1. 1 1. Santo Natale “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome.” (Giovanni 1,9-12) Vigilia di Natale a Firenze Canto di Natale Dario era arrivato molto stanco a quel Natale, più degli altri anni. Era stato al lavoro fino al giorno prima. Aveva pure un principio di influenza e, come se non bastasse, nei pomeriggi immediatamente precedenti, appena uscito dal lavoro si era imposto di andare di corsa ai negozi per comprare dei regali, seppur pochi quell'anno. E tutto questo perché quell'anno non aveva voluto ridursi a fare i preparativi proprio nell'ultimo giorno, e così aveva preferito fare un po' di rincorse pur di finire tutto un giorno prima, ed essere libero il giorno della vigilia. Ed ora finalmente era libero, sì, ma libero per fare cosa? Ora che aveva esaurito tutta la tensione per arrivare a finire ogni cosa per tempo. Ora che era libero anche dal lavoro. E nel lavoro aveva trovato sempre un buon motivo per alzarsi la mattina e dare un senso alla giornata. Che poi non era proprio esatto dire un “senso”... piuttosto era più giusto dire che era il modo di riempirsi la giornata, ma sbrigare le sue pratiche di import-export non gli sembrava che potesse essere definito niente di più. Ed ora poi che aveva terminato ogni occupazione, di lavoro e non, gli sembrava che gli fosse rimasto solo un grande vuoto. Meno senso del senza senso! Forse sarebbe dovuto andare a dormire tutto il giorno, e risvegliarsi la mattina dopo, così magari da vedere che davvero “Babbo Natale era sceso giù dal camino” e gli aveva portato dei regali. Ma, già, a Babbo Natale non credeva neanche quando era bambino. Su quell'illusione si basava tanta parte della “atmosfera di Natale” del mondo infantile. Il magico che entra nel quotidiano, che evidentemente risultava insufficiente, così ansioso di essere completato.
  • 2. 2 E poi c'era sempre da mettere in conto quella cosa che “a Natale siamo tutti più buoni”, cosa che l'affascinava così tanto da bambino, e continuava ad affascinarlo anche ora, in teoria. Solo che una piccola lucina razionale gli si accendeva ogni volta, suggerendogli che non ha senso essere buoni “un giorno all'anno” e poi farsi la guerra tutti gli altri, quando poi in realtà lo sapeva bene che anche questo era solo un alibi per non impegnarsi ad esserlo veramente neanche un giorno! Certo, la ragione sa costruire sempre schermi per non far vedere la nostra pochezza! E così, con tutto il suo fardello di pensieri brutti e senso di vuoto, in quella vigilia di Natale libera da impegni, che nel suo intento era da dedicare a se stesso, si poteva concedere il lusso di immergersi con calma nel clima natalizio della sua città. Era quindi uscito per farsi un giro nelle vie del centro di Firenze, circondato, al posto del brutto e del vuoto che si sentiva dentro, dal bello e da un molto affollato senso di pieno, con la pienezza di quel succedersi denso di architetture maestose, di fronte alla nostra piccolezza umana, alte allo sguardo di chi cammina a piedi, eppure basse e vicine a chi si volge tutto intorno a se stesso per guardarle. Così avvolgenti. Soffocanti, quasi. Troppe. Forse il suo vuoto del momento era la condizione ideale per fare spazio a tutto questo pieno. Eppure Firenze era la sua città. Da sempre. Ma voleva respirarne a pieni polmoni il clima natalizio, ed ora, con tutto il tempo e tutta la calma per girarla in lungo e in largo, doveva ammettere che non l'aveva mai vista così bella. La gente lo sfiorava mentre camminava, ma erano tutti molto lontani, in realtà. Vicina invece, ad ogni passo che faceva, c'era la città, la sua città, Firenze, così unica nel mondo, per riconoscimento universale, ma quel giorno così unica per lui. Ogni angolo aveva qualcosa che lo colpiva. Aveva qualcosa di incredibilmente bello che lo sfidava. Gli piaceva, gli piaceva molto, camminare e guardare a destra e a sinistra, e salire con lo sguardo fino al ricamo del profilo dei tetti, e poi ripoggiare lo sguardo su un particolare vicino. Certo capiva bene perché tanti stranieri da tutto il mondo, anche dall'Estremo Oriente, si mettevano idealmente in processione per assistere a tutto questo. Ora era in Piazza Santa Croce, che se ne stava lì come abbracciata, ai suoi due lati, da due braccia di case dal sapore antico, e con all'inizio il profilo austero di Dante Alighieri pronto dall'alto a giudicare tutto e tutti. E, dietro di lui, la facciata della Basilica, con tutti quei triangoli, quelli spigoli, quelle sue punte, che però non erano fatte per salire al cielo: triangoli appiattiti verso il basso, verso un orizzonte terreno, sormontavano giganteschi quadrati, e cerchi inscritti in triangoli e quadrati... la Basilica insomma indicava pur l'alto con i suoi indici, ma stava salda qui in mezzo a noi. Qui, proprio uscendo da questa chiesa, uscendo da quella sua foresta di alte colonne ottagonali, dal quel sepolcro cumulativo di universali glorie italiche, dove ogni passo è un pezzo di storia, ogni piccolo passo ha sotto i suoi piedi “un grande passo per l'umanità”, proprio lì Stendhal era stato colto dalla “sindrome di Stendhal”, cioè la sindrome che da lui prende il nome, che vuol dire semplicemente che aveva come percepito, tutto a un tratto, che tutto questo era troppo per i nostri miseri contenitori umani. Li esuberava. Straripava. Anche Dario ne era molto colpito, mentre continuava il suo giro. Dato che era di Firenze, era per così dire abituato, ed era stato sempre molto disattento verso bellezze che gli sembravano normali. Ora no, le guardava, come fosse la prima volta. Giunto in Piazza della Signoria lo spettacolo dava una replica, con il Palazzo Vecchio e quel suo “balcone” su in cima, da cui spuntava la torre dell'orologio, quella di Arnolfo, che sembrava cascare addosso, tutta sporgente com'era. Al suo lato c'era la armoniosa Loggia dei Lanzi, forse gentilmente costruita per parare la pioggia sulla testa delle statue che si riposavano lì sotto, mentre altre statue, più coraggiose e più grandi, anzi addirittura giganti, osavano sfidarla stando in mezzo alla piazza. Sotto
  • 3. 3 di quegli uomini giganteschi, che sembravano come a passeggio in piazza, piccoli omettini passeggiavano a loro volta. Dario, per lo più a naso all'insù, si soffermava ora su un dettaglio ora su un altro. Mentre camminava ancora lo circondavano, a destra e a sinistra, pareti di bugnato color terra sormontate ciascuna dal proprio primo piano, il “piano nobile”, impreziosito con finestre in bifore. Vera decorazione in verticale delle strade. Come arazzi. Affreschi. Arrivato al Duomo la facciata lo soverchiava, costretto com'era a starne così vicino a causa dell'esiguità della piazza. Forse l'avevano fatta così apposta per questo: per costringere la gente e stare a naso all'insù, e sentirsi inferiori, cioè riconoscere la sua superiorità, riconoscere che il Bene vince sul Male, e sulla piccolezza umana. Ed il vincitore allora magnanimamente è disposto a dargli in cambio la sublimità della bellezza... delle cuspidi, dei rosoni, delle tarsie verdi che si alternano alle bianche, dell'armonia delle proporzioni. E con quell'armonia, e quella ritmicità di alternanza, che poi proseguiva anche lungo i lati, geometrica, cerebrale, intellettuale, non rivolta solo verso l'alto come i pinnacoli gotici, ma terrenamente frutto dell'ingegno umano, della capacità di giocare del suo cervello. Così anche l'altezza divina si riconciliava con l'umano, quella chiesa era al tempo stesso umana e divina, era l'inno dell'incarnazione di Dio in Terra, già, cioè proprio del Natale, anche se in realtà era intitolata alla Madre di Dio, che era quella che l'incarnazione aveva resa possibile. E Dario era ora sopraffatto da tutta questa bellezza. Stordito. Inaspettatamente, aveva sentito all'inizio la testa girargli un po', e il cuore farsi più accelerato, mentre ormai diventava completamente ignaro delle persone che gli stavano intorno. E dall'iniziale giramento di testa era passato proprio ad un chiaro senso di vertigini. Ma non cascava a terra. Era solo malfermo sulle gambe, mentre continuava a camminare. I pensieri andavano e venivano per conto loro. Il suo respiro era diventato un affanno. Ad un tratto come in un sogno sentì una voce dentro di sé che gli ripeteva con insistenza: “Non sei nessuno! Non sei nessuno! Cosa hai fatto nella tua vita per essere degno di tutto questo? per essere degno di tutta questa bellezza? qual'è il senso della tua inutile esistenza?” Ed è a quel punto che l'aveva visto. Ghignante, come la sua voce. Scuro come se fosse notte solo per lui, mentre intorno era giorno. “Non sei nessuno! Non sei nessuno!”, continuava quella demoniaca visione. E lui non poteva che convenire. Sì, era vero, non era nessuno... Dopo la vertigine gli arrivarono anche dei forti tremiti. Ma a questo punto Dario sentì però un'altra voce, con un timbro diverso, più dolce, che gli diceva: “Ma questa bellezza è qui anche per te! Ti è stata data, come a chiunque la cerchi, e non ti sarà tolta!” E quella voce veniva da un altro uomo, completamente diverso dal primo... emanava luce, e questo, incredibilmente, in quella situazione gli sembrava una cosa normale. A Dario era immediatamente chiaro che si trovava di fronte ad un demonio e ad un angelo, ma era troppo confuso, stordito, e preso alla sprovvista, per poter riflettere sulla unicità di quella situazione. Non riusciva a trovare strana la cosa: in altri momenti avrebbe detto a se stesso che forse era diventato pazzo, che erano dei chiari segni di psicosi, ma in quel momento non poteva, era dentro anche lui alla sua visione, non era uno spettatore... Non esisteva più nessun altro intorno a lui. Almeno così gli sembrava. “Tutta questa bellezza ti salverà”, continuava la voce “buona”. “Ma tu non sei nessuno, niente e nessuno ti può salvare!” rispondeva l'altro, perverso. Un surreale battibecco tra le due figure misteriose. Già, “Solo la bellezza salverà il Mondo”, aveva scritto Dostoevskij nell'Idiota, o forse il significato era “salverà la Pace”, che in fondo è lo stesso, perché il Mondo tutto non può nemmeno esistere senza la Pace, ed ora era a questa bellezza sovra eccessiva che Dario chiedeva di essere
  • 4. 4 salvato, mentre ne era al tempo stesso perso. “Solo la bellezza salverà il Mondo...” o forse ne sancirà la definitiva inadeguatezza?... Solo la bellezza, ma quale bellezza? Il grottesco litigio continuava e Dario aveva il volto rigato di lacrime, e l'equilibrio precario, al punto che si appoggiava con la schiena a una parete. “Chi ti credi di essere, essere inutile e insignificante?” faceva l'uno. “Ma tu sei al centro di tutto questo, e tutta questa bellezza è stata apparecchiata apposta per te, davanti a te.” rispondeva l'altro. E continuavano così. Non si erano fisicamente accapigliati, come avrebbe fatto immaginare il tono duro con cui si parlavano, anzi, non si erano mai nemmeno toccati! Già perché non si toccavano nemmeno, pur nel trasporto della lite? Come se appartenessero a due universi diversi, come se un campo magnetico opposto provocasse repulsione tra di loro. Solo con le loro parole, i loro sguardi, con i loro pensieri si erano, sì, percossi l'un l'altro. Ed ogni frase arrivava forte come un vento, spingendo anche i capelli indietro. Bagliori di luce, come da un un cavo scoperto di alta tensione, squarciavano l'aria sopra di loro. Era una scena tremenda, spaventosa come un film dell'orrore, ma eppure affascinante al tempo stesso. Continuarono così per un po', continuarono a lungo, o almeno, per un tempo che sembrava lungo, mentre tutto intorno era fermo, fino a quando l'uomo di luce concluse. Tutto a un tratto. Come se avesse proprio lui il diritto già stabilito all'ultima parola. Sibillino ed enigmatico disse: “Ma ricorda, ricordatelo bene, dopo: tutto questo è niente... capirai poi.” Poi come erano apparse, così, repentinamente quanto misteriosamente, le due figure scomparvero. Come risucchiate nel vuoto. Sì. Forse Dario era semplicemente uscito pazzo. O forse in quel suo delirio era stato solo lucidamente consapevole della verità del mondo che lo circondava. Un mondo così abbondante, ma pure così incompleto... Un mondo al tempo stesso troppo, ma non mai abbastanza... Cominciava a respirare un po' meglio adesso, tornava a vedere pian piano la realtà che lo circondava, le persone, i colori, ora che non vedeva più le strane figure. Ma era stanco. Spossato. Ancora con un certo affanno, e sudato. Ridestato dal suo sogno surreale, dal suo incubo si potrebbe dire, si era accorto che in realtà era rimasto sempre lì nei paraggi del Duomo... non si era mosso... Vicino alla facciata, come ogni anno, c'era montato un grande presepe, proprio accanto a dove Dario si era ridestato. E la prima cosa su cui gli cadde l'occhio fu la culla-mangiatoia, ancora vuota del bambino. Come normale per la Vigilia di Natale. Ma per lui ormai “quello che è normale” e “quello che non lo è” aveva nuovi connotati: ancora stordito, confuso, si domandava: “Perché è vuota?? Perché non c'è? Dov'è? Dove è andato?” Se lo domandava come se quella assenza fosse piena di un significato voluto, e soprattutto voluto apposta per lui. “Perché non sei venuto? Dove sei?” Gli sembrava che non ci fosse bellezza sufficiente per colmare quella mancanza. Ancora molto confuso per la sua recente esperienza, scosso fino nelle sicurezze più profonde, Dario era ora vulnerabile come non era mai stato. E quel primo dettaglio su cui aveva riaperto gli occhi aveva acquistato una densità di significato che lo martellava... La culla vuota...
  • 5. 5 Quella mancanza lo feriva, e lo portò a chiedersi: “E se fossimo soli? Se il mondo fosse solo gelidamente, e inutilmente, bello, e non avesse in sé altra vita? Cosa conterebbe allora questa bellezza?” E a quel punto perché dovrebbero esserci cattedrali e opere d'arte, ma anche perché cime innevate e mari al tramonto, e prati fioriti e profumo di brughiera? Perché tutto questo? Perché se non comunica con nessun altro che con se stesso? Se non può parlare? Solamente in quel momento, proprio in quel momento, gli tornò alla mente la frase: “Ricorda, ricordatelo bene, tutto questo è niente.”... E allora s'illuminò. E capì. Già era proprio così. Tutta questa bellezza sarebbe stata davvero niente, senza l'incontro tra i suoi autori. Se fosse rimasta una bellezza muta. Ma eppure proprio ora era stata per lui, come dire... così tanta... troppa... accecante... e questo voleva dire che aveva davvero parlato, che quell'incontro c'era stato, eccome che c'era stato! Se la bellezza può arrivare ad essere troppa vuol dire che il suo significato va oltre, ce la fa ad andare oltre, la somma delle forme mute. Quando tanta bellezza era arrivata fin nel profondo di Dario, e lo aveva spiazzato e stordito, e lo aveva anche alla fine svuotato del suo ultimo geloso presidio dell'ego, fino anche quel po' di ego che, depresso e dubitante di se stesso, conservava solo come ultima riserva, allora gli aveva lasciato lo spazio interiore per percepire un'altra bellezza. Quella antica. Ed eterna. Ed infinita. Ancora stordito dinanzi a quella mangiatoia, Dario si era accorto di aver così scacciato anche i suoi ultimi demoni di tristezza. Certo qualcuno domani gli avrebbe semplicemente detto che era stato stato tutto un sogno. Una allucinazione. Gli avrebbero spiegato con calma che era stato vittima della sindrome di Stendhal, o vittima di un malessere simile, e così con poca fatica avrebbero chiuso la questione. Forse era stato davvero così. Forse era stato come chiudere gli occhi e sognare, ma non per lui. Per lui tutto questo stordimento era stato, al contrario, come avere aperto gli occhi. E aver rimesso le cose a posto. E così, quando il giorno dopo qualcuno in chiesa avrebbe letto: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”, ora, finalmente, gli era ben chiaro cosa voleva dire. E cioè che, per nostra fortuna, la promessa di riempire quella culla verrà mantenuta anche questa volta, perché in realtà questo è già avvenuto una volta per tutte nella storia, e da allora, proprio da quell'ora, in quel momento lontano, noi tutti sappiamo che ogni gelida e muta bellezza si è potuta riempire di significato. Sì. Ora può anche parlare! Parla finalmente... Perché la bellezza della natura e la bellezza dell'arte si sono specchiate, e attraverso di loro i loro autori si sono potuti dire, compiaciuti, l'uno all'altro: “Ti piace, hai visto come sono stato bravo? Ho imparato bene? Non sono stato bravo anch'io?” E l'altro di risposta: “Beh, ma l'ho fatto apposta per te, tutto questo. Solo per farti piacere... e per questo sono venuto da te. Perché alla fine poi sono venuto. Lo vedi che sono venuto?”. Un'altra sola lacrima era scesa su una guancia di Dario. Una sola. Così anche quell'anno, nella notte, qualcuno avrebbe annunciato questa venuta. Mancavano ancora circa dodici ore a quel momento. Ma ora, finalmente dopo tanto tempo, Dario era molto più disposto a godersi tutte quante le ore di quell'attesa. A respirare a pieni polmoni il clima di Natale, e pure a “sentirsi più buono”. E a regredire, e tornare bambino, e godere dell'attesa. Trepidante.
  • 6. 6 Felice ora - perché no? - anche di farsi instupidire dalle luci colorate dei negozi, dopo che sarebbe calato il buio del pomeriggio, insieme alle luci dei festoni appesi sopra le strade. E voleva davvero godersele tutte quelle ore, perché dodici in fondo passano in fretta. La gente veloce gli strusciava accanto. Dalla porta di un negozio si sentivano uscire le note di “Bianco Natale”, e Dario riprese il suo cammino. In attesa. In dolce attesa. 2. La Santa Pasqua “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è resuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che bisognava che il Figlio dell'uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e resuscitasse il terzo giorno”.
  • 7. 7 Ed esse si ricordarono delle sue parole. E, tornate dal sepolcro,annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. (Luca 24, 5-9) La Torta Pasqualina Racconto di Pasqua La signora Maria Aldobrandi si era messa di buona lena già dalla mattina ad iniziare i primi preparativi per il pranzo di Pasqua del giorno dopo. Aveva scelto di prendersi tutto questo tempo perché era da sola a sobbarcarsi tutto il lavoro, e il giorno dopo voleva anche andare alla Messa, per cui prima del pranzo avrebbe avuto giusto il tempo di apparecchiare e riscaldare il tutto. Quando era vivo suo marito, ed erano più giovani, erano abituati ad andare alla Messa della notte, quella con la liturgia della luce, le candele nel buio, e che spesso aveva anche la celebrazione di battesimi. Alla chiesa andavano a piedi, a braccetto nel buio, e quando tornavano non sentivano sonno, anche se era tardi, risvegliati dall'eccitazione del momento. E così i preparativi per il pranzo di Pasqua li faceva tutti nella mattinata successiva, ma ora non se la sentiva più di uscire la notte da sola, specie pensando alla via del ritorno, ben oltre la mezzanotte, e così alla Messa ci andava la mattina dopo. Per questo motivo ormai tutti i preparativi del pranzo di Pasqua li faceva il giorno prima. Ma in realtà più che altro le piaceva fare le cose con calma, con il televisore di sottofondo che le teneva compagnia. Da quando era morto suo marito aveva preso l'abitudine di non stare nemmeno più a cambiare canale, mentre faceva le cose di casa: metteva un canale, di solito Rai 1, il “canale Nazionale” di una volta, e a volte lo chiamava così anche ora, e lo lasciava acceso tutto il giorno, spegnendo solo quando usciva per andare a fare la spesa, o per andare dal dottore. O al cimitero. Era il quadrilatero della sua vita attuale: casa, mercato, dottore, cimitero. Poi la domenica alla Messa, e così ricominciava il quadrilatero di un altra settimana. Quella Pasqua era una Pasqua più importante delle altre: tornava suo figlio, che adesso lavorava in Germania. Per Natale non era venuto: era stato dai genitori della sua nuova ragazza, la ragazza tedesca, Birgit, e quindi era ormai dall'estate precedente che non lo vedeva. Si erano messi insieme a novembre, e pretendere che lui lasciasse la sua fresca innamorata, dopo poco più di un mese circa, per passare le vacanze in Italia dalla mamma era davvero troppo, poteva capirlo anche lei. Ed anche pensare che potesse portarla giù così presto era improponibile, e così si erano aggiunti altri mesi al tempo che non vedeva suo figlio. C'era il telefono, è vero, ma non è la stessa cosa, sentirsi solamente e non potersi vedere, lei era sempre un po' imbarazzata al telefono, e non apparteneva certo alla generazione delle video telefonate al computer... no, davvero. Sì, era cresciuto il suo Mario, e ora c'era anche questa Birgit... la cose cambiavano, cambiava tutto. Lei si era appoggiata molto al figlio, quando il marito era morto, poi questo era diventato grande, era diventato un uomo, come succede quasi sempre, e si era laureato in chimica. Non trovando lavoro
  • 8. 8 in Italia dopo un po' di ricerche alla fine era andato in Germania, dove c'era la migliore offerta che aveva trovato, ed ormai erano due anni. Diceva che si trovava bene, che gli piaceva là. E da allora lei era sola, nella casa dove aveva vissuto con il marito, nella casa dove avevano cresciuto il figlio. Ad un certo punto squillò il telefono, e corse all'apparecchio, in salotto, impaziente. “Pronto... pronto? Sono Mario...” Fece la voce nella cornetta. “Mario! Come stai? Sono la mamma... mi senti? Pronto?” … “Lo so che sei la mamma, ho chiamato io! Tutto bene qui. Domani siamo lì... viene anche Birgit, così la conosci. Viaggeremo di notte, perché avevo da fare fino all'ultimo. Tra poco andiamo alla stazione. Vedrai, ti piacerà Birgit! Mi ha detto molte volte che vuole conoscerti, e vuole fare esperienza di vera cucina italiana, si aspetta maccheroni e pizza tutti i giorni!” “Ma che maccheroni! Sto facendo la Torta Pasqualina... e poi la “tasca”, sai la “tasca ripiena”...” “Cioè le vuoi fare la “sagra della Pasqua ligure”... bene, bene, le piacerà senz'altro! I suoi mi hanno fatto il “festival del Natale tedesco”... mi sembra la migliore risposta... Allora arriveremo di primo mattino, poi andiamo tutti insieme alla Messa” “Vai, vi aspetto, allora. Ciao, Mario, ciao. A domani, ciccetto.” Tagliò corto lei, sempre imbarazzata dall'uso del telefono. Abbassò la cornetta. Motivata ulteriormente dalla telefonata la signora Maria Aldobrandi si mise subito all'opera in cucina. Anche perché, oltre a suo figlio e a Birgit, a pranzo avrebbe avuto anche sua sorella, con il marito e la figlia, cioè sua nipote Tiziana... E loro non avrebbero portato niente per il pranzo, come al solito... Forse avrebbero portato una bottiglia di vino, forse avrebbero portato una colomba pasquale, che lei si sarebbe limitata ad aggiungere dentro l'armadio di cucina alla sua “collezione” di colombe pasquali: una specie di voliera dolce... Cominciò con la Torta Pasqualina, quella che per lei era la più faticosa, perché c'era da tirare delle sottilissime sfoglie di pasta con farina e olio, e non una sola, perché lei ne faceva tre strati per il fondo della torta e tre strati per la copertura. Qualcuno diceva che ci volevano trentatré strati, come gli anni di Cristo, ma lei si era sempre rifiutata anche solo di provarci: era già una faticaccia tirarne tre sopra e tre sotto. Perché dovevano essere strati sottilissimi, ma compatti ed elastici, e quindi la pasta veniva fatta prima in piccole sfere solide che solo dei muscoli ben robusti spianavano in sfoglia. Ed i suoi muscoli non erano più quelli di quando era giovane. Negli ultimi tempi in cui era vivo tirare la sfoglia era un affare di competenza del marito: “Fai te che sei un uomo, e sei forte” gli diceva, e lui rispondeva ogni volta, immancabilmente “Ti fa comodo che ci sia un uomo solo quando c'è da durar fatica, vero?” che maliziosamente alludeva alla lontana a ricorrenti questioni di letto. E lei: “Va là, che non hai voglia di far fatica! E vedi di tirarla bella fina!”. Raramente finiva con queste poche battute, ma la tiravano per le lunghe per tutto il tempo in cui tiravano la sfoglia. Prima di pensare alla sfoglia però aveva pensato al ripieno, con i carciofi che davano il senso della primavera incipiente, e quindi della rinascita della natura come simbolo della rinascita della Pasqua, rinascita resa simbolicamente anche con le uova celate nell'interno della torta. Una parte dei carciofi li tritava grossolanamente, un'altra parte li faceva a piccoli spicchietti, perché le piaceva che si vedessero e si sentissero nell'interno della torta, anche se mescolati agli spinaci tritati... Già... li spinaci!!! Se li stava dimenticando... Ma dove aveva la testa? Stava perdendo i colpi, cominciava a dimenticare le cose, ed anche per questo preferiva non dover fare le cose di fretta. Li aveva presi freschi, perché non le piaceva usare spinaci surgelati, ma allora li doveva pulire, preparare,
  • 9. 9 cuocere... Li mise in bagno per sciogliere tutta la terra, e dopo un po' di risciacquo cominciò a pulirli con movimenti rapidi. Una scottata appena, e poi, dopo averli strizzati per levare l'acqua, li aveva tritati. Ora il ripieno si poteva mescolare, con insieme gli spinaci, i carciofi, la ricotta, un uovo mescolato dentro, e poi sale, pepe... Fatto il ripieno aveva preso una alla volta tre delle sfoglie così faticosamente prodotte e le aveva messe nella teglia, spennellandole una alla volta con olio perché rimanessero staccate. I bordi li aveva lasciati larghi a sporgere dalla teglia, per rimboccarli al momento di coprire la torta. Ora poteva metterci il ripieno, e dopo averlo messo farci con un cucchiaio degli incavi per metterci in ciascuno un uovo. La Pasqua celava le sue sorprese, che potevano venir scoperte da quelli che le cercavano, che non si fermavano alla superficie. E nel caso della torta erano le uova, segno di nascita, o di rinascita per chi la morte l'avesse già assaggiata... Anche la tasca di vitello ripiena celava la sua sorpresa all'interno, e c'era anche qui una sorpresa verde, all'interno dell'involucro bruno della carne, e infatti anche questo era un piatto che si adattava bene per celebrare la Pasqua: con un po' di ottimismo si può sempre pensare che quando la realtà sembra oscura al suo interno cela già i segni del rinnovamento, della vita nuova. Anche questo piatto voleva prepararlo il giorno prima, perché “non sembra, ma con la fretta le cose si fanno sempre male”, si diceva tra sé la signora Maria. Sorridendo. Già, questa frase la faceva sorridere perché la diceva sempre anche a suo marito... Capitava alle volte che lui entrava di corsa in soggiorno, perché stava per incominciare una partita in televisione, e nella fretta urtava con lo stinco (dolorosissimo!) l'angolo del tavolino basso che stava davanti al divano... “Non sembra, ma con la fretta le cose si fanno sempre male...” si affrettava allora a dire lei con serafico sarcasmo, con un sorrisetto a presa di giro... Seguiva una bestemmia di lui, udendo la quale lei abbandonava il sorrisetto, e cominciavano un batti e ribatti a cui poneva termine solo l'inizio della partita, quando suo marito decideva che lei potesse dirgli qualunque cosa che lui non le avrebbe più risposto... Ora poteva dedicarsi al primo piatto, e anche questo poteva prepararlo il giorno prima perché quello che aveva deciso di fare era una teglia di lasagne. Non le voleva alla bolognese però, cioè con il ragù, ma anche in questo caso aveva pensato che dovessero essere come un omaggio alla primavera e alla sua voglia di rinascita, con ortaggi freschi, e in particolare asparagi e piselli, e niente pomodoro. 'Sta volta la questione della sfoglia era più facile, perché per le lasagne aveva deciso di comprarla già fatta. Questo sempre per risparmiare le sue povere braccia, ma in realtà anche perché, per lei, tirare la sfoglia delle lasagne era come un rito matrimoniale che ora non poteva più celebrare: era suo marito che girava la manovella della macchina per fare le sfoglie di pasta fresca, mentre lei le accompagnava dolcemente con le mani, come fosse una levatrice di sfoglie, quando uscivano. A volte poi si davano il cambio, e la manovella la girava lei. In due in pochi minuti facevano tutte le sfoglie per le lasagne. Ma in quegli anni facevano anche tagliolini, ognolotti, pappardelle. Presa la via di fare la sfoglia fresca si può dire che ogni domenica facevano qualcosa di diverso. Erano il pezzo forte del pranzo della domenica. Quasi si può dire il segno, che era domenica. Vista così ora, almeno da quel punto di vista, era come se non ci fosse più domenica, ma almeno era rimasta Pasqua! Le restava di preparare il contorno, un gratin di carciofi, porri e patate, tanto per restare in tema, ed era l'ultima cosa da fare perché poi come dolce aveva pensato ad una delle sue colombe, un po' perché non era molto portata per i dolci, e poi non aveva altro tempo, pazienza... Ma non ce la fece a continuare. Ormai era venuta sera, e lei non si era interrotta neanche un momento, cominciava proprio ad essere stanca. “Mi sento molto stanca, ora...” pensò la signora Maria Aldobrandi, che sentiva ogni giorno di più il peso dell'età.
  • 10. 10 “Mi corico un momento, che recupero un po' di energie. Solo un momento. Poi riprendo”... In realtà cascò subito addormentata. Sognò. E sognò subito il marito. “Ciao, Bruno! Era così tanto che non ci vedevamo... Come stai? Sembri molto... per così dire... Ah! Ah! Vivo! Ah! Ah!” “Ridi, ridi, tu! Sono vivo sì, non lo vedi?” Quel sogno aveva preso una piega surreale, e al tempo stesso così rispettosa della realtà oggettiva della vita e della morte. “Non me lo dovresti chiedere se son vivo, proprio tu poi, con tutte le tue Messe e i Rosari... Non lo sai che Lui è la Vita, Lui è la Resurrezione!” Aggiunse il marito, molto più serio. “Lo conosci allora?” domandò con ingenuità lei, ma lui ignorò la domanda, e tirò dritto nel discorso: “Ti stai dando un sacco da fare, vedo...” “Sì, e sono anche molto stanca, sempre di più. Mi ci vorrebbe che mi dessi una mano tu, ma non ci sei mai, quando c'è bisogno... Come quando c'era da fare un po' di pulizie in casa, e trovavi tutte le scuse per uscire di casa, e non aiutare... e ora ti sei trovato la più grossa delle scuse!! La scusa gigante! Non sarai morto per questo? Tu non vuoi proprio darlo il cencio, questa è la verità, e te le inventi proprio tutte!” Il sogno continuava nel suo tono decisamente surreale... “Oh, ma certo sei un bel tipo... Ma non vorrai mica litigare anche qui? Ah! Ah!” “No, no! Si vede che sei migliorato, non puzzi nemmeno più di sigaretta, che poi ne riempivi di puzza tutta la casa...” “E sì, si vede che sono diventato bravo!... Allora ciao, ci vediamo! A presto...” furono le sue ultime parole. E così passò la notte. E arrivò la mattina. E arrivò finalmente anche Mario, suo figlio, con la ragazza tedesca, dopo il viaggio durato tutta la notte. Mario entrò in casa senza suonare: in fondo era sempre casa sua, ed aveva sempre con sé le sue chiavi, attaccate al mazzo delle chiavi di casa tedesche. Così, prima che arrivasse anche per lui il momento del matrimonio con la bella Birgit, le chiavi di casa avevano già anticipato tra di loro l'evento. Entrando in casa chiamò semplicemente, con sbrigativa allegria, “Mamma! Siamo arrivati!” ed incominciò ad avanzare. “Vieni Birgit, la mamma sarà in camera a riposare... Le facciamo una sorpresa!” Entrarono in camera, ed infatti la signora Maria Aldobrandi era lì. Era sul letto sdraiata. Ferma, come se dormisse, ma con gli occhi innaturalmente aperti verso il vuoto, immobili. Mario restò un attimo perplesso, ma poi capì tutto ad un tratto che la sua mamma se n'era andata. La guardò qualche istante, cercando qualche segno di vita che potesse confortarlo ma non ne notò nessuno. Solo, se ne accorse dopo un po', un lieve sorriso sulle labbra. (Nel pensare a questo racconto mi sono ispirato anche ad un “sonetto shakespeariano” che avevo composto molti anni fa. Lo avevo chiamato “shakespeariano” perché ci avevo messo rime in schema ABBA CC DEED FF, e si intitola per l'appunto “Vedovanza”, cioè “Widowerhood”. Essendo
  • 11. 11 l'inglese in questo più preciso dell'italiano va detto che il termine indica un vedovo uomo, perché per una vedova c'è un'altra parola) WIDOWERHOOD Do you remember the times that I said "don't be afraid to leave this land 'cause we are tight in His hand"? Well, come back, I need your aid! For today I miss you more than I could expect before. Don't you remember the time we have lost hurting each-other trying to know how to ride emotions that come and go? Well, we tested that love has his cost but that cost seems to be so sweet since the day we stopped to meet. (Per chi non sa l'inglese segue traduzione) Ti ricordi delle volte che ho detto “non aver paura di lasciare questa terra perché siamo stretti nelle mani di Dio”? Bene, torna indietro, ho bisogno del tuo aiuto! Perché oggi sento la tua mancanza più di quanto mi sarei potuto aspettare prima. Non ti ricordi il tempo che abbiamo perso ferendoci l'un l'altro cercando di capire come cavalcare emozioni che vanno e vengono? Bene, abbiamo sperimentato che l'amore ha il suo costo ma quel costo sembra essere così dolce fin dal giorno che abbiamo finito di incontrarci. 3. Il Corpus Domini Riconoscete in questo pane, colui che fu crocifisso; nel calice, il sangue sgorgato dal suo fianco. Prendete e mangiate il corpo di Cristo, bevete il suo sangue, poiché ora siete membra di Cristo. Per non disgregarvi, mangiate questo vincolo di unità; per non svilirvi, bevete il prezzo del vostro riscatto: poiché ora siete membra di Cristo. (Dall'Ufficio della Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo) Il povero Pat
  • 12. 12 Racconto per il Corpus Domini Padre O'Brien sarebbe stato molto indaffarato durante quella festa del Corpus Domini: la sera della vigilia c'era da fare il funerale del povero Pat. Cioè Patrick, che tutti chiamavano Pat, morto alle soglie degli ottant'anni con un silenzioso arresto cardiaco nel sonno della notte prima. Più esattamente la Messa di vigilia della festa sarebbe stata celebrata in memoria del povero Pat, e il giorno dopo, che era festa grande, dopo la Messa solenne celebrata il pomeriggio, avrebbero avuto, come da tradizione risalente nel paese fin dal Seicento, la processione del Corpus Domini. Quindi la Messa solenne sarebbe stata il pomeriggio, e non ci sarebbe stata Messa la mattina, perché l'insieme delle celebrazioni compresa la processione sarebbe durato almeno tre ore, troppe per cominciare tutto con il normale orario della Messa, cioè a mezzogiorno... e di fare la Messa due ore prima neanche parlarne!! Tradizionalmente il sabato sera l'intero villaggio lo passava al Pub, con le conseguenze immaginabili di abbondanti consumazioni alcoliche, ma ad onta del dopo sbronza nessuno poi voleva mancare di rispetto al giorno del Signore, e la soluzione era stata trovata ormai da diversi parroci precedenti, e confermata da tutti i successori, proponendo come unica Messa domenicale di quel piccolo villaggio solo quella a mezzogiorno. E così la pace spirituale del villaggio, dello spirito in tutti i sensi si dovrebbe dire, era salva. Il funerale non cambiava le abitudini, perché, alla memoria del povero Pat, dopo l'ultima palata di terra gettata sulla bara, era ben inteso che si sarebbero trovati tutti al Pub a bere in suo nome, e ricordarlo ciascuno con un brindisi diverso, con il racconto di un episodio della vita. Ed ecco perché il giorno della processione del Corpus Domini, senza alcuna obiezione da parte dei fedeli, il tutto era poi spostato al pomeriggio. Il “povero Pat”, come lo chiamavano tutti nel villaggio da quando era morto, era davvero un personaggio famoso nel villaggio, una persona importante a cui tutti volevano bene. Non che avesse mai fatto niente di realmente “importante” nella sua permanenza terrena nel piccolo villaggio. Non aveva fondato ditte commerciali, né imprese di costruzioni, ne aziende manifatturiere. Non aveva scritto romanzi che cantassero la bellezza delle ventose cliff affacciate sull'Atlantico. Non aveva ritratto con pittura ad olio gli scorci migliori del paesaggio, quelli con quelle case, ormai apprezzate e valorizzate anche dagli stranieri, con i caratteristici tetti di paglia, né aveva ritratto le sue donne. Quelle le aveva amate, sì, ma non poteva vantare particolari record amatori, come invece, con esattezza invero dubbia, veniva fatto dalla maggioranza degli abitanti maschili del villaggio. Non era andato in America per tentare l'avventura, per tornare carico di soldi e di fama, come pure di rimpianti e umiliazioni ben nascoste. Non era andato, non se l'era sentita. Il povero Pat non aveva fatto niente di importante, ma era amato da tutti. Postino per tutti i villaggi della costa fin dall'età di diciassette anni, a cinquant'anni si era già trovato in pensione, e da allora il suo sforzo di impegno quotidiano lo riservava al Pub, con scontata rassegnazione della moglie, che anzi, abituata alle sue lunghe assenze per il lavoro, non notava poi molta differenza. Peraltro poi la moglie era morta poco dopo che lui era andato in pensione, e con i due figli ormai grandi e sposati praticamente niente lo teneva più lontano dal Pub. Del Pub era in pratica l'anima, più ancora che lo stesso gestore, che in fondo si alternava nel locale con la figlia, e lì Pat aveva potuto conoscere anche le nuove generazioni, quelli che non erano ancora nati quando andava su e giù per la costa a portare posta.
  • 13. 13 E così quando il povero Pat era mancato certo non c'era nessuno nel villaggio che non ne fosse sinceramente dispiaciuto, che non la sentisse proprio come la perdita di un parente. Ci fu così un momento di dubbio su chi dovesse portare a spalla la sua bara nel tragitto, chi ne avesse più diritto cioè, dato che i due figli da soli non ce l'avrebbero potuta fare. Qualcuno pensò che spettasse a chi era più frequentemente seduto vicino a lui nel Pub, ma fu così che si accorsero che Pat si sedeva un po' con tutti, ora con uno ora con l'altro, ora con i vecchi compagni di scuola che erano rimasti ancora in vita, ora con i ragazzi loro nipoti. E quando era seduto da solo erano gli altri che, a turno, lo cercavano. “Pat, senti un po' questa...” “Pat, dimmi un po' cosa ne pensi...”. Quando non erano i suoi consolidati amici a cercarlo poteva capitare invece che fossero le loro mogli a venire a sfogarsi da lui dopo aver litigato, ingiungendogli di “dirgliene quattro a quello scimunito!!”: “Parlaci un po' tu, è meglio, perché se ci parlo io non so cosa gli faccio!”. A tutti Pat dedicava il suo tempo, a tutti dava una risposta, e non si poteva individuare chi gli fosse stato più vicino di altri in vita. Decisero allora che, visto che erano alla vigilia del Corpus Domini, la bara la avrebbero portata i portatori designati per la processione, quelli che il giorno dopo avrebbero portato il pesante ostensorio con cui veniva esposta l'Ostia consacrata. L'ostensorio in realtà era solo la parte più alta della pesante “macchina” in legno rivestito di argento dorato, risalente al settecento, che aveva lo scopo di innalzare l'ostia due metri sopra le teste di chiunque, e al tempo stesso dare stabilità nei confronti del vento laterale. Riusciva così a pesare novantacinque chili e così ci volevano sei persone robuste per portarlo tenendola sopra le spalle. Negli ultimi anni erano sempre gli stessi, i più robusti e collaudati. A loro fu chiesto di portare la bara col corpo di Pat, letteralmente adottato da tutto il villaggio che così si faceva carico, con qualcosa che somigliava ad un funerale di stato, quel piccolo stato indipendente che era il villaggio, anche del suo ultimo saluto. E così fu. Mentre portavano sulle spalle la bara il vento dell'Atlantico li spingeva forte verso destra e dovevano faticare molto per camminare in linea retta. Il percorso dalla chiesa al cimitero era abbastanza lungo, perché la chiesa era ad un capo del villaggio, ed il cimitero abbastanza fuori, esattamente dall'altra parte però, con la strada che traversava nel mezzo il villaggio, passando proprio davanti al Pub, e poi, arrivata al mare, costeggiava la scogliera a strapiombo sul mare. Mentre il corteo camminava a turno qualcuno risaliva la fila fino in cima, fino alla bara e la toccava brevemente con la mano, poi si lasciava risorpassare dal lento fiume di persone. E dopo lui partiva un altro, e toccava la bara. E poi un altro e un altro, fino a che tutti gli abitanti del villaggio non avevano toccato il legno che separava le loro mani dal corpo dell'amico. Pat era stato il loro amico in vita, ma ora era ancora in mezzo a loro, era nei loro cuori, e volevano che ci restasse. Dopo la Messa, il corteo funebre, la cerimonia al cimitero, la riempitura della sepoltura con la terra, il ritorno in paese, giunta ormai sera, continuarono tutti a stare insieme al Pub. Era il loro modo normale di ricordare i loro cari defunti, e il povero Pat oltre tutto in quel posto era di casa. Non fecero certo un giro solo di birre, dato che continuarono fino a notte inoltrata a dedicare brindisi al loro amico... Il giorno dopo, giorno di festa, tutti potevano dormire un po' di più. Il silenzio generale era parzialmente rotto solo dal vento che spirava dall'Atlantico, lungo le scogliere della contea di Galway. Il silenzio finì proprio quando un quarto a mezzogiorno suonarono con forza le campane per chiamare alla Messa di mezzogiorno... che non c'era! Padre O'Brien si era dimenticato di spegnere il meccanismo automatico che ogni domenica faceva suonare le campane un quarto d'ora prima della Messa! Quella domenica avrebbero dovuto suonare il pomeriggio...
  • 14. 14 Beh, una sveglia a una certa ora ci voleva pure per il villaggio, magari perché alla fine almeno pranzassero con la colazione... o facessero colazione con il pranzo, secondo i gusti... Abbondarono i caffè, il villaggio si rimetteva in piedi, piano piano. Per il pranzo si ritrovarono, come da programma festivo normale, nelle case dei parenti più stretti. Suocere invitavano i figli, ma soprattutto le nuore, per batterle in cucina. Nipoti andavano a trovare i nonni. I non sposati erano ospitati dalle famiglie dei fratelli sposati. E così si consumava il pranzo della domenica, con studiata lentezza. E arrivò l'ora della solenne celebrazione del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, che nel villaggio tutti chiamavano ancora con il suo nome latino, semplicemente Corpus Domini, il Corpo del Signore. La Messa sembrava troppo lunga agli abitanti del villaggio, tutti riuniti dentro la chiesa, ma del resto a loro sembrava troppo lunga ogni volta: devoti sì, lo erano, ma tanti discorsi non li reggevano. Poi iniziarono la processione, e questo ebbe un sapore liberatorio ai loro occhi. Il percorso era in parte coincidente a quello del giorno precedente: partiti dalla chiesa ancora attraversavano il paese percorrendolo nella sua via principale, e poi ancora continuavano in direzione del mare. Fino ad affacciarsi all'alta scogliera. Come per offrire all'oceano il loro dono. Come se un rito cristiano e un rito pagato si fondessero benevolmente, insieme dando sicurezza agli uomini che ci si affidavano. Anche mentre portavano sulle spalle il pesante ostensorio, come il giorno prima con la bara, il vento dell'Atlantico li spingeva forte, e ancora dovevano faticare molto per camminare in linea retta. Come il giorno prima i sei portatori sbuffavano ogni tanto, ma non volevano farsi dare il cambio da quelli che erano pronti come riserva: in realtà non venivano mai dati i cambi nella processione, non si ricordava a memoria d'uomo che fosse successo, ci sarebbe voluto uno strappo muscolare perché qualcuno lo richiedesse. Era motivo di orgoglio essere ritenuti i più robusti del villaggio per questo compito. L'erba ricopriva a ciuffi i terreni ai lati della strada, ciuffi piegati e abbassati dal vento. Verdi distese d'erba ondeggiante, un “mare d'erba” come molte volte i poeti, ormai non più originali, l'avevano chiamato. La strada una volta giunta alla scogliera, non potendo continuare oltre, girava in direzione del cimitero, costeggiando il mare, e questo infatti era il percorso dei cortei funebri, ma loro invece, arrivati al mare, girarono in tondo e continuarono tornando indietro per la stessa via, in direzione della chiesa. Durante il cammino cantavano ripetendo sempre i soli tre canti che avevano per la processione. Qualcuno invece, ritenendosi stonato, stava in silenzio. Qualcuno parlava col vicino. Qualcuno cantava, sì, ma ritardando di quasi un verso il canto, perché non lo ricordava e aspettava… l'imbeccata degli altri. È chiaro che il risultato dal punto musicale era quello che era... Arrivarono infine alla piazzetta davanti alla chiesa, e qui, fuori programma, i sei portatori appoggiarono a terra l'ostensorio, invece di entrare subito dalla porta. “Senti, Padre, ti dobbiamo fare una domanda... - iniziò il primo di loro - Pat è morto ma noi sappiamo che non è veramente morto, ma vive nel Signore, nella resurrezione, e per questo, dopo che abbiamo pregato per lui, l'abbiamo salutato con pinte di birra e non con lacrime. Non è vero? Abbiamo portato in spalla il suo corpo ma non l'abbiamo mai pianto come morto, ma abbiamo fatto festa con lui al Pub. E anche Cristo è morto in croce ma noi sappiamo che è ancora in mezzo a noi, non è vero? Allora, dopo averlo portato sulle nostre spalle, dopo aver portato in spalla il suo corpo, come abbiamo fatto per il povero Pat, lo dobbiamo piangere come morto?
  • 15. 15 Perché non salutiamo anche lui al Pub, come si deve, con delle belle pinte di birra? Se col suo corpo è presente realmente in mezzo a noi, se è uno di noi, se come Pat è uno di noi, non dovremmo festeggiare anche lui come Pat al Pub, o forse vorresti che lui invece lo piangessimo come morto?” La logica era ineccepibile, per quanto non convenzionale. Quell'accostamento tra corpi suonava un po' eretico, certo, ma forse non troppo. Padre O'Brien, preso alla sprovvista dalla domanda, tentennò il capo, poi rimase un po' come sopra pensiero, il grosso testone immobile. Come sospesi per aria, come tante piccole luci di una notte stellata, tutti gli occhi erano rivolti verso di lui. E lui muto, corrucciò un sopracciglio. Poi lentamente aprì la bocca. Rimase ancora un istante in sospeso, così, con la bocca aperta. E infine con voce tonante fece: "Tutti al Pub!!" In risposta si elevò un boato tale che poté essere udito anche dal villaggio che stava dall'altra parte della collina, quello più lontano dal mare. La mattina dopo invece il silenzio era totale nel villaggio, era giorno lavorativo è vero, ormai passata la festività, ma non sembrava veramente esserlo. Nessuno si presentò per aprire il piccolo drug store locale, ma peraltro nessuno si presentò per comprare. Nessuno aprì la bottega artigiana di lavori in cuoio, ma tanto nessuno dei lavoranti ci si presentò. Nessuno aspettava alla fermata dell'autobus, dove però nessun autobus era passato. Beh, almeno fino a mezzogiorno...
  • 16. 16 4. Pentecoste Veni, Sancte Spíritus, et emítte cǽlitus lucis tuæ rádium. Veni, pater páuperum, veni, dator múnerum, veni, lumen córdium. Consolátor óptime, dulcis hospes ánimæ, dulce refrigérium. In labóre réquies, in æstu tempéries, in fletu solácium. O lux beatíssima, reple cordis íntima tuórum fidélium. Sine tuo númine, nihil est in hómine nihil est innóxium. Lava quod est sórdidum, riga quod est áridum, sana quod est sáucium. Flecte quod est rígidum, fove quod est frígidum, rege quod est dévium. Vieni, Santo Spirito, mandaci dal cielo un raggio della tua luce. Vieni, padre dei poveri, vieni, datore dei doni, vieni, luce dei cuori. Consolatore perfetto, ospite dolce dell'anima, soave refrigerio. Nella fatica, riposo, nella calura, riparo, nel pianto, conforto. O luce beatissima, invadi nel profondo il cuore dei tuoi fedeli. Senza il tuo soccorso, nulla è nell'uomo, nulla senza colpa. Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina. Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, raddrizza ciò ch'è sviato.
  • 17. 17 Da tuis fidélibus, in te confidéntibus, sacrum septenárium. Da virtútis méritum, da salútis éxitum, da perénne gáudium. Amen. Dona ai tuoi fedeli che solo in te confidano i tuoi santi doni. Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna. Amen. Sequenza di Pentecoste Ottakring Racconto di Pentecoste Le piaceva vivere ad Ottakring, che di Vienna era quartiere occidentale ma eppure era così pieno di vita orientale. Soprattutto pieno - più che di viennesi - di serbi, e poi di turchi, greci, croati, bulgari, rumeni, ma anche, in minor numero, marocchini, senegalesi, italiani, spagnoli. Il posto più vivo di Vienna, pensava lei, e come lei pensavano molti giovani della città, che non solo vi venivano ad abitare per i prezzi più bassi degli appartamenti, ma che anche vi si ritrovavano in massa la sera riempendo i suoi locali, anche quando di giorno abitavano in altre zone della città. Katrin viveva da un po' di tempo in quel quartiere, ed era pure lì che lavorava, passando le sue serate e nottate per l'appunto in uno tra i tanti locali, bar, pub... Per Katrin la giornata iniziava a mezzogiorno, quando si svegliava... e terminava alle cinque della notte, tutto un po' tardi, in effetti... Ma la colpa era del lavoro, diceva, lavorando in un pub del quartiere che chiudeva ben dopo la mezzanotte. Intorno alle due di notte, per la precisione. E dopo la chiusura c'erano da sistemare i tavoli, le sedie, pulire i bicchieri, metterli a posto. Tutta colpa del lavoro, diceva, se andava a letto tardi. Ma non era ancora così tardi, in fondo, si diceva. Ed allora quando aveva finito si attardava ancora un po' con quei clienti che si erano trattenuti a parlare davanti all'ingresso del locale mentre lei era dentro a sistemare. Con la bella stagione in molti ancora rimanevano nella piazza fino all'ultimo momento dell'orario ufficiale di chiusura, ed invero c'era chi restava anche dopo. Ora poi che era arrivato giugno la temperatura sensibilmente superiore invitava ad attardarsi ancora di più. La bottiglia di birra in mano, qualcuno seduto sui gradini del portone, altri in piedi di fronte. E Katrin lì, sempre in mezzo a loro. Qualcuno poi salutava, pensando al lavoro del giorno dopo, ma lei restava fino all'ultimo con chi resisteva di più. Ma non era ancora troppo tardi, in fondo. E lei con quell'ultimo resistente allora si attardava ancora. Immancabilmente. Ogni notte. Quella notte il “resistente” di turno si chiamava Andreas.
  • 18. 18 “Allora, dimmi un po'... è tanto che lavori qui al Café Club International? Ti trovi bene?” le fece lui quando furono soli, per cominciare a spostare un po' la conversazione su di un piano più personale. “Tanto, o poco, dipende dai punti di vista... In questo locale ci sono ormai da sei mesi: io direi che è tanto. Prima gli altri lavori mi duravano molto meno! Gli altri impieghi erano comunque sempre nei locali qui intorno. A me piace fare tardi al banco, mi piace girare tra i tavoli e vedere sempre gente nuova. Sì, mi trovo bene tutto sommato.” Iniziò a raccontargli un po' della sua recente vita lavorativa: aveva sempre lavorato nei bar e nei pub della animata vita serale e notturna di Ottakring. Certo trovando il modo di perderli anche, i lavori, di solito dopo aver litigato furiosamente per qualche motivo futile con il padrone del locale del momento. Dato che il lavoro da quelle parti non mancava, però, ne aveva sempre trovati di nuovi, avendo indubbiamente una sempre maggiore esperienza da esibire come curriculum. A questo ultimo lavoro però teneva particolarmente, dato che era nel locale storico della rinascita del quartiere, almeno così le avevano detto, perché quando lei era arrivata ad Ottakring questa era già diventata la zona più di tendenza tra i giovani di Vienna, insieme alla vicina zona del Gürtel. Quindi ora faceva il suo lavoro senza parlare molto, e cercava di non avere storie. Detto questo, parlarono poi di molti altri argomenti, non solo del suo lavoro, scoprendo così affinità e diversità. Indagando, sondando, curiosi, voraci. Con quel Andreas sentiva una vicinanza istintiva che non le capitava spesso di sentire, ed una distanza che le veniva voglia di colmare. Iniziarono a camminare in direzione della casa di lui. Arrivati sotto casa di Andreas appoggiarono per terra le loro bottiglie di birra, ormai vuote. “Vieni, sali su da me che ci beviamo un'altra birra.” Lei senza parole lo seguì. Non era il bicchiere della staffa quello che li aspettava su in casa da Andreas, lo sapevano entrambi, non aveva alcun mobile bar in camera da letto, e non si allungarono verso il collo di nessuna bottiglia le sue dita, quando ebbero chiuso la porta alle loro spalle, ma lungo il collo di lei, sfiorandone la pelle. Era come un segnale convenuto, riconosciuto da entrambi, per cui si strinsero forte e si baciarono. I vestiti poi se li levarono velocemente mentre si avvicinavano alla camera di lui. Era bella Katrin, i capelli castano chiari, si sarebbero detti biondo cenere appena lavati, e gli occhi azzurri, asciutta, sportiva, soda in ogni parte del suo corpo. Le mani di Andreas avevano ora molti altri punti da sfiorare... Ad un certo punto della notte Katrin si alzò da letto e iniziò a rivestirsi, silenziosa, furtiva, per non svegliare Andreas. Ma Andreas sollevando leggermente la testa, evidentemente sveglio, le fece: “Perché non resti, ormai? È tardi, pensa a dormire” “No, io non mi fermo mai. Devo tornare a casa.” “Devo? Che significa? Te l'ha ordinato il dottore?” Ma lei silenziosa continuava a prepararsi. Ora si allacciava le stringhe... “Va beh, fai un po' come ti pare, io continuo a dormire...” Katrin tornò a passo lento nel suo piccolo appartamento, che non era molto distante: era anch'esso nel quartiere dove lavorava, anzi in effetti l'aveva scelto volutamente nei paraggi appena aveva iniziato a cercare lavoro in giro per i locali del quartiere. Il quartiere le era piaciuto subito, a pelle, come si dice, dalla prima volta che ci era capitata insieme a delle amiche. Si era subito detta che voleva vivere lì, voleva lavorare lì. Le era piaciuto per quella sua incredibile vitalità, per le molte diversità che vi si incontrano, i tanti colori, gli odori, ma forse sotto sotto anche per la possibilità di nascondersi nell'anonimato, in mezzo a così tanta animazione. Forse voleva come dissolversi in tanto movimento, in tanta varietà umana. Lei veniva da un piccolo paesino della Carinzia dove l'idea di non essere conosciuta da tutti era addirittura inimmaginabile. Tutti sapevano, tutti consigliavano, tutti si preoccupavano. Perché dovevano
  • 19. 19 preoccuparsi per lei? “La vita è la mia!” pensava lei “perché non si fanno tutti quanti i fatti loro?”. Si sentiva giudicata, in realtà, da quando aveva lasciato il fidanzato dei tempi della scuola, ragazzo noto a tutti, e notoriamente inconsolabile... Era lei la strega causa del suo dolore... Ma che colpa ne aveva? Erano così giovani quando si erano messi insieme. Inconsapevoli. E ora non lo amava più. L'aveva mai amato, poi? E lui, l'inconsolabile, l'aveva amata davvero? Non lo sapeva lei... pensavano forse di saperlo gli altri? Arrivò a casa sua con dieci minuti di camminata circa. L'appartamento era al primo piano... non aveva bisogno quindi di prendere il rumoroso ascensore, e salì allora i gradini con il passo felpato di chi non vuole svegliare nessuno, o forse con l'unico passo che le energie residue le consentivano, concedendosi però ugualmente il lusso di cambiarsi e di lavarsi i denti, prima di buttarsi sul letto. Anche nel colmo della stanchezza ci teneva a non lasciarsi andare. La sua vita era una alternanza di controllo e perdita di controllo, ritualità ossessiva e lasciarsi andare dionisiaco. Ed alla fine si addormentò che erano ormai le cinque. Come al solito... La mattina dopo... cioè a mezzogiorno... la testa era ancora un po' pesante per il troppo bere della sera prima. L'aspettava la quotidiana camminata in lungo e in largo nel vivace e colorato mercato all'aperto di Brunnenstrasse, sotto casa. Il suo rituale preferito... Il Brunnenmarkt abbondava di peperoni gialli enormi, dalla Turchia. E rossi. E melanzane loro compagne. Uva bianca siciliana dagli acini grandi ciascuno come piccole albicocche. Cocomeri sdraiati al sole (mancanti solo di occhiali da sole...), già tagliati in spicchi giganti di un quarto di cocomero, che apparivano come fossero offerti a ciclopiche fauci più che non destinati ad essere ulteriormente tagliati in pezzi. Collezioni di sottili e allungati peperoncini rossi, gialli, verdi, bianchi, disposti per gruppi di colore, un gruppo accanto all'altro. E poi vestitini multicolori appesi alle grucce, pantaloni e magliette piegati e impilati, grossi mucchi di calzini, padelle, posate, borse, valige, canestri di vimini, rotoli di tessuto, e tutto quello che può servire per una vita colorata ed economica. E gente, tanta gente di tutti i tipi, di tutte le provenienze, ma soprattutto orientale, turchi, serbi, e poi di tutti i paesi balcanici rappresentati in buon ordine... sparso. Katrin, quando la mattina tardi si alzava, si preparava rapidamente e poi usciva per fare il giro dei banchi dell'enorme mercato all'aperto, mangiando per pranzo qualcosa fuori (l'offerta era sovrabbondante) e comprando a volte qualcosa che l'aveva colpita particolarmente, oltre ad un po' di colorata frutta da mangiare a casa. Quella camminata era come la sua cura, la sua terapia per la tristezza, perché, alzandosi, ogni volta la prendeva un senso di vuoto, di disperazione senza che se la sapesse spiegare. Non sapeva perché, ma si metteva a piangere. “Giro a vuoto! Non combino nulla, non so dove sto andando... Non so chi sono!!” Anche quella mattina iniziò a singhiozzare, appena alzata. Sentiva ormai da molto tempo questo malessere interiore che non sapeva spiegare, ma di cui pure aveva certezza. “C'è qualcosa che non va in me...” si diceva nei momenti di lucidità. E anche quella mattina allora si preparò in fretta per uscire, come un automa, per tuffarsi tra la gente, per non pensare. Per fuggire dal suo male oscuro. Dopo il lungo bagno di folla, tornata a casa, si mangiò un po' di frutta ed a quel punto era quasi arrivata l'ora di tornare al lavoro, il punto di riferimento principale della sua vita in quel momento. E ci teneva ad essere particolarmente puntuale quel pomeriggio perché era di sabato, quando a qualunque ora l'afflusso era maggiore che negli altri giorni.
  • 20. 20 Ore di lavoro passarono svelte, clienti si alternavano svelti davanti ai suoi occhi, alcune facce ormai note, alcune facce nuove, boccali e bicchieri anch'essi si alternavano. Finito l'orario c'era il lavoro di sistemare tutto ed essendo sabato notte era più lungo degli altri giorni, naturalmente. Ma alla fine fu tutto a posto anche quella notte, e si concesse il suo rilassamento abituale di fine lavoro, con quanti restavano ancora in giro a parlare. C'era anche Andreas, l'aveva già visto prima, anzi l'aveva anche servito al suo tavolo con amici, con professionale distacco, solo indugiando un poco con lo sguardo su di lui. Era lì fuori, ma rimase con un altro gruppo di persone, senza avvicinarsi. Incrociarono lo sguardo alcune volte, ma lei lo distolse subito ogni volta, come se non lo conoscesse nemmeno, mentre lui restava con gli occhi ancora su di lei, perplesso, non capendo, indeciso se farsi avanti, percorrere alcuni metri, o rispettare quella sua ostentata indifferenza. Prevalse il timore. Non fece nulla, mentre Katrin sembrava ai suoi occhi più disinvolta, esuberante, effervescente, con l'attenzione di molti su di lei. Quando i suoi amici lo salutarono anche lui si incamminò verso casa sua, non sapendo cosa pensare. Katrin invece continuò l'abituale prova di resistenza, questa volta più prolungata perché era sabato, e quindi per il giorno dopo molti sapevano di poter restare più a lungo a dormire. La selezione naturale causata da chi di volta volta andava via, ed una sua istintiva inclinazione la fece legare un po' di più con Mathias, tra gli altri del gruppo. Nessun discorso intimo questa volta, non rimasero da soli a parlare, ma quando ancora c'era qualcuno che si attardava salutarono e andarono a casa di lui. Mathias le piaceva e lei piaceva a lui, tutto qui, non esplorarono altro. Non voleva sapere altro per passare la notte con lui. E ancora tornò per dormire a casa propria, come sempre. Quella mattina il pianto di Katrin fu più prolungato, più profondo, più disperato del solito. Non aveva dormito bene, si era svegliata verso le sette, poi ancora alle otto, e alla fine alle nove si era alzata. Certo in debito di sonno. Non pensando di riuscire a riprendere sonno a questo punto se ne uscì per andare a correre, come almeno una volta alla settimana era abituata a fare. Anche quello era un modo per sfogare energie represse. Percorrendo tutta Ottakringerstrasse raggiunse, come era solita fare nel suo jogging, il parco di Steinhofgründe. Si riteneva fortunata ad abitare non lontano da quel parco cittadino, verso cui si dirigeva sempre quando andava a correre, in modo da godersi un po' il suo verde. Correva nei suoi ampi prati circondati da foreste, di querce nelle zone più aride, di faggi nella zona della collina di Gallitzinberg. Qua e là zone più umide con piccoli stagni vivacizzavano il paesaggio. Gli animali non avevano molto timore degli uomini e gli era capitato diverse volte di vedere cerbiatti, picchi e altri animali. Cominciava già a sentirsi in riserva di energie quando vide da lontano, che emergeva da sopra i rami degli alberi del parco, il “limone” della chiesa di Sankt Leopold, la bella chiesa in jugendstil di Otto Wagner. Il cosiddetto “limone” per i viennesi era la sua cupola giallo dorata, a forma appunto di monumentale limone, ritta in piedi come in attesa del suo gigantesco spremiagrumi spaziale. La vedeva ogni volta che era andava a correre nel parco, ma mai le era venuto in mente di entrare. Si avvicinò maggiormente. Quattro giganteschi angeli sembravano come montare di guardia nella sua facciata. Affannata per la corsa, accaldata per il sole di inizio giugno, e con tutti i turbamenti che quella mattina la agitavano, questa volta decise di entrare, di fare una piccola visita in chiesa. Ricordava ancora bene quando da bambina era abituata a fare la “visitina” alla piccola chiesa del suo paese, sempre aperta come usava da quelle parti. Ricordava come era sudata quando entrava, ma non faceva jogging allora, giocava a calcio con i coetanei bambini maschi in un prato vicino alla chiesetta. E tutta sudata sentiva il sudore ghiacciarsi sulla schiena quando entrava in quel luogo in penombra, quella cosa che le mamme sanzionano sempre con un “Ti farai venire una polmonite!” ma che a lei piaceva
  • 21. 21 tanto proprio per quell'improvviso fresco dopo tanto caldo, quel senso di calma dopo l'agitazione agonistica, quella pacificazione che portava nel suo animo istintivamente bellicoso... E di pacificazione sapeva di avere fortemente bisogno, in quei giorni. Era domenica, appunto, e per questo a quell'ora la chiesa era aperta, e aperta senza bisogno di pagare alcun biglietto di ingresso per quella che normalmente era la chiesa museo dello jugendstil di Otto Wagner, perché in quel momento stavano celebrando la Messa delle 10:30. Messa ormai inoltrata, però. Quella domenica in particolare era quella della Solennità della Pentecoste, la festa dello Spirito di Dio che scende sugli uomini e li rinnova, con il ricordo della discesa sugli apostoli innanzitutto, ma poi ancora del continuo incontro tra Dio e tutti quanti lo cercano. Quando Katrin era entrata erano già alla Sequenza di Pentecoste, che appunto evocava lo Spirito Santo. Si soffermò un poco al limite della porta, ascoltando il canto dal fondo della chiesa... “Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina.” … e Katrin, sanguinante nel suo cuore, cominciava a pensare che quelle parole fossero state scritte apposta per lei... “Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, raddrizza ciò ch'è sviato.” Katrin sentiva tanto bisogno di essere scaldata. Poi quando tutti alla fine della Messa si mossero verso l'uscita lei invece si mosse nella direzione opposta, verso l'altare. “Dobbiamo chiudere signorina!” Le fece un uomo che evidentemente era il responsabile delle porte. “Un momento... solo un momento... la prego!” “Va beh, stia pure, intanto che sistemo in sacrestia...” Le rispose l'uomo. Katrin si inoltrò allora nel chiaro e luminoso ambiente della chiesa. Sopra l'altare, come galleggiante nel nulla, quasi immateriale, una leggera cupola di metallo dorato ricordava col suo colore la santità sottostante di altare e tabernacolo. Dietro la cupola si intravedeva il disegno sulla parete di fondo, ancora più in alto, di un Cristo a braccia aperte, con dei santi tutto intorno, anche in questo caso con molto oro a indicare la santità. Tutta la chiesa in realtà era come fatta di luce e di oro, di pareti immacolate e decorazioni d'oro: la santità voleva penetrare tutto con le sue dita, nelle intenzioni di Otto Wagner, fino nell'aria che respiriamo, intrecciarsi con la luce. Per un momento Katrin incrociò lo sguardo del Cristo sulla parete. Con le braccia aperte sembrava invitare tutti a rivolgersi a lui, senza timore. E quello sguardo ora la incalzava, la attraversava... tutta la disperazione che si portava dentro in quei giorni rivenne a galla e, sopraffatta di emozione, iniziò a piangere. “Signore, tu lo sai che puoi tutto... C'è qualcosa che non va in me... sto male, lo sai. Ho bisogno di te...” Ancora lacrime. In silenzio. La testa china verso il basso, per pudore di essere vista. Poi d'un tratto fu scossa da un tremito... Alzò di nuovo lo sguardo verso il volto di Cristo ed ora la luce della luminosa chiesa le sembrava quasi accecante. Fu pervasa, tutto all'improvviso, da un grande senso di pace. Scossa ancora da un tremito, si sentiva ora come pacificata con tutto. Come avesse in sé un forza nuova, quel dolore che si portava dentro ora, inspiegabilmente, non c'era più. Era guarita, risanata. Serena, finalmente... E davvero in un solo momento tutto era cambiato, tutto era nuovo adesso. In fondo non era questa la Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo, Spirito di vita nuova? Tutto cambia, tutto fa nuovo. Se solo avessimo la fede come un granellino di senape per chiederlo... Uscita di chiesa Katrin respirò la bella e luminosa giornata primaverile. Ricominciò a sentire
  • 22. 22 profumo di fiori nell'aria. Non aveva fretta, camminava passo passo ora. Era felice. Si diresse pian piano in direzione della casa di Andreas, sperando di trovarlo in casa. Ma ben decisa che se non l'avesse trovato l'avrebbe aspettato davanti al portone. E che se non fosse tornato quel giorno sarebbe ripassata il giorno dopo. E quello successivo, se necessario... La leggenda del santo narratore (chiaramente il titolo fa riferirimento, facendone omaggio, a “La leggenda del santo bevitore” di Joseph Roth) Roberto viveva in un chiaro stato di disagio spirituale, da un po' di tempo a questa parte. La diagnosi certa, la situazione stabile, incancrenita ormai. Di fatto era molto tempo che non si confessava, ma non era questo il problema in realtà, piuttosto forse questa era la conseguenza. Il fatto è che era sistematicamente di cattivo umore (vi intravedeva, negli sprazzi di lucidità, il peccato capitale di accidia), e provava continui risentimenti verso i colleghi di lavoro - che certo però se lo meritavano! pensava – (e qui intravedeva il peccato capitale di ira), e in più non voleva ammettere con sua moglie il suo attuale disagio, anzi lui con lei si doveva mostrare sempre come quello sicuro di sé, completamente sicuro che lei non potesse aiutarlo (e qui intravedeva la radice del peccato capitale di superbia). Insomma interiormente, spiritualmente, era un rottame. E lo sapeva bene, anche se lo dissimulava completamente. Quel sabato pomeriggio aveva qualche ora libera. Decise di salire al vicino santuario, su in collina. Decise di andarci a piedi, come per espiazione, unendo il segno ancestrale del pellegrinaggio a piedi al suo bisogno fisico di sfogarsi un po' da quella inquietudine che sentiva in sé. Si congedò dalla moglie, che peraltro aveva impegni vari in città (che lui non si dette pena di approfondire), dicendole che faceva una girata a piedi. Beh, questo almeno era vero, anche se lacunoso dei dettagli. Salendo su, passo passo, si ripeteva tutti questi pensieri, trovando la lucidità di individuare tutto questo come un malessere spirituale. Arrivato al santuario si affacciò guardingo, timoroso, come se fosse un intruso, uno ...“imbucato ad un party”: era molto che non entrava in una chiesa infatti, e comunque le ultime volte era stato in eventi collettivi, come un paio di matrimoni ed un funerale, dove poteva starsene tranquillamente in fondo, nascosto nella calca, ed erano stati sostanzialmente momenti più dedicati alla socialità che alla preghiera. Non ci aveva mai messo la sua identità più profonda, per affacciarla ad altre e più ampie profondità, ma solo la sua facciata, aveva interpretato un ruolo. In fondo era come faceva sul lavoro, e forse, gli doleva ammetterlo, anche con la moglie. Ma ora c'era silenzio, la chiesa era tutta per lui, solo per lui, e non si poteva nascondere dietro ad altri, né aveva alcun ruolo da interpretare. Avanzò quindi timidamente in direzione dell'altare. Giunto all'incrocio del transetto si accorse però che non era solo: alla sua destra c'era un uomo immobile e silenzioso seduto su una panca, con la lunga veste talare nera dei monaci che reggevano quel santuario. Era molto anziano, con la barba completamente bianca, la pelle chiara e sottile che sembrava trasparente. Roberto, preso di sorpresa, ebbe un leggero sussulto e allora, come per darsi un tono, gli disse: “Buongiorno. Ehm... Stavo cercando un prete per confessarmi...”
  • 23. 23 “L'hai trovato.” fu la laconica risposta. Rimase un po' in silenzio. Roberto cominciava a provare disagio, non sapeva come rompere il ghiaccio, quell'uomo lo fissava. Ma non ce ne fu bisogno, fu il taciturno padre a rompere il silenzio, dicendo “Mi chiamo padre Cristoforo.” Restò a fissarlo per un po', e poi a bruciapelo gli domandò: “Ma dimmi, cosa fai nella vita?” Non gli dette il tempo di rispondere che lavorava in un anonimo ufficio del suo comune, che continuò. “E scrivere, dimmi, scrivi? Non hai mai scritto niente nella tua vita?” gli chiese con tono impaziente padre Cristoforo, fissandolo intensamente con i suoi occhi azzurri. Come passandogli attraverso. “Mah, ai tempi della scuola avevo scritto qualche poesia, sa, come si fa sempre a quell'età...” “Bene, bene...” Gli fece padre Cristoforo con fare misterioso. “Entra allora...” Si accomodarono nel confessionale che era lì vicino in quella parte della chiesa. “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ti ascolto...” e a questo punto conviene mantenere il riserbo su quanto confidato nell'intimità della Confessione. Al termine, ricevuta l'assoluzione, Roberto si congedò e si diresse verso casa facendo la stessa strada a piedi come aveva fatto all'andata, avendo così tempo di pensare. Più di ogni altra cosa continuava a pensare a quella particolare penitenza che gli aveva chiesto padre Cristoforo: gli aveva detto “Per penitenza, tu che hai detto che sai scrivere, dovrai comporre un racconto ispirato alla grande festa del Santo Natale. O della Pasqua, fai te.” “Che strana penitenza.” – rifletteva tra sé e sé Roberto mentre si allontanava passo passo dal monastero – non gli era mai capitato. Normalmente la penitenza assegnata erano state delle preghiere che poi ripeteva frettolosamente, per arrivare in fretta al completamento della sua confessione e sentirsi così, alla fine, a posto. Altre volte qualche prete in vena di maggiori attenzioni gli indicava delle letture bibliche particolari da leggere, con una qualche attinenza con le cose che lui gli aveva detto. Questa volta no. “Scrivi, scrivi, mi raccomando...” Aveva concluso padre Cristoforo. Arrivato a casa non gli era venuta ancora in mente nessun storia che potesse tramutare in racconto, nonostante che durante il cammino vi avesse pensato molto. Ma forse non funziona così, si diceva, forse quando uno meno se lo aspetta, quando non ci pensa, viene baciato in fronte dall'angelo degli scrittori ed ha tutto chiaro, tutto insieme. Eppure non poteva accontentarsi di aspettare. Per sua abitudine la penitenza la compiva immediatamente dopo l'assoluzione, per tendenza ossessiva del suo carattere più che per pietas, ed ora trovarsi a non sapere nemmeno se ce l'avrebbe fatta a completarla gli dava un senso di inquietudine che non gli piaceva per niente... Il giorno dopo... ancora niente. Eppure aveva più tempo libero, visto che era domenica. E il giorno successivo... ancora niente. Ogni tanto ci tornava a pensare, durante il giorno, al lavoro, mentre mangiava, in macchina tornando a casa. Ma niente. Cominciava a temere di non farcela. Poi il terzo giorno, mentre ancora era in macchina che tornava a casa, tutto insieme gli venne in mente una storia e appena a casa iniziò subito a metterla per scritto, per non rischiare di dimenticarla. Si dedicò con insistenza al lavoro di finirla in giornata, per il timore di perdere l'ispirazione: è vero che da ragazzo qualcosa aveva scritto, ma era passato tanto tempo e non confidava molto nelle proprie capacità di scrittore. Così in qualche modo, anche senza curare molto i dettagli, la finì di scrivere prima di notte. E tirò infine il suo atteso sospiro di sollievo... ….... Venne di nuovo il sabato, il sabato pomeriggio che si era ancora preso libero per andare al santuario, anche perché doveva mostrare il racconto che aveva scritto: prima che andasse via padre
  • 24. 24 Cristoforo gli aveva estorto la promessa che lui gli avrebbe portato il risultato della sua fatica letteraria. Era ormai per lui un impegno preso ma anche padre Cristoforo probabilmente si sentiva impegnato da questa promessa. E infatti era ancora là in fondo alla chiesa, come l'altra volta, come se lo aspettasse, nella penombra. Tutto sorridente dietro la barba bianca, gli occhi socchiusi di contentezza, padre Cristoforo appena lo vide gli tese la mano con inaspettata voracità, inaspettata per l'età e per la seria aurea di sacralità che mostrava nel suo parlare. Ma non era per stringergli la sua che allungava la mano, perché accompagnò il gesto con le parole “Allora, cosa aspetti? fa vedere! Fammi vedere quello che hai scritto!” E quasi gli tolse di mano i fogli. Si sedette su una panca, ignorando per qualche minuto la presenza di Roberto, assorto nella lettura, un po' incurvato, forse per la debolezza della schiena data dall'età, forse per vedere meglio quanto scritto sui fogli, con la vista anch'essa indebolita per l'età, forse piuttosto per chiudere idealmente il mondo fuori, letteralmente voltargli le spalle mentre lui si dedicava alla lettura del racconto, che sembrava l'unica cosa che gli importasse. Questo però lasciava in sospeso anche Roberto... Come se dovesse attendere un verdetto. Finalmente padre Cristoforo alzò lo sguardo, lo lasciò sospeso per qualche secondo, e poi disse: “Bello...” Solo questa unica parola, “bello”, lasciando ancora a Roberto il senso di sospensione in cui l'aveva messo. “Ma ora dimmi, come hai passato la settimana?” - aggiunse dopo un po' padre Cristoforo - “Ti senti meglio ora?”. Roberto non se la sentì di mentire, non a padre Cristoforo, e gli accennò che ancora non andava, era inquieto, nervoso. Gli era piaciuto concentrarsi sulla sua storia, sulla festa del Natale, quando “siamo tutti più buoni”, quando aspettiamo Gesù bambino, e i regali, e la magia della notte santa. Poi però, finito il racconto, era pian piano ritornato al suo solito umore, complice una “incomprensione” sul lavoro che aveva dato il segnale di inizio... “Eh beh, cosa vuoi, ci vuole tempo, ci vuole pazienza... - gli rispose padre Cristoforo - Vieni, dimmi tutto...” Andò a finire come prevedibile che Roberto ricevette un'altra penitenza, cioè la stessa penitenza di scrivere un racconto su una grande festa cristiana, ma su un'altra festa naturalmente. …... “Non mi viene in mente niente! Niente!!” si diceva ancora una volta Roberto dinanzi alla pagina vuota, in preda al blocco dello scrittore... “Cosa ci scrivo ora? Ma non poteva darmi un'altra penitenza? Qualche preghiera... un brano della Bibbia... o andare a piedi al santuario partendo dalla piazza del Comune... ma anche in ginocchio!! Era meglio...” Poi però febbrile, trovata un'idea, una traccia esile di storia, si gettava a scrivere, di corsa, senza mangiare niente per cena, per non interrompere, solo alzandosi per prendere qualcosa dal frigo da portarsi alla scrivania. Sua moglie ad un certo punto gli diceva “Vieni a letto, cosa aspetti?” ma lui niente, le rispondeva “Ho da fare...” e lei si rassegnava a dormire da sola, paziente. Era, si potrebbe dire, il suo contributo personale al suo strano sforzo di santificazione. Continuava così fino a notte fonda, anche se la mattina dopo aveva il lavoro: quattro ore di sonno possono bastare - si diceva - se uno va a letto soddisfatto di sé, convinto di aver fatto quello che doveva fino in fondo, e quindi in pace col mondo. Se invece fosse andato a letto all'ora solita, ma troncando la sua opera, non sarebbe riuscito a dormire, si sarebbe girato nel letto infelice ed infine il
  • 25. 25 suo sonno, una volta arrivato, sarebbe stato come immeritato ed abusivo, e non l'avrebbe lasciato riposato. Doveva allora continuare come un artista maledetto di inizio novecento, bruciato, divorato dalla sua arte. Per un momento aveva pensato anche che forse l'avrebbe aiutato scrivere con solo una candela accesa ad illuminarlo, per concentrarsi tutto sulla pagina bianca e su quel che ci scriveva sopra. Poi si era dato del buffone da sé stesso e non ne aveva fatto di niente. Ma eppure continuava così, nel buio comunque rotto solo dalla lampada della scrivania, curvo, gobboni, immerso in quello che scriveva, accanito, come se la sua vita dipendesse da quello che scriveva. Febbrile. Frenetico. E così via, racconto dopo racconto. Settimana dopo settimana seguitava ad andare a trovare padre Cristoforo, ritornava ad avere il piacere di intravederlo nella semi oscurità, in fondo alla chiesa, sorridente, e poi ancora si vedeva assegnata la strana penitenza a cui ormai era abituato, e di nuovo lottava per trovare qualcosa da scrivere, una storia, un'idea, per poi però di nuovo ritrovarsi alla fine sempre con la storia finita... …..... Andò avanti così per quanto? due, tre, quattro settimane? Ormai ogni settimana era scandita dal nuovo incarico che febbrilmente lo prendeva, lo catturava ogni volta. Non esisteva più il suo lavoro di giorno, durante il quale continuava a pensare al soggetto del nuovo racconto, non esisteva la moglie, che era fin troppo paziente, invero. Ogni volta portava con se tutti i suoi racconti, insieme all'ultimo, finché il pacco di fogli fu così voluminoso che se lo fece rilegare in una copisteria, in un unico libro. Ora con quel pacco di fogli rilegati sotto il braccio Roberto sentiva di aver concluso le sue fatiche, sentiva di non poter aggiungere un rigo di più. E di non averne neanche bisogno, in realtà, o almeno non più, perché tutte le parole di conforto sul Natale, sulla Pasqua, sulla Pentecoste e altre feste, sulla presenza misteriosa di Dio nella vita dei suoi immaginari personaggi le aveva scritte in realtà innanzitutto per se stesso. Aveva così di nuovo percepito quella presenza misteriosa ma reale che aveva sentito un tempo anche lui, ma di cui si era dimenticato. Racconto dopo racconto si era sentito più leggero, come liberato di un peso alla volta, uno dopo l'altro, fino alla leggerezza più completa. Ora capiva il senso di quella penitenza che pure in principio gli era parsa così strana, e voleva ringraziarne padre Cristoforo. Anzi questa volta era proprio impaziente di vederlo, per ringraziarlo. Quell'uomo venuto dal nulla lo aveva scrutato fino in fondo alla sua anima. Lo aveva cambiato. Forse gli aveva detto chi era veramente. Entrato, gettò lo sguardo a destra e a sinistra nella chiesa, partendo dal punto dove era solito vederlo. Ma non lo vide... Eppure a quell'ora l'aveva sempre visto lì, - si diceva tra sé e sé – ma poteva avere avuto altri impegni, o forse non si era sentito bene, speriamo di no, alla sua età... Avanzò anche questa volta in direzione dell'altare, poi guardò verso il transetto di destra... niente, quello di sinistra... nemmeno. Vide allora un altro monaco con una lunga veste nera fatta come quella di padre Cristoforo, ma non così anziano, e senza barba, e pensò di chiedere a lui. “Buongiorno. Scusi... Cercavo padre Cristoforo... “ “Buongiorno anche a lei. Però devo dirle che qui non c'è nessun padre Cristoforo, né c'è mai stato. Mi dispiace...” Rispose il monaco, con il suo sguardo interrogativo che indugiava su di lui, mentre dentro di sé si domandava se forse non si era confuso con qualche altro padre del monastero, e
  • 26. 26 quale potesse essere il nome giusto. “Ma non è possibile, io l'ho visto qui tutti i sabati... - azzardò Roberto titubante - Sa, un padre magro, con la barba bianca...”. “Ah, allora a questo punto è chiaro che non è nessuno di questo monastero. Qui nessuno di noi porta la barba, mi creda. Ora se permette avrei da fare in sagrestia...” disse, e uscì senza tanti complimenti da una porta sul fondo della chiesa, lasciandolo solo... Nessun padre Cristoforo nel santuario, aveva detto! ... Ci fu un assoluto silenzio, appena il monaco fu uscito. Roberto ora era rimasto solo con i suoi racconti sotto il braccio. Scritti per quel padre Cristoforo venuto dal nulla. Ma con se aveva ora anche dei sentimenti che non provava da molto tempo. Ed era ben deciso a tenerseli ben stretti. Erano il regalo di padre Cristoforo. Beh... chiunque egli fosse. © 2013-2014 Stefano Chierici Altri racconti possibili: (oltre a Natale, Pasqua, Corpus Domini, Pentecoste) racconto della Solennità dell'Annunciazione (donna incinta), racconto della Commemorazione dei Defunti (ricordo di Antonio), racconto della Solennità di Tutti i Santi (tutti, proprio tutti santi: un santo sconosciuto)