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LA TECNOLOGIA HA UNA PRECISA CONFIGURAZIONE CULTURALE:
        quale ruolo per l’indirizzo tecnologico-scientifico nella nuova scuola

Gabriele Righetto1


Vorrei cominciare offrendovi un’immagine discutibile. E’ un’interpretazione ironica
dell’ “evoluzione” dell’uomo. Da una parte ci sta uno scimpanzé e dall’altro un essere
umano curvo su una tastiera davanti al monitor di un computer.
In mezzo, nella progressione della parabola del processo umano, l’essere iniziale
diventa un grosso scimmione, poi assume i caratteri di un ominide eretto e villoso,
dotato in una mano di una selce; eccolo in nuova versione apparire pienamente slanciato
e dalle fattezze non più scimmiesche nella versione del cercatore-raccoglitore e pastore,
per poi iniziare a curvarsi e decadere nella configurazione dell’agricoltore dotato di un
utensile agricolo, inchinarsi e rattrappirsi vieppiù nell’immagine dell’operaio che
imbraccia un martello pneumatico sintesi dell’homo faber ‘industrialis, per cadere infine
acquattato nella condizione dell’homo faber ‘technologicus’ dell’era infoindustriale,
schiavizzato dai computer.
Ovviamente nella sostanza non condivido questa immagine nella sua divertente filosofia
tecnofoba. Però l’illustrazione ha il pregio di mostrare come l’elemento tecnologico sia
un fattore strutturale della condizione umana e che la tecnologia costituisca una
dimensione culturale che nasce precocissimamente e accompagna la nostra vicenda di
viventi.
Se c’è una caratteristica culturale che è alle radici dell’uomo questa è proprio la
tecnologia. Prima ancora delle altre forme culturali, molto, ma molto prima della
scrittura e della storia, l’uomo si configura come costruttore di artefatti.



1

Centro d’Ateneo di Ecologia Umana – Università di Padova




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Quando noi ci occupiamo dei primordi dell’uomo, la documentazione di quei primordi
con cui facciamo i conti è una documentazione tecnologica.
Nell’immagine che ho presentato, un po’ autosarcastica anche se con la levità del
sorriso, sono un po’ rappresentate le grandi tappe della cultura tecnologica: l’emergere
degli strumenti ed arnesi e cioè della capacità trasformativa della materia mediante
qualcosa che la materia non ha. Il tecnologo quando nasce se non è subalterno
completamente alla materia, è obbediente alle caratteristiche strutturali delle risorse
naturali, ma non è obbediente alla naturalità formale e aggregativa della materia,
aggiunge alla materia qualcosa che la materia non ha. Forse qui conviene ricordare il
mito di Hermes com’é raccontato negli Inni Omerici.
Nell’Inno a Hermes è un po’ contenuto il simbolo della condizione immaginativa
dell’uomo tecnologico.
Hermes si libera dalle fasce della sua condizione nativa e, uscito dalla grotta dove stava
rinchiuso, trova all’esterno una tartaruga; ne libera il guscio, lo copre di pelle tesa di
bue, vi pianta due bracci e li congiunge con un giogo, quindi su questi sottende sette
corde ricavate dalle budella di una agnella. Ed ecco apparire la cetra da cui Hermes fa
scaturire una musica dolcissima. La tecnologia si avvale della materia naturale, ma la
vede con occhi nuovi, sorprendenti e inaspettati. La cetra non esiste spontaneamente in
natura, ma è fatta di natura a cui si aggiunge l’immaginazione progettuale. L’esito di
quel nuovo sguardo che non vede più un guscio di tartaruga, ma una cassa armonica;
non vede più dei tendini, ma delle corde, produce una nuova sintesi conoscitiva e reale:
l’insieme di guscio e tendini nella sua insolita composizione configura l’inaspettato
artefatto della cetra.
L’artefatto non nasce immotivatamente, emerge con l’affiorare di uno scopo: produrre
un soddisfacimento profondo, come la musica che dall’artefatto cetra prende corpo.
Certo l’artefatto nasce per una serie di operazioni tecniche, ma è l’immaginazione (ossia
la capacità progettuale) che vede quello che ancora non c’è e guida le operazioni
tecniche. In tal modo va oltre al fare esecutivo tecnico e si configura come tecno-logìa.




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La tecnologia dunque ha nella sua dotazione genetica primaria, un tasso di
immaginazione e un tasso di superamento del reale. Una amigdala, una selce, tanto per
citare i segni aurorali della tecnologia, non hanno nulla di preesistente alla specifica
azione dell’uomo. Occorre reinventare il proprio corpo, la propria mente, il proprio
rapporto con l’ambiente per giungere ad una produzione tecnologica.
Sono necessari atti immaginativi e progettuali anche per organizzare e adattare il
territorio al soddisfacimento di bisogni e desideri. La dimensione dei nomadi e dei
raccoglitori, ad esempio, rivela la produzione e l’utilizzo di tecniche e tecnologie con
cui rapportarsi attivamente con l’ambiente. La stessa organizzazione dei rapporti con
l’ambiente costituisce tecnologia e risorsa, ma se non si producono progetti e pratiche di
trasformazione del territorio non la si scopre, non la si utilizza, non la si vive.
Questo rapporto attivo con il territorio non è esclusivo dell’uomo. Un tasso di
“tecnologia” territoriale è presente anche in molti animali: alcuni sono capaci di
costruire tratturi, sentieri, nidi, abitazioni collettive come formicai e alveari, dighe per lo
sbarramento delle acque. La sentieristica dei nomadi umani è una forma altissima di
tecnologia e di plasmatura dell’ambiente dove si collocano non solo i segni della
transitabilità come fanno molti ungulati, ma anche della riconoscibilità dei luoghi e
quindi appare come cultura della trasformazione e della conoscenza. La tecnologia della
sentieristica costituisce l’atto dello “scrivere” sul territorio i segni della mente,
trasformando la memoria e la conoscenza in mutamento evolutivo della terra.
Questa è la grande avventura che la nostra specie ha iniziato dopo l’ultima glaciazione.
Il momento classico della tecnologia trae le sue origini e il suo rinascimento da eventi di
13-15 mila anni fa. E’ in quel momento, quando i ghiacciai si ritirano e si mette a
disposizione il territorio, che nascono l’agricoltore e l’uomo stanziale che inventa la
città.


I tre grandi paradigmi tecnologici che hanno siglato la storia ultima dell’uomo sono
susseguenti a quella fase e possono essere sintetizzati nel paradigma agrario-artigianale,
nel paradigma industriale e nel paradigma info-industriale.




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Tutte queste tre grandi e basilari culture tecnologiche non solo sono culture della
conoscenza, ma agiscono anche come culture della trasformazione e della reinvenzione
del rapporto dell’uomo con se stesso. Nel produrre oggetti l’uomo non realizza
fenomeni puramente materiali; produce assieme auto-trasformazione e trasformazione
dell’ambiente.
Le tre grandi culture della trasformazione non risultano tutte completamente tramontate.
C’è un problema di compresenza delle grandi culture. Quella di oggi, l’info-industriale
o tardo-industriale o post-moderna che dir si voglia, è una cultura di sintesi dove la
siglatura forte è riconoscibile nel fatto che stiamo trattando la trasformazione
dell’immateriale e dell’informazione. Tutto questo non è antitetico con le culture
trasformative passate: è un’aggiunta a tutto il precedente e quindi continua ad agire gran
parte della tecnologia agrario-artigianale ed industriale.


Il problema nell’impostare un discorso sul liceo tecnologico scientifico non è
banalmente riconducibile all’individuazione delle discipline “tecnologiche”: è possibile
parlare di licealità del liceo tecnologico scientifico o politecnico se ci rendiamo conto
che la tecnologia ha un altissimo spessore antropologico e una configurazione culturale
propria.
Questa è la pista che va seguita: la lettura antropologica della tecnologia.
E’ bene precisare anche il senso di alcune oscillazioni terminologiche che si affacciano
quando parliamo di fenomeni trasformativi, perché anche queste oscillazioni hanno un
loro senso.      Quando qualcuno ha un atteggiamento critico e negativo rispetto alla
cultura e alle pratiche trasformative, usa la parola “tecnica”, quando si vuol dare una
valorizzazione si usa invece la parola “tecnologia”.
       In ogni caso quello che è incredibile è che quella “LOGIA” che è la parte nobile
e costituiva della cultura della trasformazione, venga spesso declassata a pura
esecuzione di procedure ripetitive e ad invadenti stereotipi.
Ma questo non accade anche nei linguaggi? Tutte le volte che parole alate diventano
puro conformismo, non regrediscono a ‘tecnica’ e a formulazione esecutoria o
burocratizzata?




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E non accade anche alle scienze quando, da procedure di ricerca e scoperta (in cui i
processi logici ed immaginativi sono molto coinvolti e orientano l’azione e la pratica),
avviene il passaggio a fasi puramente applicative in cui prevalgono le ripetizioni di
procedura e le attività si effettuano come ‘esercizi’? D’altra parte, proprio in questa
parte ‘tecnica’ della scienza, emerge un equivoco che considera la tecnologia come
scienza applicata e quindi come un esito subalterno della scienza. In questo senso non
va concepita come tecnologia, ma come tecnica. La tecnologia ha propri linguaggi, ha
propri sistemi di rappresentazione e progettazione, ha un proprio retroterra di colloquio
con il design e le arti applicate, ha una manifestazione di linguaggi a supporto
tecnologico, di cui la dimensione attuale della multimedialità è elemento significativo.
Ma questo profilo culturale complesso decade da tecnologico in puramente tecnico se
l’universo tecnologico si impoverisce in processi esecutivi, ripetitivi e stereotipati.
Eppure gli stereotipi e i conformismi linguistici, come le azioni ripetitive di routine nel
campo scientifico non sono anch’essi ‘tecniche’ e quindi campi del decadimento?
Il problema allora è più generale: tutti i processi e le attività hanno un livello di
“eccellenza”, quindi di promozione dell’uomo, oppure presentano livelli di
strumentalizzazione e di abbassamento. Soltanto se riconosciamo fino in fondo la
dimensione antropologica della tecnologia siamo in grado di affrontarla rispettando a
quello che è, cioè un fenomeno culturale complesso, multidimensionale ed
estremamente articolato che non si risolve né in un sapere ristretto, né in alcune
discipline, né in una sequenza di operazioni.


Se dovessimo dire quali sono i poli forti di questa antropologia, dovremmo intanto
sostenere che è possibile sviluppare un sapere tecnologico quando gli si riconosca di
essere un sistema interpretativo degli eventi, dell’uomo e del circostante.
Si tratta quindi di un’attività umana che ha una sua cultura, una sua storia e un insieme
di pratiche non cristallizzate. Si tratta di una dimensione culturale in grado di inventare
rapporti dell’uomo con se stesso, con gli ecosistemi, con il non raggiunto perché la
tecnologia a differenza della scienza è una dimensione che si basa prevalentemente sul
possibile più che sul reale. Ovviamente anche sul reale, ma una tecnologia che si




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stabilizzi sul reale è una tecnologia paralizzata, è archeologia della tecnologia. La
tecnologia opera sempre per il suo futuro e per il suo auto-superamento.
La tecnologia ha una intrinseca propulsione ad auto-sorpassarsi e perciò è una cultura ad
alto tasso di obsolescenza. E’, per molti aspetti, auto-distruttrice.
Un prodotto delle altre culture (umanistica, scientifica e artistica), ha tempi molto
elevati di mantenimento dei suoi prodotti. La cultura umanistica tempi lunghissimi, la
cultura scientifica per lo meno decenni, o talvolta anche cinquantenni se si tratta di
teorie scientifiche paradigmatiche.
Gli oggetti tecnologici invece rivelano quasi sempre durata effimera, e allora bisogna
domandarsi se sono effimeri gli oggetti tecnologici o se è persistente la procedura dello
scavalcamento che va continuamente a giocare nel possibile.


Il tema forte della tecnologia è la progettazione che è lo strumento concettuale,
operativo e culturale con cui si dà rappresentazione e fattibilità al possibile.
La tecnologia non nasce se non c’è una capacità rappresentativa, immaginativa, se
volete visionaria, intesa nel senso contenuto nel mito della nascita della cetra suscitata
da Hermes.
E’ in questo carattere, nel passaggio dalla pura dimensione di fantasmi e di operazioni
mentali (con cui si pensa che si potrebbe fare, che ci sono problemi da risolvere,
esigenze da soddisfare, desideri individuali, collettivi, sociali, storici che devono trovare
risposta operativa e concreta), è in questo che è possibile offrire soluzioni mediante
artefatti che un tempo non c’erano. Ma perché quel che prima non c’era possa assumere
una concretizzazione, occorre un momento del “frattempo” che è quello del
rappresentarsi in una pre-visione, un artefatto concepito come anticipo dell’evento
concreto.
       Ecco     perché   la   cultura    della   rappresentazione,      del   disegno,   della
visualizzazione, della modellizzazione è cultura specifica del tecnologico, è quel passare
dalle immagini mentali a immagini che cominciano ad essere anche materiche. I sistemi
di rappresentazione si configurano come uno dei gangli progettuali forti.




                                                                                             -
Un terzo elemento però è ineliminabile dalla tecnologia. Ed è la sua appartenenza alla
storia e alle oscillazioni del gusto.
Talvolta nelle forme di addestramento tecnico la realizzazione di artefatti è presentata in
modo astratto e sommamente svincolato dal rapporto con l’ambiente, con le persone,
con la storia.
Non a caso quando si insegnano delle tecniche non si fa riferimento in quale contesto si
applicano. Le tecniche appaiono ripetitive, puramente gioco linguistico o formale,
totalmente decontestualizzate.
Una volta però che si voglia applicare intelligentemente una tecnica e una procedura, ci
si deve ridomandare se è funzionale, fino a che punto è possibile usarla rispetto alle
esigenze storicamente affermate, cioè ci dobbiamo rimettere dentro quella ‘logia’,
dobbiamo immetterci nella dimensione del logos, dell’ethos e dell’harmonia. Pertanto
la ‘logìa’ comporta tutti i rapporti relazionali, e i rapporti relazionali sono
prevalentemente con l’ambiente naturale e sociale.


La tecnologia è prevalentemente cultura della trasformazione: è forma e pratica culturali
che più delle altre intaccano l’ambiente. Ovviamente lo può intaccare sia in senso
negativo che positivo. Nel linguaggio contemporaneo esistono espressioni del tipo “ha
impatto ambientale positivo o negativo”, è un’opera impattante e non sostenibile”.
Questa accezione dell’impattante non è solo un fatto descrittivo di procedure: dietro c’è
tutta un’etica dell’impatto che si esprime mediante una valutazione non soltanto
descrittiva.
Nel fare valutazione ambientale si indaga pure su quale sia l’aspetto desiderativo e
valoriale dell’ambiente interessato da eventi tecnologici.


Non posso quindi fare tecnologia se non ho un quadro etico dell’ambiente e di
conseguenza un quadro di pensiero, di valutazione, di cultura.
La tecnologia, nei suoi atti trasformativi, va ad intaccare la natura dell’uomo e degli
ecosistemi. Il tema della sostenibilità è di conseguenza un altro concetto forte della
tecnologia.




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Se quelli indicati in precedenza risultano alcuni caratteri strutturali, allora dobbiamo
dire che l’orizzonte culturale entro cui va a collocarsi un liceo tecnologico scientifico o
politecnico è un orizzonte in cui il Tecno-umanesimo è assolutamente un asse culturale
portante.
Il Tecnoumanesimo attiva la promozione della cultura della trasformazione avendo
chiaro come si trasforma, ma anche come si gestisce, come si restaura, come si
ripristina, come si mantiene in efficienza il contesto umano ed il contesto naturale, come
si tengono alti i valori estetici.
Il tecno-umanesimo ha bisogno di andare al di là della strumentistica, dell’oggettistica,
dell’impiantistica, deve fare gioco di squadra con tutte le dimensioni culturali.


Nel difendere un liceo tecnologico scientifico o politecnico, implicitamente va difesa
una matrice culturale complessa, unitaria ed articolata.
Se vogliamo difendere i valori di complessità ed articolazione della cultura, allora essa
va intrecciata non solo con la dimensione umanistica e scientifica, ma a pari dignità con
la dimensione tecnologica.


L’articolato mondo culturale riguarda la conoscenza, l’espressività, la comunicatività, la
sensorialità, i rapporti sociali dell’uomo (ossia tutto quel mondo di ricchezza che è
l’umanesimo) e vi è pure una pulsione a descrivere, conoscere, scoprire come è il
mondo circostante, come lo si può modellizzare, quali linguaggi rigorosi e formalmente
controllabili si possono produrre per la descrizione del circostante in modo partecipabile
e condivisibile in comunità vaste (ossia tutto quel mondo di ricchezza definibile come
scienza).
Ma esiste anche un terzo punto di vista: come possiamo trasformare la dimensione
dell’uomo e dell’ambiente, quali sono i criteri di legittimazione della trasformazione
dell’uomo e dell’ambiente, quali sono i limiti che ci si deve porre, qual é l’assetto
desiderabile, quali fattori depotenzianti e degradanti devono essere eliminati o almeno
contenuti (ossia tutto quel mondo di ricchezza definibile come tecnologia).




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La cultura della trasformazione è un terzo ganglio importante. Se dare questa
articolazione della cultura significa soltanto ripescare la legittimità della tecnologia per
farne una terza forma di egemonia, un terzo tentativo per dire che i tecnologi sono come
gli scienziati, come gli umanisti e gli artisti, allora questa risulterebbe una banale
operazione puramente narcisistica.
Un liceo tecnologico-scientifico o politecnico che facesse questa operazione sarebbe un
liceo che nasce auto-segregante.


Il progetto culturale forte risulta quello di costruire una integrata interazione fra le
forme culturali fondamentali.
Esiste un problema che non va sottaciuto: ogni fase storica della tecnologia ha alcuni
momenti forti. In questo momento ad esempio c’è il rischio che il nuovo uccida la parte
viva del vecchio e che le nuove tecnologie siano una sorta di corpo eclissante tutto il
resto del patrimonio storico della tecnologia.
Si può quindi affermare che alla fine del 900 il cuore trasformativo dalla materia e
dall’energia si è spostato a dar rilevanza all’informazione, ma non è che nel frattempo si
sono eclissate la materia e l’energia, è solo avvenuto un cambio di baricentro in cui i
dati   informativi   risultano   enfatizzati,    per   cui   parliamo   anche   di   società
dell’informazione.


La tecnologia ha sempre avuto due valenze: è stata tecnologia dell’informazione
(l’invenzione della scrittura non è stata infatti una straordinaria e incredibile tecnologia
dell’informazione?), ma è soprattutto stata tecnologia della trasformazione.
Ogni innovazione ha provocato non solo consenso, ma anche tante resistenze e ha
suscitato componenti ansiogene per la paura delle conseguenze negative del nuovo e
dell’inaspettato.
Quando la tecnologia ha toccato aspetti della natura profonda dell’uomo e del vivente le
resistenze si sono rivelate in modo molto palese.
Può essere utile ricordare qui il chiaro giudizio negativo sostenuto da Platone
sull’affermarsi della tecnologia della scrittura.




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Nel Fedro viene descritto l’incontro tra il grande re egizio Thamus e il dio Theuth
autore di una molteplicità di invenzioni fra cui quella dell’alfabeto.
Alla descrizione entusiasta dei vantaggi della scrittura, Thamus reagisce prefigurando
sventure: “[l’alfabeto] ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno
di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla
mente non più dall’interno di loro stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò
che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla mente. Né
tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te,
potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno di essere
dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una
sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni, invece che sapienti.” Questa posizione
antitecnologica di Platone nei confronti della scrittura non è dissimile da molti
argomenti antitecnologici espressi da conservatori nei confronti della tecnologia
informatica.
La matrice antitecnologia occidentale è più esplicita in Platone e la sua influenza è
sempre stata fortissima nella nostra cultura. La matrice delle contraddizioni della
tecnologia è presente già nelle nostre radici greco-romane. E’ giusto che il tecno-
umanesimo recuperi la dimensione della classicità tecnologica avendo però l’avvertenza
di non rinchiudere la classicità solo nella dimensione letterario-filosofica; questa
componente ha in parte eclissato e addirittura declassato i valori classici della tecnologia
e della cultura del costruire senza i quali neppure il sublime Partenone avrebbe potuto
incarnarsi. Ci sono autori, personaggi incredibili del mondo classico che vanno
recuperati. Certamente la scuola di Mileto è diversa da quella di Platone. Ctesibio,
Erone, Archimede, Vitruvio sono nomi che appartengono alla classicità, ma sono
tecnologi e filotecnologi.


La tecnologia ha quindi ascendenze lontane e ha legittimità culturali certamente non
emerse in operazioni recenti. Come pure non è cosa recente che si siano affermate le
tecnologie dell’informazione. Vi è stata una certa prevalenza della tecnologia della




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trasformazione che intacca materia, energia e informazione congiuntamente e quindi
coinvolge corpo, mente, società e ambiente in una dimensione integrata.
Il mondo informatico appare talvolta schizoide a causa di chiusure mentali indotte da
autismo informatico. Per gli informatici maniacali tutto il mondo si chiude davanti ad
un monitor e si esplora con una tastiera.
Se non si capisce che il mondo informatico ha una dimensione immateriale che agisce
non solo a livello di comunicazione mentale, ma si concretizza pure nel mondo
materiale attraverso le periferiche che restituiscono materiale cartaceo, prodotti attuati
con robot e automazioni, comunicazioni sonore e visive che si calano nel mondo reale,
allora se non si capisce la doppia valenza materiale e immateriale delle tecnologie
informatiche e dell’informazione. La realtà informatica può divenire fonte di profonde
distorsioni ed anche disagi mentali. Le tecnologie informatiche, attraverso la
dimensione CAD-CAM non manifestano solo una dimensione tecnica, ma esprimono
una metafora del modo di rapportarsi tra mondo materiale e mondo immateriale e di
conseguenza una istanza di portar dentro anche alle tecnologie più innovative non solo
tecniche, ma anche aspetti valoriali, sociali, trasformativi, ambientali.
Il tutto in una sintesi integrata di tipo culturale ed operativo.


Sicuramente una “licealità” del tecnologico dovrà fare i conti con il mondo informatico
perché è uno degli ultimi paradigmi, ma non deve fermarsi a pensare soltanto
l’operazione della scissione del puro informatico rispetto al materiale. Ci si caccerebbe
ancora una volta nelle pastoie del dualismo tra mente e corpo e tra reale e ideale.
Il digitalizzato va riportato a gestire contemporaneamente i bits ma anche gli atomi,
tenendo presente che in realtà il mondo informatico da un punto di vista della identità
della tecnologia è già vecchio, incredibilmente vecchio, perché ha più di trent’anni.
Anzi ne ha molti di più perché se volessimo dire qual è la matrice di partenza del
paradigma tecnologico immateriale dovremmo dire che risale all’affermazione
dell’elettromagnetismo dei primi dell’800. Siamo già nella società dell’immateriale
quando appare il telegrafo, il telefono e la trasmissione tecnologica dell’energia




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elettrica. La radio e le trasmissioni a distanza senza fili dichiarano poi un’appartenenza
‘immateriale’ senza dubbi.
Il mondo informatico ha quindi trent’anni di effervescenza a partire dall’insediamento
dei microchip e duecento abbondanti di protagonismo, ma il mondo informatico non è
più un paradigma innovativo, è vecchio e quindi se diciamo nuove tecnologie usiamo
una aggettivazione impropria rispetto alla ‘novità’ delle biotecnologie e delle tecnologie
genetiche.


Le figure classiche dei tecnologi sono state sempre condannate dai platonizzanti di
turno: Dedalo e Icaro condannati e Fetonte che pretende di guidare il carro viene
bruciato; Prometeo è il cattivo per eccellenza perché ha dato agli uomini l’energia e
viene giustamente punito.
Una licealità del tecnologico deve tirar fuori tutte queste cose, perché esiste il problema
della costruzione degli idoli, cioè tutte le volte che il tecnologo ha realizzato una statua
o aveva la legittimazione sacrale e cioè abbassava il capo di fronte ad un potere
superiore, allora poteva mimare di imitare il vivente in una statua o un simulacro.
Ma quando il tecnologo costruiva una statua per il suo valore intrinseco, in quel
momento si perdeva, pensate sempre alla classicità con la figura di Pigmalione che si
innamora della statua opera delle sue stesse mani). Affiora qui tutto il tema del
tecnologo che costruisce idoli, presente anche nella Bibbia con la condanna del Vitello
d’oro o in altri movimenti religiosi di tipo iconoclasta.
Finché abbiamo costruito idoli come macchine celibi, ossia neutre ed improduttive,
l’inquietudine antitecnologica si è poi ricomposta. L’aspetto tecnofobo ha ripreso vigore
con gli automi del settecento che poi abbiamo riciclato nelle forme della tecnologia
semovente. Adesso la tecnologia della simulazione del vivente è arrivata al cuore della
questione. La miniaturizzazione è carattere saliente della tecnologia del 900 e del primo
2000; la tecnologia contemporanea è tutta miniaturizzata o nella versione abiotica
(l’informatica e le tecnologie digitali) o nella versione biotica (biotecnologie). Questo è
il versante che un liceo tecnologico-scientifico o politecnico deve affrontare: le
biotecnologie con tutto l’insieme di problemi che non sono solo riducibili a tecniche e




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procedure o algoritmi, ma costituiscono orizzonti di etica tecnologica. Dobbiamo essere
consapevoli che stiamo andando verso un nuovo paradigma e che a livello di ricerca
questo già avviene: siamo nell’ingresso della condizione propria della società
bioelettronica. I bits e i chips sono già in cantiere per una loro sintesi e sinergia
cooperativi.


Se noi dobbiamo educare alla flessibilità, i ragazzi del liceo tecnologico- scientifico o
politecnico dovrebbero essere favoriti nell’acquisire la caratterizzazione della
flessibilità, ossia nell’entrare consapevolmente e responsabilmente nelle condizioni di
innovazione aperta.
Gli insegnanti, gli insegnamenti e i sistemi formativi quando danno una offerta
formativa devono darla per i ragazzi operanti in un contesto di prossima adultità, il che
vuol dire che oggi noi non siamo in un ultimo mercoledì del mese di marzo del 2000,
ma dal punto di vista formativo noi siamo all’ultimo mercoledì del mese per lo meno
del 2015 quando gli allievi di oggi avranno una adultità e quindi una decisionalità
esplicite.
La formazione e il pensiero culturale di chi fa formazione tecnologica sono sempre volti
alla costruzione di uno scenario di almeno 15 anni più avanti, altrimenti non si può
educare alla tecnologia, in quanto essa si caratterizza in funzione sommamente
progettuale, cioè immaginativa e orientata al futuro.


Nel costruire un curricolo politecnico con caratteri di licealità, se l’asse antropologico è
quello più importante, dovremo dare sia conoscenze, sia competenze. Competenze non
solo per comprendere e partecipare all’uso di oggetti tecnologici, ma anche competenze
per sapersi relazionare alla tecnologia con le dimensioni della mente, del corpo
individuali e sociali in quanto la cultura tecnologica incide in bene e in male proprio
sullo statuto antropologico delle persone.
Guardate come è cambiato ad esempio il concetto di vicinato negli ultimi paradigmi
tecnologici. Il paradigma del vicinato agrario-artigianale era fatto da un villaggio, lì gli




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abitanti avevano si e no una dimensione territoriale di appartenenza di 10-15 Km, il
vissuto stava tutto concentrato in quel mondo ristretto.
La cultura industriale ha portato il treno, i mezzi di trasporto e automaticamente il
vicinato è diventato non più quello circoscritto, ma quello con estensione di 100-150
Km e ha favorito il passaggio dagli stati regionali agli stati nazionali. L’aereo ha mutato
ancora gli stati relazionali, il concetto di vicinato è diventato molto più dilatato in
funzione continentale. Oggi abbiamo le info-comunità che si incontrano nei ‘siti’ più
che nei luoghi: cambia nuovamente lo statuto sociale, il che non vuol dire che si
cancella tutto il resto e il precedente, ma si ristruttura profondamente.


Alle generazioni giovani dobbiamo pensare di offrire le abilità che non sono solo abilità
di utenti, ma anche abilità di atteggiamenti e di comportamenti.
Bisogna soprattutto tenere presente che licealità non vuol dire professionalizzare in
modo ristretto, ma ciò non vuol dire nemmeno declassare le professioni. L’asse centrale
è quello di formare il cittadino, perché acquisisca le condizioni anche per essere poi un
professionista in modo specialistico. Allora rispetto alla tecnologia ci sono due
approcci: o si è utenti o si è produttori.
Come produttori si è sempre gestori di un segmento della tecnologia settoriale; come
utenti si è tecnologi molto più estesi anche se meno specialistici. In ogni caso noi siamo
tutti tecnologi in un settore e tecnologi diffusi come utenti.


L’asse principale che dobbiamo dare in un liceo tecnologico-scientifico o politecnico, a
mio avviso, è quello di sottolineare la funzione culturale degli utenti di tecnologia.
Gli utenti di tecnologia devono fra le altre cose acquisire linguaggi specifici che non
sono solo linguaggi verbali. I linguaggi tecnologici sono fortemente linguaggi
concettuali e trasformativi, sono linguaggi che hanno la capacità di comunicazione
senza parlare, sono ‘parole’ di altra natura, oltre ad avere naturalmente la capacità di
interagire e gestire il linguaggio verbale.
Si pone quindi il problema della formazione linguistica verbale in termini tecnologici.
Occorre, fra l’altro, tener conto che anche una architettura è un linguaggio, il ponte è un




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linguaggio, non è solo un fatto puramente strutturale, un frullatore è un linguaggio.
Ogni artefatto risente dei cambiamenti del mondo simbolico, è sempre ricco di codici e
di livelli di lettura. Nessun oggetto tecnologico, dal cucchiaio alla città per usare una
metafora bauhausiana, è detentore di un unico codice linguistico. Occorre sviluppare ad
altissimo livello l’approccio alla progettazione.


Temo che nelle scuole tecniche si siano fatti passi per costruire generazioni di esecutori
non di progettisti. Governare la produzione significa prendersi carico delle conseguenze
dell’aver progettato e aver tradotto l’immaginazione rappresentata in artefatto realizzato
e contestualizzato.
Ecco l’importanza fondamentale del disegno, ovviamente soprattutto quello infografico.
Ma ecco anche l’importanza di prendersi la responsabilità di avere cura per come
avviene il cambiamento nell’ambiente e come lo si gestisce.


La tecnologia talvolta viene pensata solamente nel momento in cui nasce, ma la
tecnologia una volta entrata nell’ambiente ha effetti prolungati: bisogna gestirla, avere
manutenzione, ripristinarla, dimetterla e smontarla se necessario. Anche queste sono
forme di tecnologia


E infine occorre sottolineare l’importanza del concetto generale di sostenibilità che non
vuol dire soltanto sostenibilità rispetto all’ambiente fisico, ma sostenibilità anche
rispetto all’ambiente mentale, sociale e culturale.
Di conseguenza le tecnologie sono ad alto indice di obsolescenza perché la loro
adeguatezza è continuamente in discussione. Tutto questo non rappresenta una
negatività perché è chiaro che i progettuali tendono a produrre continuamente elementi
nuovi. Perché i progettuali siano fecondi oltre ad essere sostenibili sul piano fisico,
devono essere sostenibili pure sul piano culturale. Se noi intasiamo la mente
l’immaginazione si uccide.
Una strategia fondamentale nel liceo tecnologico scientifico o politecnico non dovrebbe
essere soltanto quella di essere devoti a Mnemosyne, ma essere devoti anche all’oblio,




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bisogna educare a dire “questa parte è uscita di scena”; è un immaginario che ha
compiuto il suo percorso.
E’ fondamentale educare all’oblio, educare all’irrilevanza e alla dismissione razionale,
perché anche questo significa sostenibilità, perché questo è un altro nome per chiamare i
nuclei fondamentali e per individuale la selettività.

Mi auguro fortemente che la scuola italiana si doti di un liceo politecnico all’interno
dell’area scientifica, un liceo che accolga la dimensione culturale che ho tentato
delineare. Ma mi auguro anche che la cultura tecnologica abbia una sua significativa
presenza in tutti i livelli formativi, soprattutto con una precocità nei primi cicli. Non è
una difesa d’ufficio. E’ una istanza di realtà: la società che sci circonda è di tipo
tecnologico, come è possibile sentirsi cittadini di essa e svolgervi un ruolo attivo e
responsabile, se i sistemi formativi sono detecnologizzati?




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Righetto.Tecnologia e cultura

  • 1. LA TECNOLOGIA HA UNA PRECISA CONFIGURAZIONE CULTURALE: quale ruolo per l’indirizzo tecnologico-scientifico nella nuova scuola Gabriele Righetto1 Vorrei cominciare offrendovi un’immagine discutibile. E’ un’interpretazione ironica dell’ “evoluzione” dell’uomo. Da una parte ci sta uno scimpanzé e dall’altro un essere umano curvo su una tastiera davanti al monitor di un computer. In mezzo, nella progressione della parabola del processo umano, l’essere iniziale diventa un grosso scimmione, poi assume i caratteri di un ominide eretto e villoso, dotato in una mano di una selce; eccolo in nuova versione apparire pienamente slanciato e dalle fattezze non più scimmiesche nella versione del cercatore-raccoglitore e pastore, per poi iniziare a curvarsi e decadere nella configurazione dell’agricoltore dotato di un utensile agricolo, inchinarsi e rattrappirsi vieppiù nell’immagine dell’operaio che imbraccia un martello pneumatico sintesi dell’homo faber ‘industrialis, per cadere infine acquattato nella condizione dell’homo faber ‘technologicus’ dell’era infoindustriale, schiavizzato dai computer. Ovviamente nella sostanza non condivido questa immagine nella sua divertente filosofia tecnofoba. Però l’illustrazione ha il pregio di mostrare come l’elemento tecnologico sia un fattore strutturale della condizione umana e che la tecnologia costituisca una dimensione culturale che nasce precocissimamente e accompagna la nostra vicenda di viventi. Se c’è una caratteristica culturale che è alle radici dell’uomo questa è proprio la tecnologia. Prima ancora delle altre forme culturali, molto, ma molto prima della scrittura e della storia, l’uomo si configura come costruttore di artefatti. 1 Centro d’Ateneo di Ecologia Umana – Università di Padova -
  • 2. Quando noi ci occupiamo dei primordi dell’uomo, la documentazione di quei primordi con cui facciamo i conti è una documentazione tecnologica. Nell’immagine che ho presentato, un po’ autosarcastica anche se con la levità del sorriso, sono un po’ rappresentate le grandi tappe della cultura tecnologica: l’emergere degli strumenti ed arnesi e cioè della capacità trasformativa della materia mediante qualcosa che la materia non ha. Il tecnologo quando nasce se non è subalterno completamente alla materia, è obbediente alle caratteristiche strutturali delle risorse naturali, ma non è obbediente alla naturalità formale e aggregativa della materia, aggiunge alla materia qualcosa che la materia non ha. Forse qui conviene ricordare il mito di Hermes com’é raccontato negli Inni Omerici. Nell’Inno a Hermes è un po’ contenuto il simbolo della condizione immaginativa dell’uomo tecnologico. Hermes si libera dalle fasce della sua condizione nativa e, uscito dalla grotta dove stava rinchiuso, trova all’esterno una tartaruga; ne libera il guscio, lo copre di pelle tesa di bue, vi pianta due bracci e li congiunge con un giogo, quindi su questi sottende sette corde ricavate dalle budella di una agnella. Ed ecco apparire la cetra da cui Hermes fa scaturire una musica dolcissima. La tecnologia si avvale della materia naturale, ma la vede con occhi nuovi, sorprendenti e inaspettati. La cetra non esiste spontaneamente in natura, ma è fatta di natura a cui si aggiunge l’immaginazione progettuale. L’esito di quel nuovo sguardo che non vede più un guscio di tartaruga, ma una cassa armonica; non vede più dei tendini, ma delle corde, produce una nuova sintesi conoscitiva e reale: l’insieme di guscio e tendini nella sua insolita composizione configura l’inaspettato artefatto della cetra. L’artefatto non nasce immotivatamente, emerge con l’affiorare di uno scopo: produrre un soddisfacimento profondo, come la musica che dall’artefatto cetra prende corpo. Certo l’artefatto nasce per una serie di operazioni tecniche, ma è l’immaginazione (ossia la capacità progettuale) che vede quello che ancora non c’è e guida le operazioni tecniche. In tal modo va oltre al fare esecutivo tecnico e si configura come tecno-logìa. -
  • 3. La tecnologia dunque ha nella sua dotazione genetica primaria, un tasso di immaginazione e un tasso di superamento del reale. Una amigdala, una selce, tanto per citare i segni aurorali della tecnologia, non hanno nulla di preesistente alla specifica azione dell’uomo. Occorre reinventare il proprio corpo, la propria mente, il proprio rapporto con l’ambiente per giungere ad una produzione tecnologica. Sono necessari atti immaginativi e progettuali anche per organizzare e adattare il territorio al soddisfacimento di bisogni e desideri. La dimensione dei nomadi e dei raccoglitori, ad esempio, rivela la produzione e l’utilizzo di tecniche e tecnologie con cui rapportarsi attivamente con l’ambiente. La stessa organizzazione dei rapporti con l’ambiente costituisce tecnologia e risorsa, ma se non si producono progetti e pratiche di trasformazione del territorio non la si scopre, non la si utilizza, non la si vive. Questo rapporto attivo con il territorio non è esclusivo dell’uomo. Un tasso di “tecnologia” territoriale è presente anche in molti animali: alcuni sono capaci di costruire tratturi, sentieri, nidi, abitazioni collettive come formicai e alveari, dighe per lo sbarramento delle acque. La sentieristica dei nomadi umani è una forma altissima di tecnologia e di plasmatura dell’ambiente dove si collocano non solo i segni della transitabilità come fanno molti ungulati, ma anche della riconoscibilità dei luoghi e quindi appare come cultura della trasformazione e della conoscenza. La tecnologia della sentieristica costituisce l’atto dello “scrivere” sul territorio i segni della mente, trasformando la memoria e la conoscenza in mutamento evolutivo della terra. Questa è la grande avventura che la nostra specie ha iniziato dopo l’ultima glaciazione. Il momento classico della tecnologia trae le sue origini e il suo rinascimento da eventi di 13-15 mila anni fa. E’ in quel momento, quando i ghiacciai si ritirano e si mette a disposizione il territorio, che nascono l’agricoltore e l’uomo stanziale che inventa la città. I tre grandi paradigmi tecnologici che hanno siglato la storia ultima dell’uomo sono susseguenti a quella fase e possono essere sintetizzati nel paradigma agrario-artigianale, nel paradigma industriale e nel paradigma info-industriale. -
  • 4. Tutte queste tre grandi e basilari culture tecnologiche non solo sono culture della conoscenza, ma agiscono anche come culture della trasformazione e della reinvenzione del rapporto dell’uomo con se stesso. Nel produrre oggetti l’uomo non realizza fenomeni puramente materiali; produce assieme auto-trasformazione e trasformazione dell’ambiente. Le tre grandi culture della trasformazione non risultano tutte completamente tramontate. C’è un problema di compresenza delle grandi culture. Quella di oggi, l’info-industriale o tardo-industriale o post-moderna che dir si voglia, è una cultura di sintesi dove la siglatura forte è riconoscibile nel fatto che stiamo trattando la trasformazione dell’immateriale e dell’informazione. Tutto questo non è antitetico con le culture trasformative passate: è un’aggiunta a tutto il precedente e quindi continua ad agire gran parte della tecnologia agrario-artigianale ed industriale. Il problema nell’impostare un discorso sul liceo tecnologico scientifico non è banalmente riconducibile all’individuazione delle discipline “tecnologiche”: è possibile parlare di licealità del liceo tecnologico scientifico o politecnico se ci rendiamo conto che la tecnologia ha un altissimo spessore antropologico e una configurazione culturale propria. Questa è la pista che va seguita: la lettura antropologica della tecnologia. E’ bene precisare anche il senso di alcune oscillazioni terminologiche che si affacciano quando parliamo di fenomeni trasformativi, perché anche queste oscillazioni hanno un loro senso. Quando qualcuno ha un atteggiamento critico e negativo rispetto alla cultura e alle pratiche trasformative, usa la parola “tecnica”, quando si vuol dare una valorizzazione si usa invece la parola “tecnologia”. In ogni caso quello che è incredibile è che quella “LOGIA” che è la parte nobile e costituiva della cultura della trasformazione, venga spesso declassata a pura esecuzione di procedure ripetitive e ad invadenti stereotipi. Ma questo non accade anche nei linguaggi? Tutte le volte che parole alate diventano puro conformismo, non regrediscono a ‘tecnica’ e a formulazione esecutoria o burocratizzata? -
  • 5. E non accade anche alle scienze quando, da procedure di ricerca e scoperta (in cui i processi logici ed immaginativi sono molto coinvolti e orientano l’azione e la pratica), avviene il passaggio a fasi puramente applicative in cui prevalgono le ripetizioni di procedura e le attività si effettuano come ‘esercizi’? D’altra parte, proprio in questa parte ‘tecnica’ della scienza, emerge un equivoco che considera la tecnologia come scienza applicata e quindi come un esito subalterno della scienza. In questo senso non va concepita come tecnologia, ma come tecnica. La tecnologia ha propri linguaggi, ha propri sistemi di rappresentazione e progettazione, ha un proprio retroterra di colloquio con il design e le arti applicate, ha una manifestazione di linguaggi a supporto tecnologico, di cui la dimensione attuale della multimedialità è elemento significativo. Ma questo profilo culturale complesso decade da tecnologico in puramente tecnico se l’universo tecnologico si impoverisce in processi esecutivi, ripetitivi e stereotipati. Eppure gli stereotipi e i conformismi linguistici, come le azioni ripetitive di routine nel campo scientifico non sono anch’essi ‘tecniche’ e quindi campi del decadimento? Il problema allora è più generale: tutti i processi e le attività hanno un livello di “eccellenza”, quindi di promozione dell’uomo, oppure presentano livelli di strumentalizzazione e di abbassamento. Soltanto se riconosciamo fino in fondo la dimensione antropologica della tecnologia siamo in grado di affrontarla rispettando a quello che è, cioè un fenomeno culturale complesso, multidimensionale ed estremamente articolato che non si risolve né in un sapere ristretto, né in alcune discipline, né in una sequenza di operazioni. Se dovessimo dire quali sono i poli forti di questa antropologia, dovremmo intanto sostenere che è possibile sviluppare un sapere tecnologico quando gli si riconosca di essere un sistema interpretativo degli eventi, dell’uomo e del circostante. Si tratta quindi di un’attività umana che ha una sua cultura, una sua storia e un insieme di pratiche non cristallizzate. Si tratta di una dimensione culturale in grado di inventare rapporti dell’uomo con se stesso, con gli ecosistemi, con il non raggiunto perché la tecnologia a differenza della scienza è una dimensione che si basa prevalentemente sul possibile più che sul reale. Ovviamente anche sul reale, ma una tecnologia che si -
  • 6. stabilizzi sul reale è una tecnologia paralizzata, è archeologia della tecnologia. La tecnologia opera sempre per il suo futuro e per il suo auto-superamento. La tecnologia ha una intrinseca propulsione ad auto-sorpassarsi e perciò è una cultura ad alto tasso di obsolescenza. E’, per molti aspetti, auto-distruttrice. Un prodotto delle altre culture (umanistica, scientifica e artistica), ha tempi molto elevati di mantenimento dei suoi prodotti. La cultura umanistica tempi lunghissimi, la cultura scientifica per lo meno decenni, o talvolta anche cinquantenni se si tratta di teorie scientifiche paradigmatiche. Gli oggetti tecnologici invece rivelano quasi sempre durata effimera, e allora bisogna domandarsi se sono effimeri gli oggetti tecnologici o se è persistente la procedura dello scavalcamento che va continuamente a giocare nel possibile. Il tema forte della tecnologia è la progettazione che è lo strumento concettuale, operativo e culturale con cui si dà rappresentazione e fattibilità al possibile. La tecnologia non nasce se non c’è una capacità rappresentativa, immaginativa, se volete visionaria, intesa nel senso contenuto nel mito della nascita della cetra suscitata da Hermes. E’ in questo carattere, nel passaggio dalla pura dimensione di fantasmi e di operazioni mentali (con cui si pensa che si potrebbe fare, che ci sono problemi da risolvere, esigenze da soddisfare, desideri individuali, collettivi, sociali, storici che devono trovare risposta operativa e concreta), è in questo che è possibile offrire soluzioni mediante artefatti che un tempo non c’erano. Ma perché quel che prima non c’era possa assumere una concretizzazione, occorre un momento del “frattempo” che è quello del rappresentarsi in una pre-visione, un artefatto concepito come anticipo dell’evento concreto. Ecco perché la cultura della rappresentazione, del disegno, della visualizzazione, della modellizzazione è cultura specifica del tecnologico, è quel passare dalle immagini mentali a immagini che cominciano ad essere anche materiche. I sistemi di rappresentazione si configurano come uno dei gangli progettuali forti. -
  • 7. Un terzo elemento però è ineliminabile dalla tecnologia. Ed è la sua appartenenza alla storia e alle oscillazioni del gusto. Talvolta nelle forme di addestramento tecnico la realizzazione di artefatti è presentata in modo astratto e sommamente svincolato dal rapporto con l’ambiente, con le persone, con la storia. Non a caso quando si insegnano delle tecniche non si fa riferimento in quale contesto si applicano. Le tecniche appaiono ripetitive, puramente gioco linguistico o formale, totalmente decontestualizzate. Una volta però che si voglia applicare intelligentemente una tecnica e una procedura, ci si deve ridomandare se è funzionale, fino a che punto è possibile usarla rispetto alle esigenze storicamente affermate, cioè ci dobbiamo rimettere dentro quella ‘logia’, dobbiamo immetterci nella dimensione del logos, dell’ethos e dell’harmonia. Pertanto la ‘logìa’ comporta tutti i rapporti relazionali, e i rapporti relazionali sono prevalentemente con l’ambiente naturale e sociale. La tecnologia è prevalentemente cultura della trasformazione: è forma e pratica culturali che più delle altre intaccano l’ambiente. Ovviamente lo può intaccare sia in senso negativo che positivo. Nel linguaggio contemporaneo esistono espressioni del tipo “ha impatto ambientale positivo o negativo”, è un’opera impattante e non sostenibile”. Questa accezione dell’impattante non è solo un fatto descrittivo di procedure: dietro c’è tutta un’etica dell’impatto che si esprime mediante una valutazione non soltanto descrittiva. Nel fare valutazione ambientale si indaga pure su quale sia l’aspetto desiderativo e valoriale dell’ambiente interessato da eventi tecnologici. Non posso quindi fare tecnologia se non ho un quadro etico dell’ambiente e di conseguenza un quadro di pensiero, di valutazione, di cultura. La tecnologia, nei suoi atti trasformativi, va ad intaccare la natura dell’uomo e degli ecosistemi. Il tema della sostenibilità è di conseguenza un altro concetto forte della tecnologia. -
  • 8. Se quelli indicati in precedenza risultano alcuni caratteri strutturali, allora dobbiamo dire che l’orizzonte culturale entro cui va a collocarsi un liceo tecnologico scientifico o politecnico è un orizzonte in cui il Tecno-umanesimo è assolutamente un asse culturale portante. Il Tecnoumanesimo attiva la promozione della cultura della trasformazione avendo chiaro come si trasforma, ma anche come si gestisce, come si restaura, come si ripristina, come si mantiene in efficienza il contesto umano ed il contesto naturale, come si tengono alti i valori estetici. Il tecno-umanesimo ha bisogno di andare al di là della strumentistica, dell’oggettistica, dell’impiantistica, deve fare gioco di squadra con tutte le dimensioni culturali. Nel difendere un liceo tecnologico scientifico o politecnico, implicitamente va difesa una matrice culturale complessa, unitaria ed articolata. Se vogliamo difendere i valori di complessità ed articolazione della cultura, allora essa va intrecciata non solo con la dimensione umanistica e scientifica, ma a pari dignità con la dimensione tecnologica. L’articolato mondo culturale riguarda la conoscenza, l’espressività, la comunicatività, la sensorialità, i rapporti sociali dell’uomo (ossia tutto quel mondo di ricchezza che è l’umanesimo) e vi è pure una pulsione a descrivere, conoscere, scoprire come è il mondo circostante, come lo si può modellizzare, quali linguaggi rigorosi e formalmente controllabili si possono produrre per la descrizione del circostante in modo partecipabile e condivisibile in comunità vaste (ossia tutto quel mondo di ricchezza definibile come scienza). Ma esiste anche un terzo punto di vista: come possiamo trasformare la dimensione dell’uomo e dell’ambiente, quali sono i criteri di legittimazione della trasformazione dell’uomo e dell’ambiente, quali sono i limiti che ci si deve porre, qual é l’assetto desiderabile, quali fattori depotenzianti e degradanti devono essere eliminati o almeno contenuti (ossia tutto quel mondo di ricchezza definibile come tecnologia). -
  • 9. La cultura della trasformazione è un terzo ganglio importante. Se dare questa articolazione della cultura significa soltanto ripescare la legittimità della tecnologia per farne una terza forma di egemonia, un terzo tentativo per dire che i tecnologi sono come gli scienziati, come gli umanisti e gli artisti, allora questa risulterebbe una banale operazione puramente narcisistica. Un liceo tecnologico-scientifico o politecnico che facesse questa operazione sarebbe un liceo che nasce auto-segregante. Il progetto culturale forte risulta quello di costruire una integrata interazione fra le forme culturali fondamentali. Esiste un problema che non va sottaciuto: ogni fase storica della tecnologia ha alcuni momenti forti. In questo momento ad esempio c’è il rischio che il nuovo uccida la parte viva del vecchio e che le nuove tecnologie siano una sorta di corpo eclissante tutto il resto del patrimonio storico della tecnologia. Si può quindi affermare che alla fine del 900 il cuore trasformativo dalla materia e dall’energia si è spostato a dar rilevanza all’informazione, ma non è che nel frattempo si sono eclissate la materia e l’energia, è solo avvenuto un cambio di baricentro in cui i dati informativi risultano enfatizzati, per cui parliamo anche di società dell’informazione. La tecnologia ha sempre avuto due valenze: è stata tecnologia dell’informazione (l’invenzione della scrittura non è stata infatti una straordinaria e incredibile tecnologia dell’informazione?), ma è soprattutto stata tecnologia della trasformazione. Ogni innovazione ha provocato non solo consenso, ma anche tante resistenze e ha suscitato componenti ansiogene per la paura delle conseguenze negative del nuovo e dell’inaspettato. Quando la tecnologia ha toccato aspetti della natura profonda dell’uomo e del vivente le resistenze si sono rivelate in modo molto palese. Può essere utile ricordare qui il chiaro giudizio negativo sostenuto da Platone sull’affermarsi della tecnologia della scrittura. -
  • 10. Nel Fedro viene descritto l’incontro tra il grande re egizio Thamus e il dio Theuth autore di una molteplicità di invenzioni fra cui quella dell’alfabeto. Alla descrizione entusiasta dei vantaggi della scrittura, Thamus reagisce prefigurando sventure: “[l’alfabeto] ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di loro stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno di essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni, invece che sapienti.” Questa posizione antitecnologica di Platone nei confronti della scrittura non è dissimile da molti argomenti antitecnologici espressi da conservatori nei confronti della tecnologia informatica. La matrice antitecnologia occidentale è più esplicita in Platone e la sua influenza è sempre stata fortissima nella nostra cultura. La matrice delle contraddizioni della tecnologia è presente già nelle nostre radici greco-romane. E’ giusto che il tecno- umanesimo recuperi la dimensione della classicità tecnologica avendo però l’avvertenza di non rinchiudere la classicità solo nella dimensione letterario-filosofica; questa componente ha in parte eclissato e addirittura declassato i valori classici della tecnologia e della cultura del costruire senza i quali neppure il sublime Partenone avrebbe potuto incarnarsi. Ci sono autori, personaggi incredibili del mondo classico che vanno recuperati. Certamente la scuola di Mileto è diversa da quella di Platone. Ctesibio, Erone, Archimede, Vitruvio sono nomi che appartengono alla classicità, ma sono tecnologi e filotecnologi. La tecnologia ha quindi ascendenze lontane e ha legittimità culturali certamente non emerse in operazioni recenti. Come pure non è cosa recente che si siano affermate le tecnologie dell’informazione. Vi è stata una certa prevalenza della tecnologia della -
  • 11. trasformazione che intacca materia, energia e informazione congiuntamente e quindi coinvolge corpo, mente, società e ambiente in una dimensione integrata. Il mondo informatico appare talvolta schizoide a causa di chiusure mentali indotte da autismo informatico. Per gli informatici maniacali tutto il mondo si chiude davanti ad un monitor e si esplora con una tastiera. Se non si capisce che il mondo informatico ha una dimensione immateriale che agisce non solo a livello di comunicazione mentale, ma si concretizza pure nel mondo materiale attraverso le periferiche che restituiscono materiale cartaceo, prodotti attuati con robot e automazioni, comunicazioni sonore e visive che si calano nel mondo reale, allora se non si capisce la doppia valenza materiale e immateriale delle tecnologie informatiche e dell’informazione. La realtà informatica può divenire fonte di profonde distorsioni ed anche disagi mentali. Le tecnologie informatiche, attraverso la dimensione CAD-CAM non manifestano solo una dimensione tecnica, ma esprimono una metafora del modo di rapportarsi tra mondo materiale e mondo immateriale e di conseguenza una istanza di portar dentro anche alle tecnologie più innovative non solo tecniche, ma anche aspetti valoriali, sociali, trasformativi, ambientali. Il tutto in una sintesi integrata di tipo culturale ed operativo. Sicuramente una “licealità” del tecnologico dovrà fare i conti con il mondo informatico perché è uno degli ultimi paradigmi, ma non deve fermarsi a pensare soltanto l’operazione della scissione del puro informatico rispetto al materiale. Ci si caccerebbe ancora una volta nelle pastoie del dualismo tra mente e corpo e tra reale e ideale. Il digitalizzato va riportato a gestire contemporaneamente i bits ma anche gli atomi, tenendo presente che in realtà il mondo informatico da un punto di vista della identità della tecnologia è già vecchio, incredibilmente vecchio, perché ha più di trent’anni. Anzi ne ha molti di più perché se volessimo dire qual è la matrice di partenza del paradigma tecnologico immateriale dovremmo dire che risale all’affermazione dell’elettromagnetismo dei primi dell’800. Siamo già nella società dell’immateriale quando appare il telegrafo, il telefono e la trasmissione tecnologica dell’energia -
  • 12. elettrica. La radio e le trasmissioni a distanza senza fili dichiarano poi un’appartenenza ‘immateriale’ senza dubbi. Il mondo informatico ha quindi trent’anni di effervescenza a partire dall’insediamento dei microchip e duecento abbondanti di protagonismo, ma il mondo informatico non è più un paradigma innovativo, è vecchio e quindi se diciamo nuove tecnologie usiamo una aggettivazione impropria rispetto alla ‘novità’ delle biotecnologie e delle tecnologie genetiche. Le figure classiche dei tecnologi sono state sempre condannate dai platonizzanti di turno: Dedalo e Icaro condannati e Fetonte che pretende di guidare il carro viene bruciato; Prometeo è il cattivo per eccellenza perché ha dato agli uomini l’energia e viene giustamente punito. Una licealità del tecnologico deve tirar fuori tutte queste cose, perché esiste il problema della costruzione degli idoli, cioè tutte le volte che il tecnologo ha realizzato una statua o aveva la legittimazione sacrale e cioè abbassava il capo di fronte ad un potere superiore, allora poteva mimare di imitare il vivente in una statua o un simulacro. Ma quando il tecnologo costruiva una statua per il suo valore intrinseco, in quel momento si perdeva, pensate sempre alla classicità con la figura di Pigmalione che si innamora della statua opera delle sue stesse mani). Affiora qui tutto il tema del tecnologo che costruisce idoli, presente anche nella Bibbia con la condanna del Vitello d’oro o in altri movimenti religiosi di tipo iconoclasta. Finché abbiamo costruito idoli come macchine celibi, ossia neutre ed improduttive, l’inquietudine antitecnologica si è poi ricomposta. L’aspetto tecnofobo ha ripreso vigore con gli automi del settecento che poi abbiamo riciclato nelle forme della tecnologia semovente. Adesso la tecnologia della simulazione del vivente è arrivata al cuore della questione. La miniaturizzazione è carattere saliente della tecnologia del 900 e del primo 2000; la tecnologia contemporanea è tutta miniaturizzata o nella versione abiotica (l’informatica e le tecnologie digitali) o nella versione biotica (biotecnologie). Questo è il versante che un liceo tecnologico-scientifico o politecnico deve affrontare: le biotecnologie con tutto l’insieme di problemi che non sono solo riducibili a tecniche e -
  • 13. procedure o algoritmi, ma costituiscono orizzonti di etica tecnologica. Dobbiamo essere consapevoli che stiamo andando verso un nuovo paradigma e che a livello di ricerca questo già avviene: siamo nell’ingresso della condizione propria della società bioelettronica. I bits e i chips sono già in cantiere per una loro sintesi e sinergia cooperativi. Se noi dobbiamo educare alla flessibilità, i ragazzi del liceo tecnologico- scientifico o politecnico dovrebbero essere favoriti nell’acquisire la caratterizzazione della flessibilità, ossia nell’entrare consapevolmente e responsabilmente nelle condizioni di innovazione aperta. Gli insegnanti, gli insegnamenti e i sistemi formativi quando danno una offerta formativa devono darla per i ragazzi operanti in un contesto di prossima adultità, il che vuol dire che oggi noi non siamo in un ultimo mercoledì del mese di marzo del 2000, ma dal punto di vista formativo noi siamo all’ultimo mercoledì del mese per lo meno del 2015 quando gli allievi di oggi avranno una adultità e quindi una decisionalità esplicite. La formazione e il pensiero culturale di chi fa formazione tecnologica sono sempre volti alla costruzione di uno scenario di almeno 15 anni più avanti, altrimenti non si può educare alla tecnologia, in quanto essa si caratterizza in funzione sommamente progettuale, cioè immaginativa e orientata al futuro. Nel costruire un curricolo politecnico con caratteri di licealità, se l’asse antropologico è quello più importante, dovremo dare sia conoscenze, sia competenze. Competenze non solo per comprendere e partecipare all’uso di oggetti tecnologici, ma anche competenze per sapersi relazionare alla tecnologia con le dimensioni della mente, del corpo individuali e sociali in quanto la cultura tecnologica incide in bene e in male proprio sullo statuto antropologico delle persone. Guardate come è cambiato ad esempio il concetto di vicinato negli ultimi paradigmi tecnologici. Il paradigma del vicinato agrario-artigianale era fatto da un villaggio, lì gli -
  • 14. abitanti avevano si e no una dimensione territoriale di appartenenza di 10-15 Km, il vissuto stava tutto concentrato in quel mondo ristretto. La cultura industriale ha portato il treno, i mezzi di trasporto e automaticamente il vicinato è diventato non più quello circoscritto, ma quello con estensione di 100-150 Km e ha favorito il passaggio dagli stati regionali agli stati nazionali. L’aereo ha mutato ancora gli stati relazionali, il concetto di vicinato è diventato molto più dilatato in funzione continentale. Oggi abbiamo le info-comunità che si incontrano nei ‘siti’ più che nei luoghi: cambia nuovamente lo statuto sociale, il che non vuol dire che si cancella tutto il resto e il precedente, ma si ristruttura profondamente. Alle generazioni giovani dobbiamo pensare di offrire le abilità che non sono solo abilità di utenti, ma anche abilità di atteggiamenti e di comportamenti. Bisogna soprattutto tenere presente che licealità non vuol dire professionalizzare in modo ristretto, ma ciò non vuol dire nemmeno declassare le professioni. L’asse centrale è quello di formare il cittadino, perché acquisisca le condizioni anche per essere poi un professionista in modo specialistico. Allora rispetto alla tecnologia ci sono due approcci: o si è utenti o si è produttori. Come produttori si è sempre gestori di un segmento della tecnologia settoriale; come utenti si è tecnologi molto più estesi anche se meno specialistici. In ogni caso noi siamo tutti tecnologi in un settore e tecnologi diffusi come utenti. L’asse principale che dobbiamo dare in un liceo tecnologico-scientifico o politecnico, a mio avviso, è quello di sottolineare la funzione culturale degli utenti di tecnologia. Gli utenti di tecnologia devono fra le altre cose acquisire linguaggi specifici che non sono solo linguaggi verbali. I linguaggi tecnologici sono fortemente linguaggi concettuali e trasformativi, sono linguaggi che hanno la capacità di comunicazione senza parlare, sono ‘parole’ di altra natura, oltre ad avere naturalmente la capacità di interagire e gestire il linguaggio verbale. Si pone quindi il problema della formazione linguistica verbale in termini tecnologici. Occorre, fra l’altro, tener conto che anche una architettura è un linguaggio, il ponte è un -
  • 15. linguaggio, non è solo un fatto puramente strutturale, un frullatore è un linguaggio. Ogni artefatto risente dei cambiamenti del mondo simbolico, è sempre ricco di codici e di livelli di lettura. Nessun oggetto tecnologico, dal cucchiaio alla città per usare una metafora bauhausiana, è detentore di un unico codice linguistico. Occorre sviluppare ad altissimo livello l’approccio alla progettazione. Temo che nelle scuole tecniche si siano fatti passi per costruire generazioni di esecutori non di progettisti. Governare la produzione significa prendersi carico delle conseguenze dell’aver progettato e aver tradotto l’immaginazione rappresentata in artefatto realizzato e contestualizzato. Ecco l’importanza fondamentale del disegno, ovviamente soprattutto quello infografico. Ma ecco anche l’importanza di prendersi la responsabilità di avere cura per come avviene il cambiamento nell’ambiente e come lo si gestisce. La tecnologia talvolta viene pensata solamente nel momento in cui nasce, ma la tecnologia una volta entrata nell’ambiente ha effetti prolungati: bisogna gestirla, avere manutenzione, ripristinarla, dimetterla e smontarla se necessario. Anche queste sono forme di tecnologia E infine occorre sottolineare l’importanza del concetto generale di sostenibilità che non vuol dire soltanto sostenibilità rispetto all’ambiente fisico, ma sostenibilità anche rispetto all’ambiente mentale, sociale e culturale. Di conseguenza le tecnologie sono ad alto indice di obsolescenza perché la loro adeguatezza è continuamente in discussione. Tutto questo non rappresenta una negatività perché è chiaro che i progettuali tendono a produrre continuamente elementi nuovi. Perché i progettuali siano fecondi oltre ad essere sostenibili sul piano fisico, devono essere sostenibili pure sul piano culturale. Se noi intasiamo la mente l’immaginazione si uccide. Una strategia fondamentale nel liceo tecnologico scientifico o politecnico non dovrebbe essere soltanto quella di essere devoti a Mnemosyne, ma essere devoti anche all’oblio, -
  • 16. bisogna educare a dire “questa parte è uscita di scena”; è un immaginario che ha compiuto il suo percorso. E’ fondamentale educare all’oblio, educare all’irrilevanza e alla dismissione razionale, perché anche questo significa sostenibilità, perché questo è un altro nome per chiamare i nuclei fondamentali e per individuale la selettività. Mi auguro fortemente che la scuola italiana si doti di un liceo politecnico all’interno dell’area scientifica, un liceo che accolga la dimensione culturale che ho tentato delineare. Ma mi auguro anche che la cultura tecnologica abbia una sua significativa presenza in tutti i livelli formativi, soprattutto con una precocità nei primi cicli. Non è una difesa d’ufficio. E’ una istanza di realtà: la società che sci circonda è di tipo tecnologico, come è possibile sentirsi cittadini di essa e svolgervi un ruolo attivo e responsabile, se i sistemi formativi sono detecnologizzati? -