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PROFESSIONEPR
La collana MIC “Moda Immagine Consumi”
è diretta da Maria Canella ed Emanuela Scarpellini
PROFESSIONEPR
immagine e comunicazione nell’Archivio Vitti
Centro Interdipartimentale MIC
“Moda Immagine Consumi”
Università degli Studi di Milano
a cura di Elena Puccinelli
In copertina
Giorgio Armani, finale di sfilata 1985
Art director
Marcello Francone
Progetto grafico
Ornella Marcolongo
Redazione
Elena Isella
Impaginazione
Valentina Zanaboni
Ricerca iconografica
Elena Puccinelli
in collaborazione con
Nexo, Milano
Realizzazione editoriale
a cura di
Nexo, Milano
Nessuna parte di questo libro può essere
riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma
o con qualsiasi mezzo elettronico,
meccanico o altro senza l’autorizzazione
scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.
© 2011 MIC, Università degli Studi di Milano
© 2011 Archivio Vitti
© 2011 Skira editore, Milano
Tutti i diritti riservati
Finito di stampare
nel mese di dicembre 2011
a cura di Skira, Ginevra-Milano
Printed in Italy
www.skira.net
Il volume Professione PR
è stato realizzato con il contributo di
Fondazione Cariplo
Camera di Commercio Industria Artigianato
e Agricoltura di Milano
Si ringraziano
Cristina Brigidini
Maria Canella
Francesco Debiaggi
Barbara Vitti
Paolo Panerai, Class Editori
Barbara Vitti dedica questo libro
a sua madre Gemma e a sua figlia Emma
Prefazioni
Una storia lombarda
Quirino Conti
Comunicare la moda e comunicare con la moda
Simona Segre Reinach
Moda e comunicazione a Milano
nelle carte di Barbara Vitti
Elena Puccinelli
Milano è di moda
Non solo moda.
L’importanza di chiamarsi PR
Sommario
7
10
14
24
34
106
Mario Boselli
Presidente della Camera Nazionale della Moda
Il ruolo delle PR nella gestione delicata e complessa del sistema moda ita-
liano è sempre stato importante fin dagli inizi, quando, con la nascita e lo
sviluppo del prêt-à-porter degli stilisti, si dovette sviluppare un “mestiere”
nuovo, una professionalità tutta da inventare, in un settore produttivo che da
artigianale si andava trasformando in un’industria, in parallelo con il più
ampio successo del “Made in Italy”. A questa fase iniziale, che oserei defi-
nire eroica, è seguita un’evoluzione importante, che ha richiesto professio-
nalità e strumenti più raffinati per gestire realtà più sofisticate e complesse.
I rapporti fra gli studi di PR e la Camera Nazionale della Moda sono stati
molto intensi e hanno consentito di gestire tematiche difficili con risultati
positivi, anche se con passaggi a volte “spigolosi”. In questo percorso, una
protagonista e testimone privilegiata è stata ed è Barbara Vitti, che con stile
ed eleganza, non disgiunti da fermezza e serietà, ha gestito gli eventi più
significativi di questa stagione d’oro della moda italiana.
La sua cifra professionale può essere riassunta nella famosa metafora
“pugno di ferro in guanto di velluto”, ma si tratta di un guanto certamente
elegante, perché Barbara Vitti è la “signora delle PR e della moda”.
Il volume Professione PR. Immagine e comunicazione nell’Archivio Vitti,
curato da Elena Puccinelli, rappresenta un esempio prezioso di quell’opera
di valorizzazione degli archivi che costituisce oggi una delle sfide più impor-
tanti nella gestione dei beni documentali a livello locale e nazionale. Queste
pagine offrono infatti una riflessione critica, corredata da una ricca selezio-
ne di immagini, sui documenti conservati nell’Archivio Vitti donato
all’Università degli Studi di Milano nell’ambito del progetto nazionale
“Archivi della Moda del Novecento”, finalizzato a individuare, valorizzare e
rendere fruibile lo straordinario patrimonio archivistico, bibliografico, icono-
grafico, audiovisivo relativo al sistema moda in Italia.
Il progetto, presentato a Firenze nel 2009, nasce su iniziativa della Direzione
Generale per gli Archivi del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e
dell’Associazione Nazionale Archivistica Italiana, in collaborazione con la
Direzione Generale per i Beni Librari, gli Istituti Culturali e il Diritto d’Autore
e la Direzione Generale per l’Organizzazione, gli Affari Generali, l’Inno-
vazione, il Bilancio e il Personale dello stesso Ministero.
Per la Lombardia, il progetto ha visto l’attiva partecipazione e il coordinamen-
to tra varie istituzioni pubbliche e private: tra i primi obiettivi perseguiti vi è
stato l’avvio di un censimento degli archivi di aziende, stilisti, case editrici
legati al mondo della moda, condotto in collaborazione dalla Soprintendenza
Archivistica per la Lombardia e dall’Università degli Studi di Milano.
Il censimento è stato propedeutico a una serie di altre iniziative, tra le quali
il volume che qui si presenta, coordinate in un vasto progetto dedicato agli
“Archivi della Moda del Novecento in Lombardia” promosso dal Centro
Interdipartimentale MIC “Moda Immagine Consumi” dell’Università degli
Studi di Milano, in collaborazione con la Soprintendenza Archivistica per la
Lombardia, la Regione Lombardia, il Comune di Milano e le Civiche Rac-
colte d’Arte Applicata ed Incisioni, l’Associazione Biblioteca Tremelloni del
Tessile e della Moda, l’Associazione Italiana Pellicceria, il Centro di studi per
la storia dell’editoria e del giornalismo, la Fondazione Gianfranco Ferré. Il
progetto è stato sostenuto dal contributo della Fondazione Cariplo e della
Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Milano.
Maurizio Savoja
Soprintendente Archivistico per la Lombardia
L’obiettivo è quello di conoscere, tutelare e valorizzare gli archivi della moda:
intendendo l’archivio non solo nel senso più tradizionale di carte accantona-
te a scopo amministrativo, ma nel più ampio significato di insieme organico
di documenti, senza distinzione di tipologia o di supporto, formati, accumu-
lati e usati da una determinata persona, famiglia o ente nello svolgimento
della propria attività, secondo una definizione ormai consolidata. E quindi
archivi amministrativi, certo, ma anche tutti gli altri materiali (disegni, schizzi,
pubblicazioni, ritagli, oggetti, fotografie, audio-video) che l’agire nel mondo di
un soggetto porta ad accumulare e conservare, perché funzionali all’attività
condotta o perché frutto dell’attività stessa: l’archivio del prodotto, concetto
anch’esso ormai entrato nel linguaggio comune degli archivi d’impresa.
In questo senso il progetto sugli archivi della moda, come altri avviati in que-
sti ultimi anni relativamente agli archivi d’impresa, di architettura, della musi-
ca, della letteratura e così via, costituisce la stimolante sfida dell’incontro tra
i più vivi settori della società e dell’economia attuale e le professioni della
memoria e della documentazione: archivisti, storici (con le diverse specializ-
zazioni), bibliotecari, istituzioni culturali, di ricerca e dedicate alla didattica,
accomunati dalla volontà di contribuire alla creazione di nuovi modi per ope-
rare, nel mondo presente e futuro, che si appoggino al meglio sul patrimo-
nio del passato, nel contempo lavorando perché questo patrimonio non
venga disperso, ma anzi si arricchisca con le testimonianze dell’oggi.
Il volume curato da Elena Puccinelli è un esempio, uno degli esempi, di quan-
to gli archivi possano restituire, al mondo di oggi, del patrimonio di conoscen-
za di cui sono portatori; una conoscenza fatta delle tracce lasciate dall’opera-
re nel tempo di individui e organizzazioni, che può essere fatta rivivere a
patto, in primo luogo, che i documenti e gli oggetti che la racchiudono siano
attentamente accumulati e conservati e che vengano poi, attraverso un
approccio culturalmente rigoroso e rispettoso, studiati e riportati alla luce.
11
Una storia lombarda
Quirino Conti
Cos’era Milano in quei primi anni settanta! Intanto che, volgendosi impruden-
temente verso ciò che restava della morente alta moda romana, anche attor-
no a nomi che erano stati alteri e reboanti, tutto, proprio tutto appariva come
destinato al disfacimento e alla rovina, dentro un tragico cono d’ombra e d’inu-
tilità. In una noiosa, inesorabile impotenza fin-de-race senza scampo alcuno.
Mentre lì, tra nuovi paesaggi, comportamenti nuovi e finanche nuove fisio-
nomie, in un odore inconfondibile e totalmente inedito per chi frequentas-
se d’abitudine atelier e sartorie – quello della fabbrica e di quanto smuove-
va pulegge e ingranaggi (reali e metaforici), catene di montaggio e cicli pro-
duttivi –, lì la vitalità del nuovo e dell’appena nato dava quel genere di eufo-
ria che sempre causa la consapevolezza d’essere nel Tempo, nella Storia,
nella propria contemporaneità, nel solo punto determinante: artefici di ciò
che conta e appare ineludibile.
Similmente a come si poteva ascoltare dagli estatici racconti dei superstiti
testimoni dei Ballets Russes e di quella irripetibile stagione. Un’eccitante
euforia che avresti detto simile all’ebbrezza; in una interminabile primavera.
Ora che, in volo verso quella città, sopra le nuvole, e dunque già con l’im-
maginazione e il pensiero fuori dalle cose, al momento di atterrare ci si
poteva a ragione convincere di stare per scendere nel cuore stesso del pro-
prio tempo, in quella ennesima, incomparabile, unica Modernità.
Cosicché, voltandosi indietro appunto, c’era da correre il rischio di perdersi
e di restare di sale: come nel più classico dei miti.
Lì, in quel piccolo mondo di stilisti – quale nome più azzeccato per giovani
talenti pronti a sconvolgere l’aspetto della Storia? – e di professioni nuove,
appena inventate. Già, da un giorno all’altro, in una sede adeguata, con bel-
l’indirizzo, senso del lavoro, degli affari, e professionalità.
Lì incontrai Barbara Vitti.
Ci fece conoscere un comune amico, compratore alla Rinascente (quanto deve
la Moda a quella fucina di creativi e stilomani!) che, in quell’appena nato mondo
Veduta di Milano con la
torre Velasca e le guglie
del Duomo, 1958
12
dello Stile, si muoveva con buone amicizie, disinvoltura e grande comunicativa.
Ci presentò all’Hotel Palace per il mio esordio a Milano.
Da allora non ci siamo più persi.
Affermare che Barbara Vitti avesse molte relazioni è dare un limite al suo
indirizzario di allora. Giacché i pochissimi che eventualmente non vi fossero
previsti, se necessario, dopo un attimo, erano già dentro la sua festosa
capacità di coinvolgere e includere.
Da milanese autentica, come nessuno.
Con il sentimento in mano – almeno così dicono loro –, chiacchiere lo stret-
to necessario e appena sufficiente, e tantissimi fatti. Sobriamente, certo
(venivo dalla pomposissima romanità), ma con intensità e determinazione.
Mi ero appena laureato in architettura – ormai è quasi, anzi è sicuramente,
un difetto, la laurea – e, in quegli anni, con Gianfranco Ferré già famoso e
architetto rodato, eravamo due autentiche rarità: eppure, senza troppi giri di
parole o grilli per la testa. Giacché Milano allora era così, piena di occasioni
straordinarie, possibilità e generosi slanci: per chiunque, anche se illettera-
to, purché avesse talento e qualcosa da dire.
Barbara Vitti si occupava allora del GFT e lì fummo a lungo insieme, dopo
Trussardi e poi via via in occasioni di lavoro memorabili.
Sapendo unire ciò che avevamo di diverso l’uno dall’altra assieme a quello
che, accomunandoci, ci dava energia e forza.
Compresa una rara predisposizione per l’elaborazione di lettere; sì, di let-
tere – fax o e-mail che fossero: pacificate, risentite o sentenziose a
seconda del caso. Ovunque fossimo, se c’era un problema da risistema-
re quella era la nostra tempestiva, irresistibile specialità. A qualunque ora.
Perché in quegli anni la felicità consisteva, più che in qualsiasi altra cosa,
nell’essere costantemente in un solo pensiero dominante: l’impagabile
privilegio, cioè, di esercitare la più moderna delle professioni e la più stra-
ordinaria.
Ma oltre alla determinazione, ciò che fin d’allora colpiva in lei era la passio-
ne contagiosa con la quale svolgeva il suo lavoro. Passione che rendeva
unica ai suoi occhi, e dunque anche ai suoi interlocutori, qualunque cosa le
fosse stata affidata. Che si trattasse di una nuova impresa, una presenta-
zione o una campagna pubblicitaria, ogni volta quell’incarico diveniva il suo
oggetto d’amore, il solo suo scopo. Per ogni dettaglio: anche solo dover
scegliere una didascalia o un impaginato. Appassionatamente, sempre.
Quali che fossero le difficoltà e gli impedimenti. Allora come oggi.
13
E così lo Studio Vitti diveniva un’istituzione, e non soltanto in quel pugno di
geniali elaboratori di stile e di immagini.
E costantemente ai vertici di un sistema che a grandi passi si faceva sem-
pre più esigente, mai che smarrisse l’unico modo che conosceva per affron-
tarlo: dunque entusiasmo, volontà, metodo e illimitata disponibilità, oltre
ogni immaginazione.
Ma soprattutto, passione: vorace e bruciante. Che le riempiva la vita. Per
qualunque particolare di quel nuovo corso di storia professionale, come non
ci fosse altro al mondo.
Forte, tenace, rassicurante; per chi le era accanto, una sorta di muraglia pro-
tettiva e invalicabile, di bastione armato.
L’ho osservata con i miei occhi muoversi nel mondo al fianco dei più grandi nomi
dello Stile: ebbene, anche in quelle occasioni riuscendo a non tradire se stessa e
rimanendo ciò che era ed era stata in quei primi anni settanta, agli esordi di tutto.
Identica: lombarda, milanese e con il sentimento a fior di pelle. Inflessibile,
seppure, fortunatamente, con molti varchi di fragilità in quel suo tono alto e
sonoro – e una “r” inconfondibile – capace di tenere tutto in pugno.
Cos’era Milano in quegli anni! Cos’erano quei giorni!
E non perché, rievocando il passato, si rimpiange unicamente la giovinezza
e dunque le sue ore preziose – giacché non di rado il passato e la giovinez-
za possono anche essere stati tremendi e da dimenticare.
Quelli, invece, erano davvero anni eroici per la Moda, e non certo per ragio-
ni di età o generazionali.
Poiché insieme vedemmo sorgere Titani, levarsi torri di luce, alzarsi magni-
ficenza e perfezione, senza pari.
E lei era ed è lì, custode di quei giorni e di tutti i loro segreti.
Forte, tenace e piena d’amore per quel suo lavoro e per chiunque lo svol-
ga, con identica fermezza, accanto a lei.
“Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre
umano, beninteso, un secolo, due secoli…; e dopo sarà diverso, ma peg-
giore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli
sciacalletti, le iene; e tutti quanti, Gattopardi, sciacalli e pecore, continuere-
mo a crederci il sale della terra.”
Nulla è più vero.
Anche se, c’è da giurarci, Barbara Vitti sarebbe stata capace di trasformare
anche quel terribile Calogero Sedara in un autentico, vero stilomane. Se
non in un Gattopardo.
15
Comunicare la moda e comunicare con la moda
Simona Segre Reinach
Per gli studiosi degli anni sessanta e settanta la moda era un oggetto che
incuriosiva, in parte anche attraeva per il suo trasformarsi proprio in quel-
l’epoca da pratica di distinzione sociale, la moda di classe, a pratica espres-
siva e comunicativa, la moda “degli stili di vita”, ma che veniva aspramente
criticato in quanto uno dei fenomeni di neomania indotti dal capitalismo.
Sulla scorta della Scuola di Francoforte, nella propensione ai consumi veni-
va individuata una possibile deriva dall’impegno sociale. Gli studi recenti1,
al contrario, si sono focalizzati principalmente sull’interpretazione della
varietà di significati di ciò che va sotto il termine moda, cercando di liberar-
la dalla connotazione effimera di cui ha sofferto a fasi alterne sin dai tempi
della polemica settecentesca sul lusso. Già Jean Baudrillard2, seppure
assai critico nei confronti della moda, che secondo la sua analisi promette
un’uguaglianza di fatto introvabile nelle società capitaliste, riteneva che la
moda offrisse il terreno per analizzare aspetti significativi delle nostre
società. Il continuo rinnovamento di segni, la perenne produzione di senso,
solo in apparenza arbitrario, nel mistero intatto dell’alternanza dei suoi cicli,
sono l’espressione più efficace della nostra società contemporanea. Con il
tramonto della moda come distinzione sociale e l’inizio dell’era della moda
aperta3, nuovi significati si presentano pronti a essere veicolati dalla moda,
emblema dei consumi culturali della società contemporanea. Nella società
tardo-capitalista dei consumi l’accresciuta importanza della moda in quan-
to comunicazione è più che evidente. Non solo la forma moda influenza,
ma plasma le modalità del desiderio e dell’immaginazione. Il desiderio di
“muoversi con la moda”4 fa convergere in modo crescente le nozioni dello
stile sul corpo vestito e la nostra attenzione si focalizza sull’insieme delle
pratiche che definiscono l’identità. La moda è dunque attività antropoietica
per eccellenza, serve, cioè, a “fare umanità”5. Attraverso i suoi must la
moda fornisce indicazioni su cosa è giusto o non è giusto indossare e ci
prepara per l’immediato futuro, facendoci assaporare le anticipazioni dei
Susy Porter e Mike
Nichols da Maxim’s
a Parigi, 1962 (Fotografia
Richard Avedon)
16
gusti e delle tendenze. Scrive Ugo Volli: “Quando ci mettiamo un abito
diciamo quello che siamo, e gli altri lo capiscono. Vestirsi è scrivere la pro-
pria identità sul corpo, comporre frasi relative secondo una grammatica
pubblica e facilmente decifrabile (anche se mobile), tradursi e tradirsi in
forma di tessuto”6.
Intendere la moda come comunicazione significa postulare l’esistenza di un
suo linguaggio specifico. L’abito è uno dei molti sistemi di comunicazione
non verbale, cioè di una comunicazione che non coinvolge il parlare o lo
scrivere, come i gesti, gli sguardi, la prossemica, ma che è altrettanto effi-
cace. Proviamo a elencare somiglianze e differenze tra il linguaggio della
moda e la lingua vera e propria. Diversamente dal linguaggio che si basa su
segni e regole per la combinazione di essi in specifici messaggi, l’abbiglia-
mento non possiede la medesima qualità generativa. La parola, inoltre, è
più arbitraria e meno ambivalente. Il significato di alcune combinazioni di
abiti o dell’enfasi su un certo stile varia infatti in base all’identità della per-
sona che indossa quegli abiti, all’occasione, al luogo, alla compagnia e “per-
sino a qualcosa di così vago e passeggero come lo stato d’animo di chi
indossa e di chi osserva”7. Per alcuni autori è proprio la nozione di ambiva-
lenza, nelle sue varie espressioni, di genere, tra il maschile e femminile, di
status tra le classi sociali e tra ricchezza e povertà, e della sessualità nella
dicotomia erotico-casto, a costituire la materia stessa di cui la moda è fatta
e si nutre.
Potremmo dire che in gran parte la nostra identità, il senso di chi e che cosa
siamo prende forma nella misura in cui bilanciamo e tentiamo di risolvere
le ambivalenze che la nostra natura, il nostro tempo e la nostra cultura ci tra-
smettono. E l’abbigliamento, pur avendo avuto come scopo iniziale quello
di proteggerci dagli elementi della natura, entra oggi a far parte della gestio-
ne dell’ambivalenza al pari di altri mezzi, già di per sé fonti di comunicazio-
ne, a nostra disposizione per la comunicazione del sé: la voce, il portamen-
to e il movimento del corpo, le espressioni facciali e gli oggetti materiali di
cui ci circondiamo8.
Eppure la comunicazione della moda, pur nell’ambivalenza che la caratteriz-
za, ha un suo valore specifico di cui siamo tutti consapevoli. È dall’ambiva-
lenza della condizione umana messa in scena e spettacolarizzata, tuttavia
resa innocua nelle sue reali conseguenze, che deriva il fascino della moda,
come fosse un “continuo palcoscenico della rappresentazione di noi stes-
si”9. Moda e abbigliamento veicolano significati culturali obliqui che il lin-
17
guaggio con la sua natura esplicita non potrebbe veicolare. Come la cultura
materiale in genere, la moda può infatti parlare “sotto voce”10 e come la
musica possiede un valore altamente metaforico. Punto di incontro tra
corpo, abito e cultura, la moda indica un fenomeno sociale dalle ampie impli-
cazioni che soprattutto in epoca contemporanea si delinea dunque come una
sorta di esperanto. Basti pensare ai marchi del cosiddetto lusso globale che
attraversano confini geografici ed economici mantenendo miracolosamente
intatto il loro potere comunicazionale. Precisamente per le sue caratteristi-
che compositive e per la sua ambivalenza nonché per la sua duttilità, la moda
funziona in un certo senso come il pensiero mitico11, cioè produce nuovi
significati servendosi di pezzi esistenti, come anche il caso del vintage illu-
stra. Tra i primi a sostenere che la moda prenda vita attraverso i sistemi
comunicativi che ne costituiscono il senso è Roland Barthes12 nel suo pio-
nieristico saggio sul sistema della moda. Analizzando la “moda scritta”, in
particolare le didascalie delle riviste di moda, Barthes provocatoriamente ne
sottolinea gli aspetti più sottili (e perversi, in quanto rivelatori delle discrimi-
nazioni che il capitalismo produce) di sistema di comunicazione. Il codice
vestimentario proprio perché più instabile del linguaggio può anche precede-
re il linguaggio nello svelare nuovi comportamenti e istanze sociali. È un
mezzo per molti aspetti imperfetto, ma con un potere talmente forte da ren-
derlo indispensabile nella trasmissione della cultura nella sua complessità. Il
concetto di destino personale, di scelta e di responsabilità individuale legato
all’emergere delle società liquide13 ha nei rituali del guardaroba e nelle prati-
che di cura del corpo i suoi esempi più notevoli. Come sostiene Michel
Maffesoli14, mentre la politica era il tratto distintivo della modernità, l’esteti-
ca è quello della nostra società definita di tarda-modernità. La ricerca esteti-
ca che contraddistingue la nostra epoca trova nei meccanismi della moda il
luogo dell’apprendimento più immediato. Non si tratta soltanto di un codice
semantico, scrive a questo proposito Lars Svendsen, quanto di un effetto
estetico: “Dobbiamo optare per uno stile di vita che, in quanto stile, farà
della nostra preferenza una decisione estetica fondante. L’estetica pertanto
diviene il centro della formazione dell’identità”15.
La prevalenza degli stili di vita sulle classi sociali, che in termini sociologici
segna il passaggio dalla cultura della produzione alla cultura del consumo,
si accentua dopo gli anni sessanta e soprattutto negli anni ottanta, quando
la moda inizia a divenire un segno in grado di significare estetica, moderni-
tà, democrazia, culto della giovinezza. L’Italia ha un ruolo fondamentale in
Nelle pagine successive:
Il chi c’era nella Sala
Bianca di Palazzo Pitti,
1954 (Disegno Brunetta)
e Il pubblico di Palazzo
Pitti, 2001 (Disegno
Paolo Fiumi)
20
questo passaggio che trasforma la moda da industria produttiva a industria
prevalentemente culturale16. Con l’innovazione apportata dagli stilisti mila-
nesi, cioè con il connubio tra stilisti e industria tipico del prêt-à-porter, si
esce dal registro del lusso e si entra in quello della diffusione popolare. In
pochi anni, come noto, la moda diviene un bisogno sociale diffuso e lo
shopping di moda una delle attività preferite dal pubblico. Le proposte si
diversificano, lo stilista propone modelli di comportamento estetico cui
risponde un’accresciuta capacità di usare la moda come strumento espres-
sivo e attivazione di consonanza con i propri simili. La moda, che possiamo
anche definire come un universo immaginario di possibili scelte individuali
e sociali17, è divenuta dunque in epoca recente un mezzo di comunicazio-
ne di massa che “si riproduce e diffonde secondo le sue proprie modalità e
che, al tempo stesso, entra in relazione con altri sistemi massmediatici”18.
Proprio perché la moda è comunicazione essa stessa, indiretta, ambivalen-
te, ma estremamente puntuale ed efficace, può anche entrare in conflitto
con i tradizionali metodi di comunicazione, in modo particolare con la pub-
blicità. Per poter seguire, interpretare, promuovere, diffondere capillarmen-
te le novità che la moda presenta, la pubblicità tradizionalmente intesa non
è mai stata sufficiente, come invece per la maggior parte degli altri prodot-
ti. La capacità di intrecciare narrazioni è centrale nel processo di affermazio-
ne del vocabolario della moda e dei suoi simboli. L’attività di PR, cioè le pub-
bliche relazioni, è stata per questo parte integrante e fondamentale per tra-
smettere ai consumatori degli anni ottanta, desiderosi, ma ancora incerti
del loro gusto, quella sicurezza che si traduce nelle giuste coordinazioni sti-
listiche. La moda richiede sempre l’ausilio di professionisti che siano porta-
tori di quello che Joanne Entwistle19 definisce il “sapere estetico implicito”.
Chi è dotato di conoscenza estetica implicita è caratterizzato da un approc-
cio intuitivo alla realtà e dall’abilità di tradurre l’esperienza sensoriale del
mondo dello stile in un discorso coerente e comprensibile, ma che lascia
intatta tutta la sua magia fatta di allusività e ambivalenze. Più diversificate
rispetto agli anni ottanta, le cosiddette “pubbliche relazioni” restano oggi un
elemento fondamentale della comunicazione della moda, in un mondo fatto
di consumatori più consapevoli, ma sempre pronti a essere sedotti dalle
storie e dagli eventi che la moda suscita, evoca. Agendo da intermediari cul-
turali, da un lato la/il PR traduce, dall’altro diffonde, in entrambi i casi con-
tribuisce a divulgare una cultura della moda. È come se le PR garantissero
la comunicazione intesa come da etimo “messa in comune”, a differenza
21
della pubblicità che fungerebbe in molti casi da mera informazione. Moda e
pubblicità in effetti sono due sistemi autonomi i cui relativi codici non pos-
sono essere “prestati” l’uno all’altro, come ha dimostrato Grant David
McCracken, in quanto entrambi trasmettitori di valori culturali assai potenti.
La saturazione di pubblicità, inoltre, porta alcuni analisti a sostenere che nel
campo della moda essa sia in declino a fronte di una crescita di importan-
za delle PR: “Secondo i sostenitori di questa tesi, la provenienza dell’infor-
mazione da una fonte percepita come neutrale contribuirebbe a dare credi-
bilità al messaggio, diversamente da quanto avviene con l’informazione
pubblicitaria”20.
L’effetto “immedesimazione” che caratterizza la comunicazione dei fashion
blog odierni, in cui il soggetto che comunica è anche l’oggetto che promuo-
ve, è stato in un certo qual modo anticipato dalle PR della moda che hanno
saputo per prime – si trattava in genere di donne – modificare quel vissuto
di distanza che la moda aveva in passato. La moda è il risultato di una serie
di scelte fatte da molteplici attori in un percorso che trasforma i capi di abbi-
gliamento in pezzi di cultura. Il valore della moda è definito dalle attività col-
lettive e dalle pratiche degli operatori del settore proprio perché i mercati
della moda sono configurazioni metaforiche che mettono insieme aspetti
culturali e aspetti economici21.
Probabilmente perché culturalmente distanti, se non addirittura diffidenti,
nei confronti dei metodi e degli strumenti tradizionali, come le agenzie di
pubblicità e gli istituti di ricerca tarati sui beni di largo consumo, le aziende
e i designer di moda hanno dunque generato sistemi inediti di comunica-
zione. Benché diventata un bene di largo consumo essa stessa, la moda
conserva infatti una sua peculiarità di prodotto che parla a individui che si
riconoscono in particolari modi di vita, e non a moltitudini eterogenee.
Poiché il prodotto abbigliamento, più di altri, è un prodotto “nudo”, vestito
dalla comunicazione, alcuni ritengono un po’ provocatoriamente che la
moda si sia addirittura affermata senza ricorrere alle usuali strategie di mar-
keting degli altri comparti di consumo, quasi per caso e come segno della
sua differenza qualitativa rispetto ad altri prodotti e servizi. Quello che è
certo è che il suo marketing mix è stato anomalo e molto innovativo. Le
aziende della moda, spesso in modo inconsapevole e spontaneo nei primi
anni, molto più organizzato e razionalizzato in tempi recenti, hanno fatto
ricorso a un loro specifico marketing. Ecco perché ha caratterizzato il com-
parto della moda un uso creativo del mix di marketing, cioè delle tradiziona-
22
li “quattro P” descritte nei manuali di marketing – prodotto, prezzo, posto
(distribuzione), pubblicità – trasformandole in una unica “grande C” in cui
ogni elemento è comunicazione esso stesso22.
Il gioco della comunicazione con la moda e della moda si allarga e restrin-
ge in continui rimandi che non possono essere interamente razionalizzati,
come una lucciola estiva che scompare nel momento stesso in cui credia-
mo di afferrarla, né tuttavia ignorati come meccanismi specifici. Uno dei
paradossi della moda, l’essere un fenomeno sociale e una pratica individua-
le, che Georg Simmel23 per questo già definiva individualizzante e omoge-
neizzante, ne ha determinato le peculiarità di diffusione e il successo nel-
l’epoca contemporanea. Si può sostenere che il sistema della moda comu-
nichi a ogni individuo e che ciascuno lo usi per comunicare alla propria cer-
chia sociale in una circolarità che ne determina la fascinazione e la perenne
trasformazione.
Maria Pezzi, abiti
di Missoni, San Lorenzo,
Roberta di Camerino
e Krizia, in supplemento
di “Il Giorno”, 1975-1980
1 E. Wilson, Adorned in Dreams, Tauris,
London 2003.
2 J. Baudrillard, Il sogno della merce, Lupetti,
Milano 1987.
3 G. Lipovetsky, L’Impero dell’effimero,
Garzanti, Milano 1989.
4 K. Hansen Tranberg, The World in Dress:
Anthropological Perspectives on Clothing,
Fashion, and Culture, in “Annual Review of
Anthropology”, 2004, pp. 369-392.
5 F. Remotti, Prima lezione di antropologia,
Laterza, Roma-Bari 2000.
6 U. Volli, Introduzione, in F. Davis, Moda,
Baskerville, Bologna 1993.
7 F. Davis, Moda, Baskerville, Bologna 1993, p. 8.
8 F. Davis, op. cit., p. 25.
9 E. Scarpellini, L’Italia dei consumi, Laterza,
Roma-Bari 2008, p. 274.
10 G.D. McCracken, Culture and Consumption.
New Approaches to the Symbolic Character
of Consumer Goods and Activities, Indiana
University Press, Bloomington 1990, p. 69.
11 C. Lévi Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Sag-
giatore, Milano 1964.
12 R. Barthes, Il sistema della moda, Einaudi,
Torino 1970.
13 Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza,
Roma-Bari 2000.
14 M. Maffesoli, Note sulla post-modernità,
Lupetti, Milano 2005.
15 L. Svendsen, Filosofia della moda, Guanda,
Milano 2004, p. 157.
16 S. Segre Reinach, Milan the city of Prêt à
Porter, in D. Gilbert, C. Breward FashionWorld’s
Cities, Berg, Oxford 2006, pp. 110-123.
17 Moda e mondanità, a cura di P. Calefato,
Palomar, Bari 1992.
18 P. Calefato, Mass moda, Costa e Nolan,
Genova 1996, pp. 6-7.
19 J. Entwistle, The Aesthetic Economy of
Fashion, Palgrave Macmillan, London 2009.
20 R. Cappellari, Il marketing della moda e del
lusso, Carocci, Milano 2011, p. 93.
21 J. Entwistle, op. cit.
22 S. Segre Reinach, La moda. Un’intro-
duzione, Laterza, Roma-Bari 2010.
23 G. Simmel, La moda, Editori Riuniti, Roma
1986.
23
25
Moda e comunicazione a Milano nelle carte di Barbara Vitti
Elena Puccinelli
Il passaggio dal XX al XXI secolo richiede a tutti i sistemi manifatturieri e
industriali una svolta fondamentale sia in ambito produttivo che gestionale,
una risposta adeguata alle sfide poste dalla globalizzazione così come dalla
recente crisi finanziaria che ha colpito l’economia mondiale. Uno dei princi-
pali settori produttivi in Italia è oggi quello della moda, sollecitato a continui
aggiornamenti per poter essere sempre competitivo rispetto alle nuove
realtà economiche emergenti come quella cinese e indiana.
In questo senso un patrimonio inestimabile di idee, immagini, documen-
ti e testimonianze dei protagonisti della sua storia nel Novecento dal
quale attingere per immaginare il futuro è conservato negli archivi, il cui
valore è misurabile non solo in termini economici, ma anche in termini
culturali e persino artistici, un vero e proprio giacimento di conoscenze
che fino a oggi non è stato adeguatamente valorizzato sotto il profilo
scientifico. Come spesso infatti accade per settori la cui importanza è
riconosciuta dal punto di vista economico, ma relativamente recenti dal
punto di vista degli studi culturali, non sempre l’ambito della moda ha
conosciuto iniziative di alto livello che fossero avulse dall’aspetto pubbli-
citario. Nonostante la sua centralità, lo studio e la ricerca in questo setto-
re, dal punto di vista della storia aziendale, culturale e artistica, fino a oggi
sono stati appannaggio di studiosi e giornalisti che avevano una cono-
scenza diretta degli eventi e dei personaggi, ma che raramente hanno
potuto accedere in maniera sistematica alle preziose fonti documentarie
e visive che costituiscono gli archivi della moda. La situazione attuale ci
vede dunque di fronte a una sostanziale sotto-utilizzazione dei materiali
presenti negli archivi e nelle biblioteche e a una loro scarsa valorizzazio-
ne, sia da parte di un largo pubblico potenzialmente interessato, sia da
parte della comunità scientifica e accademica.
È per dare una risposta a questa esigenza che il Ministero per i beni e le
attività culturali ha promosso il progetto nazionale “Archivi della Moda del
Jole Veneziani, 1976
(Fotografia Gian Paolo
Barbieri)
26
Novecento”, che è stato presentato a Firenze presso la Sala Bianca di palaz-
zo Pitti il 12 gennaio 2009. Ne è conseguito l’avvio dei lavori nelle tre regio-
ni pilota, Lazio, Toscana e Lombardia, particolarmente rappresentative per il
ruolo svolto dalle città di Roma, Firenze e Milano nella storia della moda ita-
liana. Successivamente vi hanno aderito, tra gli altri, il Veneto con il suo
distretto produttivo del Brenta, il Piemonte con il Biellese, l’Emilia
Romagna, le Marche, la Campania. In Lombardia, l’Università degli studi di
Milano in collaborazione con lo stesso Ministero e la Soprintendenza archi-
vistica per la Lombardia, il Comune di Milano e le Civiche raccolte d’arte
applicata ed incisioni, l’Associazione biblioteca Tremelloni del tessile e della
moda, l’Associazione italiana pellicceria, il Centro di studi per la storia del-
l’editoria e del giornalismo, la Fondazione Gianfranco Ferré, con un finanzia-
mento della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di
Milano hanno elaborato un progetto dedicato agli “Archivi della Moda del
Novecento in Lombardia”. Il progetto ha ricevuto un contributo della
Fondazione Cariplo che ne ha riconosciuto il grande rilievo.
L’obiettivo è quello di restituire al settore della moda, così centrale nell’im-
magine pubblica di Milano e dell’Italia all’estero, la dignità culturale che gli
spetta e che finora è stata solo in parte riconosciuta, avvalendosi della col-
laborazione tra le diverse istituzioni coinvolte, ognuna delle quali vi apporta
il proprio contributo. Il percorso che si intende compiere è quello di rende-
re fruibile il grande patrimonio presente negli archivi dei principali operatori,
per garantire una solida base di documentazione in grado di sostenere ricer-
che presenti e future che abbiano come oggetto la moda italiana, per forma-
re giovani stilisti, giornalisti, archivisti e personale delle aziende del compar-
to produttivo e più in generale per creare gli strumenti per una reale valoriz-
zazione culturale del patrimonio moda.
Il campo di indagine è complesso. Vi sono gli archivi e le biblioteche prodot-
ti dagli stilisti, quelli delle imprese del settore tessile, calzaturiero e degli
accessori di moda e quelli delle riviste specializzate nella moda, solo per
citare i casi più frequenti. Tuttavia, non di minore interesse sono gli archivi
dei professionisti che hanno operato o operano nel mondo della moda,
siano essi esperti nella comunicazione, giornalisti e fotografi. Senza dimen-
ticare la grande importanza del patrimonio di quegli enti e fondazioni che si
sono posti come obiettivo quello della concentrazione e conservazione della
memoria storica di aziende, stilisti o professionisti del settore. La sfida per
l’archivista e per lo studioso è data anche dalla presenza in tali complessi di
27
molteplici tipologie documentarie quali per esempio quelle che compongo-
no l’archivio fotografico, l’archivio audio-video, l’archivio disegni, l’archivio
ufficio stampa, l’archivio del prodotto, l’archivio amministrativo e contabile,
l’archivio personale e la biblioteca. Accanto al documento cartaceo vi può
essere dunque la stampa fotografica, la diapositiva, il video, il figurino, l’abi-
to, la scarpa, il campione di tessuto e il bottone.
Molti sono i possibili percorsi di ricerca e di intervento, tuttavia il primo pro-
dotto che si è voluto realizzare è il censimento degli archivi, che in
Lombardia è attuato in collaborazione dall’Università degli studi di Milano e
dalla Soprintendenza archivistica, con l’obiettivo di fotografare la realtà del
patrimonio documentario esistente presso stilisti, aziende e case editrici, di
sensibilizzare i proprietari a conservare questi materiali, di segnalarne l’esi-
stenza agli studiosi. Questa prima indagine è foriera di interessanti sviluppi
quali per esempio i progetti di intervento sui singoli archivi, i saggi scienti-
fici, le monografie, le mostre, la condivisione dei materiali in rete e ancora
l’opportunità individuata da singoli proprietari di poter donare il proprio
archivio al Centro interdipartimentale Moda immagine e consumi, creato
dall’Università degli studi di Milano per promuovere e coordinare gli studi e
la didattica sulla storia della moda.
Tra questi vi è l’archivio di Gemma e Barbara Vitti, madre e figlia, entrambe
protagoniste dell’epoca che ha visto nascere e affermarsi nel mondo la
moda italiana. Una vicenda che viene ricostruita in questo libro grazie ai
materiali tratti dallo stesso archivio Vitti, interpretata dal particolare punto di
vista della professione delle pubbliche relazioni, che la stessa Barbara ha
contribuito a definire.
Gemma Vitti (1902-1992), disegnatrice per il negozio Galtrucco a Milano,
diventa giornalista quando viene chiamata dal quotidiano milanese del
pomeriggio “Corriere lombardo” per scrivere una rubrica sulle donne. Negli
anni quaranta e cinquanta collabora anche con “Bellezza” e “Lei”.
L’affermazione definitiva viene quando il settimanale “Alba” le affida tutte le
pagine dedicate alla moda per le quali inventa un nuovo modo di presenta-
re le sfilate, che definisce “a soggetto”: le modelle interpretano una trama
da lei ideata, avvalendosi della collaborazione di scenografi e artisti.
Barbara Vitti nasce a Milano nel 1939. Cresciuta nell’ambiente della moda che
frequenta fin dall’infanzia, negli anni sessanta è redattrice per i giornali del
gruppo Del Duca, scriverà in seguito per “Grazia”, “Vetrine” e “Grand Hotel”.
Nel 1965 è chiamata da Snia Viscosa per curare le pubbliche relazioni in occa-
28
29
sione di un congresso a Londra per le fibre man made e di una sfilata spet-
tacolo a Venezia nei giorni del Festival del cinema, alla presenza della stampa
internazionale. È questa la vocazione di Barbara Vitti che nel 1971, quando si
delinea il grande successo del prêt-à-porter disegnato da stilisti italiani e la
conseguente necessità di una nuova figura professionale, sconosciuta fino a
quel momento se non negli Stati Uniti, il responsabile delle pubbliche relazio-
ni, crea lo Studio Vitti, con sede in via Zamenhof, nel popolare quartiere
Ticinese a Milano. Sarà pioniera in questo settore insieme a Beppe
Modenese, Franco Savorelli di Lauriano, Nietta Veronesi e Grazia Gay.
Negli anni che seguono è responsabile delle pubbliche relazioni, dell’ufficio
stampa e della pubblicità per Hettemarks, azienda di confezione svedese
con sede a Bari. Con Sergio Levi per il Gruppo Finanziario Tessile di Torino,
Achille Maramotti fondatore di Max Mara, Gianfranco Bussola per la
Marzotto e Francesco Balduzzi per Ruggeri formano il noto “gruppo dei cin-
que”, che si riunisce periodicamente a Milano per concordare le strategie di
comunicazione, i rapporti con le case editrici e le tendenze da introdurre
nelle reciproche produzioni. Da queste riunioni nasce l’idea di lanciare su
“Amica” la moda della giacca rossa: cinque diverse proposte, una per azien-
da. La campagna promozionale è serrata, le vetrine appaiono come un
trionfo di giacche rosse. Il capo diventa il cult dell’anno.
A questa esperienza segue quella presso il Gruppo Finanziario Tessile dove
conosce Quirino Conti, artista e scrittore, da Barbara definito uno dei lega-
mi fondamentali della sua vita.
Nel 1981, dopo aver unito alle molte consulenze anche quella perTrussardi, ini-
zia la sua collaborazione con Giorgio Armani, sotto la direzione di Sergio
Galeotti, “un geniale maestro di vita e di lavoro, che seppe valorizzarmi e mi
aiutò generosamente a crescere” (“Shopping Italia”, settembre 1993). Molti i
successi raggiunti insieme, culminati nella copertina che “Time” dedica allo
stilista nel 1982 sancendone il successo a livello internazionale. Lo Studio Vitti
si trasferisce in una nuova sede nella centrale via Durini.
Nel 1986 Barbara lascia Armani per Valentino, “l’uomo a cui si guarda nella
moda”. Diretta da Giancarlo Giammetti, è responsabile delle pubbliche rela-
zioni, dell’ufficio stampa, degli eventi speciali e della pubblicità in Italia, per
le trentaquattro linee firmate dallo stilista, dagli abiti agli occhiali, dalle
penne alle piastrelle. Afferma in un’intervista di Andrea di Robilant: “Da
Valentino il sogno si unisce all’efficienza. Ho ritrovato l’azienda, la parte che
mi piace” (“Il secolo XIX”, 11 novembre 1986).
Barbara Vitti nel suo
studio di via Ciovasso
a Milano, 2000
Gemma Vitti, giornalista
e disegnatrice di moda,
1960
30
Successivamente è consulente di Versace per gli eventi speciali e le mani-
festazioni culturali e del gruppo Inghirami Textile Company.
L’incontro con Carlo Fontana, sovrintendente del Teatro alla Scala, con il
quale collabora per sette anni come consulente per l’organizzazione della
serata inaugurale della stagione opera e balletto, anticipa una svolta nella
carriera di Barbara Vitti, il cui Studio negli anni novanta si specializza nel-
l’ideazione e realizzazione di eventi speciali e come ufficio stampa. La lista
dei clienti è importante. Vi sono aziende come Driade, Pirelli, il gruppo S.
Pellegrino; editori come il gruppo Hearst, Rusconi e Rizzoli; istituti culturali
tra i quali il già citato Teatro alla Scala e il Museo Bagatti Valsecchi o benefi-
ci come l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc). Per quanto
riguarda il mondo della moda, collabora con Pitti Immagine, Altagamma,
con Convivio a favore dell’Associazione nazionale per la lotta contro l’Aids
(Anlaids) e con la famiglia Versace in occasione di due eventi speciali: la
mostra personale “Richard Avedon 1944-1994”, allestita a palazzo Reale tra
il 18 gennaio e il 5 marzo 1995, e la mostra “Gianni Versace. La reinvenzio-
ne della materia”, curata da Chiara Buss e Richard Martin, allestita alla
Fondazione Ratti e a villa Olmo a Como, inaugurata il 18 giugno 1998.
Nel 2004 Barbara Vitti realizza il primo dei due quaderni – il secondo uscirà l’an-
no successivo – intitolati Milano è la moda. Inchiesta su un’unione di succes-
so da 30 anni, editi da Class Editore con il patrocinio dell’assessorato Moda,
eventi e turismo del Comune di Milano, utilizzando articoli, interviste e imma-
gini tratti dal suo prezioso archivio e redigendo la maggior parte dei testi.
Il 24 febbraio 2006 il sindaco di Milano Gabriele Albertini, l’assessore
Giovanni Bozzetti e il presidente della Camera della moda Mario Boselli insi-
gniscono Barbara Vitti dell’Ambrogino d’oro per aver creato una figura pro-
fessionale e un ruolo importante per la moda. Per essere stata prezioso
braccio destro della prima generazione di stilisti meneghini quali Armani e
Versace. Per aver accompagnato l’incredibile affermazione del “Made in
Italy” in un passaggio decisivo a cavallo di due secoli e due millenni.
Nel 2007 Barbara decide di mettere la sua grande esperienza professionale a
disposizione dei giovani allievi dell’Istituto europeo di design di Milano dove
tiene un corso di comunicazione, pubbliche relazioni e organizzazione di eventi.
Attualmente la PR è impegnata nella redazione di articoli per la rubrica Moda:
Save the Date del sito Chi è Chi (www.crisalidepress.it).
Testimonianza concreta della straordinaria carriera di Barbara Vitti che si è
rapidamente ripercorsa nelle righe che precedono e della conseguente atti-
31
vità svolta dal suo Studio è oggi l’archivio che, come detto, la PR ha deciso
di donare al Centro interdipartimentale Moda, immagine e consumi
dell’Università degli studi di Milano.
L’archivio conserva materiale diverso, diviso sommariamente in serie che
riflettono l’attività svolta dallo Studio Vitti per i numerosi clienti. In attesa di
un futuro riordino delle carte e della successiva inventariazione ne è stata
redatta una lista di consistenza che permetta di valutare il contenuto delle
centinaia di buste presenti.
La tipologia dei documenti è molto varia. Vi sono album e folder che raccol-
gono provini, stampe fotografiche in bianco e nero e a colori, diapositive,
fotocolor di sfilate, collezioni e personaggi. Raccoglitori che conservano
bozzetti, cataloghi, campionari, materiale pubblicitario, rassegne stampa,
per le collezioni dei diversi stilisti e aziende dei quali Barbara Vitti è stata
consulente. Buste e album di note, inviti, comunicati stampa, documenta-
zione promozionale, rassegne stampa per l’organizzazione di eventi specia-
li.Tutto questo materiale, come detto, è suddiviso in nuclei diversi relativi ai
clienti che si sono succeduti nel tempo: Hettemarks, il Gruppo Finanziario
Tessile, Armani, Valentino, Gianni Versace, il gruppo Inghirami, il Teatro alla
Scala, il Museo Bagatti Valsecchi, gli editori Hearst, Rusconi, Rizzoli, le
aziende Driade, S. Pellegrino, Pirelli, l’associazione Airc, tra gli altri.
Dodici folder di “bolle di reso” e venti di “cronologico” conservano la docu-
mentazione relativa al lavoro svolto quotidianamente dallo Studio Vitti e i
suoi rapporti con gli stilisti, le aziende, le istituzioni da esso rappresentati e
con la stampa, suo interlocutore privilegiato.
Una scatola custodisce documenti miscellanei relativi all’attività di Barbara
Vitti quale giornalista per la rubrica Moda e Motori della rivista “Grand
Hotel”; un’altra conserva la documentazione prodotta in qualità di inse-
gnante presso l’Istituto europeo di design.
L’archivio conserva infine tre collezioni di riviste che riflettono il lavoro di
giornalista di moda di Gemma Vitti: “Alba” (1958-1969); “Intimità” (1957-
1962); “Confessioni” (1959-1960).
Lo studio e la selezione dello straordinario patrimonio di documenti e imma-
gini conservati nell’archivio di Gemma e Barbara Vitti portano oggi alla rea-
lizzazione di questo volume che vuole indagare attraverso di essi la nascita
e l’affermazione in Italia della figura professionale dell’addetto alle pubbli-
che relazioni e all’ufficio stampa nel mondo della moda, di cui Barbara è
stata “prima una pioniera e poi una sovrana” (“Corriere della Sera”, 4 otto-
32
bre 1998). L’addetto alle PR, che può essere un consulente come nel caso
dello Studio Vitti o un elemento interno, organizza e gestisce i rapporti della
griffe e dell’azienda con l’esterno e con i media, costituisce gli elementi di
base del marketing relazionale, particolarmente significativo nel caso dei
beni di lusso. La comunicazione è al centro di ogni attività.
Di grande rilevanza il contesto storico che vede la professione delle pubbliche
relazioni nascere e affermarsi parallelamente al percorso che porta la produ-
zione italiana di abbigliamento dai successi dell’alta moda sartoriale dei primi
anni cinquanta alla consacrazione internazionale del “Made in Italy” con il
prêt-à-porter industriale degli anni settanta, per giungere, nel corso degli anni
ottanta, a quello che gli studiosi definiscono come un vero e proprio sistema
moda allargato. Primo attore mondiale del settore diventa la città di Milano
dove nel 1972 con la sfilata di cinque griffe disegnate da Walter Albini negli
spazi della Società del giardino si sposta l’asse della moda. La città, dove ope-
rano molti stilisti e aziende del comparto produttivo e dove ha sede l’editoria
periodica, diviene ribalta del prêt-à-porter: Missoni, Krizia, Ken Scott lasciano
la Sala Bianca di palazzo Pitti a Firenze e presentano le proprie collezioni alla
Permanente, all’hotel Diana, al Principe di Savoia, al teatro Gerolamo, alla
piscina Solari. Nel 1979, sotto la regia di Beppe Modenese, che convince la
Fiera di Milano ad allestire due passerelle, vengono promosse le prime sfila-
te milanesi concentrate in un solo luogo, grazie a una strategica sinergia tra
aziende manifatturiere e stilisti. Nel mese di marzo i nomi che sfilano sono
cinque, suddivisi in tre giorni: Ken Scott, Mario Valentino, Walter Albini, Laura
Biagiotti, Claudio La Viola. Nell’edizione successiva, datata ottobre 1979, i
nomi sono già diventati diciannove. Nasce Milano Collezioni.
Afferma la stessa Barbara Vitti in un’intervista pubblicata su “Leader” nel
marzo del 1988: il successo della moda italiana “è stato un boom di idee, di
professionalità, di capacità industriali, di umiltà di capire che il talento, la
creatività andavano calibrati alle necessità imprenditoriali. Il vero personag-
gio è stato il prodotto. A ruota sono venute le individualità e sarebbe stato
sciocco non sfruttarle per conquistare più spazi, più attenzione da parte dei
mass media.” La stampa ha avuto un ruolo essenziale nel decollo e nel
“miracolo” della moda italiana, “non c’è mercato senza comunicazione,
senza informazione. Io ho vissuto questa trasformazione, parallela alla cre-
scita della moda, del prêt-à-porter, del Made in Italy. Alcuni anni fa, i giorna-
li trattavano la moda come una cosetta per pochi, elitaria. Faceva poca noti-
zia e non si capiva che era una grossa, importante industria, vitale nell’eco-
33
nomia italiana. Soprattutto i quotidiani erano sordi. Adesso persino gli uomi-
ni non fanno una piega se il direttore li manda a scrivere di una collezione.
Qualche merito lo abbiamo avuto anche noi. Abbiamo aperto gli occhi dei
giornali su un fenomeno che diventava di massa.”
È a questa straordinaria vicenda che è dedicata la sezione del libro intitolata
Milano è di moda. In essa sono stati raccolti brani tratti da alcuni tra i più impor-
tanti articoli pubblicati nel già citato Milano è la moda. Inchiesta su un’unione
di successo da 30 anni, edito da Class e diviso in due parti secondo un ideale
filo logico: storico, economico e culturale il primo quaderno, uscito nel 2004;
artistico-fotografico, editoriale e professionale il secondo, uscito nel 2005.
Diversi i temi indagati: Milano capitale della moda italiana, la nascita del prêt-
à-porter, la moda maschile, lo stretto legame tra moda e disegno e tra moda
e fotografia, gli aspetti economici e commerciali del settore, le figure degli sti-
listi e i loro più stretti collaboratori, mecenatismo e beneficenza, il ruolo gioca-
to dalla stampa, dalla pubblicità e dagli esperti di comunicazione nell’afferma-
zione del primato delle griffe italiane a livello internazionale.
Quest’ultimo aspetto è ulteriormente approfondito nella sezione Non solo
moda. L’importanza di chiamarsi PR dove, attraverso un racconto per imma-
gini, tutte tratte dall’archivio Vitti, viene ricostruita la carriera di Barbara,
esemplare per l’autorevolezza di cui gode nel mondo delle pubbliche rela-
zioni e della realizzazioni di eventi.
Vi trovano spazio i principali clienti, le campagne più originali e visionarie, gli
eventi che hanno goduto di grande successo. Cito tra le altre la campagna
pubblicitaria …è un Hettemarks!, che per la prima volta vede un’azienda di
confezioni impiegare un grande fotografo come Marco Glaviano; la campagna
pubblicitaria per Cori, linea del Gruppo Finanziario Tessile, in cui il messaggio
viene affidato al volto di donne con forte personalità come Susanna Agnelli,
Natalia Aspesi, Ottavia Piccolo; i murales voluti da Giorgio Armani per promuo-
vere la linea Emporio, che cambiano il volto delle nostre città, celebre quello a
Milano in via Broletto; la sfilata evento dell’11 settembre 1987 che riporta
Valentino a Voghera, sua città natale, dove viene accolto come una star.
Seguono la collaborazione con il Teatro alla Scala per l’organizzazione della
“prima”, quella conVersace per gli eventi speciali e le mostre, il contributo dato
a Convivio a favore di Anlaids e ancora l’ideazione delle celebrazioni per i cento
anni della S. Pellegrino, momenti esemplificativi di un percorso professionale,
resi vivi ai nostri occhi grazie alle immagini d’archivio fino ad ora inedite e ai
preziosi ricordi personali di Barbara Vitti.
Milano è di moda
“Milano è meglio di Parigi, che si sta identificando sempre più
come la capitale della haute couture e del superlusso. Milano
è meglio di Londra, perché dietro Londra c’è il deserto produt-
tivo. Milano è meglio di NewYork perché NewYork ha il domi-
nio incontrastato del casual e dello sportswear, ma non della
moda. Industria, stile, creatività, mondanità e arte. Dall’unione
di questi fattori è nata la moda milanese. E su questo continua
a crescere.”
Mario Boselli
36
“Aprile 1967. A Firenze accade qualcosa che muterà per sempre il percorso della
moda italiana. Ottavio e Rosita Missoni sono presenti per la prima volta alle sfilate
di Palazzo Pitti. All’ultimo momento, Rosita si accorge che le mannequins indossa-
no biancheria intima inadatta a stare sotto gli abiti di leggerissimo lamé. L’effetto è
disastroso. Il tempo stringe: non resta che mandare le modelle in pedana senza
niente sotto. Sotto il vestito niente. La maglia però è così leggera che alla luce dei
riflettori diventa trasparente. È scandalo. Piovono le rampogne dei dirigenti. E nono-
stante gli applausi dei buyers, la stagione successiva i Missoni non vengono invita-
ti a sfilare. La cosa da principio lascia la coppia interdetta, ma diventa anche l’occa-
sione per presentare, a dicembre, la collezione estiva direttamente a Milano, alla
piscina Solari, in una sfilata-happening memorabile con poltrone gonfiabili e mobili
galleggianti sull’acqua. A Milano si comincia a parlare di moda. Non più solo di com-
mercio e industria.
Negli anni settanta una nuova capacità imprenditoriale, più flessibile, va ad affian-
carsi a quella tradizionale della grande industria milanese che risente della crisi in
atto. La città inizia a cambiare volto e con lei cambia il profilo dei suoi protagoni-
sti. All’exploit rivoluzionario dei Missoni segue quasi immediatamente Walter
Albini. Designer delle collezioni Effetiemme, debutta a Milano nel 1972 annullan-
do definitivamente l’egemonia di Firenze. Per le linee unite e coordinate di Basile
(uomo e donna-uomo) disegna collezioni dai nomi evocatori e che faranno epoca:
Marinaretti – Wallis Simpson – Tacchi a Spillo. Nel contempo, disegna le collezio-
ni Misterfox (donna-femmina), Sportfox (camiceria), Callaghan (jersey), Escargot
(tricot), Diamond’s che, in una innovativa e clamorosa sfilata collettiva al Circolo
del Giardino, confermano la sua genialità, ma anche il formidabile fiuto di tre
imprenditori: Aldo Ferrante, Gianni Tositti e Gigi Monti. È un debutto felice, che
convince altri ad abbandonare Palazzo Pitti e la Sala Bianca per presentare le loro
collezioni alla Permanente, all’Hotel Diana, al Grand Hotel et de Milan, al Principe
di Savoia, al Teatro Gerolamo.
Milano si sta avviando a diventare il cuore pulsante della moda italiana. Così, alla
Milano
La città incontra la moda
Una trasparenza di troppo, una protesta e Firenze perde il primato.Addio
palazzo Pitti. La capitale dell’industria porta alla ribalta il prêt-à-porter
Anno 1967. Milano
diventa di moda, in
“Milano è la moda”,
n. 1, 2004
Le spose e le vedove,
collezione Anagrafe per
Misterfox, 1970 (Disegno
Walter Albini)
37
fine del 1974 è la Camera Nazionale della Moda Italiana che si propone come ente
organizzatore. La scelta di una città come Milano non è casuale. La disponibilità del
mondo della produzione a confrontarsi e ad accogliere, ma soprattutto a dialogare,
con arte e creatività, è sempre stata elevata. Non è certo un caso che il Futurismo,
fra i pochi ‘ismi’ che abbia sviluppato una sua moda (con i successivi, francesi,
Surrealismo ed Esistenzialismo, ma per ispirazione) sia nato a Milano. Inoltre,
Milano è città di grandi aperture verso l’Europa. Dispone di aeroporti continentali e
intercontinentali, di grandi alberghi, di strutture adeguate. E gode di un retroterra
economico industriale di grande impatto che sembra garantire lo sviluppo di questo
settore. Dal 1975, data del primo calendario della Camera Nazionale, il successo
della moda pronta a Milano si consolida ogni stagione, sino a prendere il posto di
Parigi nel cuore e nei pensieri dei buyers e della stampa internazionale.
Già nell’ottobre 1977 il carnet di Maria Pezzi, la prima e più nota cronista di moda e costu-
me per Il Giorno, è già stipato di tutti i nomi più importanti: ad Albini, Krizia, Missoni e agli
altri pionieri si sono via via aggiunti Giorgio Armani, dal 1975, quindi Gianni Versace per
Callaghan, Genny e Complice, Fendi, Sportmax, Mario Valentino, Baila e Courlande dise-
gnate da Gianfranco Ferré, Enrico Coveri, Mila Schön, Roberta di Camerino, Miguel Cruz,
Geoffrey Beene, Laura Biagiotti. L’ingranaggio-Milano funziona ormai a tempo pieno.
Scrive Pia Soli su Il Tempo del 26 marzo 1978: ‘I grandi giochi della moda si realiz-
zano oggi solo a Milano: trasferendosi in questa città, in grande stile e con una ecce-
zionale carica emotiva, la moda ha fatto un salto di qualità... Fosse rimasta a Roma
si sarebbe addormentata, avesse resistito a Firenze avrebbe mantenuto un cachet
simpaticamente provinciale. Milano invece ha preso il via bene e le stelle che pro-
mettevano sono diventate tutte di prima grandezza. Una collezione è più che una
prima alla Scala. È un business economico che fa girare le industrie. Si calcola che
a Milano nei prossimi sei giorni ci saranno 30mila persone, 51 grandi collezioni nel
calendario ufficiale della Camera della Moda divise in sei giorni al ritmo di 10 e 11 al
giorno a ogni ora disponibile, un discreto numero di collezioni fuori da questo calen-
dario cui la stampa e i compratori non intenderanno certamente rinunciare e molte
altre collezioni presentate silenziosamente negli stand allestiti un po’ dappertutto. A
Milanovendemoda sono ormai 400 i rappresentanti e i produttori che offrono oltre
1.000 campionari agli operatori. Questi nell’ultima edizione sono stati oltre 7.000, dei
quali 1.000 stranieri, e hanno girato affari per 15 miliardi di lire. C’è poi Modit con
appena 50 firme, il primo passo di una manifestazione politica che sta cercando spa-
zio e fisionomia. Mai come questa volta tanti inviti a Milano, mai tanti ospiti, tanti
interessi, tante speranze: numerosissimi i presidenti dei grandi magazzini statuni-
tensi, inglesi, belgi, canadesi, tedeschi. Mai tanti francesi!’.
Nelle pagine successive:
Missoni, abito pipistrello,
1967 (Fotografia Alfa
Castaldi) e Anno 1967.
Milano diventa di moda,
in “Milano è la moda”, n. 1,
2004
41
Una cronaca che descrive in modo molto efficace il momento magico che sta viven-
do la moda a Milano in quegli anni. Dagli ottanta in poi, è storia di oggi. Alcuni nomi
hanno perso smalto nel tempo, alcuni sono scomparsi, la maggior parte si è fatta
più grande. Altri ancora sono nati e altri ne nasceranno.
Milano resta comunque sempre una scelta privilegiata per chi ‘fa’ moda. Le ragio-
ni? Spiega il presidente della Camera Nazionale della Moda, Mario Boselli: ‘Milano
è meglio di Parigi, che si sta identificando sempre più come la capitale della haute
couture e del superlusso. Milano è meglio di Londra, perché dietro Londra c’è il
deserto produttivo. Milano è meglio di New York perché New York ha il dominio
incontrastato del casual e dello sportswear, ma non della moda. Industria, stile,
creatività, mondanità e arte. Dall’unione di questi tre fattori è nata la moda milane-
se. E su questo continua a crescere’.”
Dove si incontra la
moda, in “Milano è
la moda”, n. 1, 2004
Luoghi storici o di nuova generazione sanciscono i trionfi e leniscono i tonfi.
Gli itinerari fashion hanno questi indirizzi.Talvolta anche da vent’anni
“Anche a Milano, come a Roma e a Parigi, negli anni settanta si presentano
le prime collezioni di prêt-à-porter, spesso affidate alla regia di Nando Miglio,
nell’ambrata hall dello storico Grand Hotel et de Milan in via Manzoni, tra i
decori imperiali dell’Hotel Gallia in piazza Duca d’Aosta, al Palace in piazza
della Repubblica, al Diana in viale Piave con il suo giardino interno o al Principe
di Savoia dove, tra gli altri, nel 1978, debutta anche Gianfranco Ferré. È in que-
sti stessi alberghi che, con i primi buyers stranieri, scendevano le temute
grandi firme delle testate internazionali e approdavano i giovani stilisti, men-
tre le modelle frequentavano residence più abbordabili, come il Principessa
Clotilde. Il popolo della moda, come verrà chiamato da allora in poi, nasce
così; per quella tendenza a fare gruppo e a spostarsi in gruppo più di altri set-
tori professionali: stessi indirizzi, stesso modo di vestire, identico modo di
parlare. Giornalisti, stilisti, come amanti. È lo stesso gruppo che, affamato e
stremato dalle corse tra una passerella e l’altra durante le Settimane della
moda, si ritrova tuttora in fila per un tavolo, nei piccoli ristoranti di Brera, come
la Locanda Solferino, il Giallo, il Rigolo, prediletto dai giornalisti del vicino
Corriere della Sera, e laTorre di Pisa, trent’anni fa come oggi in massima auge
anche grazie a una scelta strategica che Silvio Berlusconi, a quei tempi picco-
lo immobiliarista, avrebbe adottato come tecnica di vendita per la sua
Sfilata in via della Spiga,
1969 (FotografiaToni
Nicolini)
42
Nella Favalli,
È l’abito che fa l’uomo,
in “Milano è la moda”,
n. 1, 2004
È il 1978. La moda maschile sfila per la prima volta a Milano.
E diventa subito un business enorme, pari a quello femminile
Publitalia 80, ovvero il cartello ‘tutto esaurito’ esposto perennemente sulla
porta di ingresso. Per le cene ufficiali o la consacrazione di un successo si pre-
ferivano i velluti amaranto e i cristalli del Savini in Galleria. Quando agli indiriz-
zi classici si aggiunse, in quella che era stata la residenza ufficiale del
Feldmaresciallo Radetzky ma aveva ospitato un convento di suore nel
Quattrocento, l’Hotel Four Seasons in via Gesù, inaugurato nell’aprile del
1993 da Margaret Thatcher, i mega-buyers, i temutissimi direttori, gli stilisti e
le top models si trasferirono in blocco nelle guest rooms e nelle nuove suites
arredate da Richard Davidson e Pamela Babey-Mouton (Brioni ha creato una
suite per i suoi ospiti da pochi mesi). Stilisti e architetti, giornalisti e modelle:
storie che si intrecciano negli anni e nei luoghi. Gli anni settanta e ottanta
sono gli anni in cui vengono consacrate le cene dalla Bice, al Girarrosto, dal
Saint Andrews (ora trasferito in via Senato) al Bagutta, al Paper Moon, oppu-
re nelle sale voltate del Toulà, sotto i portici della Scala (indirizzo purtroppo
scomparso), o da Giacomo in via Cellini tra i décors pompier ricreati da Renzo
Mongiardino. Con il ristorante dell’Hotel Bulgari, le domeniche sera da
Bebel’s e le Langhe sono gli stessi indirizzi di oggi.”
“Scompare l’uomo in grigio, anche se nel suo guardaroba l’abito grigio
resiste. Una tendenza chiara, indiscutibile è l’assoluta libertà. La moda
maschile entra nel gran circo della creatività globale. E punta in alto: creare
il ‘terzo uomo’. Un uomo che non rinnega la propria virilità ma si concede
frivolezze femminili.
Nel settembre 1978, l’avanguardia della moda pronta maschile lascia
Firenze e decide di sfilare a Milano. La spingono le stesse ragioni che
avevano ispirato la moda femminile a lasciare definitivamente la Sala Bianca
nel 1974. I nomi sono quelli di Giorgio Armani, Walter Albini, Caumont, Gianni
Versace, Basile, Fragile ai quali, nel febbraio 1979, se ne aggiungono altri.
Firenze-Milano è un asse storico e strategico, perché se nella città toscana,
con Pitti Immagine, aziende e marchi internazionali offrono un punto
d’osservazione per tutto quello che riguarda i prodotti, le tecnologie
applicate all’abbigliamento maschile, le strategie di mercato e le tecniche di
Gianfranco Ferré,
collezione uomo
primavera-estate 2005
Brunello Cucinelli, 2000
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vendita, a Milano, tra sfilate degli stilisti, show e presentazioni, si
costruiscono in anticipo le atmosfere e le tendenze delle stagioni che
verranno. E si consumano i riti che accompagnano le collezioni donna.
Per Milano la moda maschile è stata forse ancora più importante di quella
femminile, perché da subito più significativa di quella di Parigi: il debutto di
Giorgio Armani, che reinventò il classico maschile, le performance di
Moschino o il puro show, le bellissime collezioni di Ferré.
C’era una grandissima energia. Anche con l’uomo, infatti, Milano si rivela
subito città di grandi risorse e dall’insospettabile anima godereccia: nella
Settimana di Milano Collezioni Uomo il fermento è soprattutto notturno,
con rave party e serate fiume nelle discoteche. E sulla scia di questi
entusiasmi l’industria dell’abbigliamento maschile diventa negli anni un
business enorme.
Conferma il sociologo Ugo Volli, uno dei promotori dei Master di Moda allo
Iulm di Milano: ‘Nel mondo della moda maschile c’è stata effettivamente
un’accelerazione notevole, non tanto nella grammatica estetica, quanto
nell’organizzazione e nella presentazione dei prodotti di moda maschile, che
hanno seguito riti e ritmi ben sperimentati dai modelli femminili’. Il nuovo
avanza anche per l’uomo. Con un tocco eccentrico, narcisista, esibizionista
e sexy. Che sia questa la nuova grammatica estetica del vestire maschile?
Gianfranco Ferré conferma, ma fa dei distinguo: ‘Sono da sempre convinto
che ciò che più inflaziona il pianeta moda è il nuovo a tutti i costi, che subito
appare vecchio e superato. I valori classici dell’abbigliamento maschile sono
punti imprescindibili di una formazione culturale non costretta in dogmi o
categorie. Evoluzione nella continuità è una definizione che mi piace nella
mia storia del fare cose per uomini ’.
Sulle tendenze maschili, anche psicologi e sociologi trovano un campo
fertilissimo dove confrontarsi. Il sociologo Francesco Morace, direttore di
Future Concept Lab (Istituto di ricerca su progetti e prodotti del futuro),
teorizza l’avvento del ‘terzo uomo’, che ricalca le caratteristiche della
‘troisième femme’, di cui parla il sociologo francese Gilles Lipovetsky. ‘Una
figura maschile che non è più quella tradizionale e patriarcale, ma che non
è neppure l’uomo che adotta modelli di comportamento femminili. È un
maschio positivo e propositivo che ha scoperto la paternità ed è pacificato
con la donna’. E su queste premesse conclude: ‘La moda diventerà pian
piano intersex’.”
Vittorio Solbiati, 1985
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La moda e il disegno
Il segno diventa il mezzo per trasformare l’idea in un vestito
La realizzazione di un abito o uno stile è un fatto di mestiere
e artigianalità. Nel mezzo c’è solo lui, il segno che ferma l’intuizione.
Quella linea sottile che è già arte
Nella Favalli, I tratti
del genio, in “Milano
è la moda”, n. 2, 2005
“La creatività, come ha detto Valentino, ‘è difficile da spiegare, è come una
forza interna, un entusiasmo che non si spegne mai e che mi trasmette la
forza di lavorare sempre in modo nuovo. Guardando le cose, le persone per
strada, la fantasia cammina e l’idea prende corpo attraverso la matita’. La
matita. Un accessorio fondamentale per chi crea moda (che sia lo stilista
titolare o chi lo aiuta senza apparire). Perché se l’idea di un vestito nasce
nella mente di uno stilista e segue percorsi che solo la sua fantasia riesce
a riconoscere, il segno diventa il mezzo per trasformare in qualcosa di tan-
gibile un’emozione. ‘Disegnare e fotografare la moda’, scrive Quirino Conti
in Mai il mondo saprà – Conversazioni sulla moda (Feltrinelli), ‘equivale a
interpretare, significare, esprimere e ricomporre le sue trame e le sue
ragioni... È con l’umore del segno che l’illustratore perlustra e ispeziona,
entrandovi dentro, le soluzioni simboliche di quelle costruzioni morbide,
amplificandone e sostenendone le intenzionalità fino a renderle la sostanza
imprescindibile di uno stile’. Infatti, disegno e fotografia a volte lavorano in
perfetta sinergia. Basti pensare a quel genio dell’obiettivo, Cecil Beaton,
che è stato non solo fotografo, ma anche diarista, scenografo, costumista
e disegnatore di moda di grandissimo talento. Oppure a Karl Lagerfeld che
gli abiti non solo li disegna, ma se li fotografa. Disegnatori straordinari ve ne
sono stati e ve ne sono nel mondo della moda. Come dimenticare il tratto
sicuro e ironico di Franco Moschino (avrebbe voluto fare il pittore, se la
moda non lo avesse catturato) o quello vitale e colorato di Enrico Coveri? O
quello straordinario di Gianfranco Ferré così affine al design e alla progetta-
zione architettonica? Diversi gli stili quanto le loro creazioni. Le donne di
Valentino, così sottili, proiettate verso l’alto, fanno pensare alle sculture di
Alberto Giacometti. Mentre quelle di Alberto Lattuada raccontano di elegan-
ze senza tempo, di signore sempre in viaggio tra Biarritz e la Costa Azzurra.
Così come ancora diversi sono i disegni di Walter Albini che sapeva tradur-
re in moda i propri innamoramenti culturali o di Chino Bert di rara grazia e
46
pulizia. Ma il tratto non è solo un fatto creativo. C’è un fenomeno che è stato
soprattutto femminile di croniste armate di taccuino e matita, da Maria
Pezzi, che usava il disegno come completamento dei suoi articoli, a
Brunetta e Maddalena Sisto che hanno interpretato tic e tabù femminili con
grazia e humour.
Non è azzardato avvicinare il disegno di moda all’arte. Illustratori famosi
l’hanno interpretata in modo personale. Così come già accaduto nel pas-
sato. Fra i maestri del movimento futurista, Fortunato Depero e Giacomo
Balla hanno nutrito interesse per l’abbigliamento, disegnando e realizzan-
do abiti, cravatte, panciotti, borsette, cappelli in colori vivaci e contrastan-
ti. Salvador Dalí per il quale ‘gli abiti rappresentano la personalità, la dupli-
cazione dell’Io, dei suoi sogni e dei suoi desideri’, disegnò abiti e gioielli
metafisici e surreali per Elsa Schiaparelli. Dal futurismo all’astrattismo,
fino alle incursioni nella visual art, tutti si sono fatti incantare... La moda è
una sirena alla quale è difficile resistere.
Walter Albini (1941-1983). Dopo aver frequentato l’Istituto d’Arte disegno e
moda di Torino, a 17 anni inizia a collaborare a giornali e riviste, con schizzi
dalle sfilate d’alta moda da Roma e Parigi. Lui che vive (e disegna) come un
personaggio di Francis Scott Fitzgerald, nel 1973 disegna una collezione che
chiama Grande Gatsby e che avrà un ruolo significativo nel futuro della
moda italiana. Disegnatore eccellente, si spegne appena quarantaduenne,
lasciando un’indimenticabile lezione di stile. Senza aver mai ceduto all’ap-
prossimazione, alla mediocrità, ai compromessi, alle costrizioni dettate dalle
leggi di mercato.
Giorgio Armani (1934). È protagonista assoluto nella straordinaria fioritura
dell’alta moda pronta da Milano nel mondo. II suo successo riconosce un’in-
venzione che ha captato desideri, conciliato bisogni opposti e ridisegnato in
modo geniale un archetipo del vestiario sia maschile sia femminile, la giac-
ca. Medico mancato, presenta nel 1974 la sua prima collezione maschile.
Seguita nel 1975 da quella femminile. Un successo.
Chino Bert (1932). Pseudonimo di Franco Bertolotti. Stilista e illustratore,
ha lavorato per tutte le più importanti griffe e testate giornalistiche dalla fine
degli anni cinquanta agli anni settanta. Dopo un viaggio a Hollywood, scom-
pare: si è saputo poi del suo ritiro nel monastero benedettino di Santa
Collezione Mani, 1983
(Disegno Giorgio Armani)
47
Scolastica. Diventa don Franco. Oggi dipinge per beneficenza. Pur dedican-
dosi alla cura delle anime, don Franco si occupa ancora di arte e moda per
aiutare e sostenere giovani talenti.
Enrico Coveri (1952-1990). Segni particolari: i colori e il luccicare delle pail-
lettes. E una moda che vuole trasmettere allegria, ottimismo, che è poi la
sua stessa filosofia di vita. Sfila per la prima volta al Carré du Louvre a Parigi
nel 1978. Un successo enorme. The Herald Tribune scrive: ‘C’è ironia e
senso del colore, in una delle più belle collezioni presentate a Parigi’.
Mentre ‘le paillettes’, commenta Le Figaro, ‘stanno a Coveri come le cate-
ne a Chanel’. Enrico Coveri muore a 38 anni.
Gianfranco Ferré (1944-2004). Architetto della moda, così lo hanno chiama-
to – e lo è, non solo in senso accademico – per aver elaborato uno stile così
affine al design e alla progettazione industriale ‘sempre cercando di non
cadere nella trappola del troppo costruito o della semplificazione astratta’.
La sua prima collezione, dopo aver disegnato e prodotto bellissimi accesso-
ri, è del 1978. Un successo internazionale e l’inizio di una folgorante carrie-
ra. Disegnatore straordinario, per le sue collezioni attinge emozioni dallo
scambio di culture differenti e lontane in una magica gamma di interventi e
di alchimie sulla materia.
Krizia (1935). Nome d’arte di Mariuccia Mandelli. Sfila per la prima volta
a Palazzo Pitti nel 1964 una collezione con la quale conquista il premio
Critica della Moda. Dopo oltre 40 anni, ancora alla ricerca di un erede, la
stilista continua a essere fedele al suo credo: fare un lavoro che l’appas-
siona con caparbia dedizione e volontà di ferro. Si cimenta nell’uso di
materiali innovativi e tecnologici che elabora in forme di draghi, libellule,
conchiglie.
Karl Lagerfeld (1938). È soprannominato il Kaiser, l’imperatore della moda,
per le sue origini: una famiglia di ricchi industriali di Amburgo. Sin da ragaz-
zo, rivela una grande passione e predisposizione per le arti, il gusto innato
per il futile e la sua perizia nel disegno lo predestinano alla moda. Collabora
con diverse maison, ma il suo spirito libero e inquieto lo porta a diventare
stilista indipendente. Nel 1965 inizia la collaborazione con le sorelle Fendi
per le quali disegna pellicce rivoluzionarie e una linea di abbigliamento.
Prêt-à-porter donna
autunno-inverno
1992-1993 (Disegno
Gianfranco Ferré)
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Seguono Chanel e la linea che porta il suo nome, oltre all’edizione di libri, la
fotografia, l’antiquariato.
Alberto Lattuada (1926). Illustratore e creatore di moda, si autodefinisce
un buon dilettante in bilico fra le due professioni. È conosciuto per il suo spi-
rito ironico e le battute corrosive, ma si dichiara fondamentalmente timido.
Dai primi anni cinquanta, i suoi disegni appaiono su tutti i più importanti gior-
nali femminili italiani e stranieri da Novità, Annabella, Grazia, Linea Italiana
a Marie Claire e Women’s Wear Daily. Dal 1973 al 1990 studia i colori e illu-
stra gli Album di Pitti Filati. Ha creato collezioni per molti marchi importan-
ti. E sempre fedele al suo personaggio e al suo stile, crea ancora collezioni
e insegna al Polimoda di Firenze.
Franco Moschino (1950-1994). Moschino, che ha studiato Belle Arti
all’Accademia di Brera, avrebbe voluto essere pittore, se gli inizi come illu-
stratore per Gianni Versace non lo avessero istradato sulla via della moda.
Nel 1983 debutta con la sua griffe, esplosivo mix di paradossi, contestazio-
ne ed eleganza che denuncia, irride e sorride sugli eccessi del fashion
system e la parossistica società dell’immagine degli anni ottanta. Un vero
talento nel ‘fare moda’ che ha saputo sopravvivere alla sua morte dopo dieci
anni di successi.
Valentino (1933). All’anagrafe, Valentino Garavani. Ha 17 anni quando lascia
Voghera per imparare la moda a Parigi. La velocità nello schizzare figurini gli
vale subito l’assunzione da Dessès. Torna in Italia nel 1957. Il suo debutto
avviene a Roma, in sordina. È un fiasco. Nel 1962 Valentino sfila per ultimo
a Palazzo Pitti a Firenze. Un trionfo. ‘Gli americani impazziscono per questo
italiano diventato re della moda in poco tempo’, scrive nel 1968 Women’s
Wear Daily.”
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Il primo disegno di Brunetta fu un branco di galline con borsetta
e cappello: erano le signore d’Ivrea, sua città natale, a passeggio
Minnie Gastel, In punta
di lapis, in “Milano è la
moda”, n. 2, 2005
“Sarebbe stata la prima vera giornalista-illustratrice della storia italiana, ma
alla moda Brunetta si avvicinò quasi per caso, illustrando in quel suo modo
stravagante nel 1925 dei modelli di Paul Poiret che le diedero notorietà
internazionale, tanto che Diana Vreeland l’avrebbe voluta a Vogue Usa. Per
tutti, Brunetta resterà la matita fulminante che commentò con i suoi schiz-
zi, dal ’56 al ’76, Il lato debole de L’Espresso, la celebre rubrica in cui
Camilla Cederna metteva alla berlina le smanie arrivistiche dei nuovi snob.
Maddalena Sisto aveva una grazia indimenticabile: nel porsi, nel disegnare
i suoi appunti di moda e costume, figurine femminili ironiche e surreali alle
prese con l’ultima tirannia trendy. ‘Mi piace sorprendere i difetti, le imper-
fezioni, i gesti che sfuggono all’aplomb controllatissimo delle mie simili’,
diceva. Per questo aveva sempre con sé un quadernino dove fissava sulla
carta velocemente le donne che incontrava per strada, alle inaugurazioni,
Tartan, 2003 (Disegno
Alberto Lattuada)
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agli eventi mondani. Interpretò tic e tabù degli anni ottanta per molti gior-
nali, tra cui Sette (ora Magazine del Corriere della Sera) dove illustrava la
rubrica di Lina Sotis. Sempre con humour, mai con cattiveria. Per Maria
Pezzi il disegno è stato, invece, un completamento dei suoi articoli per fis-
sare linee, proporzioni, dettagli: niente di tecnico, ma schizzi di alta qualità;
figurini sulle tendenze di moda che tessutai e ditte di confezioni si conten-
devano ben prima che Maria Pezzi entrasse nel mondo della carta stampa-
ta. Poi, apparvero sulla Domenica del Corriere, dove fu chiamata da Dino
Buzzati, e sul Corriere d’Informazione di Gaetano Afeltra, a margine dei
suoi articoli, spediti magari all’una di notte da Parigi, dopo una giornata ai
défilés. I suoi disegni li ha conservati alla rinfusa, senza dar loro troppa
importanza, sottotono come è sempre stato anche il suo stile di vita.
Brunetta (1904-1988). Disegnatrice, illustratrice, pittrice. Brunetta Mateldi,
nata a Ivrea, ha studiato Belle Arti all’Accademia di Torino e Bologna per tra-
sferirsi poi a Milano. Pierre Cardin la stimava al punto da organizzarle una
mostra a Parigi al suo Espace: ‘Non è solo un’interprete della moda, la ricrea
letteralmente’, ha detto. E aveva ragione perché i suoi schizzi inchiodano ine-
sorabilmente tutti i corsi e i ricorsi, le mutazioni, i furti in fatto di moda di
tutti questi anni. Aveva quel che si dice ‘un caratterino’.
Maria Pezzi (1908-2006). Un monumento della moda italiana, la si potreb-
be definire. Se monumento non risultasse una parola troppo greve per una
come lei, aperta a considerare con estrema lievità, grazia, acume e compe-
tenza tutte le novità del secolo che ha attraversato, dal punto di vista della
moda e dello stile. Cronista si è sempre definita lei stessa con modestia,
raccontando con parole e schizzi un mestiere cominciato per caso a Parigi,
incoraggiata dall’illustratore René Gruau che di Maria ne apprezza la facilità
e l’efficacia nel disegno. Sempre in prima fila armata di taccuino e del suo
straordinario intuito.
Maddalena Sisto (1951-2000). Architetto, viaggiatrice, illustratrice, osser-
vatrice appassionata del suo tempo. Catalogava, con ricercato e malizioso
disordine i mille travestimenti femminili. Raccontando con i suoi disegni
trent’anni di moda, design, costume e un mondo femminile che cambiava
restando sempre lo stesso. Con un tratto sottile e delicato come la sua figu-
ra. Del fatto che Maddalena disegnasse anche si stupivano tutti quelli che la
Le metamorfosi, 1968
(Disegno Brunetta)
I pois fanno allegria,
1984 (Disegno
Maddalena Sisto)
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conoscevano come giornalista all’inizio. Come se il fatto di scrivere – e bene
– escludesse a priori il saper disegnare. Se ne è andata durante un fine set-
timana, discreta e gentile come sempre.
Ma il loro talento sta proprio in quell’attitudine a tradurre in immagini con-
taminate (da Pop art, suggestioni surrealiste, fumetti, street style) di gran-
de impatto il loro tempo. Il più noto è stato Antonio Lopez, in arte sempli-
cemente Antonio, venuto da Portorico, studi a New York e Parigi sotto il
patronage di Karl Lagerfeld e poi a Milano. Riempì del suo inconfondibile
segno tutti i giornali e le riviste del mondo, dal New York Times a Elle, a
Vogue. Anna Piaggi, che condivise con lui una famosa rubrica su Vanity,
ricorda così l’integrazione di Antonio con il mood europeo: ‘Il sandwich che
ne risultava era strepitoso. Uno strato di Antonio, hot e piccante, uno stra-
to di Karl Lagerfeld, previsionale e mitteleuropeo, un pizzico di Andy
Warhol, indispensabile fissatore chimico del periodo, una dose di Café
Flore e Hotel Crystal...’. Più schivo fu Werner (vero nome Werner
Bernskotter) che aveva un atelier di pittore a Parigi. Timido, discreto, raffi-
nato, Werner fu la mano pittorica di Gianni Versace, colui che traduceva in
immagini sontuose gli schizzi dello stilista: interpretava le collezioni donna
e i suoi costumi per opere e balletti, dalla Salomé e Doctor Faustus messi
in scena da Bob Wilson alla Scala, a Pyramide a Souvenir de Leningrade,
con le coreografie di Maurice Béjart. I suoi limpidi acquerelli sono raccolti
in libri e alcuni fanno parte della collezione di quadri di Gianni Versace.
Oggi, c’è RubenToledo, la matita impertinente che accompagna, con la sua
vignetta New York diary, la rubrica di Lina Sotis su Magazine del Corriere
della Sera. Il suo tratto è essenziale e incisivo, la sua visione del mondo sur-
reale: eleganti i suoi acquerelli per le City guides di Louis Vuitton, appunti
di moda e lifestyle.
Antonio (1943-1986). Nome d’arte di Antonio Lopez. Disegnatore e illu-
stratore considerato tra i più grandi del Novecento. Al suo debutto, sul
New York Times, su Women’s Wear Daily, su Vogue, per merito suo si rico-
Gli illustratori di moda, quasi tutti, si sono sempre rimproverati
di essere dei commercial artists e non pittori veri...
minciò a usare il disegno per documentare la moda, scelta che sembrava
definitivamente archiviata dalla fotografia. Portoricano, si trasferisce a New
York nel 1961 per studiare alla High School of Industrial Design e al Fashion
Institute of Technology. Inizia a lavorare nella stagione della Pop Art che lo
influenzerà nel segno, nella composizione delle tavole.
Ruben Toledo (1961). ‘Mia madre racconta che sono nato con la matita in
mano. Sapevo disegnare prima ancora di saper parlare’, dice di sé Toledo.
Pittore, illustratore, scultore, stilista, in perfetta sintonia con la moglie
Isabel, nota stilista, che si definisce una sarta perché, dice, la moda biso-
gna conoscerla dall’interno. Nato a Cuba, ha studiato alla School of Visual
Arts di New York, città dove oggi vive. Ha collaborato e collabora con le
maggiori riviste d’immagine del mondo da Town & Country a Details, da
Interview a Uomo Vogue. Da Paper a Visionnaire.
Werner. Si firmava così, ma il suo nome completo era Werner Bernskotter.
Fu la mano pittorica di Gianni Versace, colui che interpretava e traduceva in
immagini sontuose gli schizzi dello stilista. Discreto e raffinato, aveva un
atelier di pittura a Parigi. Famosi sono i suoi bozzetti che riguardavano non
solo le collezioni donna, ma anche e soprattutto l’attività teatrale di Versace
per opere e balletti, messi in scena da grandi registi come Bob Wilson alla
Scala o da famosi coreografi come Maurice Béjart.”
Missoni, collezione
autunno-inverno 1983-1984
(Disegno Antonio Lopez)
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“Eppure all’inizio la fotografia di moda era considerata un’arte minore, come
se il termine ‘foto di moda’ ponesse dei limiti. ‘Personalmente è una defini-
zione che non mi piace, che la banalizza’, spiega Grazia Neri, presidente ed
exhibition director dell’agenzia fotogiornalistica che porta il suo nome. ‘Per
me, nata come reportage, la fotografia di moda, per istinto e mestiere, ha
una magia particolare e valenze straordinarie. La guardo e vedo qualcosa che
mi serve per sognare. Mi fa sentire un po’ come Madame Bovary... Ma non
solo, la foto di moda rappresenta la contemporaneità dell’essere: vi sono
immagini indelebili nella mia memoria realizzate da fotografi come Richard
Avedon, Hiro, Irving Penn, John Rawlings (poco conosciuto, ma un vero
genio), Bert Stern, che con il vestito, la modella, lo stile hanno saputo rac-
contare in un’immagine la storia, il costume, lo spirito di un’epoca’. Con l’an-
dare degli anni, la foto di moda si è trasformata in una raffinata e comples-
sa operazione in cui sono entrate arte, talento, psicologia e capacità di anda-
re oltre la realtà per arrivare al sogno. Ogni fotografo con la sua storia, la sua
sensibilità, il suo modo di essere e di operare.
‘Una volta a Los Angeles’, ricorda Grazia Neri ‘mi trovavo al Chateau
Marmont, un hotel dove scendevano tutti i più grandi fotografi, gli attori, le
modelle. Helmut Newton e Annie Leibovitz stavano realizzando un servizio
fotografico. La troupe di Helmut Newton era composta da tre persone.
Mentre Annie Leibovitz aveva al suo seguito un numero infinito di assisten-
ti, tecnici, stylist...’ Due modi certamente molto diversi di lavorare, un unico
fine: catturare la magia di un momento, fermandolo per sempre con un
click. Se si volesse dare una data alla nascita della fotografia di moda, si
dovrebbe risalire alle prime decadi del Novecento quando, con la
Repubblica di Weimar, Berlino diventò il centro di una ricca produzione di
moda destinata ai mercati internazionali e, dunque, di una stampa all’altez-
za delle esigenze industriali per impatto e immagine.
Ma è sicuramente alla rivista di moda Vogue Usa fondata nel 1892 – che ini-
Moda e fotografia
Click-à-porter
Niente riesce a parlare, a raccontare, ad alludere come una foto
di moda: fantasmi e comportamenti, provocazione e gusto, stile,
sesso, costume. Più di un vestito, più di una sfilata
Nella Favalli,
Click-à-porter, in “Milano
è la moda”, n. 2, 2005
Dovima con gli elefanti,
Cirque d’hiver di Parigi,
1955, abito Christian Dior
(Fotografia Richard
Avedon)
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Versace, collezione
primavera-estate 1995,
(Fotografia Graziella
Vigo)
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OlivieroToscani riprende
se stesso e le modelle
con abiti di Valentino in
un servizio per il mensile
“Moda”, 1985 (Fotografia
OlivieroToscani)
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zialmente utilizzava i disegni di Christian Bérard e George Lapade – che va il
merito di avere lanciato la foto di moda con le immagini del barone Adolphe
de Meyer nei primi anni del secolo. E successivamente quelle di fotografi che
diverranno un mito come Cecil Beaton o George Hoyningen-Huene e Horst
P. Horst. ‘La macchina fotografica è uno strumento ideale per imporre nuovi
canoni estetici’ sostiene lo storico James Laver nel suo libro Women’s Dress
on the Jazz Age. Una cosa che Horst apprende, insieme con l’arte del com-
portamento mondano e i piaceri amorosi, proprio dal barone Hoyningen-
Huene. Dall’incontro con questo maestro e con i mostri sacri della cultura del
Novecento, da Jean Cocteau a Salvador Dalí a Man Ray, è derivato quel suo
stile abbagliante e astratto che lo ha accompagnato per oltre sessant’anni.
Solo negli anni cinquanta e sessanta, però, la foto di moda inizia a diventa-
re un vero e proprio fenomeno di culto. Nelle immagini di Irving Penn, la
fotografia di moda perde colonne, ornati, capitelli, saloni aulici e decori per
privilegiare la geometria armonica della composizione, semplicissima per-
ché essenziale. Basta rivedere la campagna che realizza per Gianni Versace
negli anni novanta con Christy Turlington splendente di ricami, per capire
che questo suo tocco magico, trent’anni dopo non si era esaurito.
La stessa inesauribile vitalità ha animato Richard Avedon, che era già un
grande nel secondo dopoguerra, quando realizza i reportages sulle collezio-
ni di Parigi in un’atmosfera alla Ernst Lubitsch. ‘Se passa un giorno in cui non
ho fatto qualcosa legato alla fotografia, è come se avessi trascurato qualco-
sa di essenziale. È come se mi fossi dimenticato di svegliarmi’, diceva
Avedon. È morto nel 2004 a 81 anni mentre lavorava a un reportage (altra
sua grande passione) per il settimanale The New Yorker dedicato alle elezio-
ni presidenziali e intitolato On Democracy. È con questo maestro della foto-
grafia dagli occhi scuri e penetranti, che le belle addormentate della moda,
le modelle, prendono vita, corrono, saltano, i capelli gonfi di vento. Con lui
la foto di moda perde staticità per acquistare dinamicità. Uno stile che trove-
rà in Gran Bretagna terreno fertile dove svilupparsi. Nella libertà gioiosa dei
Sixties, ‘quando il successo era a portata di mano perfino per proletari come
noi’, dice David Bailey che è stato protagonista conTerence Donovan e Brian
Duffy di quel periodo generoso e stravagante. ‘Popcrazia’ fu definito in
Inghilterra, dove la rigidità delle classi e le differenze sociali frenavano ogni
tentativo di cambiamento e chi veniva dall’East End, la parte sbagliata di
Londra, poteva sperare di emergere soltanto tirando pugni o, nella migliore
delle ipotesi, suonando in una band. Questi fotografi non erano particolar-
Entomologia, abito
Thierry Mugler,
in “Vogue Italia”, 1991
(Fotografia Alfa Castaldi)
60
61
mente interessati a quanto una modella rendesse elegante l’abito che indos-
sava, ma piuttosto quanto l’abito rendesse seducente la modella. Il mood
londinese di quegli anni era: divertirsi, fare sesso, fare soldi, avere ambizio-
ni. Come magistralmente rappresentato in Blow Up, film cult di
Michelangelo Antonioni. Una rivoluzione nel pensiero come nel look che lan-
cia un glamour fresco, libero, senza distinzioni di classe.
Da quel momento l’immagine della donna non sarà mai più la stessa. Alla fine
degli anni sessanta un’ex modella francese, che si fa chiamare Sarah Moon e
viene considerata la capostipite del genere ‘impressionista’, inizia a pubblica-
re immagini di una dolcezza rarefatta di donne-bambine evanescenti dagli
occhi cerchiati di nero, dai volti sbiancati. Citazioni surreali rese ancora più
suggestive da un incredibile modo di stampare le foto, che venivano deterio-
rate, maltrattate, sfumate perché, affermava l’artista, ‘mi piace che risultino
precarie come gli attimi’. In netta contrapposizione allo stile di Helmut
Newton, che della donna interpretava l’erotismo crudo, la voluttà incline al
sadismo, l’istinto di sopraffazione, o alle immagini di sofisticatissima sempli-
cità di Bruce Weber, che va in cerca di gente normale, facendola risplendere
nei suoi ritratti come star di Hollywood. Registrando con l’obiettivo momenti
di intima realtà, trasformando la quotidianità in qualcosa di assolutamente
speciale. Senza ‘costruire le foto’, ma ‘cercandole’ per trovare quella vita che,
hanno sempre sostenuto tutti, ‘è il contrario della moda’.
Anche in Italia, con l’esplosione dell’editoria femminile e della moda,
nascono e si affermano molti talenti. Tra i fotografi che hanno contribuito a
fare la storia della moda, la rivista tedesca Stern nel 1978 cita Gian Paolo
Barbieri che, come ebbe a dire di lui Giorgio Armani, ‘è tutta interpretazio-
ne, è poesia fotografica: davanti a un abito da tradurre in immagine, è il
Fellini della situazione’.
Indimenticabili sono alcune immagini di grande suggestione di Ugo Mulas
o di Alfa Castaldi che praticano la fotografia con precisione scientifica, fatta
di approfondimento e di curiosità, accomunati dalla stessa passione per l’ar-
te e dalle frequentazioni degli amici del Bar Giamaica a Brera, luogo di culto
e di incontro dell’intellighenzia milanese dell’epoca. ‘C’è stata una grande
trasformazione nella fotografia: ormai il gioco della moda è accessibile a tut-
ti’, spiega Grazia Neri. ‘La foto di moda oggi deve integrarsi tra pubblicità e
articoli. Un compito arduo per il fotografo, che deve rispondere al mercato,
senza tuttavia rinunciare al desiderio estetico che ha in sé. Alcuni ce la
fanno, altri non ce la faranno mai’.
Krizia, collezione
autunno-inverno
1987-1988 (Fotografia
Giovanni Gastel)
62
Un compito difficile e un pericolo. Una campagna pubblicitaria per un brand
di moda non rischia di limitare la creatività? Per Giovanni Gastel, che lavora
utilizzando macchine del passato come vecchie Polaroid a soffietto, abbina-
te a tecnologie del presente se non addirittura del futuro, ‘la bravura sta pro-
prio nel trovare un linguaggio adatto a ogni stilista, differenziando lo stile e
usando metodologie diverse per ognuno. Anche questa è libertà artistica’.
Opinione condivisa da Bob Krieger, che alla sua attività di fotografo di moda
abbina sempre più quella di ritrattista e che in una recente intervista ha
dichiarato: ‘Se fai il fotografo di moda, devi interpretare la moda, non fare la
moda. Il compito è quello di esaltare ciò che lo stilista crea. Lo stilista non
fa fotografie (se si esclude Karl Lagerfeld, ndr), non fa immagini, ma crea
abiti. È questa la funzione del fotografo che, per un certo verso, è un po’
truffatore perché fa sembrare tutto straordinariamente bello’.
Innumerevoli sono gli stili che hanno caratterizzato la foto di moda di que-
ste ultime decadi. Se gli anni ottanta sono stati una celebrazione dell’edo-
nismo e del materialismo, gli anni novanta hanno rappresentato quelli
dello stile minimalista, anoressico, trasandato per il quale negli Stati Uniti
è stato addirittura coniato il termine ‘eroin chic’ perché voleva modelle pal-
lide e stralunate, con gli occhi segnati, per vero o per finta, da vizi e tra-
sgressioni e location al limite dello squallore totale.
Oggi la produzione di foto di moda è troppo vasta per tentare di farne una sin-
tesi per immagini. Tende a seguire strade diverse: più commerciali o più arti-
stiche, espandendo i propri confini tra moda, pubblicità e arte, estendendo la
ricerca al digitale e allaVisual Art sino ad arrivare a raccontare realtà che di volta
in volta sono viaggi nella memoria e nella cultura sino a calarsi in situazioni
crude, persino drammatiche, del quotidiano.
Quella della foto di moda è una storia che si sta ancora scrivendo. Nomi come
Patrick Demarchelier, Peter Lindbergh, Mario Testino, Arthur Elgort, Michel
Comte, Steven Meisel, Paolo Roversi, Jürgen Teller, Aldo Fallai, Maria Vittoria
Backhaus,ToniThorimbert, senza ovviamente dimenticare OlivieroToscani che
ha sperimentato strade diverse, applicando a tutte il suo stile inimitabile (e il
suo carattere ombroso pure... Perfino Anna Wintour, direttore di Vogue Usa,
ricorda di quando la fece piangere non parlandole mai sul set. Secoli fa natu-
ralmente), e molti altri ancora, continueranno a raccontarla attraverso i loro
obiettivi, che non si limitano a fissare solo immagini. Nei loro scatti, c’è provo-
cazione, stile, sesso, costume. E la sintesi di tutte le donne sognate dagli
uomini. Ma anche il vestito. Che non esisterebbe se non fosse fotografato.”
Moschino Couture!, 1988
(Fotografia Fabrizio Ferri)
63
64
Servizio di moda, 1970
(Fotografia Oliviero
Toscani)
65
Moda e business
L’impatto economico, commerciale e fieristico
Tutelare, coordinare, diffondere, controllare e potenziare l’immagine
dello stile italiano in patria e all’estero. Non sono cambiati di molto,
a quarant’anni dalla costituzione, gli obiettivi dell’associazione.
Come non sono cambiate le pressioni per accedervi
Nella Favalli, La Camera
nazionale della moda:
il potere della lobby,
in “Milano è la moda”,
n. 1, 2004
“L’11 giugno del 1958 a Roma, presso il Grand Hotel, viene costituita la
Camera Sindacale della Moda Italiana, antesignana di quella che in seguito
diventerà la Camera Nazionale della Moda Italiana. Un’associazione senza
scopo di lucro nata allo scopo di coordinare, tutelare, disciplinare e incenti-
vare l’immagine e lo sviluppo della moda italiana, sia nei confronti delle isti-
tuzioni, sia in quelle delle altre associazioni nazionali ed estere, con partico-
lare riferimento alle manifestazioni di moda individuali e collettive che ave-
vano luogo in Italia e all’estero. Lo statuto originario è composto di 35 arti-
coli, che regolamentano l’Associazione e i suoi organi: l’Assemblea, il
Consiglio Direttivo, il Comitato Esecutivo, la Presidenza e il Collegio dei
Revisori. Il primo presidente è Giovanni Battista Giorgini.
Ricorda Amos Ciabattoni, primo segretario generale della Camera Nazionale
della Moda e suo fondatore: ‘A Giovanni Battista Giorgini e alla Sala Bianca di
Palazzo Pitti va riconosciuto il merito di aver dato un inizio prestigioso alla
nascente moda italiana e al Centro Moda di Roma il merito di averle dato l’as-
setto organizzativo sul quale tuttora poggia il settore’. Nel corso di pochi anni
la Camera Nazionale della Moda Italiana raggiunge traguardi significativi: l’ac-
cordo alta moda-industria tessile, che porta risorse finanziarie pubbliche e pri-
vate nei bilanci delle aziende; le iniziative promozionali all’estero del ministe-
ro del Commercio estero e dell’Ice; l’organizzazione di un calendario naziona-
le delle manifestazioni di moda in Italia, per mettere fine alle guerre tra Roma,
Firenze,Torino e Milano, ma anche l’accordo per la suddivisione tra le stesse
città delle manifestazioni promozionali e mercantili dei diversi comparti: a
Roma l’alta moda; a Firenze la moda pronta (poi sostituita con la moda
maschile); a Milano il prêt-à-porter e il tessile; a Torino l’abbigliamento indu-
striale; a Bologna la calzatura e la cosmetica; a Napoli (Capri) la moda mare.
Diventa subito chiaro che la forza della Camera proviene soprattutto da
Milano, subito assurta a città ideale per le fortune della moda italiana, Mario Boselli, 2010
Pagine di Moda: Maria Canella ed Elena Puccinelli, Centro MIC Università degli Studi di Milano
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Pagine di Moda: Maria Canella ed Elena Puccinelli, Centro MIC Università degli Studi di Milano

  • 2. La collana MIC “Moda Immagine Consumi” è diretta da Maria Canella ed Emanuela Scarpellini
  • 3. PROFESSIONEPR immagine e comunicazione nell’Archivio Vitti Centro Interdipartimentale MIC “Moda Immagine Consumi” Università degli Studi di Milano a cura di Elena Puccinelli
  • 4. In copertina Giorgio Armani, finale di sfilata 1985 Art director Marcello Francone Progetto grafico Ornella Marcolongo Redazione Elena Isella Impaginazione Valentina Zanaboni Ricerca iconografica Elena Puccinelli in collaborazione con Nexo, Milano Realizzazione editoriale a cura di Nexo, Milano Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. © 2011 MIC, Università degli Studi di Milano © 2011 Archivio Vitti © 2011 Skira editore, Milano Tutti i diritti riservati Finito di stampare nel mese di dicembre 2011 a cura di Skira, Ginevra-Milano Printed in Italy www.skira.net Il volume Professione PR è stato realizzato con il contributo di Fondazione Cariplo Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Milano Si ringraziano Cristina Brigidini Maria Canella Francesco Debiaggi Barbara Vitti Paolo Panerai, Class Editori Barbara Vitti dedica questo libro a sua madre Gemma e a sua figlia Emma
  • 5. Prefazioni Una storia lombarda Quirino Conti Comunicare la moda e comunicare con la moda Simona Segre Reinach Moda e comunicazione a Milano nelle carte di Barbara Vitti Elena Puccinelli Milano è di moda Non solo moda. L’importanza di chiamarsi PR Sommario 7 10 14 24 34 106
  • 6.
  • 7. Mario Boselli Presidente della Camera Nazionale della Moda Il ruolo delle PR nella gestione delicata e complessa del sistema moda ita- liano è sempre stato importante fin dagli inizi, quando, con la nascita e lo sviluppo del prêt-à-porter degli stilisti, si dovette sviluppare un “mestiere” nuovo, una professionalità tutta da inventare, in un settore produttivo che da artigianale si andava trasformando in un’industria, in parallelo con il più ampio successo del “Made in Italy”. A questa fase iniziale, che oserei defi- nire eroica, è seguita un’evoluzione importante, che ha richiesto professio- nalità e strumenti più raffinati per gestire realtà più sofisticate e complesse. I rapporti fra gli studi di PR e la Camera Nazionale della Moda sono stati molto intensi e hanno consentito di gestire tematiche difficili con risultati positivi, anche se con passaggi a volte “spigolosi”. In questo percorso, una protagonista e testimone privilegiata è stata ed è Barbara Vitti, che con stile ed eleganza, non disgiunti da fermezza e serietà, ha gestito gli eventi più significativi di questa stagione d’oro della moda italiana. La sua cifra professionale può essere riassunta nella famosa metafora “pugno di ferro in guanto di velluto”, ma si tratta di un guanto certamente elegante, perché Barbara Vitti è la “signora delle PR e della moda”.
  • 8. Il volume Professione PR. Immagine e comunicazione nell’Archivio Vitti, curato da Elena Puccinelli, rappresenta un esempio prezioso di quell’opera di valorizzazione degli archivi che costituisce oggi una delle sfide più impor- tanti nella gestione dei beni documentali a livello locale e nazionale. Queste pagine offrono infatti una riflessione critica, corredata da una ricca selezio- ne di immagini, sui documenti conservati nell’Archivio Vitti donato all’Università degli Studi di Milano nell’ambito del progetto nazionale “Archivi della Moda del Novecento”, finalizzato a individuare, valorizzare e rendere fruibile lo straordinario patrimonio archivistico, bibliografico, icono- grafico, audiovisivo relativo al sistema moda in Italia. Il progetto, presentato a Firenze nel 2009, nasce su iniziativa della Direzione Generale per gli Archivi del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dell’Associazione Nazionale Archivistica Italiana, in collaborazione con la Direzione Generale per i Beni Librari, gli Istituti Culturali e il Diritto d’Autore e la Direzione Generale per l’Organizzazione, gli Affari Generali, l’Inno- vazione, il Bilancio e il Personale dello stesso Ministero. Per la Lombardia, il progetto ha visto l’attiva partecipazione e il coordinamen- to tra varie istituzioni pubbliche e private: tra i primi obiettivi perseguiti vi è stato l’avvio di un censimento degli archivi di aziende, stilisti, case editrici legati al mondo della moda, condotto in collaborazione dalla Soprintendenza Archivistica per la Lombardia e dall’Università degli Studi di Milano. Il censimento è stato propedeutico a una serie di altre iniziative, tra le quali il volume che qui si presenta, coordinate in un vasto progetto dedicato agli “Archivi della Moda del Novecento in Lombardia” promosso dal Centro Interdipartimentale MIC “Moda Immagine Consumi” dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con la Soprintendenza Archivistica per la Lombardia, la Regione Lombardia, il Comune di Milano e le Civiche Rac- colte d’Arte Applicata ed Incisioni, l’Associazione Biblioteca Tremelloni del Tessile e della Moda, l’Associazione Italiana Pellicceria, il Centro di studi per la storia dell’editoria e del giornalismo, la Fondazione Gianfranco Ferré. Il progetto è stato sostenuto dal contributo della Fondazione Cariplo e della Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Milano.
  • 9. Maurizio Savoja Soprintendente Archivistico per la Lombardia L’obiettivo è quello di conoscere, tutelare e valorizzare gli archivi della moda: intendendo l’archivio non solo nel senso più tradizionale di carte accantona- te a scopo amministrativo, ma nel più ampio significato di insieme organico di documenti, senza distinzione di tipologia o di supporto, formati, accumu- lati e usati da una determinata persona, famiglia o ente nello svolgimento della propria attività, secondo una definizione ormai consolidata. E quindi archivi amministrativi, certo, ma anche tutti gli altri materiali (disegni, schizzi, pubblicazioni, ritagli, oggetti, fotografie, audio-video) che l’agire nel mondo di un soggetto porta ad accumulare e conservare, perché funzionali all’attività condotta o perché frutto dell’attività stessa: l’archivio del prodotto, concetto anch’esso ormai entrato nel linguaggio comune degli archivi d’impresa. In questo senso il progetto sugli archivi della moda, come altri avviati in que- sti ultimi anni relativamente agli archivi d’impresa, di architettura, della musi- ca, della letteratura e così via, costituisce la stimolante sfida dell’incontro tra i più vivi settori della società e dell’economia attuale e le professioni della memoria e della documentazione: archivisti, storici (con le diverse specializ- zazioni), bibliotecari, istituzioni culturali, di ricerca e dedicate alla didattica, accomunati dalla volontà di contribuire alla creazione di nuovi modi per ope- rare, nel mondo presente e futuro, che si appoggino al meglio sul patrimo- nio del passato, nel contempo lavorando perché questo patrimonio non venga disperso, ma anzi si arricchisca con le testimonianze dell’oggi. Il volume curato da Elena Puccinelli è un esempio, uno degli esempi, di quan- to gli archivi possano restituire, al mondo di oggi, del patrimonio di conoscen- za di cui sono portatori; una conoscenza fatta delle tracce lasciate dall’opera- re nel tempo di individui e organizzazioni, che può essere fatta rivivere a patto, in primo luogo, che i documenti e gli oggetti che la racchiudono siano attentamente accumulati e conservati e che vengano poi, attraverso un approccio culturalmente rigoroso e rispettoso, studiati e riportati alla luce.
  • 10.
  • 11. 11 Una storia lombarda Quirino Conti Cos’era Milano in quei primi anni settanta! Intanto che, volgendosi impruden- temente verso ciò che restava della morente alta moda romana, anche attor- no a nomi che erano stati alteri e reboanti, tutto, proprio tutto appariva come destinato al disfacimento e alla rovina, dentro un tragico cono d’ombra e d’inu- tilità. In una noiosa, inesorabile impotenza fin-de-race senza scampo alcuno. Mentre lì, tra nuovi paesaggi, comportamenti nuovi e finanche nuove fisio- nomie, in un odore inconfondibile e totalmente inedito per chi frequentas- se d’abitudine atelier e sartorie – quello della fabbrica e di quanto smuove- va pulegge e ingranaggi (reali e metaforici), catene di montaggio e cicli pro- duttivi –, lì la vitalità del nuovo e dell’appena nato dava quel genere di eufo- ria che sempre causa la consapevolezza d’essere nel Tempo, nella Storia, nella propria contemporaneità, nel solo punto determinante: artefici di ciò che conta e appare ineludibile. Similmente a come si poteva ascoltare dagli estatici racconti dei superstiti testimoni dei Ballets Russes e di quella irripetibile stagione. Un’eccitante euforia che avresti detto simile all’ebbrezza; in una interminabile primavera. Ora che, in volo verso quella città, sopra le nuvole, e dunque già con l’im- maginazione e il pensiero fuori dalle cose, al momento di atterrare ci si poteva a ragione convincere di stare per scendere nel cuore stesso del pro- prio tempo, in quella ennesima, incomparabile, unica Modernità. Cosicché, voltandosi indietro appunto, c’era da correre il rischio di perdersi e di restare di sale: come nel più classico dei miti. Lì, in quel piccolo mondo di stilisti – quale nome più azzeccato per giovani talenti pronti a sconvolgere l’aspetto della Storia? – e di professioni nuove, appena inventate. Già, da un giorno all’altro, in una sede adeguata, con bel- l’indirizzo, senso del lavoro, degli affari, e professionalità. Lì incontrai Barbara Vitti. Ci fece conoscere un comune amico, compratore alla Rinascente (quanto deve la Moda a quella fucina di creativi e stilomani!) che, in quell’appena nato mondo Veduta di Milano con la torre Velasca e le guglie del Duomo, 1958
  • 12. 12 dello Stile, si muoveva con buone amicizie, disinvoltura e grande comunicativa. Ci presentò all’Hotel Palace per il mio esordio a Milano. Da allora non ci siamo più persi. Affermare che Barbara Vitti avesse molte relazioni è dare un limite al suo indirizzario di allora. Giacché i pochissimi che eventualmente non vi fossero previsti, se necessario, dopo un attimo, erano già dentro la sua festosa capacità di coinvolgere e includere. Da milanese autentica, come nessuno. Con il sentimento in mano – almeno così dicono loro –, chiacchiere lo stret- to necessario e appena sufficiente, e tantissimi fatti. Sobriamente, certo (venivo dalla pomposissima romanità), ma con intensità e determinazione. Mi ero appena laureato in architettura – ormai è quasi, anzi è sicuramente, un difetto, la laurea – e, in quegli anni, con Gianfranco Ferré già famoso e architetto rodato, eravamo due autentiche rarità: eppure, senza troppi giri di parole o grilli per la testa. Giacché Milano allora era così, piena di occasioni straordinarie, possibilità e generosi slanci: per chiunque, anche se illettera- to, purché avesse talento e qualcosa da dire. Barbara Vitti si occupava allora del GFT e lì fummo a lungo insieme, dopo Trussardi e poi via via in occasioni di lavoro memorabili. Sapendo unire ciò che avevamo di diverso l’uno dall’altra assieme a quello che, accomunandoci, ci dava energia e forza. Compresa una rara predisposizione per l’elaborazione di lettere; sì, di let- tere – fax o e-mail che fossero: pacificate, risentite o sentenziose a seconda del caso. Ovunque fossimo, se c’era un problema da risistema- re quella era la nostra tempestiva, irresistibile specialità. A qualunque ora. Perché in quegli anni la felicità consisteva, più che in qualsiasi altra cosa, nell’essere costantemente in un solo pensiero dominante: l’impagabile privilegio, cioè, di esercitare la più moderna delle professioni e la più stra- ordinaria. Ma oltre alla determinazione, ciò che fin d’allora colpiva in lei era la passio- ne contagiosa con la quale svolgeva il suo lavoro. Passione che rendeva unica ai suoi occhi, e dunque anche ai suoi interlocutori, qualunque cosa le fosse stata affidata. Che si trattasse di una nuova impresa, una presenta- zione o una campagna pubblicitaria, ogni volta quell’incarico diveniva il suo oggetto d’amore, il solo suo scopo. Per ogni dettaglio: anche solo dover scegliere una didascalia o un impaginato. Appassionatamente, sempre. Quali che fossero le difficoltà e gli impedimenti. Allora come oggi.
  • 13. 13 E così lo Studio Vitti diveniva un’istituzione, e non soltanto in quel pugno di geniali elaboratori di stile e di immagini. E costantemente ai vertici di un sistema che a grandi passi si faceva sem- pre più esigente, mai che smarrisse l’unico modo che conosceva per affron- tarlo: dunque entusiasmo, volontà, metodo e illimitata disponibilità, oltre ogni immaginazione. Ma soprattutto, passione: vorace e bruciante. Che le riempiva la vita. Per qualunque particolare di quel nuovo corso di storia professionale, come non ci fosse altro al mondo. Forte, tenace, rassicurante; per chi le era accanto, una sorta di muraglia pro- tettiva e invalicabile, di bastione armato. L’ho osservata con i miei occhi muoversi nel mondo al fianco dei più grandi nomi dello Stile: ebbene, anche in quelle occasioni riuscendo a non tradire se stessa e rimanendo ciò che era ed era stata in quei primi anni settanta, agli esordi di tutto. Identica: lombarda, milanese e con il sentimento a fior di pelle. Inflessibile, seppure, fortunatamente, con molti varchi di fragilità in quel suo tono alto e sonoro – e una “r” inconfondibile – capace di tenere tutto in pugno. Cos’era Milano in quegli anni! Cos’erano quei giorni! E non perché, rievocando il passato, si rimpiange unicamente la giovinezza e dunque le sue ore preziose – giacché non di rado il passato e la giovinez- za possono anche essere stati tremendi e da dimenticare. Quelli, invece, erano davvero anni eroici per la Moda, e non certo per ragio- ni di età o generazionali. Poiché insieme vedemmo sorgere Titani, levarsi torri di luce, alzarsi magni- ficenza e perfezione, senza pari. E lei era ed è lì, custode di quei giorni e di tutti i loro segreti. Forte, tenace e piena d’amore per quel suo lavoro e per chiunque lo svol- ga, con identica fermezza, accanto a lei. “Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli…; e dopo sarà diverso, ma peg- giore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, Gattopardi, sciacalli e pecore, continuere- mo a crederci il sale della terra.” Nulla è più vero. Anche se, c’è da giurarci, Barbara Vitti sarebbe stata capace di trasformare anche quel terribile Calogero Sedara in un autentico, vero stilomane. Se non in un Gattopardo.
  • 14.
  • 15. 15 Comunicare la moda e comunicare con la moda Simona Segre Reinach Per gli studiosi degli anni sessanta e settanta la moda era un oggetto che incuriosiva, in parte anche attraeva per il suo trasformarsi proprio in quel- l’epoca da pratica di distinzione sociale, la moda di classe, a pratica espres- siva e comunicativa, la moda “degli stili di vita”, ma che veniva aspramente criticato in quanto uno dei fenomeni di neomania indotti dal capitalismo. Sulla scorta della Scuola di Francoforte, nella propensione ai consumi veni- va individuata una possibile deriva dall’impegno sociale. Gli studi recenti1, al contrario, si sono focalizzati principalmente sull’interpretazione della varietà di significati di ciò che va sotto il termine moda, cercando di liberar- la dalla connotazione effimera di cui ha sofferto a fasi alterne sin dai tempi della polemica settecentesca sul lusso. Già Jean Baudrillard2, seppure assai critico nei confronti della moda, che secondo la sua analisi promette un’uguaglianza di fatto introvabile nelle società capitaliste, riteneva che la moda offrisse il terreno per analizzare aspetti significativi delle nostre società. Il continuo rinnovamento di segni, la perenne produzione di senso, solo in apparenza arbitrario, nel mistero intatto dell’alternanza dei suoi cicli, sono l’espressione più efficace della nostra società contemporanea. Con il tramonto della moda come distinzione sociale e l’inizio dell’era della moda aperta3, nuovi significati si presentano pronti a essere veicolati dalla moda, emblema dei consumi culturali della società contemporanea. Nella società tardo-capitalista dei consumi l’accresciuta importanza della moda in quan- to comunicazione è più che evidente. Non solo la forma moda influenza, ma plasma le modalità del desiderio e dell’immaginazione. Il desiderio di “muoversi con la moda”4 fa convergere in modo crescente le nozioni dello stile sul corpo vestito e la nostra attenzione si focalizza sull’insieme delle pratiche che definiscono l’identità. La moda è dunque attività antropoietica per eccellenza, serve, cioè, a “fare umanità”5. Attraverso i suoi must la moda fornisce indicazioni su cosa è giusto o non è giusto indossare e ci prepara per l’immediato futuro, facendoci assaporare le anticipazioni dei Susy Porter e Mike Nichols da Maxim’s a Parigi, 1962 (Fotografia Richard Avedon)
  • 16. 16 gusti e delle tendenze. Scrive Ugo Volli: “Quando ci mettiamo un abito diciamo quello che siamo, e gli altri lo capiscono. Vestirsi è scrivere la pro- pria identità sul corpo, comporre frasi relative secondo una grammatica pubblica e facilmente decifrabile (anche se mobile), tradursi e tradirsi in forma di tessuto”6. Intendere la moda come comunicazione significa postulare l’esistenza di un suo linguaggio specifico. L’abito è uno dei molti sistemi di comunicazione non verbale, cioè di una comunicazione che non coinvolge il parlare o lo scrivere, come i gesti, gli sguardi, la prossemica, ma che è altrettanto effi- cace. Proviamo a elencare somiglianze e differenze tra il linguaggio della moda e la lingua vera e propria. Diversamente dal linguaggio che si basa su segni e regole per la combinazione di essi in specifici messaggi, l’abbiglia- mento non possiede la medesima qualità generativa. La parola, inoltre, è più arbitraria e meno ambivalente. Il significato di alcune combinazioni di abiti o dell’enfasi su un certo stile varia infatti in base all’identità della per- sona che indossa quegli abiti, all’occasione, al luogo, alla compagnia e “per- sino a qualcosa di così vago e passeggero come lo stato d’animo di chi indossa e di chi osserva”7. Per alcuni autori è proprio la nozione di ambiva- lenza, nelle sue varie espressioni, di genere, tra il maschile e femminile, di status tra le classi sociali e tra ricchezza e povertà, e della sessualità nella dicotomia erotico-casto, a costituire la materia stessa di cui la moda è fatta e si nutre. Potremmo dire che in gran parte la nostra identità, il senso di chi e che cosa siamo prende forma nella misura in cui bilanciamo e tentiamo di risolvere le ambivalenze che la nostra natura, il nostro tempo e la nostra cultura ci tra- smettono. E l’abbigliamento, pur avendo avuto come scopo iniziale quello di proteggerci dagli elementi della natura, entra oggi a far parte della gestio- ne dell’ambivalenza al pari di altri mezzi, già di per sé fonti di comunicazio- ne, a nostra disposizione per la comunicazione del sé: la voce, il portamen- to e il movimento del corpo, le espressioni facciali e gli oggetti materiali di cui ci circondiamo8. Eppure la comunicazione della moda, pur nell’ambivalenza che la caratteriz- za, ha un suo valore specifico di cui siamo tutti consapevoli. È dall’ambiva- lenza della condizione umana messa in scena e spettacolarizzata, tuttavia resa innocua nelle sue reali conseguenze, che deriva il fascino della moda, come fosse un “continuo palcoscenico della rappresentazione di noi stes- si”9. Moda e abbigliamento veicolano significati culturali obliqui che il lin-
  • 17. 17 guaggio con la sua natura esplicita non potrebbe veicolare. Come la cultura materiale in genere, la moda può infatti parlare “sotto voce”10 e come la musica possiede un valore altamente metaforico. Punto di incontro tra corpo, abito e cultura, la moda indica un fenomeno sociale dalle ampie impli- cazioni che soprattutto in epoca contemporanea si delinea dunque come una sorta di esperanto. Basti pensare ai marchi del cosiddetto lusso globale che attraversano confini geografici ed economici mantenendo miracolosamente intatto il loro potere comunicazionale. Precisamente per le sue caratteristi- che compositive e per la sua ambivalenza nonché per la sua duttilità, la moda funziona in un certo senso come il pensiero mitico11, cioè produce nuovi significati servendosi di pezzi esistenti, come anche il caso del vintage illu- stra. Tra i primi a sostenere che la moda prenda vita attraverso i sistemi comunicativi che ne costituiscono il senso è Roland Barthes12 nel suo pio- nieristico saggio sul sistema della moda. Analizzando la “moda scritta”, in particolare le didascalie delle riviste di moda, Barthes provocatoriamente ne sottolinea gli aspetti più sottili (e perversi, in quanto rivelatori delle discrimi- nazioni che il capitalismo produce) di sistema di comunicazione. Il codice vestimentario proprio perché più instabile del linguaggio può anche precede- re il linguaggio nello svelare nuovi comportamenti e istanze sociali. È un mezzo per molti aspetti imperfetto, ma con un potere talmente forte da ren- derlo indispensabile nella trasmissione della cultura nella sua complessità. Il concetto di destino personale, di scelta e di responsabilità individuale legato all’emergere delle società liquide13 ha nei rituali del guardaroba e nelle prati- che di cura del corpo i suoi esempi più notevoli. Come sostiene Michel Maffesoli14, mentre la politica era il tratto distintivo della modernità, l’esteti- ca è quello della nostra società definita di tarda-modernità. La ricerca esteti- ca che contraddistingue la nostra epoca trova nei meccanismi della moda il luogo dell’apprendimento più immediato. Non si tratta soltanto di un codice semantico, scrive a questo proposito Lars Svendsen, quanto di un effetto estetico: “Dobbiamo optare per uno stile di vita che, in quanto stile, farà della nostra preferenza una decisione estetica fondante. L’estetica pertanto diviene il centro della formazione dell’identità”15. La prevalenza degli stili di vita sulle classi sociali, che in termini sociologici segna il passaggio dalla cultura della produzione alla cultura del consumo, si accentua dopo gli anni sessanta e soprattutto negli anni ottanta, quando la moda inizia a divenire un segno in grado di significare estetica, moderni- tà, democrazia, culto della giovinezza. L’Italia ha un ruolo fondamentale in Nelle pagine successive: Il chi c’era nella Sala Bianca di Palazzo Pitti, 1954 (Disegno Brunetta) e Il pubblico di Palazzo Pitti, 2001 (Disegno Paolo Fiumi)
  • 18.
  • 19.
  • 20. 20 questo passaggio che trasforma la moda da industria produttiva a industria prevalentemente culturale16. Con l’innovazione apportata dagli stilisti mila- nesi, cioè con il connubio tra stilisti e industria tipico del prêt-à-porter, si esce dal registro del lusso e si entra in quello della diffusione popolare. In pochi anni, come noto, la moda diviene un bisogno sociale diffuso e lo shopping di moda una delle attività preferite dal pubblico. Le proposte si diversificano, lo stilista propone modelli di comportamento estetico cui risponde un’accresciuta capacità di usare la moda come strumento espres- sivo e attivazione di consonanza con i propri simili. La moda, che possiamo anche definire come un universo immaginario di possibili scelte individuali e sociali17, è divenuta dunque in epoca recente un mezzo di comunicazio- ne di massa che “si riproduce e diffonde secondo le sue proprie modalità e che, al tempo stesso, entra in relazione con altri sistemi massmediatici”18. Proprio perché la moda è comunicazione essa stessa, indiretta, ambivalen- te, ma estremamente puntuale ed efficace, può anche entrare in conflitto con i tradizionali metodi di comunicazione, in modo particolare con la pub- blicità. Per poter seguire, interpretare, promuovere, diffondere capillarmen- te le novità che la moda presenta, la pubblicità tradizionalmente intesa non è mai stata sufficiente, come invece per la maggior parte degli altri prodot- ti. La capacità di intrecciare narrazioni è centrale nel processo di affermazio- ne del vocabolario della moda e dei suoi simboli. L’attività di PR, cioè le pub- bliche relazioni, è stata per questo parte integrante e fondamentale per tra- smettere ai consumatori degli anni ottanta, desiderosi, ma ancora incerti del loro gusto, quella sicurezza che si traduce nelle giuste coordinazioni sti- listiche. La moda richiede sempre l’ausilio di professionisti che siano porta- tori di quello che Joanne Entwistle19 definisce il “sapere estetico implicito”. Chi è dotato di conoscenza estetica implicita è caratterizzato da un approc- cio intuitivo alla realtà e dall’abilità di tradurre l’esperienza sensoriale del mondo dello stile in un discorso coerente e comprensibile, ma che lascia intatta tutta la sua magia fatta di allusività e ambivalenze. Più diversificate rispetto agli anni ottanta, le cosiddette “pubbliche relazioni” restano oggi un elemento fondamentale della comunicazione della moda, in un mondo fatto di consumatori più consapevoli, ma sempre pronti a essere sedotti dalle storie e dagli eventi che la moda suscita, evoca. Agendo da intermediari cul- turali, da un lato la/il PR traduce, dall’altro diffonde, in entrambi i casi con- tribuisce a divulgare una cultura della moda. È come se le PR garantissero la comunicazione intesa come da etimo “messa in comune”, a differenza
  • 21. 21 della pubblicità che fungerebbe in molti casi da mera informazione. Moda e pubblicità in effetti sono due sistemi autonomi i cui relativi codici non pos- sono essere “prestati” l’uno all’altro, come ha dimostrato Grant David McCracken, in quanto entrambi trasmettitori di valori culturali assai potenti. La saturazione di pubblicità, inoltre, porta alcuni analisti a sostenere che nel campo della moda essa sia in declino a fronte di una crescita di importan- za delle PR: “Secondo i sostenitori di questa tesi, la provenienza dell’infor- mazione da una fonte percepita come neutrale contribuirebbe a dare credi- bilità al messaggio, diversamente da quanto avviene con l’informazione pubblicitaria”20. L’effetto “immedesimazione” che caratterizza la comunicazione dei fashion blog odierni, in cui il soggetto che comunica è anche l’oggetto che promuo- ve, è stato in un certo qual modo anticipato dalle PR della moda che hanno saputo per prime – si trattava in genere di donne – modificare quel vissuto di distanza che la moda aveva in passato. La moda è il risultato di una serie di scelte fatte da molteplici attori in un percorso che trasforma i capi di abbi- gliamento in pezzi di cultura. Il valore della moda è definito dalle attività col- lettive e dalle pratiche degli operatori del settore proprio perché i mercati della moda sono configurazioni metaforiche che mettono insieme aspetti culturali e aspetti economici21. Probabilmente perché culturalmente distanti, se non addirittura diffidenti, nei confronti dei metodi e degli strumenti tradizionali, come le agenzie di pubblicità e gli istituti di ricerca tarati sui beni di largo consumo, le aziende e i designer di moda hanno dunque generato sistemi inediti di comunica- zione. Benché diventata un bene di largo consumo essa stessa, la moda conserva infatti una sua peculiarità di prodotto che parla a individui che si riconoscono in particolari modi di vita, e non a moltitudini eterogenee. Poiché il prodotto abbigliamento, più di altri, è un prodotto “nudo”, vestito dalla comunicazione, alcuni ritengono un po’ provocatoriamente che la moda si sia addirittura affermata senza ricorrere alle usuali strategie di mar- keting degli altri comparti di consumo, quasi per caso e come segno della sua differenza qualitativa rispetto ad altri prodotti e servizi. Quello che è certo è che il suo marketing mix è stato anomalo e molto innovativo. Le aziende della moda, spesso in modo inconsapevole e spontaneo nei primi anni, molto più organizzato e razionalizzato in tempi recenti, hanno fatto ricorso a un loro specifico marketing. Ecco perché ha caratterizzato il com- parto della moda un uso creativo del mix di marketing, cioè delle tradiziona-
  • 22. 22 li “quattro P” descritte nei manuali di marketing – prodotto, prezzo, posto (distribuzione), pubblicità – trasformandole in una unica “grande C” in cui ogni elemento è comunicazione esso stesso22. Il gioco della comunicazione con la moda e della moda si allarga e restrin- ge in continui rimandi che non possono essere interamente razionalizzati, come una lucciola estiva che scompare nel momento stesso in cui credia- mo di afferrarla, né tuttavia ignorati come meccanismi specifici. Uno dei paradossi della moda, l’essere un fenomeno sociale e una pratica individua- le, che Georg Simmel23 per questo già definiva individualizzante e omoge- neizzante, ne ha determinato le peculiarità di diffusione e il successo nel- l’epoca contemporanea. Si può sostenere che il sistema della moda comu- nichi a ogni individuo e che ciascuno lo usi per comunicare alla propria cer- chia sociale in una circolarità che ne determina la fascinazione e la perenne trasformazione. Maria Pezzi, abiti di Missoni, San Lorenzo, Roberta di Camerino e Krizia, in supplemento di “Il Giorno”, 1975-1980 1 E. Wilson, Adorned in Dreams, Tauris, London 2003. 2 J. Baudrillard, Il sogno della merce, Lupetti, Milano 1987. 3 G. Lipovetsky, L’Impero dell’effimero, Garzanti, Milano 1989. 4 K. Hansen Tranberg, The World in Dress: Anthropological Perspectives on Clothing, Fashion, and Culture, in “Annual Review of Anthropology”, 2004, pp. 369-392. 5 F. Remotti, Prima lezione di antropologia, Laterza, Roma-Bari 2000. 6 U. Volli, Introduzione, in F. Davis, Moda, Baskerville, Bologna 1993. 7 F. Davis, Moda, Baskerville, Bologna 1993, p. 8. 8 F. Davis, op. cit., p. 25. 9 E. Scarpellini, L’Italia dei consumi, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 274. 10 G.D. McCracken, Culture and Consumption. New Approaches to the Symbolic Character of Consumer Goods and Activities, Indiana University Press, Bloomington 1990, p. 69. 11 C. Lévi Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Sag- giatore, Milano 1964. 12 R. Barthes, Il sistema della moda, Einaudi, Torino 1970. 13 Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2000. 14 M. Maffesoli, Note sulla post-modernità, Lupetti, Milano 2005. 15 L. Svendsen, Filosofia della moda, Guanda, Milano 2004, p. 157. 16 S. Segre Reinach, Milan the city of Prêt à Porter, in D. Gilbert, C. Breward FashionWorld’s Cities, Berg, Oxford 2006, pp. 110-123. 17 Moda e mondanità, a cura di P. Calefato, Palomar, Bari 1992. 18 P. Calefato, Mass moda, Costa e Nolan, Genova 1996, pp. 6-7. 19 J. Entwistle, The Aesthetic Economy of Fashion, Palgrave Macmillan, London 2009. 20 R. Cappellari, Il marketing della moda e del lusso, Carocci, Milano 2011, p. 93. 21 J. Entwistle, op. cit. 22 S. Segre Reinach, La moda. Un’intro- duzione, Laterza, Roma-Bari 2010. 23 G. Simmel, La moda, Editori Riuniti, Roma 1986.
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  • 25. 25 Moda e comunicazione a Milano nelle carte di Barbara Vitti Elena Puccinelli Il passaggio dal XX al XXI secolo richiede a tutti i sistemi manifatturieri e industriali una svolta fondamentale sia in ambito produttivo che gestionale, una risposta adeguata alle sfide poste dalla globalizzazione così come dalla recente crisi finanziaria che ha colpito l’economia mondiale. Uno dei princi- pali settori produttivi in Italia è oggi quello della moda, sollecitato a continui aggiornamenti per poter essere sempre competitivo rispetto alle nuove realtà economiche emergenti come quella cinese e indiana. In questo senso un patrimonio inestimabile di idee, immagini, documen- ti e testimonianze dei protagonisti della sua storia nel Novecento dal quale attingere per immaginare il futuro è conservato negli archivi, il cui valore è misurabile non solo in termini economici, ma anche in termini culturali e persino artistici, un vero e proprio giacimento di conoscenze che fino a oggi non è stato adeguatamente valorizzato sotto il profilo scientifico. Come spesso infatti accade per settori la cui importanza è riconosciuta dal punto di vista economico, ma relativamente recenti dal punto di vista degli studi culturali, non sempre l’ambito della moda ha conosciuto iniziative di alto livello che fossero avulse dall’aspetto pubbli- citario. Nonostante la sua centralità, lo studio e la ricerca in questo setto- re, dal punto di vista della storia aziendale, culturale e artistica, fino a oggi sono stati appannaggio di studiosi e giornalisti che avevano una cono- scenza diretta degli eventi e dei personaggi, ma che raramente hanno potuto accedere in maniera sistematica alle preziose fonti documentarie e visive che costituiscono gli archivi della moda. La situazione attuale ci vede dunque di fronte a una sostanziale sotto-utilizzazione dei materiali presenti negli archivi e nelle biblioteche e a una loro scarsa valorizzazio- ne, sia da parte di un largo pubblico potenzialmente interessato, sia da parte della comunità scientifica e accademica. È per dare una risposta a questa esigenza che il Ministero per i beni e le attività culturali ha promosso il progetto nazionale “Archivi della Moda del Jole Veneziani, 1976 (Fotografia Gian Paolo Barbieri)
  • 26. 26 Novecento”, che è stato presentato a Firenze presso la Sala Bianca di palaz- zo Pitti il 12 gennaio 2009. Ne è conseguito l’avvio dei lavori nelle tre regio- ni pilota, Lazio, Toscana e Lombardia, particolarmente rappresentative per il ruolo svolto dalle città di Roma, Firenze e Milano nella storia della moda ita- liana. Successivamente vi hanno aderito, tra gli altri, il Veneto con il suo distretto produttivo del Brenta, il Piemonte con il Biellese, l’Emilia Romagna, le Marche, la Campania. In Lombardia, l’Università degli studi di Milano in collaborazione con lo stesso Ministero e la Soprintendenza archi- vistica per la Lombardia, il Comune di Milano e le Civiche raccolte d’arte applicata ed incisioni, l’Associazione biblioteca Tremelloni del tessile e della moda, l’Associazione italiana pellicceria, il Centro di studi per la storia del- l’editoria e del giornalismo, la Fondazione Gianfranco Ferré, con un finanzia- mento della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Milano hanno elaborato un progetto dedicato agli “Archivi della Moda del Novecento in Lombardia”. Il progetto ha ricevuto un contributo della Fondazione Cariplo che ne ha riconosciuto il grande rilievo. L’obiettivo è quello di restituire al settore della moda, così centrale nell’im- magine pubblica di Milano e dell’Italia all’estero, la dignità culturale che gli spetta e che finora è stata solo in parte riconosciuta, avvalendosi della col- laborazione tra le diverse istituzioni coinvolte, ognuna delle quali vi apporta il proprio contributo. Il percorso che si intende compiere è quello di rende- re fruibile il grande patrimonio presente negli archivi dei principali operatori, per garantire una solida base di documentazione in grado di sostenere ricer- che presenti e future che abbiano come oggetto la moda italiana, per forma- re giovani stilisti, giornalisti, archivisti e personale delle aziende del compar- to produttivo e più in generale per creare gli strumenti per una reale valoriz- zazione culturale del patrimonio moda. Il campo di indagine è complesso. Vi sono gli archivi e le biblioteche prodot- ti dagli stilisti, quelli delle imprese del settore tessile, calzaturiero e degli accessori di moda e quelli delle riviste specializzate nella moda, solo per citare i casi più frequenti. Tuttavia, non di minore interesse sono gli archivi dei professionisti che hanno operato o operano nel mondo della moda, siano essi esperti nella comunicazione, giornalisti e fotografi. Senza dimen- ticare la grande importanza del patrimonio di quegli enti e fondazioni che si sono posti come obiettivo quello della concentrazione e conservazione della memoria storica di aziende, stilisti o professionisti del settore. La sfida per l’archivista e per lo studioso è data anche dalla presenza in tali complessi di
  • 27. 27 molteplici tipologie documentarie quali per esempio quelle che compongo- no l’archivio fotografico, l’archivio audio-video, l’archivio disegni, l’archivio ufficio stampa, l’archivio del prodotto, l’archivio amministrativo e contabile, l’archivio personale e la biblioteca. Accanto al documento cartaceo vi può essere dunque la stampa fotografica, la diapositiva, il video, il figurino, l’abi- to, la scarpa, il campione di tessuto e il bottone. Molti sono i possibili percorsi di ricerca e di intervento, tuttavia il primo pro- dotto che si è voluto realizzare è il censimento degli archivi, che in Lombardia è attuato in collaborazione dall’Università degli studi di Milano e dalla Soprintendenza archivistica, con l’obiettivo di fotografare la realtà del patrimonio documentario esistente presso stilisti, aziende e case editrici, di sensibilizzare i proprietari a conservare questi materiali, di segnalarne l’esi- stenza agli studiosi. Questa prima indagine è foriera di interessanti sviluppi quali per esempio i progetti di intervento sui singoli archivi, i saggi scienti- fici, le monografie, le mostre, la condivisione dei materiali in rete e ancora l’opportunità individuata da singoli proprietari di poter donare il proprio archivio al Centro interdipartimentale Moda immagine e consumi, creato dall’Università degli studi di Milano per promuovere e coordinare gli studi e la didattica sulla storia della moda. Tra questi vi è l’archivio di Gemma e Barbara Vitti, madre e figlia, entrambe protagoniste dell’epoca che ha visto nascere e affermarsi nel mondo la moda italiana. Una vicenda che viene ricostruita in questo libro grazie ai materiali tratti dallo stesso archivio Vitti, interpretata dal particolare punto di vista della professione delle pubbliche relazioni, che la stessa Barbara ha contribuito a definire. Gemma Vitti (1902-1992), disegnatrice per il negozio Galtrucco a Milano, diventa giornalista quando viene chiamata dal quotidiano milanese del pomeriggio “Corriere lombardo” per scrivere una rubrica sulle donne. Negli anni quaranta e cinquanta collabora anche con “Bellezza” e “Lei”. L’affermazione definitiva viene quando il settimanale “Alba” le affida tutte le pagine dedicate alla moda per le quali inventa un nuovo modo di presenta- re le sfilate, che definisce “a soggetto”: le modelle interpretano una trama da lei ideata, avvalendosi della collaborazione di scenografi e artisti. Barbara Vitti nasce a Milano nel 1939. Cresciuta nell’ambiente della moda che frequenta fin dall’infanzia, negli anni sessanta è redattrice per i giornali del gruppo Del Duca, scriverà in seguito per “Grazia”, “Vetrine” e “Grand Hotel”. Nel 1965 è chiamata da Snia Viscosa per curare le pubbliche relazioni in occa-
  • 28. 28
  • 29. 29 sione di un congresso a Londra per le fibre man made e di una sfilata spet- tacolo a Venezia nei giorni del Festival del cinema, alla presenza della stampa internazionale. È questa la vocazione di Barbara Vitti che nel 1971, quando si delinea il grande successo del prêt-à-porter disegnato da stilisti italiani e la conseguente necessità di una nuova figura professionale, sconosciuta fino a quel momento se non negli Stati Uniti, il responsabile delle pubbliche relazio- ni, crea lo Studio Vitti, con sede in via Zamenhof, nel popolare quartiere Ticinese a Milano. Sarà pioniera in questo settore insieme a Beppe Modenese, Franco Savorelli di Lauriano, Nietta Veronesi e Grazia Gay. Negli anni che seguono è responsabile delle pubbliche relazioni, dell’ufficio stampa e della pubblicità per Hettemarks, azienda di confezione svedese con sede a Bari. Con Sergio Levi per il Gruppo Finanziario Tessile di Torino, Achille Maramotti fondatore di Max Mara, Gianfranco Bussola per la Marzotto e Francesco Balduzzi per Ruggeri formano il noto “gruppo dei cin- que”, che si riunisce periodicamente a Milano per concordare le strategie di comunicazione, i rapporti con le case editrici e le tendenze da introdurre nelle reciproche produzioni. Da queste riunioni nasce l’idea di lanciare su “Amica” la moda della giacca rossa: cinque diverse proposte, una per azien- da. La campagna promozionale è serrata, le vetrine appaiono come un trionfo di giacche rosse. Il capo diventa il cult dell’anno. A questa esperienza segue quella presso il Gruppo Finanziario Tessile dove conosce Quirino Conti, artista e scrittore, da Barbara definito uno dei lega- mi fondamentali della sua vita. Nel 1981, dopo aver unito alle molte consulenze anche quella perTrussardi, ini- zia la sua collaborazione con Giorgio Armani, sotto la direzione di Sergio Galeotti, “un geniale maestro di vita e di lavoro, che seppe valorizzarmi e mi aiutò generosamente a crescere” (“Shopping Italia”, settembre 1993). Molti i successi raggiunti insieme, culminati nella copertina che “Time” dedica allo stilista nel 1982 sancendone il successo a livello internazionale. Lo Studio Vitti si trasferisce in una nuova sede nella centrale via Durini. Nel 1986 Barbara lascia Armani per Valentino, “l’uomo a cui si guarda nella moda”. Diretta da Giancarlo Giammetti, è responsabile delle pubbliche rela- zioni, dell’ufficio stampa, degli eventi speciali e della pubblicità in Italia, per le trentaquattro linee firmate dallo stilista, dagli abiti agli occhiali, dalle penne alle piastrelle. Afferma in un’intervista di Andrea di Robilant: “Da Valentino il sogno si unisce all’efficienza. Ho ritrovato l’azienda, la parte che mi piace” (“Il secolo XIX”, 11 novembre 1986). Barbara Vitti nel suo studio di via Ciovasso a Milano, 2000 Gemma Vitti, giornalista e disegnatrice di moda, 1960
  • 30. 30 Successivamente è consulente di Versace per gli eventi speciali e le mani- festazioni culturali e del gruppo Inghirami Textile Company. L’incontro con Carlo Fontana, sovrintendente del Teatro alla Scala, con il quale collabora per sette anni come consulente per l’organizzazione della serata inaugurale della stagione opera e balletto, anticipa una svolta nella carriera di Barbara Vitti, il cui Studio negli anni novanta si specializza nel- l’ideazione e realizzazione di eventi speciali e come ufficio stampa. La lista dei clienti è importante. Vi sono aziende come Driade, Pirelli, il gruppo S. Pellegrino; editori come il gruppo Hearst, Rusconi e Rizzoli; istituti culturali tra i quali il già citato Teatro alla Scala e il Museo Bagatti Valsecchi o benefi- ci come l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc). Per quanto riguarda il mondo della moda, collabora con Pitti Immagine, Altagamma, con Convivio a favore dell’Associazione nazionale per la lotta contro l’Aids (Anlaids) e con la famiglia Versace in occasione di due eventi speciali: la mostra personale “Richard Avedon 1944-1994”, allestita a palazzo Reale tra il 18 gennaio e il 5 marzo 1995, e la mostra “Gianni Versace. La reinvenzio- ne della materia”, curata da Chiara Buss e Richard Martin, allestita alla Fondazione Ratti e a villa Olmo a Como, inaugurata il 18 giugno 1998. Nel 2004 Barbara Vitti realizza il primo dei due quaderni – il secondo uscirà l’an- no successivo – intitolati Milano è la moda. Inchiesta su un’unione di succes- so da 30 anni, editi da Class Editore con il patrocinio dell’assessorato Moda, eventi e turismo del Comune di Milano, utilizzando articoli, interviste e imma- gini tratti dal suo prezioso archivio e redigendo la maggior parte dei testi. Il 24 febbraio 2006 il sindaco di Milano Gabriele Albertini, l’assessore Giovanni Bozzetti e il presidente della Camera della moda Mario Boselli insi- gniscono Barbara Vitti dell’Ambrogino d’oro per aver creato una figura pro- fessionale e un ruolo importante per la moda. Per essere stata prezioso braccio destro della prima generazione di stilisti meneghini quali Armani e Versace. Per aver accompagnato l’incredibile affermazione del “Made in Italy” in un passaggio decisivo a cavallo di due secoli e due millenni. Nel 2007 Barbara decide di mettere la sua grande esperienza professionale a disposizione dei giovani allievi dell’Istituto europeo di design di Milano dove tiene un corso di comunicazione, pubbliche relazioni e organizzazione di eventi. Attualmente la PR è impegnata nella redazione di articoli per la rubrica Moda: Save the Date del sito Chi è Chi (www.crisalidepress.it). Testimonianza concreta della straordinaria carriera di Barbara Vitti che si è rapidamente ripercorsa nelle righe che precedono e della conseguente atti-
  • 31. 31 vità svolta dal suo Studio è oggi l’archivio che, come detto, la PR ha deciso di donare al Centro interdipartimentale Moda, immagine e consumi dell’Università degli studi di Milano. L’archivio conserva materiale diverso, diviso sommariamente in serie che riflettono l’attività svolta dallo Studio Vitti per i numerosi clienti. In attesa di un futuro riordino delle carte e della successiva inventariazione ne è stata redatta una lista di consistenza che permetta di valutare il contenuto delle centinaia di buste presenti. La tipologia dei documenti è molto varia. Vi sono album e folder che raccol- gono provini, stampe fotografiche in bianco e nero e a colori, diapositive, fotocolor di sfilate, collezioni e personaggi. Raccoglitori che conservano bozzetti, cataloghi, campionari, materiale pubblicitario, rassegne stampa, per le collezioni dei diversi stilisti e aziende dei quali Barbara Vitti è stata consulente. Buste e album di note, inviti, comunicati stampa, documenta- zione promozionale, rassegne stampa per l’organizzazione di eventi specia- li.Tutto questo materiale, come detto, è suddiviso in nuclei diversi relativi ai clienti che si sono succeduti nel tempo: Hettemarks, il Gruppo Finanziario Tessile, Armani, Valentino, Gianni Versace, il gruppo Inghirami, il Teatro alla Scala, il Museo Bagatti Valsecchi, gli editori Hearst, Rusconi, Rizzoli, le aziende Driade, S. Pellegrino, Pirelli, l’associazione Airc, tra gli altri. Dodici folder di “bolle di reso” e venti di “cronologico” conservano la docu- mentazione relativa al lavoro svolto quotidianamente dallo Studio Vitti e i suoi rapporti con gli stilisti, le aziende, le istituzioni da esso rappresentati e con la stampa, suo interlocutore privilegiato. Una scatola custodisce documenti miscellanei relativi all’attività di Barbara Vitti quale giornalista per la rubrica Moda e Motori della rivista “Grand Hotel”; un’altra conserva la documentazione prodotta in qualità di inse- gnante presso l’Istituto europeo di design. L’archivio conserva infine tre collezioni di riviste che riflettono il lavoro di giornalista di moda di Gemma Vitti: “Alba” (1958-1969); “Intimità” (1957- 1962); “Confessioni” (1959-1960). Lo studio e la selezione dello straordinario patrimonio di documenti e imma- gini conservati nell’archivio di Gemma e Barbara Vitti portano oggi alla rea- lizzazione di questo volume che vuole indagare attraverso di essi la nascita e l’affermazione in Italia della figura professionale dell’addetto alle pubbli- che relazioni e all’ufficio stampa nel mondo della moda, di cui Barbara è stata “prima una pioniera e poi una sovrana” (“Corriere della Sera”, 4 otto-
  • 32. 32 bre 1998). L’addetto alle PR, che può essere un consulente come nel caso dello Studio Vitti o un elemento interno, organizza e gestisce i rapporti della griffe e dell’azienda con l’esterno e con i media, costituisce gli elementi di base del marketing relazionale, particolarmente significativo nel caso dei beni di lusso. La comunicazione è al centro di ogni attività. Di grande rilevanza il contesto storico che vede la professione delle pubbliche relazioni nascere e affermarsi parallelamente al percorso che porta la produ- zione italiana di abbigliamento dai successi dell’alta moda sartoriale dei primi anni cinquanta alla consacrazione internazionale del “Made in Italy” con il prêt-à-porter industriale degli anni settanta, per giungere, nel corso degli anni ottanta, a quello che gli studiosi definiscono come un vero e proprio sistema moda allargato. Primo attore mondiale del settore diventa la città di Milano dove nel 1972 con la sfilata di cinque griffe disegnate da Walter Albini negli spazi della Società del giardino si sposta l’asse della moda. La città, dove ope- rano molti stilisti e aziende del comparto produttivo e dove ha sede l’editoria periodica, diviene ribalta del prêt-à-porter: Missoni, Krizia, Ken Scott lasciano la Sala Bianca di palazzo Pitti a Firenze e presentano le proprie collezioni alla Permanente, all’hotel Diana, al Principe di Savoia, al teatro Gerolamo, alla piscina Solari. Nel 1979, sotto la regia di Beppe Modenese, che convince la Fiera di Milano ad allestire due passerelle, vengono promosse le prime sfila- te milanesi concentrate in un solo luogo, grazie a una strategica sinergia tra aziende manifatturiere e stilisti. Nel mese di marzo i nomi che sfilano sono cinque, suddivisi in tre giorni: Ken Scott, Mario Valentino, Walter Albini, Laura Biagiotti, Claudio La Viola. Nell’edizione successiva, datata ottobre 1979, i nomi sono già diventati diciannove. Nasce Milano Collezioni. Afferma la stessa Barbara Vitti in un’intervista pubblicata su “Leader” nel marzo del 1988: il successo della moda italiana “è stato un boom di idee, di professionalità, di capacità industriali, di umiltà di capire che il talento, la creatività andavano calibrati alle necessità imprenditoriali. Il vero personag- gio è stato il prodotto. A ruota sono venute le individualità e sarebbe stato sciocco non sfruttarle per conquistare più spazi, più attenzione da parte dei mass media.” La stampa ha avuto un ruolo essenziale nel decollo e nel “miracolo” della moda italiana, “non c’è mercato senza comunicazione, senza informazione. Io ho vissuto questa trasformazione, parallela alla cre- scita della moda, del prêt-à-porter, del Made in Italy. Alcuni anni fa, i giorna- li trattavano la moda come una cosetta per pochi, elitaria. Faceva poca noti- zia e non si capiva che era una grossa, importante industria, vitale nell’eco-
  • 33. 33 nomia italiana. Soprattutto i quotidiani erano sordi. Adesso persino gli uomi- ni non fanno una piega se il direttore li manda a scrivere di una collezione. Qualche merito lo abbiamo avuto anche noi. Abbiamo aperto gli occhi dei giornali su un fenomeno che diventava di massa.” È a questa straordinaria vicenda che è dedicata la sezione del libro intitolata Milano è di moda. In essa sono stati raccolti brani tratti da alcuni tra i più impor- tanti articoli pubblicati nel già citato Milano è la moda. Inchiesta su un’unione di successo da 30 anni, edito da Class e diviso in due parti secondo un ideale filo logico: storico, economico e culturale il primo quaderno, uscito nel 2004; artistico-fotografico, editoriale e professionale il secondo, uscito nel 2005. Diversi i temi indagati: Milano capitale della moda italiana, la nascita del prêt- à-porter, la moda maschile, lo stretto legame tra moda e disegno e tra moda e fotografia, gli aspetti economici e commerciali del settore, le figure degli sti- listi e i loro più stretti collaboratori, mecenatismo e beneficenza, il ruolo gioca- to dalla stampa, dalla pubblicità e dagli esperti di comunicazione nell’afferma- zione del primato delle griffe italiane a livello internazionale. Quest’ultimo aspetto è ulteriormente approfondito nella sezione Non solo moda. L’importanza di chiamarsi PR dove, attraverso un racconto per imma- gini, tutte tratte dall’archivio Vitti, viene ricostruita la carriera di Barbara, esemplare per l’autorevolezza di cui gode nel mondo delle pubbliche rela- zioni e della realizzazioni di eventi. Vi trovano spazio i principali clienti, le campagne più originali e visionarie, gli eventi che hanno goduto di grande successo. Cito tra le altre la campagna pubblicitaria …è un Hettemarks!, che per la prima volta vede un’azienda di confezioni impiegare un grande fotografo come Marco Glaviano; la campagna pubblicitaria per Cori, linea del Gruppo Finanziario Tessile, in cui il messaggio viene affidato al volto di donne con forte personalità come Susanna Agnelli, Natalia Aspesi, Ottavia Piccolo; i murales voluti da Giorgio Armani per promuo- vere la linea Emporio, che cambiano il volto delle nostre città, celebre quello a Milano in via Broletto; la sfilata evento dell’11 settembre 1987 che riporta Valentino a Voghera, sua città natale, dove viene accolto come una star. Seguono la collaborazione con il Teatro alla Scala per l’organizzazione della “prima”, quella conVersace per gli eventi speciali e le mostre, il contributo dato a Convivio a favore di Anlaids e ancora l’ideazione delle celebrazioni per i cento anni della S. Pellegrino, momenti esemplificativi di un percorso professionale, resi vivi ai nostri occhi grazie alle immagini d’archivio fino ad ora inedite e ai preziosi ricordi personali di Barbara Vitti.
  • 34. Milano è di moda
  • 35. “Milano è meglio di Parigi, che si sta identificando sempre più come la capitale della haute couture e del superlusso. Milano è meglio di Londra, perché dietro Londra c’è il deserto produt- tivo. Milano è meglio di NewYork perché NewYork ha il domi- nio incontrastato del casual e dello sportswear, ma non della moda. Industria, stile, creatività, mondanità e arte. Dall’unione di questi fattori è nata la moda milanese. E su questo continua a crescere.” Mario Boselli
  • 36. 36 “Aprile 1967. A Firenze accade qualcosa che muterà per sempre il percorso della moda italiana. Ottavio e Rosita Missoni sono presenti per la prima volta alle sfilate di Palazzo Pitti. All’ultimo momento, Rosita si accorge che le mannequins indossa- no biancheria intima inadatta a stare sotto gli abiti di leggerissimo lamé. L’effetto è disastroso. Il tempo stringe: non resta che mandare le modelle in pedana senza niente sotto. Sotto il vestito niente. La maglia però è così leggera che alla luce dei riflettori diventa trasparente. È scandalo. Piovono le rampogne dei dirigenti. E nono- stante gli applausi dei buyers, la stagione successiva i Missoni non vengono invita- ti a sfilare. La cosa da principio lascia la coppia interdetta, ma diventa anche l’occa- sione per presentare, a dicembre, la collezione estiva direttamente a Milano, alla piscina Solari, in una sfilata-happening memorabile con poltrone gonfiabili e mobili galleggianti sull’acqua. A Milano si comincia a parlare di moda. Non più solo di com- mercio e industria. Negli anni settanta una nuova capacità imprenditoriale, più flessibile, va ad affian- carsi a quella tradizionale della grande industria milanese che risente della crisi in atto. La città inizia a cambiare volto e con lei cambia il profilo dei suoi protagoni- sti. All’exploit rivoluzionario dei Missoni segue quasi immediatamente Walter Albini. Designer delle collezioni Effetiemme, debutta a Milano nel 1972 annullan- do definitivamente l’egemonia di Firenze. Per le linee unite e coordinate di Basile (uomo e donna-uomo) disegna collezioni dai nomi evocatori e che faranno epoca: Marinaretti – Wallis Simpson – Tacchi a Spillo. Nel contempo, disegna le collezio- ni Misterfox (donna-femmina), Sportfox (camiceria), Callaghan (jersey), Escargot (tricot), Diamond’s che, in una innovativa e clamorosa sfilata collettiva al Circolo del Giardino, confermano la sua genialità, ma anche il formidabile fiuto di tre imprenditori: Aldo Ferrante, Gianni Tositti e Gigi Monti. È un debutto felice, che convince altri ad abbandonare Palazzo Pitti e la Sala Bianca per presentare le loro collezioni alla Permanente, all’Hotel Diana, al Grand Hotel et de Milan, al Principe di Savoia, al Teatro Gerolamo. Milano si sta avviando a diventare il cuore pulsante della moda italiana. Così, alla Milano La città incontra la moda Una trasparenza di troppo, una protesta e Firenze perde il primato.Addio palazzo Pitti. La capitale dell’industria porta alla ribalta il prêt-à-porter Anno 1967. Milano diventa di moda, in “Milano è la moda”, n. 1, 2004 Le spose e le vedove, collezione Anagrafe per Misterfox, 1970 (Disegno Walter Albini)
  • 37. 37 fine del 1974 è la Camera Nazionale della Moda Italiana che si propone come ente organizzatore. La scelta di una città come Milano non è casuale. La disponibilità del mondo della produzione a confrontarsi e ad accogliere, ma soprattutto a dialogare, con arte e creatività, è sempre stata elevata. Non è certo un caso che il Futurismo, fra i pochi ‘ismi’ che abbia sviluppato una sua moda (con i successivi, francesi, Surrealismo ed Esistenzialismo, ma per ispirazione) sia nato a Milano. Inoltre, Milano è città di grandi aperture verso l’Europa. Dispone di aeroporti continentali e intercontinentali, di grandi alberghi, di strutture adeguate. E gode di un retroterra economico industriale di grande impatto che sembra garantire lo sviluppo di questo settore. Dal 1975, data del primo calendario della Camera Nazionale, il successo della moda pronta a Milano si consolida ogni stagione, sino a prendere il posto di Parigi nel cuore e nei pensieri dei buyers e della stampa internazionale. Già nell’ottobre 1977 il carnet di Maria Pezzi, la prima e più nota cronista di moda e costu- me per Il Giorno, è già stipato di tutti i nomi più importanti: ad Albini, Krizia, Missoni e agli altri pionieri si sono via via aggiunti Giorgio Armani, dal 1975, quindi Gianni Versace per Callaghan, Genny e Complice, Fendi, Sportmax, Mario Valentino, Baila e Courlande dise- gnate da Gianfranco Ferré, Enrico Coveri, Mila Schön, Roberta di Camerino, Miguel Cruz, Geoffrey Beene, Laura Biagiotti. L’ingranaggio-Milano funziona ormai a tempo pieno. Scrive Pia Soli su Il Tempo del 26 marzo 1978: ‘I grandi giochi della moda si realiz- zano oggi solo a Milano: trasferendosi in questa città, in grande stile e con una ecce- zionale carica emotiva, la moda ha fatto un salto di qualità... Fosse rimasta a Roma si sarebbe addormentata, avesse resistito a Firenze avrebbe mantenuto un cachet simpaticamente provinciale. Milano invece ha preso il via bene e le stelle che pro- mettevano sono diventate tutte di prima grandezza. Una collezione è più che una prima alla Scala. È un business economico che fa girare le industrie. Si calcola che a Milano nei prossimi sei giorni ci saranno 30mila persone, 51 grandi collezioni nel calendario ufficiale della Camera della Moda divise in sei giorni al ritmo di 10 e 11 al giorno a ogni ora disponibile, un discreto numero di collezioni fuori da questo calen- dario cui la stampa e i compratori non intenderanno certamente rinunciare e molte altre collezioni presentate silenziosamente negli stand allestiti un po’ dappertutto. A Milanovendemoda sono ormai 400 i rappresentanti e i produttori che offrono oltre 1.000 campionari agli operatori. Questi nell’ultima edizione sono stati oltre 7.000, dei quali 1.000 stranieri, e hanno girato affari per 15 miliardi di lire. C’è poi Modit con appena 50 firme, il primo passo di una manifestazione politica che sta cercando spa- zio e fisionomia. Mai come questa volta tanti inviti a Milano, mai tanti ospiti, tanti interessi, tante speranze: numerosissimi i presidenti dei grandi magazzini statuni- tensi, inglesi, belgi, canadesi, tedeschi. Mai tanti francesi!’. Nelle pagine successive: Missoni, abito pipistrello, 1967 (Fotografia Alfa Castaldi) e Anno 1967. Milano diventa di moda, in “Milano è la moda”, n. 1, 2004
  • 38.
  • 39.
  • 40.
  • 41. 41 Una cronaca che descrive in modo molto efficace il momento magico che sta viven- do la moda a Milano in quegli anni. Dagli ottanta in poi, è storia di oggi. Alcuni nomi hanno perso smalto nel tempo, alcuni sono scomparsi, la maggior parte si è fatta più grande. Altri ancora sono nati e altri ne nasceranno. Milano resta comunque sempre una scelta privilegiata per chi ‘fa’ moda. Le ragio- ni? Spiega il presidente della Camera Nazionale della Moda, Mario Boselli: ‘Milano è meglio di Parigi, che si sta identificando sempre più come la capitale della haute couture e del superlusso. Milano è meglio di Londra, perché dietro Londra c’è il deserto produttivo. Milano è meglio di New York perché New York ha il dominio incontrastato del casual e dello sportswear, ma non della moda. Industria, stile, creatività, mondanità e arte. Dall’unione di questi tre fattori è nata la moda milane- se. E su questo continua a crescere’.” Dove si incontra la moda, in “Milano è la moda”, n. 1, 2004 Luoghi storici o di nuova generazione sanciscono i trionfi e leniscono i tonfi. Gli itinerari fashion hanno questi indirizzi.Talvolta anche da vent’anni “Anche a Milano, come a Roma e a Parigi, negli anni settanta si presentano le prime collezioni di prêt-à-porter, spesso affidate alla regia di Nando Miglio, nell’ambrata hall dello storico Grand Hotel et de Milan in via Manzoni, tra i decori imperiali dell’Hotel Gallia in piazza Duca d’Aosta, al Palace in piazza della Repubblica, al Diana in viale Piave con il suo giardino interno o al Principe di Savoia dove, tra gli altri, nel 1978, debutta anche Gianfranco Ferré. È in que- sti stessi alberghi che, con i primi buyers stranieri, scendevano le temute grandi firme delle testate internazionali e approdavano i giovani stilisti, men- tre le modelle frequentavano residence più abbordabili, come il Principessa Clotilde. Il popolo della moda, come verrà chiamato da allora in poi, nasce così; per quella tendenza a fare gruppo e a spostarsi in gruppo più di altri set- tori professionali: stessi indirizzi, stesso modo di vestire, identico modo di parlare. Giornalisti, stilisti, come amanti. È lo stesso gruppo che, affamato e stremato dalle corse tra una passerella e l’altra durante le Settimane della moda, si ritrova tuttora in fila per un tavolo, nei piccoli ristoranti di Brera, come la Locanda Solferino, il Giallo, il Rigolo, prediletto dai giornalisti del vicino Corriere della Sera, e laTorre di Pisa, trent’anni fa come oggi in massima auge anche grazie a una scelta strategica che Silvio Berlusconi, a quei tempi picco- lo immobiliarista, avrebbe adottato come tecnica di vendita per la sua Sfilata in via della Spiga, 1969 (FotografiaToni Nicolini)
  • 42. 42 Nella Favalli, È l’abito che fa l’uomo, in “Milano è la moda”, n. 1, 2004 È il 1978. La moda maschile sfila per la prima volta a Milano. E diventa subito un business enorme, pari a quello femminile Publitalia 80, ovvero il cartello ‘tutto esaurito’ esposto perennemente sulla porta di ingresso. Per le cene ufficiali o la consacrazione di un successo si pre- ferivano i velluti amaranto e i cristalli del Savini in Galleria. Quando agli indiriz- zi classici si aggiunse, in quella che era stata la residenza ufficiale del Feldmaresciallo Radetzky ma aveva ospitato un convento di suore nel Quattrocento, l’Hotel Four Seasons in via Gesù, inaugurato nell’aprile del 1993 da Margaret Thatcher, i mega-buyers, i temutissimi direttori, gli stilisti e le top models si trasferirono in blocco nelle guest rooms e nelle nuove suites arredate da Richard Davidson e Pamela Babey-Mouton (Brioni ha creato una suite per i suoi ospiti da pochi mesi). Stilisti e architetti, giornalisti e modelle: storie che si intrecciano negli anni e nei luoghi. Gli anni settanta e ottanta sono gli anni in cui vengono consacrate le cene dalla Bice, al Girarrosto, dal Saint Andrews (ora trasferito in via Senato) al Bagutta, al Paper Moon, oppu- re nelle sale voltate del Toulà, sotto i portici della Scala (indirizzo purtroppo scomparso), o da Giacomo in via Cellini tra i décors pompier ricreati da Renzo Mongiardino. Con il ristorante dell’Hotel Bulgari, le domeniche sera da Bebel’s e le Langhe sono gli stessi indirizzi di oggi.” “Scompare l’uomo in grigio, anche se nel suo guardaroba l’abito grigio resiste. Una tendenza chiara, indiscutibile è l’assoluta libertà. La moda maschile entra nel gran circo della creatività globale. E punta in alto: creare il ‘terzo uomo’. Un uomo che non rinnega la propria virilità ma si concede frivolezze femminili. Nel settembre 1978, l’avanguardia della moda pronta maschile lascia Firenze e decide di sfilare a Milano. La spingono le stesse ragioni che avevano ispirato la moda femminile a lasciare definitivamente la Sala Bianca nel 1974. I nomi sono quelli di Giorgio Armani, Walter Albini, Caumont, Gianni Versace, Basile, Fragile ai quali, nel febbraio 1979, se ne aggiungono altri. Firenze-Milano è un asse storico e strategico, perché se nella città toscana, con Pitti Immagine, aziende e marchi internazionali offrono un punto d’osservazione per tutto quello che riguarda i prodotti, le tecnologie applicate all’abbigliamento maschile, le strategie di mercato e le tecniche di Gianfranco Ferré, collezione uomo primavera-estate 2005 Brunello Cucinelli, 2000
  • 43. 43
  • 44. 44 vendita, a Milano, tra sfilate degli stilisti, show e presentazioni, si costruiscono in anticipo le atmosfere e le tendenze delle stagioni che verranno. E si consumano i riti che accompagnano le collezioni donna. Per Milano la moda maschile è stata forse ancora più importante di quella femminile, perché da subito più significativa di quella di Parigi: il debutto di Giorgio Armani, che reinventò il classico maschile, le performance di Moschino o il puro show, le bellissime collezioni di Ferré. C’era una grandissima energia. Anche con l’uomo, infatti, Milano si rivela subito città di grandi risorse e dall’insospettabile anima godereccia: nella Settimana di Milano Collezioni Uomo il fermento è soprattutto notturno, con rave party e serate fiume nelle discoteche. E sulla scia di questi entusiasmi l’industria dell’abbigliamento maschile diventa negli anni un business enorme. Conferma il sociologo Ugo Volli, uno dei promotori dei Master di Moda allo Iulm di Milano: ‘Nel mondo della moda maschile c’è stata effettivamente un’accelerazione notevole, non tanto nella grammatica estetica, quanto nell’organizzazione e nella presentazione dei prodotti di moda maschile, che hanno seguito riti e ritmi ben sperimentati dai modelli femminili’. Il nuovo avanza anche per l’uomo. Con un tocco eccentrico, narcisista, esibizionista e sexy. Che sia questa la nuova grammatica estetica del vestire maschile? Gianfranco Ferré conferma, ma fa dei distinguo: ‘Sono da sempre convinto che ciò che più inflaziona il pianeta moda è il nuovo a tutti i costi, che subito appare vecchio e superato. I valori classici dell’abbigliamento maschile sono punti imprescindibili di una formazione culturale non costretta in dogmi o categorie. Evoluzione nella continuità è una definizione che mi piace nella mia storia del fare cose per uomini ’. Sulle tendenze maschili, anche psicologi e sociologi trovano un campo fertilissimo dove confrontarsi. Il sociologo Francesco Morace, direttore di Future Concept Lab (Istituto di ricerca su progetti e prodotti del futuro), teorizza l’avvento del ‘terzo uomo’, che ricalca le caratteristiche della ‘troisième femme’, di cui parla il sociologo francese Gilles Lipovetsky. ‘Una figura maschile che non è più quella tradizionale e patriarcale, ma che non è neppure l’uomo che adotta modelli di comportamento femminili. È un maschio positivo e propositivo che ha scoperto la paternità ed è pacificato con la donna’. E su queste premesse conclude: ‘La moda diventerà pian piano intersex’.” Vittorio Solbiati, 1985
  • 45. 45 La moda e il disegno Il segno diventa il mezzo per trasformare l’idea in un vestito La realizzazione di un abito o uno stile è un fatto di mestiere e artigianalità. Nel mezzo c’è solo lui, il segno che ferma l’intuizione. Quella linea sottile che è già arte Nella Favalli, I tratti del genio, in “Milano è la moda”, n. 2, 2005 “La creatività, come ha detto Valentino, ‘è difficile da spiegare, è come una forza interna, un entusiasmo che non si spegne mai e che mi trasmette la forza di lavorare sempre in modo nuovo. Guardando le cose, le persone per strada, la fantasia cammina e l’idea prende corpo attraverso la matita’. La matita. Un accessorio fondamentale per chi crea moda (che sia lo stilista titolare o chi lo aiuta senza apparire). Perché se l’idea di un vestito nasce nella mente di uno stilista e segue percorsi che solo la sua fantasia riesce a riconoscere, il segno diventa il mezzo per trasformare in qualcosa di tan- gibile un’emozione. ‘Disegnare e fotografare la moda’, scrive Quirino Conti in Mai il mondo saprà – Conversazioni sulla moda (Feltrinelli), ‘equivale a interpretare, significare, esprimere e ricomporre le sue trame e le sue ragioni... È con l’umore del segno che l’illustratore perlustra e ispeziona, entrandovi dentro, le soluzioni simboliche di quelle costruzioni morbide, amplificandone e sostenendone le intenzionalità fino a renderle la sostanza imprescindibile di uno stile’. Infatti, disegno e fotografia a volte lavorano in perfetta sinergia. Basti pensare a quel genio dell’obiettivo, Cecil Beaton, che è stato non solo fotografo, ma anche diarista, scenografo, costumista e disegnatore di moda di grandissimo talento. Oppure a Karl Lagerfeld che gli abiti non solo li disegna, ma se li fotografa. Disegnatori straordinari ve ne sono stati e ve ne sono nel mondo della moda. Come dimenticare il tratto sicuro e ironico di Franco Moschino (avrebbe voluto fare il pittore, se la moda non lo avesse catturato) o quello vitale e colorato di Enrico Coveri? O quello straordinario di Gianfranco Ferré così affine al design e alla progetta- zione architettonica? Diversi gli stili quanto le loro creazioni. Le donne di Valentino, così sottili, proiettate verso l’alto, fanno pensare alle sculture di Alberto Giacometti. Mentre quelle di Alberto Lattuada raccontano di elegan- ze senza tempo, di signore sempre in viaggio tra Biarritz e la Costa Azzurra. Così come ancora diversi sono i disegni di Walter Albini che sapeva tradur- re in moda i propri innamoramenti culturali o di Chino Bert di rara grazia e
  • 46. 46 pulizia. Ma il tratto non è solo un fatto creativo. C’è un fenomeno che è stato soprattutto femminile di croniste armate di taccuino e matita, da Maria Pezzi, che usava il disegno come completamento dei suoi articoli, a Brunetta e Maddalena Sisto che hanno interpretato tic e tabù femminili con grazia e humour. Non è azzardato avvicinare il disegno di moda all’arte. Illustratori famosi l’hanno interpretata in modo personale. Così come già accaduto nel pas- sato. Fra i maestri del movimento futurista, Fortunato Depero e Giacomo Balla hanno nutrito interesse per l’abbigliamento, disegnando e realizzan- do abiti, cravatte, panciotti, borsette, cappelli in colori vivaci e contrastan- ti. Salvador Dalí per il quale ‘gli abiti rappresentano la personalità, la dupli- cazione dell’Io, dei suoi sogni e dei suoi desideri’, disegnò abiti e gioielli metafisici e surreali per Elsa Schiaparelli. Dal futurismo all’astrattismo, fino alle incursioni nella visual art, tutti si sono fatti incantare... La moda è una sirena alla quale è difficile resistere. Walter Albini (1941-1983). Dopo aver frequentato l’Istituto d’Arte disegno e moda di Torino, a 17 anni inizia a collaborare a giornali e riviste, con schizzi dalle sfilate d’alta moda da Roma e Parigi. Lui che vive (e disegna) come un personaggio di Francis Scott Fitzgerald, nel 1973 disegna una collezione che chiama Grande Gatsby e che avrà un ruolo significativo nel futuro della moda italiana. Disegnatore eccellente, si spegne appena quarantaduenne, lasciando un’indimenticabile lezione di stile. Senza aver mai ceduto all’ap- prossimazione, alla mediocrità, ai compromessi, alle costrizioni dettate dalle leggi di mercato. Giorgio Armani (1934). È protagonista assoluto nella straordinaria fioritura dell’alta moda pronta da Milano nel mondo. II suo successo riconosce un’in- venzione che ha captato desideri, conciliato bisogni opposti e ridisegnato in modo geniale un archetipo del vestiario sia maschile sia femminile, la giac- ca. Medico mancato, presenta nel 1974 la sua prima collezione maschile. Seguita nel 1975 da quella femminile. Un successo. Chino Bert (1932). Pseudonimo di Franco Bertolotti. Stilista e illustratore, ha lavorato per tutte le più importanti griffe e testate giornalistiche dalla fine degli anni cinquanta agli anni settanta. Dopo un viaggio a Hollywood, scom- pare: si è saputo poi del suo ritiro nel monastero benedettino di Santa Collezione Mani, 1983 (Disegno Giorgio Armani)
  • 47. 47 Scolastica. Diventa don Franco. Oggi dipinge per beneficenza. Pur dedican- dosi alla cura delle anime, don Franco si occupa ancora di arte e moda per aiutare e sostenere giovani talenti. Enrico Coveri (1952-1990). Segni particolari: i colori e il luccicare delle pail- lettes. E una moda che vuole trasmettere allegria, ottimismo, che è poi la sua stessa filosofia di vita. Sfila per la prima volta al Carré du Louvre a Parigi nel 1978. Un successo enorme. The Herald Tribune scrive: ‘C’è ironia e senso del colore, in una delle più belle collezioni presentate a Parigi’. Mentre ‘le paillettes’, commenta Le Figaro, ‘stanno a Coveri come le cate- ne a Chanel’. Enrico Coveri muore a 38 anni. Gianfranco Ferré (1944-2004). Architetto della moda, così lo hanno chiama- to – e lo è, non solo in senso accademico – per aver elaborato uno stile così affine al design e alla progettazione industriale ‘sempre cercando di non cadere nella trappola del troppo costruito o della semplificazione astratta’. La sua prima collezione, dopo aver disegnato e prodotto bellissimi accesso- ri, è del 1978. Un successo internazionale e l’inizio di una folgorante carrie- ra. Disegnatore straordinario, per le sue collezioni attinge emozioni dallo scambio di culture differenti e lontane in una magica gamma di interventi e di alchimie sulla materia. Krizia (1935). Nome d’arte di Mariuccia Mandelli. Sfila per la prima volta a Palazzo Pitti nel 1964 una collezione con la quale conquista il premio Critica della Moda. Dopo oltre 40 anni, ancora alla ricerca di un erede, la stilista continua a essere fedele al suo credo: fare un lavoro che l’appas- siona con caparbia dedizione e volontà di ferro. Si cimenta nell’uso di materiali innovativi e tecnologici che elabora in forme di draghi, libellule, conchiglie. Karl Lagerfeld (1938). È soprannominato il Kaiser, l’imperatore della moda, per le sue origini: una famiglia di ricchi industriali di Amburgo. Sin da ragaz- zo, rivela una grande passione e predisposizione per le arti, il gusto innato per il futile e la sua perizia nel disegno lo predestinano alla moda. Collabora con diverse maison, ma il suo spirito libero e inquieto lo porta a diventare stilista indipendente. Nel 1965 inizia la collaborazione con le sorelle Fendi per le quali disegna pellicce rivoluzionarie e una linea di abbigliamento. Prêt-à-porter donna autunno-inverno 1992-1993 (Disegno Gianfranco Ferré)
  • 48. 48 Seguono Chanel e la linea che porta il suo nome, oltre all’edizione di libri, la fotografia, l’antiquariato. Alberto Lattuada (1926). Illustratore e creatore di moda, si autodefinisce un buon dilettante in bilico fra le due professioni. È conosciuto per il suo spi- rito ironico e le battute corrosive, ma si dichiara fondamentalmente timido. Dai primi anni cinquanta, i suoi disegni appaiono su tutti i più importanti gior- nali femminili italiani e stranieri da Novità, Annabella, Grazia, Linea Italiana a Marie Claire e Women’s Wear Daily. Dal 1973 al 1990 studia i colori e illu- stra gli Album di Pitti Filati. Ha creato collezioni per molti marchi importan- ti. E sempre fedele al suo personaggio e al suo stile, crea ancora collezioni e insegna al Polimoda di Firenze. Franco Moschino (1950-1994). Moschino, che ha studiato Belle Arti all’Accademia di Brera, avrebbe voluto essere pittore, se gli inizi come illu- stratore per Gianni Versace non lo avessero istradato sulla via della moda. Nel 1983 debutta con la sua griffe, esplosivo mix di paradossi, contestazio- ne ed eleganza che denuncia, irride e sorride sugli eccessi del fashion system e la parossistica società dell’immagine degli anni ottanta. Un vero talento nel ‘fare moda’ che ha saputo sopravvivere alla sua morte dopo dieci anni di successi. Valentino (1933). All’anagrafe, Valentino Garavani. Ha 17 anni quando lascia Voghera per imparare la moda a Parigi. La velocità nello schizzare figurini gli vale subito l’assunzione da Dessès. Torna in Italia nel 1957. Il suo debutto avviene a Roma, in sordina. È un fiasco. Nel 1962 Valentino sfila per ultimo a Palazzo Pitti a Firenze. Un trionfo. ‘Gli americani impazziscono per questo italiano diventato re della moda in poco tempo’, scrive nel 1968 Women’s Wear Daily.”
  • 49. 49 Il primo disegno di Brunetta fu un branco di galline con borsetta e cappello: erano le signore d’Ivrea, sua città natale, a passeggio Minnie Gastel, In punta di lapis, in “Milano è la moda”, n. 2, 2005 “Sarebbe stata la prima vera giornalista-illustratrice della storia italiana, ma alla moda Brunetta si avvicinò quasi per caso, illustrando in quel suo modo stravagante nel 1925 dei modelli di Paul Poiret che le diedero notorietà internazionale, tanto che Diana Vreeland l’avrebbe voluta a Vogue Usa. Per tutti, Brunetta resterà la matita fulminante che commentò con i suoi schiz- zi, dal ’56 al ’76, Il lato debole de L’Espresso, la celebre rubrica in cui Camilla Cederna metteva alla berlina le smanie arrivistiche dei nuovi snob. Maddalena Sisto aveva una grazia indimenticabile: nel porsi, nel disegnare i suoi appunti di moda e costume, figurine femminili ironiche e surreali alle prese con l’ultima tirannia trendy. ‘Mi piace sorprendere i difetti, le imper- fezioni, i gesti che sfuggono all’aplomb controllatissimo delle mie simili’, diceva. Per questo aveva sempre con sé un quadernino dove fissava sulla carta velocemente le donne che incontrava per strada, alle inaugurazioni, Tartan, 2003 (Disegno Alberto Lattuada)
  • 50. 50 agli eventi mondani. Interpretò tic e tabù degli anni ottanta per molti gior- nali, tra cui Sette (ora Magazine del Corriere della Sera) dove illustrava la rubrica di Lina Sotis. Sempre con humour, mai con cattiveria. Per Maria Pezzi il disegno è stato, invece, un completamento dei suoi articoli per fis- sare linee, proporzioni, dettagli: niente di tecnico, ma schizzi di alta qualità; figurini sulle tendenze di moda che tessutai e ditte di confezioni si conten- devano ben prima che Maria Pezzi entrasse nel mondo della carta stampa- ta. Poi, apparvero sulla Domenica del Corriere, dove fu chiamata da Dino Buzzati, e sul Corriere d’Informazione di Gaetano Afeltra, a margine dei suoi articoli, spediti magari all’una di notte da Parigi, dopo una giornata ai défilés. I suoi disegni li ha conservati alla rinfusa, senza dar loro troppa importanza, sottotono come è sempre stato anche il suo stile di vita. Brunetta (1904-1988). Disegnatrice, illustratrice, pittrice. Brunetta Mateldi, nata a Ivrea, ha studiato Belle Arti all’Accademia di Torino e Bologna per tra- sferirsi poi a Milano. Pierre Cardin la stimava al punto da organizzarle una mostra a Parigi al suo Espace: ‘Non è solo un’interprete della moda, la ricrea letteralmente’, ha detto. E aveva ragione perché i suoi schizzi inchiodano ine- sorabilmente tutti i corsi e i ricorsi, le mutazioni, i furti in fatto di moda di tutti questi anni. Aveva quel che si dice ‘un caratterino’. Maria Pezzi (1908-2006). Un monumento della moda italiana, la si potreb- be definire. Se monumento non risultasse una parola troppo greve per una come lei, aperta a considerare con estrema lievità, grazia, acume e compe- tenza tutte le novità del secolo che ha attraversato, dal punto di vista della moda e dello stile. Cronista si è sempre definita lei stessa con modestia, raccontando con parole e schizzi un mestiere cominciato per caso a Parigi, incoraggiata dall’illustratore René Gruau che di Maria ne apprezza la facilità e l’efficacia nel disegno. Sempre in prima fila armata di taccuino e del suo straordinario intuito. Maddalena Sisto (1951-2000). Architetto, viaggiatrice, illustratrice, osser- vatrice appassionata del suo tempo. Catalogava, con ricercato e malizioso disordine i mille travestimenti femminili. Raccontando con i suoi disegni trent’anni di moda, design, costume e un mondo femminile che cambiava restando sempre lo stesso. Con un tratto sottile e delicato come la sua figu- ra. Del fatto che Maddalena disegnasse anche si stupivano tutti quelli che la Le metamorfosi, 1968 (Disegno Brunetta) I pois fanno allegria, 1984 (Disegno Maddalena Sisto)
  • 51.
  • 52. 52 conoscevano come giornalista all’inizio. Come se il fatto di scrivere – e bene – escludesse a priori il saper disegnare. Se ne è andata durante un fine set- timana, discreta e gentile come sempre. Ma il loro talento sta proprio in quell’attitudine a tradurre in immagini con- taminate (da Pop art, suggestioni surrealiste, fumetti, street style) di gran- de impatto il loro tempo. Il più noto è stato Antonio Lopez, in arte sempli- cemente Antonio, venuto da Portorico, studi a New York e Parigi sotto il patronage di Karl Lagerfeld e poi a Milano. Riempì del suo inconfondibile segno tutti i giornali e le riviste del mondo, dal New York Times a Elle, a Vogue. Anna Piaggi, che condivise con lui una famosa rubrica su Vanity, ricorda così l’integrazione di Antonio con il mood europeo: ‘Il sandwich che ne risultava era strepitoso. Uno strato di Antonio, hot e piccante, uno stra- to di Karl Lagerfeld, previsionale e mitteleuropeo, un pizzico di Andy Warhol, indispensabile fissatore chimico del periodo, una dose di Café Flore e Hotel Crystal...’. Più schivo fu Werner (vero nome Werner Bernskotter) che aveva un atelier di pittore a Parigi. Timido, discreto, raffi- nato, Werner fu la mano pittorica di Gianni Versace, colui che traduceva in immagini sontuose gli schizzi dello stilista: interpretava le collezioni donna e i suoi costumi per opere e balletti, dalla Salomé e Doctor Faustus messi in scena da Bob Wilson alla Scala, a Pyramide a Souvenir de Leningrade, con le coreografie di Maurice Béjart. I suoi limpidi acquerelli sono raccolti in libri e alcuni fanno parte della collezione di quadri di Gianni Versace. Oggi, c’è RubenToledo, la matita impertinente che accompagna, con la sua vignetta New York diary, la rubrica di Lina Sotis su Magazine del Corriere della Sera. Il suo tratto è essenziale e incisivo, la sua visione del mondo sur- reale: eleganti i suoi acquerelli per le City guides di Louis Vuitton, appunti di moda e lifestyle. Antonio (1943-1986). Nome d’arte di Antonio Lopez. Disegnatore e illu- stratore considerato tra i più grandi del Novecento. Al suo debutto, sul New York Times, su Women’s Wear Daily, su Vogue, per merito suo si rico- Gli illustratori di moda, quasi tutti, si sono sempre rimproverati di essere dei commercial artists e non pittori veri...
  • 53. minciò a usare il disegno per documentare la moda, scelta che sembrava definitivamente archiviata dalla fotografia. Portoricano, si trasferisce a New York nel 1961 per studiare alla High School of Industrial Design e al Fashion Institute of Technology. Inizia a lavorare nella stagione della Pop Art che lo influenzerà nel segno, nella composizione delle tavole. Ruben Toledo (1961). ‘Mia madre racconta che sono nato con la matita in mano. Sapevo disegnare prima ancora di saper parlare’, dice di sé Toledo. Pittore, illustratore, scultore, stilista, in perfetta sintonia con la moglie Isabel, nota stilista, che si definisce una sarta perché, dice, la moda biso- gna conoscerla dall’interno. Nato a Cuba, ha studiato alla School of Visual Arts di New York, città dove oggi vive. Ha collaborato e collabora con le maggiori riviste d’immagine del mondo da Town & Country a Details, da Interview a Uomo Vogue. Da Paper a Visionnaire. Werner. Si firmava così, ma il suo nome completo era Werner Bernskotter. Fu la mano pittorica di Gianni Versace, colui che interpretava e traduceva in immagini sontuose gli schizzi dello stilista. Discreto e raffinato, aveva un atelier di pittura a Parigi. Famosi sono i suoi bozzetti che riguardavano non solo le collezioni donna, ma anche e soprattutto l’attività teatrale di Versace per opere e balletti, messi in scena da grandi registi come Bob Wilson alla Scala o da famosi coreografi come Maurice Béjart.” Missoni, collezione autunno-inverno 1983-1984 (Disegno Antonio Lopez)
  • 54. 54 “Eppure all’inizio la fotografia di moda era considerata un’arte minore, come se il termine ‘foto di moda’ ponesse dei limiti. ‘Personalmente è una defini- zione che non mi piace, che la banalizza’, spiega Grazia Neri, presidente ed exhibition director dell’agenzia fotogiornalistica che porta il suo nome. ‘Per me, nata come reportage, la fotografia di moda, per istinto e mestiere, ha una magia particolare e valenze straordinarie. La guardo e vedo qualcosa che mi serve per sognare. Mi fa sentire un po’ come Madame Bovary... Ma non solo, la foto di moda rappresenta la contemporaneità dell’essere: vi sono immagini indelebili nella mia memoria realizzate da fotografi come Richard Avedon, Hiro, Irving Penn, John Rawlings (poco conosciuto, ma un vero genio), Bert Stern, che con il vestito, la modella, lo stile hanno saputo rac- contare in un’immagine la storia, il costume, lo spirito di un’epoca’. Con l’an- dare degli anni, la foto di moda si è trasformata in una raffinata e comples- sa operazione in cui sono entrate arte, talento, psicologia e capacità di anda- re oltre la realtà per arrivare al sogno. Ogni fotografo con la sua storia, la sua sensibilità, il suo modo di essere e di operare. ‘Una volta a Los Angeles’, ricorda Grazia Neri ‘mi trovavo al Chateau Marmont, un hotel dove scendevano tutti i più grandi fotografi, gli attori, le modelle. Helmut Newton e Annie Leibovitz stavano realizzando un servizio fotografico. La troupe di Helmut Newton era composta da tre persone. Mentre Annie Leibovitz aveva al suo seguito un numero infinito di assisten- ti, tecnici, stylist...’ Due modi certamente molto diversi di lavorare, un unico fine: catturare la magia di un momento, fermandolo per sempre con un click. Se si volesse dare una data alla nascita della fotografia di moda, si dovrebbe risalire alle prime decadi del Novecento quando, con la Repubblica di Weimar, Berlino diventò il centro di una ricca produzione di moda destinata ai mercati internazionali e, dunque, di una stampa all’altez- za delle esigenze industriali per impatto e immagine. Ma è sicuramente alla rivista di moda Vogue Usa fondata nel 1892 – che ini- Moda e fotografia Click-à-porter Niente riesce a parlare, a raccontare, ad alludere come una foto di moda: fantasmi e comportamenti, provocazione e gusto, stile, sesso, costume. Più di un vestito, più di una sfilata Nella Favalli, Click-à-porter, in “Milano è la moda”, n. 2, 2005 Dovima con gli elefanti, Cirque d’hiver di Parigi, 1955, abito Christian Dior (Fotografia Richard Avedon)
  • 55. 55
  • 57. 57 OlivieroToscani riprende se stesso e le modelle con abiti di Valentino in un servizio per il mensile “Moda”, 1985 (Fotografia OlivieroToscani)
  • 58. 58 zialmente utilizzava i disegni di Christian Bérard e George Lapade – che va il merito di avere lanciato la foto di moda con le immagini del barone Adolphe de Meyer nei primi anni del secolo. E successivamente quelle di fotografi che diverranno un mito come Cecil Beaton o George Hoyningen-Huene e Horst P. Horst. ‘La macchina fotografica è uno strumento ideale per imporre nuovi canoni estetici’ sostiene lo storico James Laver nel suo libro Women’s Dress on the Jazz Age. Una cosa che Horst apprende, insieme con l’arte del com- portamento mondano e i piaceri amorosi, proprio dal barone Hoyningen- Huene. Dall’incontro con questo maestro e con i mostri sacri della cultura del Novecento, da Jean Cocteau a Salvador Dalí a Man Ray, è derivato quel suo stile abbagliante e astratto che lo ha accompagnato per oltre sessant’anni. Solo negli anni cinquanta e sessanta, però, la foto di moda inizia a diventa- re un vero e proprio fenomeno di culto. Nelle immagini di Irving Penn, la fotografia di moda perde colonne, ornati, capitelli, saloni aulici e decori per privilegiare la geometria armonica della composizione, semplicissima per- ché essenziale. Basta rivedere la campagna che realizza per Gianni Versace negli anni novanta con Christy Turlington splendente di ricami, per capire che questo suo tocco magico, trent’anni dopo non si era esaurito. La stessa inesauribile vitalità ha animato Richard Avedon, che era già un grande nel secondo dopoguerra, quando realizza i reportages sulle collezio- ni di Parigi in un’atmosfera alla Ernst Lubitsch. ‘Se passa un giorno in cui non ho fatto qualcosa legato alla fotografia, è come se avessi trascurato qualco- sa di essenziale. È come se mi fossi dimenticato di svegliarmi’, diceva Avedon. È morto nel 2004 a 81 anni mentre lavorava a un reportage (altra sua grande passione) per il settimanale The New Yorker dedicato alle elezio- ni presidenziali e intitolato On Democracy. È con questo maestro della foto- grafia dagli occhi scuri e penetranti, che le belle addormentate della moda, le modelle, prendono vita, corrono, saltano, i capelli gonfi di vento. Con lui la foto di moda perde staticità per acquistare dinamicità. Uno stile che trove- rà in Gran Bretagna terreno fertile dove svilupparsi. Nella libertà gioiosa dei Sixties, ‘quando il successo era a portata di mano perfino per proletari come noi’, dice David Bailey che è stato protagonista conTerence Donovan e Brian Duffy di quel periodo generoso e stravagante. ‘Popcrazia’ fu definito in Inghilterra, dove la rigidità delle classi e le differenze sociali frenavano ogni tentativo di cambiamento e chi veniva dall’East End, la parte sbagliata di Londra, poteva sperare di emergere soltanto tirando pugni o, nella migliore delle ipotesi, suonando in una band. Questi fotografi non erano particolar- Entomologia, abito Thierry Mugler, in “Vogue Italia”, 1991 (Fotografia Alfa Castaldi)
  • 59.
  • 60. 60
  • 61. 61 mente interessati a quanto una modella rendesse elegante l’abito che indos- sava, ma piuttosto quanto l’abito rendesse seducente la modella. Il mood londinese di quegli anni era: divertirsi, fare sesso, fare soldi, avere ambizio- ni. Come magistralmente rappresentato in Blow Up, film cult di Michelangelo Antonioni. Una rivoluzione nel pensiero come nel look che lan- cia un glamour fresco, libero, senza distinzioni di classe. Da quel momento l’immagine della donna non sarà mai più la stessa. Alla fine degli anni sessanta un’ex modella francese, che si fa chiamare Sarah Moon e viene considerata la capostipite del genere ‘impressionista’, inizia a pubblica- re immagini di una dolcezza rarefatta di donne-bambine evanescenti dagli occhi cerchiati di nero, dai volti sbiancati. Citazioni surreali rese ancora più suggestive da un incredibile modo di stampare le foto, che venivano deterio- rate, maltrattate, sfumate perché, affermava l’artista, ‘mi piace che risultino precarie come gli attimi’. In netta contrapposizione allo stile di Helmut Newton, che della donna interpretava l’erotismo crudo, la voluttà incline al sadismo, l’istinto di sopraffazione, o alle immagini di sofisticatissima sempli- cità di Bruce Weber, che va in cerca di gente normale, facendola risplendere nei suoi ritratti come star di Hollywood. Registrando con l’obiettivo momenti di intima realtà, trasformando la quotidianità in qualcosa di assolutamente speciale. Senza ‘costruire le foto’, ma ‘cercandole’ per trovare quella vita che, hanno sempre sostenuto tutti, ‘è il contrario della moda’. Anche in Italia, con l’esplosione dell’editoria femminile e della moda, nascono e si affermano molti talenti. Tra i fotografi che hanno contribuito a fare la storia della moda, la rivista tedesca Stern nel 1978 cita Gian Paolo Barbieri che, come ebbe a dire di lui Giorgio Armani, ‘è tutta interpretazio- ne, è poesia fotografica: davanti a un abito da tradurre in immagine, è il Fellini della situazione’. Indimenticabili sono alcune immagini di grande suggestione di Ugo Mulas o di Alfa Castaldi che praticano la fotografia con precisione scientifica, fatta di approfondimento e di curiosità, accomunati dalla stessa passione per l’ar- te e dalle frequentazioni degli amici del Bar Giamaica a Brera, luogo di culto e di incontro dell’intellighenzia milanese dell’epoca. ‘C’è stata una grande trasformazione nella fotografia: ormai il gioco della moda è accessibile a tut- ti’, spiega Grazia Neri. ‘La foto di moda oggi deve integrarsi tra pubblicità e articoli. Un compito arduo per il fotografo, che deve rispondere al mercato, senza tuttavia rinunciare al desiderio estetico che ha in sé. Alcuni ce la fanno, altri non ce la faranno mai’. Krizia, collezione autunno-inverno 1987-1988 (Fotografia Giovanni Gastel)
  • 62. 62 Un compito difficile e un pericolo. Una campagna pubblicitaria per un brand di moda non rischia di limitare la creatività? Per Giovanni Gastel, che lavora utilizzando macchine del passato come vecchie Polaroid a soffietto, abbina- te a tecnologie del presente se non addirittura del futuro, ‘la bravura sta pro- prio nel trovare un linguaggio adatto a ogni stilista, differenziando lo stile e usando metodologie diverse per ognuno. Anche questa è libertà artistica’. Opinione condivisa da Bob Krieger, che alla sua attività di fotografo di moda abbina sempre più quella di ritrattista e che in una recente intervista ha dichiarato: ‘Se fai il fotografo di moda, devi interpretare la moda, non fare la moda. Il compito è quello di esaltare ciò che lo stilista crea. Lo stilista non fa fotografie (se si esclude Karl Lagerfeld, ndr), non fa immagini, ma crea abiti. È questa la funzione del fotografo che, per un certo verso, è un po’ truffatore perché fa sembrare tutto straordinariamente bello’. Innumerevoli sono gli stili che hanno caratterizzato la foto di moda di que- ste ultime decadi. Se gli anni ottanta sono stati una celebrazione dell’edo- nismo e del materialismo, gli anni novanta hanno rappresentato quelli dello stile minimalista, anoressico, trasandato per il quale negli Stati Uniti è stato addirittura coniato il termine ‘eroin chic’ perché voleva modelle pal- lide e stralunate, con gli occhi segnati, per vero o per finta, da vizi e tra- sgressioni e location al limite dello squallore totale. Oggi la produzione di foto di moda è troppo vasta per tentare di farne una sin- tesi per immagini. Tende a seguire strade diverse: più commerciali o più arti- stiche, espandendo i propri confini tra moda, pubblicità e arte, estendendo la ricerca al digitale e allaVisual Art sino ad arrivare a raccontare realtà che di volta in volta sono viaggi nella memoria e nella cultura sino a calarsi in situazioni crude, persino drammatiche, del quotidiano. Quella della foto di moda è una storia che si sta ancora scrivendo. Nomi come Patrick Demarchelier, Peter Lindbergh, Mario Testino, Arthur Elgort, Michel Comte, Steven Meisel, Paolo Roversi, Jürgen Teller, Aldo Fallai, Maria Vittoria Backhaus,ToniThorimbert, senza ovviamente dimenticare OlivieroToscani che ha sperimentato strade diverse, applicando a tutte il suo stile inimitabile (e il suo carattere ombroso pure... Perfino Anna Wintour, direttore di Vogue Usa, ricorda di quando la fece piangere non parlandole mai sul set. Secoli fa natu- ralmente), e molti altri ancora, continueranno a raccontarla attraverso i loro obiettivi, che non si limitano a fissare solo immagini. Nei loro scatti, c’è provo- cazione, stile, sesso, costume. E la sintesi di tutte le donne sognate dagli uomini. Ma anche il vestito. Che non esisterebbe se non fosse fotografato.” Moschino Couture!, 1988 (Fotografia Fabrizio Ferri)
  • 63. 63
  • 64. 64 Servizio di moda, 1970 (Fotografia Oliviero Toscani)
  • 65. 65 Moda e business L’impatto economico, commerciale e fieristico Tutelare, coordinare, diffondere, controllare e potenziare l’immagine dello stile italiano in patria e all’estero. Non sono cambiati di molto, a quarant’anni dalla costituzione, gli obiettivi dell’associazione. Come non sono cambiate le pressioni per accedervi Nella Favalli, La Camera nazionale della moda: il potere della lobby, in “Milano è la moda”, n. 1, 2004 “L’11 giugno del 1958 a Roma, presso il Grand Hotel, viene costituita la Camera Sindacale della Moda Italiana, antesignana di quella che in seguito diventerà la Camera Nazionale della Moda Italiana. Un’associazione senza scopo di lucro nata allo scopo di coordinare, tutelare, disciplinare e incenti- vare l’immagine e lo sviluppo della moda italiana, sia nei confronti delle isti- tuzioni, sia in quelle delle altre associazioni nazionali ed estere, con partico- lare riferimento alle manifestazioni di moda individuali e collettive che ave- vano luogo in Italia e all’estero. Lo statuto originario è composto di 35 arti- coli, che regolamentano l’Associazione e i suoi organi: l’Assemblea, il Consiglio Direttivo, il Comitato Esecutivo, la Presidenza e il Collegio dei Revisori. Il primo presidente è Giovanni Battista Giorgini. Ricorda Amos Ciabattoni, primo segretario generale della Camera Nazionale della Moda e suo fondatore: ‘A Giovanni Battista Giorgini e alla Sala Bianca di Palazzo Pitti va riconosciuto il merito di aver dato un inizio prestigioso alla nascente moda italiana e al Centro Moda di Roma il merito di averle dato l’as- setto organizzativo sul quale tuttora poggia il settore’. Nel corso di pochi anni la Camera Nazionale della Moda Italiana raggiunge traguardi significativi: l’ac- cordo alta moda-industria tessile, che porta risorse finanziarie pubbliche e pri- vate nei bilanci delle aziende; le iniziative promozionali all’estero del ministe- ro del Commercio estero e dell’Ice; l’organizzazione di un calendario naziona- le delle manifestazioni di moda in Italia, per mettere fine alle guerre tra Roma, Firenze,Torino e Milano, ma anche l’accordo per la suddivisione tra le stesse città delle manifestazioni promozionali e mercantili dei diversi comparti: a Roma l’alta moda; a Firenze la moda pronta (poi sostituita con la moda maschile); a Milano il prêt-à-porter e il tessile; a Torino l’abbigliamento indu- striale; a Bologna la calzatura e la cosmetica; a Napoli (Capri) la moda mare. Diventa subito chiaro che la forza della Camera proviene soprattutto da Milano, subito assurta a città ideale per le fortune della moda italiana, Mario Boselli, 2010