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LA PROPRIETA’ INTELLETTUALE 2.0: I CREATIVE COMMONS

“Penso che ciò di cui siamo testimoni sia una reale e tangibile manifestazione del WE, visto
che oggi possiamo abilitare gamme di gruppi molto più varie alla creazione, condivisione e
celebrazione della propria creatività o del proprio attivismo, più di quanto sia mai stato
possibile in precedenza. Questo è diventato il focus centrale di ciò che è interessante nelle
nuove tecnologie, da un punto di vista accademico – come nel lavoro di personaggi come
Yochai Benkler – ma anche politico, come nella campagna elettorale di Obama, che ha
mostrato l’enorme potenziale dei gruppi di attivisti oggi abilitati”.
Lawrence Lessig, fondatore di Creative Commons.

Il manifestarsi del WE è diventato anche il focus centrale della dottrina in merito alla
regolamentazione del diritto d’autore e del diritto della proprietà industriale. Infatti, la
rivoluzione telematica e comunicativa ha creato un nuovo soggetto collettivo, il “WE”
appunto, termine introdotto dalla letteratura contemporanea sulle nuove forme di socialità
ed economia web based: oggi ogni utente è insieme client e server, parte attiva e parte
passiva allo stesso tempo del sistema di informazione e comunicazione. Le pratiche di file
sharing hanno di fatto introdotto un nuovo modello di produzione dei contenuti e della
conoscenza, il modello “common based peer-to-peer” 1. Con questo modello socio-
economico si perdono dunque le tradizionali dicotomie tra le fonti della comunicazione
(emittente e ricevente) e della produzione di opere (autore e produttore/editore). S’impone
dunque una riflessione sui principi giuridici che tradizionalmente regolano i rapporti
contrattuali che insorgono con la creazione di un’opera multimediale.

        Simone Aliprandi, nel suo libro “Capire il Copyright” 2 presenta le opinioni autorevoli
(più o meno condivise) degli studiosi del diritto in merito alle nuove problematiche
giuridiche, che sono riconducibili a tre fattori.
Innanzitutto il conflitto con le libertà fondamentali dell’individuo garantite dagli articoli 21 e
15 della Costituzione italiana. Il web ospita infatti pagine wiki, blog e forum in cui gli utenti
producono contenuti e vere e proprie opere (si pensi all’enciclopedia collettiva “Wikipedia”),
si scambiano informazioni e commenti come in una nuova forma di comunicazione
epistolare. Appare dunque evidente il conflitto tra la giurisdizione del diritto d’autore e della
proprietà industriale e la questione relativa ai diritti personali di espressione, accesso alla
cultura e all’informazione (art. 21 Cost.); e al diritto all’inviolabilità della corrispondenza e
comunicazione tra privati cittadini (art. 15 Cost.).
In secondo luogo, si pone una problematica di natura socio-culturale: il tessuto sociale
infatti non percepisce come illecito la consuetudine, ormai radicata ed economicamente




1
  Termine introdotto da Yochai Benkler, docente alla Harvard Law School; ha coniato il termine “common
based peer production” per designare un nuovo modello economico basato sulla collaborazione orizzontale,
tra pari, possibile grazie alla Rete.
2
  Simone Aliprandi è un avvocato dedito ad attività di consulenza, formazione e ricerca nell'ambito del diritto
d'autore e più in generale del diritto dell'ICT. Dal 2005 è fondatore e responsabile del Progetto Copyleft-
italia.it. Il suo libro “Capire il Copyright. Percorso guidato nel diritto d’autore” è disponibile all’indirizzo
http://www.copyleft-italia.it/images/stories/documenti/Aliprandi_capirecopyright.pdf
vantaggiosa per le parti, di scambiare file in rete. Lo scambio di file è parte delle nuove
forme di relazione dette “social networking”.
Infine, un’ulteriore problematica per la regolamentazione delle nuove forme di produzione
creativa e innovativa è di natura puramente tecnico-giuridica e consiste nell’inesistenza di
sistemi centrali da colpire. In una pagina wiki, come in una community è infatti difficile
individuare il soggetto che ha effettivamente violato il diritto. In altri sistemi giuridici, come
quello statunitense, è per questo previsto un generico obbligo di vigilanza a carico del
server provider sul traffico di file protetti da copyright.
        Se aggiungiamo alla perdita delle tradizionali dicotomie che consentono
l’attribuzione della paternità di un’opera la perdita della materialità del supporto con cui
l’opera circola – che è la condicio sine qua non per la brevettabilità, appare evidente la
necessità di ricerca di vie alternative per la tutela dell’autorialità. Infatti, la possibilità di
digitalizzare un file elimina di fatto la necessità di procedimenti industriali per la
duplicazione e diffusione dell’opera. Ciò introduce un’ulteriore problematica, legata alla
perdita dei confini geografici entro cui un’opera circola: infatti, essendo digitale ed
estremamente malleabile, un’opera può circolare attraverso il web raggiungendo
rapidamente tutti i mercati mondiali. Se ne deduce la necessità di armonizzare le norme
comunitarie in fatto di tutela e protezione dell’opera.
Piuttosto che combattere in modo repressivo la diffusione incontrollata di un’opera,
Aliprandi e parte della dottrina propongono nuovi modelli di regolamentazione che tendano
all’elasticità del sistema giuridico in materia di diritto d’autore e diritto della proprietà
industriale. Questa filosofia di pensiero si concentra sulla possibilità di CONSENTIRE
ALCUNI UTILIZZI dell’opera originale piuttosto che vietarli, come si vedrà in seguito.

        E’ importante evidenziare a questo punto la differenza ontologica tra il diritto
d’autore e brevetto. Spesso questi vengono erroneamente confusi, ma è bene chiarire che
si tratta di due strumenti di tutela ben distinti, con differenti caratteristiche e diversi campi
d’applicazione. Basti dire che il diritto d’autore attiene alla sfera delle opere dell’ingegno,
mentre il brevetto attiene alle invenzioni industriali.
Tuttavia in questa sede si parla di una revisione delle due fonti del diritto d’autore (normato
ai sensi della Legge n.633 del 1941, di seguito LDA, che fa riferimento al codice civile) e
della proprietà industriale (diritto dei marchi e brevetti, riuniti in un solo codice mediante
Decreto legislativo n. 30 del 2005) perché nel caso delle opere digitali talvolta tali fonti
sembrano sovrapporsi. E’ il caso delle banche dati elettroniche, del design industriale e del
software. Proprio il dibattito della giurisprudenza in materia di software ci permetterà di
introdurre le nuove licenze d’uso GPL (General Public License) e il modello Copyleft.

       La prassi della tutela giuridica per software non si è sviluppata con la nascita degli
stessi, bensì sono stati i crescenti interessi economici attorno al mercato dei software – a
partire dalla fine degli anni settanta – a imporre l’attenzione della giurisprudenza sul tema.
Fino ad allora, le aziende di informatica si servivano per la tutela dei meccanismi
tradizionali del diritto industriale, facenti capo ai due diversi modelli del diritto d’autore e
del brevetto. Infatti si tratta di opere atipiche che racchiudono requisiti di entrambe le
categorie: opere artistico letterarie e invenzioni tecnico industriali.
Dunque le aziende produttrici di software invocavano la Legge sul diritto d’autore per il
carattere creativo dell’opera – requisito base per l’applicazione della tutela dell’autorialità
(art. 1 LDA, comma I). Tale requisito della creatività è scomponibile in due concetti:
originalità e novità.

    -   Originalità: l’opera deve essere frutto di un particolare lavoro intellettuale e deve
        riflettere l’impronta della personalità dell’autore 3;
    -   Novità oggettiva, intesa come novità degli elementi essenziali e caratterizzanti che
        oggettivamente distinguono un’opera da altre dello stesso genere; il requisito della
        novità soggettiva invece richiede che l’opera rispecchi l’individualità culturale e
        creativa dell’autore 4 .

Il diritto d’autore si origina quando nasce l’opera e non è soggetto ad una procedura
amministrativa di concessione. Il software è però non solo un’opera dell’ingegno di
carattere creativo, ma è anche un’opera destinata alla soluzione di problemi tecnici; in tal
senso presenta il requisito della funzionalità (o applicabilità industriale) e potrebbe
invocare la brevettabilità. Infatti il diritto d’autore tutela solo la forma espressiva di
un’opera 5 e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti matematici –
che sono alla base della creazione di un software.

Ai sensi dell’art.45 e seguenti, sezione IV del Codice della proprietà industriale, le
condizioni per la brevettabilità sono la novità, l’originalità, l’applicabilità industriale, la
liceità.

    -   Novità: l’invenzione non deve essere compresa nello stato della tecnica; per stato
        della tecnica s’intende “tutto ciò che è stato reso accessibile al pubblico nel
        territorio dello Stato o all’estero prima della data del deposito della domanda di
        brevetto” (art 46, comma I);
    -   Originalità: l’invenzione non deve risultare ovvia agli occhi di un tecnico esperto del
        settore;
    -   Applicabilità industriale: l’invenzione deve essere sfruttabile ai fini pratici;
        un’invenzione è considerata atta ad avere un’applicazione industriale “se il suo
        oggetto può essere fabbricato o utilizzato in qualsiasi genere di industria” (art. 49,
        comma I);
    -   Liceità: l’invenzione non deve essere contraria all’ordine pubblico e al buon costume
        (art. 50, comma I, II).




3
  Si precisa che non è richiesto un grado specifico del requisito di originalità; a tal proposito, la Corte di
Cassazione si è dichiarata con la sentenza n. 175 del 23/01/1969.
4
  E’ chiaro il conflitto con le pagine wiki, in cui non c’è un solo autore e l’opera è frutto della collettività; in
questo caso la dottrina riconduce tali opere agli schemi dell’opera collettiva, di cui all’art. 3 LDA in cui
vengono definite come opere collettive quelle “costituite dalla riunione di opere o di parti di opere, che hanno
carattere di creazione autonoma, come risultato della scelta e del coordinamento ad un determinato fine
letterario, scientifico [...] o artistico”.
5
  intesa come forma interna, cioè la struttura espositiva dell’opera; e forma esterna, cioè la forma con cui
l’opera appare nella sua versione originale.
Dunque, non costituiscono oggetto di brevettazione le idee astratte, scoperte, teorie
scientifiche, modelli matematici; mentre costituiscono oggetto di brevettazione i risultati
che derivino da quanto precedentemente elencato, i nuovi procedimenti industriali e
prodotti chimici e farmaceutici (infatti, l’art. 46 specifica al comma IV che le precedenti
disposizioni “non escludono la brevettabilità di una sostanza o di una composizione di
sostanze già compresa nello stato della tecnica, purchè in funzione di una nuova
utilizzazione”).
         Il caso della tutela di un software è chiaramente controversa. Ad oggi la rilevanza
dei requisiti di creatività e originalità tipici del diritto d’autore prevale sulla peculiarità della
vocazione funzionale del software. Questo tipo di approccio è stato sancito per la prima
volta nel 1980, negli Stati Uniti, con l’emanazione del “Software copyright Act”. In questo
caso il legislatore ha scelto arbitrariamente quale disciplina applicare al software. Per
l’Italia si è dovuto attendere la direttiva europea n. 91/250/CEE, del 1991, che reca l’intento
di armonizzare le norme comunitarie in fatto di protezione di software. In tale direttiva si
invitano pertanto gli stati membri ad applicare al software la normativa del diritto d’autore.
La direttiva comunitaria viene recepita nell’ordinamento italiano con Decreto legislativo n.
158/1992, intervenuto a modificare la legge sul diritto d’autore con l’introduzione della
Sezione VI al Capo III della LDA titolata “Programmi per elaboratore”. Il legislatore dunque
ha riconosciuto il software come opera dell’ingegno, e con la ratifica della direttiva
comunitaria, è stata riconosciuta allo stesso anche una tutela di carattere penale.

        Tuttavia, parte della giurisprudenza e della dottrina sono andante avanti con la
proposta di brevettazione del software. Infatti, mentre è possibile ottenere un brevetto per
l’hardware che permette una determinata funzionalità, non è possibile fare altrettanto per
il software né accogliere le richieste di tutela per le invenzioni create per suo tramite. In
questa sede appare importante ricordare che alcuni diritti riconosciuti dalla LDA
verrebbero, a parere del Comitato economico sociale europeo (CESE) 6, messi in forse a
seguito dell’approvazione della direttiva sulla brevettabilità delle invenzioni attuate tramite
programmi per elaboratori. Ci si riferisce ai diritti di effettuare copie di riserva per lo studio
e l’uso del programma, e per “decompilare” il programma al fine di assicurare
l’interoperabilità con altri programmi (artt. 64 ter, quater della LDA). Come giustamente
osservato dal CESE l’eventuale applicazione del regime giuridico dei brevetti vieterebbe
talune azioni (come, appunto, la copia di riserva o la copia per assicurare l’interoperabilità)
che invece sono state riconosciute lecite proprio dalla Direttiva 91/250/CEE. Di seguito si
esamina la questione.

        La proposta di direttiva COM (2002) 92, fu presentata da Arlene McCarthy della
Commissione giuridica per il mercato interno del Parlamento europeo nel 2002, e
trasmessa al Consiglio ed al Parlamento europei. L’invito della McCarthy era quello di
adottare una “common position” sulla proposta finalizzata alla formalizzazione di una
direttiva sulla “brevettabilità di invenzioni attuate per mezzo di elaboratori informatici”,
ovvero le cosiddette “computer implemented inventions”. La proposta ha destato



6
 Il CESE ha una funzione consultiva. Esso viene definito come “il luogo di espressione della società civile
organizzata a livello europeo”.
immediato dibattito, “addebitabile al timore di vedere confuso l’ambito d’azione e di tutela
della disciplina del diritto d’autore con quella brevettuale, e più in concreto il rischio di
vanificazione di determinate esenzioni accolte dal diritto d’autore” – sottolinea l’avv. Marina
Benassi 7.
        La Commissione europea non ha ignorato la problematica sopra esposta
evidenziando nella relazione alla proposta di direttiva che: “Né è probabile che la
realizzazione di una copia di riserva nel contesto dell’utilizzazione autorizzata di un brevetto
riguardante un elaboratore programma o l’esecuzione di un programma possa essere
considerata una violazione.” È ovvio che la previsione semplicistica di “improbabilità della
violazione” non risponde ai criteri di certezza giuridica. Peraltro, questo obiettivo non
sembra essere stato perseguito dallo stesso art. 6 del progetto di direttiva che fa salve le
facoltà riconosciute dalla direttiva 91/250 relativa alla tutela giuridica dei programmi per
elaboratori mediante il diritto d’autore. Nel sopraccitato art. 6, infatti, vengono
espressamente richiamate le disposizioni relative alla decompilazione ed
all’interoperabilità. Il CESE ha aspramente criticato l’art. 6 accusando la Commissione di
aumentare la confusione poiché sembra conservare il regime giuridico del diritto d’autore
per i programmi che attuano le invenzioni ed hanno un carattere tecnico e, per un altro
verso, integra queste disposizioni con quelle del regime dei brevetti.
A voler disaminare attentamente la Direttiva l’obiettivo sarebbe proprio quello di conferire
alle invenzioni attuate tramite programmi per elaboratori la duplice tutela offerta sia dal
sistema brevettuale che da quello del diritto d’autore. Si tratterebbe, osserva l’Avv. E.
Olimpia Policella, di una tutela di tipo cumulativa ”poiché il medesimo atto potrebbe, per un
verso violare il codice sorgente protetto dal diritto d’autore e, per altro verso, violare le idee
ed i principi di base rivendicati con il brevetto. Si aggiunga che l’insussistenza di un obbligo
di depositare il codice sorgente per ottenere il brevetto potrebbe scatenare in Europa,
come già verificatosi negli USA, una crescita esponenziale dei procedimenti giudiziari per
contraffazione con quel che ne conseguirebbe soprattutto in capo alle PMI che non
potrebbero coprire i costi delle perizie necessarie per la risoluzione della controversia” 8.

       Tuttavia i programmi per elaboratore ed i metodi commerciali (i cd. “business
methods”) non sono ricompresi nella tutela offerta dalla direttiva proposta. Infatti,
l’estensione della tutela si basa – ancora una volta – sul concetto di “contributo tecnico”
quale conditio sine qua non per la brevettabilità 9. Nel sistema giuridico statunitense,
invece, non si esige tale requisito e si lascia aperta la strada per la brevettazione anche dei
metodi commerciali. Quindi la succitata proposta non prevede alcun tipo di possibilità di
brevettazione a favore di programmi per computer considerati separatamente
dall’apparato che li supporta (hardware). In tal modo, si apre un dibattito anche sulla
contraddizione tra i contenuti della direttiva e la Convenzione sul brevetto europeo (di


7
  M. Benassi, “La faticosa strada verso un accordo sul brevetto sulle invenzioni attuate per mezzo di software”
su www.altalex.com.
8
  E. Olimpia Policella, “Il tormentato cammino del brevetto sul software” su www.diritto.it.
9
  Tale paradigma del contributo tecnico è tipicamente un prodotto europeo, largamente riconosciuto ed
applicato nella giurisprudenza degli stati membri. Implica che l’invenzione attuata per mezzo di elaboratori
elettronici, onde adire alla tutela garantita dalla direttiva, debba apportare “un contributo tecnico allo stato
dell’arte” e rappresentare pertanto un valore aggiunto rispetto al “mero” programma per elaboratore, onde
adire alla tutela garantita dalla direttiva.
seguito CBE) del 5 ottobre 1973 (più nota come Convenzione di Monaco) 10 la quale esclude
espressamente il software dalle opere brevettabili (art. 52). La non brevettabilità del
software risente del pregiudizio secondo cui il software, al pari dei metodi matematici e dei
piani intellettuali, non può avere carattere tecnico. In particolare, nel paragrafo 3 dell’art.
52 CBE si escludono espressamente dalla brevettabilità i programmi per elaboratore “in
quanto tali". Eppure la proposta COM 92 pretende la brevettabilità di “invenzioni attuate per
mezzo di elaboratori”. All’art. 2 della proposta la Commissione definisce tale tipo di
invenzione come “un’invenzione la cui esecuzione implica l’uso di un elaboratore, di una
rete di elaboratori o di un altro apparecchio programmabile e che presenta a prima vista
una o più caratteristiche di novità che sono state realizzate in tutto o in parte per mezzo di
uno o più programmi per elaboratore”. Tale definizione ha incontrato aspre critiche da
parte del CESE (e non solo). Infatti, è stato evidenziato che il concetto di “rete” non viene
precisato e che, pertanto, potrebbe trattarsi di internet. Ne deriverebbe la possibilità di
brevettare invenzioni effettuate su internet che possono, ovviamente, coincidere
unicamente in un software! (Ed ecco, la contraddizione con la CBE).
        Ci sono dunque allarmanti contraddizioni in essere alla stessa relazione introduttiva
della proposta di brevettabilità delle invenzioni attuate tramite software. Ciò avvalora la tesi
del CESE secondo cui è tecnicamente impossibile distinguere tra cosa sia un programma
per elaboratore in quanto tale e cosa sia un software che produce un effetto tecnico:
questa differenza sarebbe di mera creazione giurisprudenziale. Le critiche del CESE
accolgono i clamori che tale proposta di direttiva ha suscitato immediatamente nel mondo
informatico, rappresentato soprattutto da PMI e da associazioni che sostengono lo sviluppo
del software. Difatti, ancor prima della presentazione della proposta da parte della
Commissione il mondo informatico aveva avviato nel 1999 una petizione al Parlamento
europeo (petizione avviata da EuroLinux Alliance insieme ad aziende e associazioni open
source europee) che richiedeva il rispetto dell’art. 52 della CBE condannando
pubblicamente la condotta dell’Ufficio europeo brevetti che continuava ad abusare del suo
potere discrezionale per estendere il campo di applicazione dei brevetti. Infatti, non solo dal
punto di vista giuridico l’approvazione della proposta di brevettabilità per le invenzioni
attuate tramite elaboratore costituirebbe il primo passo per la disapplicazione dell’art. 52
CBE. Ma tale approvazione comporterebbe anche un rischio economico tangibile per le PMI
che, a causa degli alti costi attualmente previsti per i brevetti, potrebbero di fatto vedersi
relegate in nicchie di mercato o costrette ad accettare l’assorbimento da parte dei “grandi”
dell’informatica. La dannosità dei brevetti per il mercato sarebbe dimostrata da diversi
esempi tra cui si ricordano:
    - il caso di Amazon.com che ha ottenuto un brevetto su tecnologie esistenti correlate
        alla carta di credito, vale a dire dei link, dei cookies e dei browser costringendo
        l’azienda rivale (la sconosciuta Barnes & Noble) a ridimensionare notevolmente la
        sua attività;
    - i brevetti Internet attribuiti dall’USPTO, ma anche dall’UEB, su metodi banali come il
        One-click, le aste online o la pubblicazione di una database in rete;



10
  La Convenzione di Monaco è stata ratificata in Italia dalla Legge n. 260 del 26 maggio 1978 che, all’art. 1, ha
previsto la ratifica e l’esecuzione di diversi atti internazionali disciplinanti la materia brevettuale. Il contenuto
dell’art. 52 della CBE, invece, è stato riprodotto nel nostro ordinamento giuridico dall’art. 7 del DPR 338 del
22 giugno del 1979 che ha modificato l’art. 12 del R.D. n. 1127 del 29 giugno 1939 recante disposizioni
legislative in materia di brevetti per invenzioni industriali.
-   ed ancora i brevetti su tecniche informatiche ovvie come la correzione di un
         documento tramite l’uso di colori aggiuntivi diversi.

In sostanza, l’approvazione della proposta di direttiva sulla brevettabilità delle invenzioni
attuate tramite elaboratore favorirebbe unicamente le grandi imprese che potrebbero
sopportare i costi del brevetto, gli uffici legali esperti in tutela della proprietà intellettuale e
lo stesso Ufficio brevetti, considerato che il rilascio dei brevetti costituisce fonte di reddito
per lo stesso 11. Sarà pertanto necessario effettuare ulteriori approfondimenti in materia.

       Intanto, proprio dal mondo dell’informatica e della cultura open source arrivano
proposte per una regolamentazione più elastica dell’autorialità rispetto ai nuovi contenuti
prodotti (anche – e soprattutto – collettivamente) in rete. Il mondo informatico ha infatti
preso atto – forse con più convinzione della dottrina e della giurisprudenza – della crisi
dell’impostazione classica rispetto al diritto d’autore, tradizionalmente basato sul principio
dello “ius excludendi alios” per cui tale diritto è di tipo esclusivo. Tale principio di
esclusività risulta di difficile – se non impossibile – applicazione nel complesso mondo
della cultura attuale. Ciò richiede un ampliamento del campo d’interesse per il diritto
d’autore alla musica, video, DVD, CD-Rom, documenti elettronici e opere multimediali
caratterizzate dall’interattività.
       Il modello giuridico tradizionale per le opere dell’ingegno è “tutti i diritti riservati”. In
tal modo si determina un totale controllo della creatività, in contraddizione con la natura
del mondo digitale, aperto. Ma l’autore dell’opera può disporre dei propri diritti, decidendo
anche di cederli.

        E’ attraverso la cessione dei diritti che si compone l’intero tessuto dei rapporti
contrattuali sull’utilizzo e sfruttamento economico (che sono materia del Diritto Civile).
Risulta in questa sede interessante passare in rassegna la storia evolutiva del diritto
d’autore che fa capo a due diverse concezioni.
L’una, di matrice francese, trova il suo seme nei sistemi di droit d’auter e viene adottata nei
sistemi giuridici di Civil Law. Questa impostazione prevede in capo all’autore un ampio
fascio di diritti: infatti, l’autore può conservare un controllo sull’opera anche dopo
un’eventuale cessione dei diritti patrimoniali. I diritti patrimoniali sono di natura esclusiva,
sottoposti al principio dell’esaurimento (cioè il diritto si esaurisce con l’immissione sul
mercato di copie legittime dell’opera); durano tutta la vita dell’autore e sino al 70° anno
dopo la sua morte 12. Ma i sistemi di Civil Law riconoscono all’autore anche diritti morali: in
questo caso si tratta di diritti perpetui (passano agli eredi dopo la morte dell’autore),
incedibili e indisponibili. Infatti la LDA all’art. 142 dispone che l’opera possa essere anche
ritirata per “gravi ragioni morali”.
L’altra concezione del diritto d’autore è invece di matrice anglosassone e americana, trova
il suo seme nei sistemi di Copyright ancora in vigore nei sistemi giuridici di Common Law.



11
  In effetti, la proposta di direttiva non farebbe altro che “legittimare” l’operato dell’Ufficio brevetti europeo
che sembrerebbe aver concesso, sino ad oggi, già 25.000 brevetti ad invenzioni basate su programmi per
elaboratori o a programmi per elaboratori in quanto tali.

12
  In caso di opere in comunione si fa riferimento alla data di morte dell’ultimo dei co-autori; in caso di opere
collettive la durata dei diritti patrimoniali spettante a ogni collaboratore si determina sulla vita di ciascuno.
Questa seconda impostazione è rivolta alla tutela del diritto di riprodurre e distribuire sul
mercato copie di un’opera; si tratta di una forma di tutela “ante omnia” in favore del
soggetto commerciale che si preoccupa di investire sulla commercializzazione dell’opera.
        All’origine del diritto d’autore vi è dunque l’intenzione comune alle due impostazioni
di funzione di incentivo della produzione culturale; tale incentivo viene poi concretizzato a
seconda dei sistemi giuridici di riferimento attribuendo maggiori prerogative
all’editore/produttore – dando maggiore rilievo al lato industriale del fenomeno di
produzione dell’opera, o all’autore. Attraverso strumenti di diritto internazionale si procede
costantemente ad un’opera di avvicinamento reciproco tra le due concezioni Civil e
Common Law.
In questo senso, la nascita dei Creative Commons può essere vista come un tentativo –
nato dal basso – di armonizzare i sistemi giuridici internazionali per favorire la circolazione
delle opere d’ingegno nell’era dell’iperconnessione digitale. Così, da una prassi nata in
ambito informatico negli anni ottanta per i software e la documentazione tecnica 13, è nato il
modello del Copyleft ampliato all’ambito delle opere artistico-espressive e basato sulle
licenze Creative Commons (Creative Commons Public License, di seguito CCPL).

         Si è già detto che la legge riconosce al creatore di un’opera dell’ingegno (titolare)
una serie di diritti; e permette al titolare di disporne mediante licenza. Dunque la licenza è
uno strumento (da non confondersi con la fonte dei diritti che sorgono grazie alla legge) per
disporre dei diritti d’autore attraverso la quale il titolare (detto licenziante) concede o meno
alla controparte (licenziatario) alcuni diritti.
         Nel 2001 nasce una nuova forma di licenza: la CCPL. Si tratta di un tipo di licenza
che concede l’attribuzione dei diritti sull’opera alla controparte, che può essere identificata
in un qualunque fruitore dell’opera. Le CCPL vengono create negli Stati Uniti
dall’associazione no-profit Creative Commons - nata con l’ambizione di realizzare un diritto
d’autore più flessibile per opere creative. Le CCPL sono state recepite e adattate al sistema
giuridico italiano da un gruppo di lavoro coordinato dal prof. Marco Ricolfi del Dipartimento
di Scienze Giuridiche di Torino. Creative Commons Italia non svolge attività di consulenza
legale, di registrazione, di archiviazione o catalogazione di opere dell’ingegno; è piuttosto
un osservatorio virtuale del Copyleft come fenomeno sia giuridico che culturale, nonché su
tutte le nuove istanze di innovazione del diritto d’autore.
         Secondo il modello giuridico del Copyleft, l’autore – basandosi sul principio “alcuni
diritti riservati” – allega all’opera una formale ed esplicita dichiarazione (detta
“disclaimer”) in cui indica quale licenza ha scelto. Inoltre, per assicurarsi che la licenza
possa esplicare gli stessi effetti anche in paesi con sistemi giuridici diversi, e per ovviare ai
problemi di interpretazione e scelta della fonti normative applicabili, l’autore può indicare
una giurisdizione preferenziale – cioè il contesto giuridico cui fa riferimento. Allo scopo di
facilitare l’armonia tra paesi con diversi sistemi giuridici, le licenze CCPL sono dotate di
una struttura precisa e uguale in tutti i paesi. Si strutturano in due parti: una prima parte in
cui si indicano le libertà che l’autore vuole concedere. Tutte le licenze consentono la copia
e la distribuzione dell’opera; solo ove espressamente indicato è consentita anche la
modifica dell’opera. Nella seconda parte si esprimono le condizioni per l’utilizzo dell’opera.



13
  Il progetto GNU di R. M. Stallman ha inaugurato l’uso delle Generic Public Licenses. Il Progetto GNU è stato
lanciato nel 1984 per sviluppare un sistema operativo Unix-compatibile completo che fosse software libero.
Vi sono 4 clausole per le condizioni d’uso, che danno vita a differenti combinazioni e diversi
tipi di licenza:
1) Attribuzione: opzione di default, indica che bisogna indicare la paternità dell’opera;
2) Non commerciale: indica che non è permessa la distribuzione dello pera intesa o diretta
prevalentemente al perseguimento di un vantaggio commerciale o compenso monetario
privato;
3) Non opere derivate: indica che non è possibile alterare l’opera, trasformarla, svilupparla;
4) Condividi allo stesso modo: clasola tesa a garantire che le libertà conecesse sull’opera
si mantengano anche su opere derivate da essa.
La combinazione di tali opzioni di licenza d’uso determina 6 tipologie di CCPL:

     -   Attribuzione
     -   Attribuzione – Non opere derivate
     -   Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate
     -   Attribuzione – Non commerciale
     -   Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo
     -   Attribuzione – Condividi allo stesso modo

All’autore basta segnalare l’utilizzo della CCPL scelta 14.

        Dunque, con i Creative Commons è nata l’attribuzione condivisa, gli User Generated
Content, e una forma di licenza che va “oltre il copyright” per condividere e diffondere in
maniera ampia informazioni, conoscenze e opere letterarie creative. E’ nato dal basso, sul
web, il nuovo modello del copyright.
        Concludendo, ciò che la presente rassegna del dibattito giuridico ha voluto
dimostrare è che anche di fronte ai meccanismi lenti e controversi della dottrina e della
giurisprudenza il cambiamento socio economico non si arresta. L’energia collettiva del
“We” prende parte attiva nel dibattito, e crea nuovi sistemi – condivisi - per la tutela
dell’autorialità e della proprietà intellettuale e per la libera circolazione della conoscenza
che è la linfa vitale dei nuovi movimenti rivoluzionari degli anni zero. Grazie alla
collaborazione e alla condivisione, il nuovo soggetto collettivo “We” riesce a portare
l’innovazione perfino in sistemi ingessati e gerarchici come quello del diritto. Condividere,
remixare, ri-usare: legalmente si può. Bastava immaginarlo!




14
  Ulteriori info e spiegazioni dettagliate disponibili all’indirizzo
http://www.creativecommons.it/ccitfiles/brochureCCv2.pdf

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Creative Commons

  • 1. LA PROPRIETA’ INTELLETTUALE 2.0: I CREATIVE COMMONS “Penso che ciò di cui siamo testimoni sia una reale e tangibile manifestazione del WE, visto che oggi possiamo abilitare gamme di gruppi molto più varie alla creazione, condivisione e celebrazione della propria creatività o del proprio attivismo, più di quanto sia mai stato possibile in precedenza. Questo è diventato il focus centrale di ciò che è interessante nelle nuove tecnologie, da un punto di vista accademico – come nel lavoro di personaggi come Yochai Benkler – ma anche politico, come nella campagna elettorale di Obama, che ha mostrato l’enorme potenziale dei gruppi di attivisti oggi abilitati”. Lawrence Lessig, fondatore di Creative Commons. Il manifestarsi del WE è diventato anche il focus centrale della dottrina in merito alla regolamentazione del diritto d’autore e del diritto della proprietà industriale. Infatti, la rivoluzione telematica e comunicativa ha creato un nuovo soggetto collettivo, il “WE” appunto, termine introdotto dalla letteratura contemporanea sulle nuove forme di socialità ed economia web based: oggi ogni utente è insieme client e server, parte attiva e parte passiva allo stesso tempo del sistema di informazione e comunicazione. Le pratiche di file sharing hanno di fatto introdotto un nuovo modello di produzione dei contenuti e della conoscenza, il modello “common based peer-to-peer” 1. Con questo modello socio- economico si perdono dunque le tradizionali dicotomie tra le fonti della comunicazione (emittente e ricevente) e della produzione di opere (autore e produttore/editore). S’impone dunque una riflessione sui principi giuridici che tradizionalmente regolano i rapporti contrattuali che insorgono con la creazione di un’opera multimediale. Simone Aliprandi, nel suo libro “Capire il Copyright” 2 presenta le opinioni autorevoli (più o meno condivise) degli studiosi del diritto in merito alle nuove problematiche giuridiche, che sono riconducibili a tre fattori. Innanzitutto il conflitto con le libertà fondamentali dell’individuo garantite dagli articoli 21 e 15 della Costituzione italiana. Il web ospita infatti pagine wiki, blog e forum in cui gli utenti producono contenuti e vere e proprie opere (si pensi all’enciclopedia collettiva “Wikipedia”), si scambiano informazioni e commenti come in una nuova forma di comunicazione epistolare. Appare dunque evidente il conflitto tra la giurisdizione del diritto d’autore e della proprietà industriale e la questione relativa ai diritti personali di espressione, accesso alla cultura e all’informazione (art. 21 Cost.); e al diritto all’inviolabilità della corrispondenza e comunicazione tra privati cittadini (art. 15 Cost.). In secondo luogo, si pone una problematica di natura socio-culturale: il tessuto sociale infatti non percepisce come illecito la consuetudine, ormai radicata ed economicamente 1 Termine introdotto da Yochai Benkler, docente alla Harvard Law School; ha coniato il termine “common based peer production” per designare un nuovo modello economico basato sulla collaborazione orizzontale, tra pari, possibile grazie alla Rete. 2 Simone Aliprandi è un avvocato dedito ad attività di consulenza, formazione e ricerca nell'ambito del diritto d'autore e più in generale del diritto dell'ICT. Dal 2005 è fondatore e responsabile del Progetto Copyleft- italia.it. Il suo libro “Capire il Copyright. Percorso guidato nel diritto d’autore” è disponibile all’indirizzo http://www.copyleft-italia.it/images/stories/documenti/Aliprandi_capirecopyright.pdf
  • 2. vantaggiosa per le parti, di scambiare file in rete. Lo scambio di file è parte delle nuove forme di relazione dette “social networking”. Infine, un’ulteriore problematica per la regolamentazione delle nuove forme di produzione creativa e innovativa è di natura puramente tecnico-giuridica e consiste nell’inesistenza di sistemi centrali da colpire. In una pagina wiki, come in una community è infatti difficile individuare il soggetto che ha effettivamente violato il diritto. In altri sistemi giuridici, come quello statunitense, è per questo previsto un generico obbligo di vigilanza a carico del server provider sul traffico di file protetti da copyright. Se aggiungiamo alla perdita delle tradizionali dicotomie che consentono l’attribuzione della paternità di un’opera la perdita della materialità del supporto con cui l’opera circola – che è la condicio sine qua non per la brevettabilità, appare evidente la necessità di ricerca di vie alternative per la tutela dell’autorialità. Infatti, la possibilità di digitalizzare un file elimina di fatto la necessità di procedimenti industriali per la duplicazione e diffusione dell’opera. Ciò introduce un’ulteriore problematica, legata alla perdita dei confini geografici entro cui un’opera circola: infatti, essendo digitale ed estremamente malleabile, un’opera può circolare attraverso il web raggiungendo rapidamente tutti i mercati mondiali. Se ne deduce la necessità di armonizzare le norme comunitarie in fatto di tutela e protezione dell’opera. Piuttosto che combattere in modo repressivo la diffusione incontrollata di un’opera, Aliprandi e parte della dottrina propongono nuovi modelli di regolamentazione che tendano all’elasticità del sistema giuridico in materia di diritto d’autore e diritto della proprietà industriale. Questa filosofia di pensiero si concentra sulla possibilità di CONSENTIRE ALCUNI UTILIZZI dell’opera originale piuttosto che vietarli, come si vedrà in seguito. E’ importante evidenziare a questo punto la differenza ontologica tra il diritto d’autore e brevetto. Spesso questi vengono erroneamente confusi, ma è bene chiarire che si tratta di due strumenti di tutela ben distinti, con differenti caratteristiche e diversi campi d’applicazione. Basti dire che il diritto d’autore attiene alla sfera delle opere dell’ingegno, mentre il brevetto attiene alle invenzioni industriali. Tuttavia in questa sede si parla di una revisione delle due fonti del diritto d’autore (normato ai sensi della Legge n.633 del 1941, di seguito LDA, che fa riferimento al codice civile) e della proprietà industriale (diritto dei marchi e brevetti, riuniti in un solo codice mediante Decreto legislativo n. 30 del 2005) perché nel caso delle opere digitali talvolta tali fonti sembrano sovrapporsi. E’ il caso delle banche dati elettroniche, del design industriale e del software. Proprio il dibattito della giurisprudenza in materia di software ci permetterà di introdurre le nuove licenze d’uso GPL (General Public License) e il modello Copyleft. La prassi della tutela giuridica per software non si è sviluppata con la nascita degli stessi, bensì sono stati i crescenti interessi economici attorno al mercato dei software – a partire dalla fine degli anni settanta – a imporre l’attenzione della giurisprudenza sul tema. Fino ad allora, le aziende di informatica si servivano per la tutela dei meccanismi tradizionali del diritto industriale, facenti capo ai due diversi modelli del diritto d’autore e del brevetto. Infatti si tratta di opere atipiche che racchiudono requisiti di entrambe le categorie: opere artistico letterarie e invenzioni tecnico industriali.
  • 3. Dunque le aziende produttrici di software invocavano la Legge sul diritto d’autore per il carattere creativo dell’opera – requisito base per l’applicazione della tutela dell’autorialità (art. 1 LDA, comma I). Tale requisito della creatività è scomponibile in due concetti: originalità e novità. - Originalità: l’opera deve essere frutto di un particolare lavoro intellettuale e deve riflettere l’impronta della personalità dell’autore 3; - Novità oggettiva, intesa come novità degli elementi essenziali e caratterizzanti che oggettivamente distinguono un’opera da altre dello stesso genere; il requisito della novità soggettiva invece richiede che l’opera rispecchi l’individualità culturale e creativa dell’autore 4 . Il diritto d’autore si origina quando nasce l’opera e non è soggetto ad una procedura amministrativa di concessione. Il software è però non solo un’opera dell’ingegno di carattere creativo, ma è anche un’opera destinata alla soluzione di problemi tecnici; in tal senso presenta il requisito della funzionalità (o applicabilità industriale) e potrebbe invocare la brevettabilità. Infatti il diritto d’autore tutela solo la forma espressiva di un’opera 5 e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti matematici – che sono alla base della creazione di un software. Ai sensi dell’art.45 e seguenti, sezione IV del Codice della proprietà industriale, le condizioni per la brevettabilità sono la novità, l’originalità, l’applicabilità industriale, la liceità. - Novità: l’invenzione non deve essere compresa nello stato della tecnica; per stato della tecnica s’intende “tutto ciò che è stato reso accessibile al pubblico nel territorio dello Stato o all’estero prima della data del deposito della domanda di brevetto” (art 46, comma I); - Originalità: l’invenzione non deve risultare ovvia agli occhi di un tecnico esperto del settore; - Applicabilità industriale: l’invenzione deve essere sfruttabile ai fini pratici; un’invenzione è considerata atta ad avere un’applicazione industriale “se il suo oggetto può essere fabbricato o utilizzato in qualsiasi genere di industria” (art. 49, comma I); - Liceità: l’invenzione non deve essere contraria all’ordine pubblico e al buon costume (art. 50, comma I, II). 3 Si precisa che non è richiesto un grado specifico del requisito di originalità; a tal proposito, la Corte di Cassazione si è dichiarata con la sentenza n. 175 del 23/01/1969. 4 E’ chiaro il conflitto con le pagine wiki, in cui non c’è un solo autore e l’opera è frutto della collettività; in questo caso la dottrina riconduce tali opere agli schemi dell’opera collettiva, di cui all’art. 3 LDA in cui vengono definite come opere collettive quelle “costituite dalla riunione di opere o di parti di opere, che hanno carattere di creazione autonoma, come risultato della scelta e del coordinamento ad un determinato fine letterario, scientifico [...] o artistico”. 5 intesa come forma interna, cioè la struttura espositiva dell’opera; e forma esterna, cioè la forma con cui l’opera appare nella sua versione originale.
  • 4. Dunque, non costituiscono oggetto di brevettazione le idee astratte, scoperte, teorie scientifiche, modelli matematici; mentre costituiscono oggetto di brevettazione i risultati che derivino da quanto precedentemente elencato, i nuovi procedimenti industriali e prodotti chimici e farmaceutici (infatti, l’art. 46 specifica al comma IV che le precedenti disposizioni “non escludono la brevettabilità di una sostanza o di una composizione di sostanze già compresa nello stato della tecnica, purchè in funzione di una nuova utilizzazione”). Il caso della tutela di un software è chiaramente controversa. Ad oggi la rilevanza dei requisiti di creatività e originalità tipici del diritto d’autore prevale sulla peculiarità della vocazione funzionale del software. Questo tipo di approccio è stato sancito per la prima volta nel 1980, negli Stati Uniti, con l’emanazione del “Software copyright Act”. In questo caso il legislatore ha scelto arbitrariamente quale disciplina applicare al software. Per l’Italia si è dovuto attendere la direttiva europea n. 91/250/CEE, del 1991, che reca l’intento di armonizzare le norme comunitarie in fatto di protezione di software. In tale direttiva si invitano pertanto gli stati membri ad applicare al software la normativa del diritto d’autore. La direttiva comunitaria viene recepita nell’ordinamento italiano con Decreto legislativo n. 158/1992, intervenuto a modificare la legge sul diritto d’autore con l’introduzione della Sezione VI al Capo III della LDA titolata “Programmi per elaboratore”. Il legislatore dunque ha riconosciuto il software come opera dell’ingegno, e con la ratifica della direttiva comunitaria, è stata riconosciuta allo stesso anche una tutela di carattere penale. Tuttavia, parte della giurisprudenza e della dottrina sono andante avanti con la proposta di brevettazione del software. Infatti, mentre è possibile ottenere un brevetto per l’hardware che permette una determinata funzionalità, non è possibile fare altrettanto per il software né accogliere le richieste di tutela per le invenzioni create per suo tramite. In questa sede appare importante ricordare che alcuni diritti riconosciuti dalla LDA verrebbero, a parere del Comitato economico sociale europeo (CESE) 6, messi in forse a seguito dell’approvazione della direttiva sulla brevettabilità delle invenzioni attuate tramite programmi per elaboratori. Ci si riferisce ai diritti di effettuare copie di riserva per lo studio e l’uso del programma, e per “decompilare” il programma al fine di assicurare l’interoperabilità con altri programmi (artt. 64 ter, quater della LDA). Come giustamente osservato dal CESE l’eventuale applicazione del regime giuridico dei brevetti vieterebbe talune azioni (come, appunto, la copia di riserva o la copia per assicurare l’interoperabilità) che invece sono state riconosciute lecite proprio dalla Direttiva 91/250/CEE. Di seguito si esamina la questione. La proposta di direttiva COM (2002) 92, fu presentata da Arlene McCarthy della Commissione giuridica per il mercato interno del Parlamento europeo nel 2002, e trasmessa al Consiglio ed al Parlamento europei. L’invito della McCarthy era quello di adottare una “common position” sulla proposta finalizzata alla formalizzazione di una direttiva sulla “brevettabilità di invenzioni attuate per mezzo di elaboratori informatici”, ovvero le cosiddette “computer implemented inventions”. La proposta ha destato 6 Il CESE ha una funzione consultiva. Esso viene definito come “il luogo di espressione della società civile organizzata a livello europeo”.
  • 5. immediato dibattito, “addebitabile al timore di vedere confuso l’ambito d’azione e di tutela della disciplina del diritto d’autore con quella brevettuale, e più in concreto il rischio di vanificazione di determinate esenzioni accolte dal diritto d’autore” – sottolinea l’avv. Marina Benassi 7. La Commissione europea non ha ignorato la problematica sopra esposta evidenziando nella relazione alla proposta di direttiva che: “Né è probabile che la realizzazione di una copia di riserva nel contesto dell’utilizzazione autorizzata di un brevetto riguardante un elaboratore programma o l’esecuzione di un programma possa essere considerata una violazione.” È ovvio che la previsione semplicistica di “improbabilità della violazione” non risponde ai criteri di certezza giuridica. Peraltro, questo obiettivo non sembra essere stato perseguito dallo stesso art. 6 del progetto di direttiva che fa salve le facoltà riconosciute dalla direttiva 91/250 relativa alla tutela giuridica dei programmi per elaboratori mediante il diritto d’autore. Nel sopraccitato art. 6, infatti, vengono espressamente richiamate le disposizioni relative alla decompilazione ed all’interoperabilità. Il CESE ha aspramente criticato l’art. 6 accusando la Commissione di aumentare la confusione poiché sembra conservare il regime giuridico del diritto d’autore per i programmi che attuano le invenzioni ed hanno un carattere tecnico e, per un altro verso, integra queste disposizioni con quelle del regime dei brevetti. A voler disaminare attentamente la Direttiva l’obiettivo sarebbe proprio quello di conferire alle invenzioni attuate tramite programmi per elaboratori la duplice tutela offerta sia dal sistema brevettuale che da quello del diritto d’autore. Si tratterebbe, osserva l’Avv. E. Olimpia Policella, di una tutela di tipo cumulativa ”poiché il medesimo atto potrebbe, per un verso violare il codice sorgente protetto dal diritto d’autore e, per altro verso, violare le idee ed i principi di base rivendicati con il brevetto. Si aggiunga che l’insussistenza di un obbligo di depositare il codice sorgente per ottenere il brevetto potrebbe scatenare in Europa, come già verificatosi negli USA, una crescita esponenziale dei procedimenti giudiziari per contraffazione con quel che ne conseguirebbe soprattutto in capo alle PMI che non potrebbero coprire i costi delle perizie necessarie per la risoluzione della controversia” 8. Tuttavia i programmi per elaboratore ed i metodi commerciali (i cd. “business methods”) non sono ricompresi nella tutela offerta dalla direttiva proposta. Infatti, l’estensione della tutela si basa – ancora una volta – sul concetto di “contributo tecnico” quale conditio sine qua non per la brevettabilità 9. Nel sistema giuridico statunitense, invece, non si esige tale requisito e si lascia aperta la strada per la brevettazione anche dei metodi commerciali. Quindi la succitata proposta non prevede alcun tipo di possibilità di brevettazione a favore di programmi per computer considerati separatamente dall’apparato che li supporta (hardware). In tal modo, si apre un dibattito anche sulla contraddizione tra i contenuti della direttiva e la Convenzione sul brevetto europeo (di 7 M. Benassi, “La faticosa strada verso un accordo sul brevetto sulle invenzioni attuate per mezzo di software” su www.altalex.com. 8 E. Olimpia Policella, “Il tormentato cammino del brevetto sul software” su www.diritto.it. 9 Tale paradigma del contributo tecnico è tipicamente un prodotto europeo, largamente riconosciuto ed applicato nella giurisprudenza degli stati membri. Implica che l’invenzione attuata per mezzo di elaboratori elettronici, onde adire alla tutela garantita dalla direttiva, debba apportare “un contributo tecnico allo stato dell’arte” e rappresentare pertanto un valore aggiunto rispetto al “mero” programma per elaboratore, onde adire alla tutela garantita dalla direttiva.
  • 6. seguito CBE) del 5 ottobre 1973 (più nota come Convenzione di Monaco) 10 la quale esclude espressamente il software dalle opere brevettabili (art. 52). La non brevettabilità del software risente del pregiudizio secondo cui il software, al pari dei metodi matematici e dei piani intellettuali, non può avere carattere tecnico. In particolare, nel paragrafo 3 dell’art. 52 CBE si escludono espressamente dalla brevettabilità i programmi per elaboratore “in quanto tali". Eppure la proposta COM 92 pretende la brevettabilità di “invenzioni attuate per mezzo di elaboratori”. All’art. 2 della proposta la Commissione definisce tale tipo di invenzione come “un’invenzione la cui esecuzione implica l’uso di un elaboratore, di una rete di elaboratori o di un altro apparecchio programmabile e che presenta a prima vista una o più caratteristiche di novità che sono state realizzate in tutto o in parte per mezzo di uno o più programmi per elaboratore”. Tale definizione ha incontrato aspre critiche da parte del CESE (e non solo). Infatti, è stato evidenziato che il concetto di “rete” non viene precisato e che, pertanto, potrebbe trattarsi di internet. Ne deriverebbe la possibilità di brevettare invenzioni effettuate su internet che possono, ovviamente, coincidere unicamente in un software! (Ed ecco, la contraddizione con la CBE). Ci sono dunque allarmanti contraddizioni in essere alla stessa relazione introduttiva della proposta di brevettabilità delle invenzioni attuate tramite software. Ciò avvalora la tesi del CESE secondo cui è tecnicamente impossibile distinguere tra cosa sia un programma per elaboratore in quanto tale e cosa sia un software che produce un effetto tecnico: questa differenza sarebbe di mera creazione giurisprudenziale. Le critiche del CESE accolgono i clamori che tale proposta di direttiva ha suscitato immediatamente nel mondo informatico, rappresentato soprattutto da PMI e da associazioni che sostengono lo sviluppo del software. Difatti, ancor prima della presentazione della proposta da parte della Commissione il mondo informatico aveva avviato nel 1999 una petizione al Parlamento europeo (petizione avviata da EuroLinux Alliance insieme ad aziende e associazioni open source europee) che richiedeva il rispetto dell’art. 52 della CBE condannando pubblicamente la condotta dell’Ufficio europeo brevetti che continuava ad abusare del suo potere discrezionale per estendere il campo di applicazione dei brevetti. Infatti, non solo dal punto di vista giuridico l’approvazione della proposta di brevettabilità per le invenzioni attuate tramite elaboratore costituirebbe il primo passo per la disapplicazione dell’art. 52 CBE. Ma tale approvazione comporterebbe anche un rischio economico tangibile per le PMI che, a causa degli alti costi attualmente previsti per i brevetti, potrebbero di fatto vedersi relegate in nicchie di mercato o costrette ad accettare l’assorbimento da parte dei “grandi” dell’informatica. La dannosità dei brevetti per il mercato sarebbe dimostrata da diversi esempi tra cui si ricordano: - il caso di Amazon.com che ha ottenuto un brevetto su tecnologie esistenti correlate alla carta di credito, vale a dire dei link, dei cookies e dei browser costringendo l’azienda rivale (la sconosciuta Barnes & Noble) a ridimensionare notevolmente la sua attività; - i brevetti Internet attribuiti dall’USPTO, ma anche dall’UEB, su metodi banali come il One-click, le aste online o la pubblicazione di una database in rete; 10 La Convenzione di Monaco è stata ratificata in Italia dalla Legge n. 260 del 26 maggio 1978 che, all’art. 1, ha previsto la ratifica e l’esecuzione di diversi atti internazionali disciplinanti la materia brevettuale. Il contenuto dell’art. 52 della CBE, invece, è stato riprodotto nel nostro ordinamento giuridico dall’art. 7 del DPR 338 del 22 giugno del 1979 che ha modificato l’art. 12 del R.D. n. 1127 del 29 giugno 1939 recante disposizioni legislative in materia di brevetti per invenzioni industriali.
  • 7. - ed ancora i brevetti su tecniche informatiche ovvie come la correzione di un documento tramite l’uso di colori aggiuntivi diversi. In sostanza, l’approvazione della proposta di direttiva sulla brevettabilità delle invenzioni attuate tramite elaboratore favorirebbe unicamente le grandi imprese che potrebbero sopportare i costi del brevetto, gli uffici legali esperti in tutela della proprietà intellettuale e lo stesso Ufficio brevetti, considerato che il rilascio dei brevetti costituisce fonte di reddito per lo stesso 11. Sarà pertanto necessario effettuare ulteriori approfondimenti in materia. Intanto, proprio dal mondo dell’informatica e della cultura open source arrivano proposte per una regolamentazione più elastica dell’autorialità rispetto ai nuovi contenuti prodotti (anche – e soprattutto – collettivamente) in rete. Il mondo informatico ha infatti preso atto – forse con più convinzione della dottrina e della giurisprudenza – della crisi dell’impostazione classica rispetto al diritto d’autore, tradizionalmente basato sul principio dello “ius excludendi alios” per cui tale diritto è di tipo esclusivo. Tale principio di esclusività risulta di difficile – se non impossibile – applicazione nel complesso mondo della cultura attuale. Ciò richiede un ampliamento del campo d’interesse per il diritto d’autore alla musica, video, DVD, CD-Rom, documenti elettronici e opere multimediali caratterizzate dall’interattività. Il modello giuridico tradizionale per le opere dell’ingegno è “tutti i diritti riservati”. In tal modo si determina un totale controllo della creatività, in contraddizione con la natura del mondo digitale, aperto. Ma l’autore dell’opera può disporre dei propri diritti, decidendo anche di cederli. E’ attraverso la cessione dei diritti che si compone l’intero tessuto dei rapporti contrattuali sull’utilizzo e sfruttamento economico (che sono materia del Diritto Civile). Risulta in questa sede interessante passare in rassegna la storia evolutiva del diritto d’autore che fa capo a due diverse concezioni. L’una, di matrice francese, trova il suo seme nei sistemi di droit d’auter e viene adottata nei sistemi giuridici di Civil Law. Questa impostazione prevede in capo all’autore un ampio fascio di diritti: infatti, l’autore può conservare un controllo sull’opera anche dopo un’eventuale cessione dei diritti patrimoniali. I diritti patrimoniali sono di natura esclusiva, sottoposti al principio dell’esaurimento (cioè il diritto si esaurisce con l’immissione sul mercato di copie legittime dell’opera); durano tutta la vita dell’autore e sino al 70° anno dopo la sua morte 12. Ma i sistemi di Civil Law riconoscono all’autore anche diritti morali: in questo caso si tratta di diritti perpetui (passano agli eredi dopo la morte dell’autore), incedibili e indisponibili. Infatti la LDA all’art. 142 dispone che l’opera possa essere anche ritirata per “gravi ragioni morali”. L’altra concezione del diritto d’autore è invece di matrice anglosassone e americana, trova il suo seme nei sistemi di Copyright ancora in vigore nei sistemi giuridici di Common Law. 11 In effetti, la proposta di direttiva non farebbe altro che “legittimare” l’operato dell’Ufficio brevetti europeo che sembrerebbe aver concesso, sino ad oggi, già 25.000 brevetti ad invenzioni basate su programmi per elaboratori o a programmi per elaboratori in quanto tali. 12 In caso di opere in comunione si fa riferimento alla data di morte dell’ultimo dei co-autori; in caso di opere collettive la durata dei diritti patrimoniali spettante a ogni collaboratore si determina sulla vita di ciascuno.
  • 8. Questa seconda impostazione è rivolta alla tutela del diritto di riprodurre e distribuire sul mercato copie di un’opera; si tratta di una forma di tutela “ante omnia” in favore del soggetto commerciale che si preoccupa di investire sulla commercializzazione dell’opera. All’origine del diritto d’autore vi è dunque l’intenzione comune alle due impostazioni di funzione di incentivo della produzione culturale; tale incentivo viene poi concretizzato a seconda dei sistemi giuridici di riferimento attribuendo maggiori prerogative all’editore/produttore – dando maggiore rilievo al lato industriale del fenomeno di produzione dell’opera, o all’autore. Attraverso strumenti di diritto internazionale si procede costantemente ad un’opera di avvicinamento reciproco tra le due concezioni Civil e Common Law. In questo senso, la nascita dei Creative Commons può essere vista come un tentativo – nato dal basso – di armonizzare i sistemi giuridici internazionali per favorire la circolazione delle opere d’ingegno nell’era dell’iperconnessione digitale. Così, da una prassi nata in ambito informatico negli anni ottanta per i software e la documentazione tecnica 13, è nato il modello del Copyleft ampliato all’ambito delle opere artistico-espressive e basato sulle licenze Creative Commons (Creative Commons Public License, di seguito CCPL). Si è già detto che la legge riconosce al creatore di un’opera dell’ingegno (titolare) una serie di diritti; e permette al titolare di disporne mediante licenza. Dunque la licenza è uno strumento (da non confondersi con la fonte dei diritti che sorgono grazie alla legge) per disporre dei diritti d’autore attraverso la quale il titolare (detto licenziante) concede o meno alla controparte (licenziatario) alcuni diritti. Nel 2001 nasce una nuova forma di licenza: la CCPL. Si tratta di un tipo di licenza che concede l’attribuzione dei diritti sull’opera alla controparte, che può essere identificata in un qualunque fruitore dell’opera. Le CCPL vengono create negli Stati Uniti dall’associazione no-profit Creative Commons - nata con l’ambizione di realizzare un diritto d’autore più flessibile per opere creative. Le CCPL sono state recepite e adattate al sistema giuridico italiano da un gruppo di lavoro coordinato dal prof. Marco Ricolfi del Dipartimento di Scienze Giuridiche di Torino. Creative Commons Italia non svolge attività di consulenza legale, di registrazione, di archiviazione o catalogazione di opere dell’ingegno; è piuttosto un osservatorio virtuale del Copyleft come fenomeno sia giuridico che culturale, nonché su tutte le nuove istanze di innovazione del diritto d’autore. Secondo il modello giuridico del Copyleft, l’autore – basandosi sul principio “alcuni diritti riservati” – allega all’opera una formale ed esplicita dichiarazione (detta “disclaimer”) in cui indica quale licenza ha scelto. Inoltre, per assicurarsi che la licenza possa esplicare gli stessi effetti anche in paesi con sistemi giuridici diversi, e per ovviare ai problemi di interpretazione e scelta della fonti normative applicabili, l’autore può indicare una giurisdizione preferenziale – cioè il contesto giuridico cui fa riferimento. Allo scopo di facilitare l’armonia tra paesi con diversi sistemi giuridici, le licenze CCPL sono dotate di una struttura precisa e uguale in tutti i paesi. Si strutturano in due parti: una prima parte in cui si indicano le libertà che l’autore vuole concedere. Tutte le licenze consentono la copia e la distribuzione dell’opera; solo ove espressamente indicato è consentita anche la modifica dell’opera. Nella seconda parte si esprimono le condizioni per l’utilizzo dell’opera. 13 Il progetto GNU di R. M. Stallman ha inaugurato l’uso delle Generic Public Licenses. Il Progetto GNU è stato lanciato nel 1984 per sviluppare un sistema operativo Unix-compatibile completo che fosse software libero.
  • 9. Vi sono 4 clausole per le condizioni d’uso, che danno vita a differenti combinazioni e diversi tipi di licenza: 1) Attribuzione: opzione di default, indica che bisogna indicare la paternità dell’opera; 2) Non commerciale: indica che non è permessa la distribuzione dello pera intesa o diretta prevalentemente al perseguimento di un vantaggio commerciale o compenso monetario privato; 3) Non opere derivate: indica che non è possibile alterare l’opera, trasformarla, svilupparla; 4) Condividi allo stesso modo: clasola tesa a garantire che le libertà conecesse sull’opera si mantengano anche su opere derivate da essa. La combinazione di tali opzioni di licenza d’uso determina 6 tipologie di CCPL: - Attribuzione - Attribuzione – Non opere derivate - Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate - Attribuzione – Non commerciale - Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo - Attribuzione – Condividi allo stesso modo All’autore basta segnalare l’utilizzo della CCPL scelta 14. Dunque, con i Creative Commons è nata l’attribuzione condivisa, gli User Generated Content, e una forma di licenza che va “oltre il copyright” per condividere e diffondere in maniera ampia informazioni, conoscenze e opere letterarie creative. E’ nato dal basso, sul web, il nuovo modello del copyright. Concludendo, ciò che la presente rassegna del dibattito giuridico ha voluto dimostrare è che anche di fronte ai meccanismi lenti e controversi della dottrina e della giurisprudenza il cambiamento socio economico non si arresta. L’energia collettiva del “We” prende parte attiva nel dibattito, e crea nuovi sistemi – condivisi - per la tutela dell’autorialità e della proprietà intellettuale e per la libera circolazione della conoscenza che è la linfa vitale dei nuovi movimenti rivoluzionari degli anni zero. Grazie alla collaborazione e alla condivisione, il nuovo soggetto collettivo “We” riesce a portare l’innovazione perfino in sistemi ingessati e gerarchici come quello del diritto. Condividere, remixare, ri-usare: legalmente si può. Bastava immaginarlo! 14 Ulteriori info e spiegazioni dettagliate disponibili all’indirizzo http://www.creativecommons.it/ccitfiles/brochureCCv2.pdf