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Avvertenza:
questa versione del lavoro è una riduzione del prodotto originale
utilizzato per una lezione - spettacolo, in quanto è priva di
animazioni, effetti di transizione e colonna sonora.
Tuttavia ci è sembrato importante inserire, anche se in forma ridotta,
questa testimonianza tra i lavori presenti nella speranza
che possa suscitare riflessioni e interventi, oltre al doveroso
impegno di non dimenticare quanto accaduto.


Grazie
Io mi sento parte di questo
mondo … e sono felice di
esserlo quando accarezzo il
viso innocente del mio
piccolo, quando ricevo un
sorriso inaspettato o trovo
nello stupore di sentire in me
la vita, la gioia delle cose più
piccole. Accorgermi di ciò
che mi accade vicino e dare
un significato a ogni evento
rende ricco il mio pensiero e
lo allontana da quel nulla che
tutto può contenere. Lo
allontana dunque dall’essere
contenitore di ogni cosa, lo
allontana dalla paura di
essere preso da qualsiasi
cosa che abbia solo una
qualche parvenza di senso.
Mi sento ugualmente parte di questo mondo anche per la
responsabilità che devo avere verso la mia realtà, quella
per la quale vivo, respiro, sento, sono nella mia plurale
identità, nella mia continua crescita verso il bene che è
mio come dell’altro.
 Io sono responsabile e lo sono sempre di un altro uomo,
sostiene a gran voce Levinas.
Posso certamente ignorarlo, ma
in realtà sono responsabile anche
di ciò che è successo poco fa a
colui che è passato vicino a me.
Sono responsabile quindi anche
del passato di tutti noi perché
espressione dell’umanità che è
dentro di me. I fatti trascorsi
sono testardi e non possono
essere ignorati, distorti o peggio
cancellati.     Solo un folle e
fallimentare delirio di onnipotenza
può illudersi di riuscirci.
Con Hannah Arendt urlo a
gran voce: il genocidio
ebraico è stato quot;un crimine
contro l'umanità perpetrato
sul   corpo      del    popolo
ebraicoquot;. Un quot;male estremo,
radicalequot;, sebbene compiuto
da uomini quot;banaliquot;, comuni,
quot;normaliquot;,       normalizzati,
spersonalizzati,       divenuti
quot;incapaci di pensare, di
volere, di giudicarequot;, di agire
in modo critico, autonomo, e
responsabile. Del dolore si
deve avere soprattutto una
percezione corporea perché
solo di fronte alla sua
potenza fisica dilaniante il
pensiero      può     cogliersi
realmente vulnerabile e
quindi capace di stare nel
mondo senza distruggerlo.
L’uomo, come Hans Jonas ha
osservato, possiede una
straordinaria quot;facoltàquot;: quot;di
essere buono o cattivo”, anzi,
di essere l'uno e l'altroquot;;
quot;benché a proposito dei casi
di malvagità estrema si parli
di quot;mostriquot;. Soltanto gli uomini
possono essere quot;disumaniquot;:
la disumanità rivela la natura
dell'uomo non meno che la
sua santitàquot;. Quella facoltà
specificamente           umana,
antropologica,     di     essere
buoni o cattivi, mostri e santi,
si chiama libertà.
Noi uomini siamo gli autori delle
nostre azioni, responsabili e
imputabili     per    quello     che
facciamo       perché     liberi   di
scegliere tra il bene e il male,
in qualsiasi circostanza che non
sia la condizione estrema
dell'impotenza o dell'infermità
mentale, dell'abbrutimento o
dell'alienazione totale.
Se il male dilaga, se Auschwitz si
ripete e si moltiplica, crolla
anche la possibilità di sperare
nell'uomo e nella giustizia
umana, di giustificare la nostra
libertà,    la     nostra     stessa
esistenza e il nostro posto nel
mondo.
Levinas ritiene urgente meditare nuovamente sull’essenza umana nel
tentativo, ed è il nostro e in questo preciso momento, di ricostruire un
mondo vanificato dal male più imperdonabile a partire da noi stessi, dal
nostro piccolo e grande mondo di giovani alla ricerca di un pensiero, di un
problema, di una domanda, di uno zoccolo duro sul quale sostare nei
momenti di smarrimento … prima di riprendere coraggio e slancio.
Non so se l'educazione vi arriverà, commenta ancora Levinas, ma forse, da
certe esperienze la gioventù ritroverà - me lo auguro - la giusta misura di
quella che sembra essere una revisione possibile.
E’ g
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                                                   da
Va considerata la possibilità che la
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relazione di un essere umano con un
altro essere umano, la relazione fra uomo
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così si insegna - come una conseguenza
remota dell'intelligenza, come una
conseguenza della libertà, non debba
essere piuttosto colta nella definizione
stessa dell'uomo, nella sua vocazione:
nel riconoscimento cioè della sua dignità
e del suo posto nella realtà, come
apertura sia all’altro che a se stessi tra la
necessità e il compiacimento di esistere
facendo tesoro anche, naturalmente,
dell’intelligenza e della libertà.
L’alterità, per ognuno di noi, è infinita trascendenza: il mio prossimo cioè, è una
realtà che non posso conoscere profondamente e compiutamente. Emerge così
quella che Derrida dice essere la discontinuità con l’altro: non posso donare
abbastanza, non posso perdonare abbastanza, non posso essere abbastanza
ospitale, non posso essere veramente giusto, non dono a sufficienza. Ma io mi
costituisco nel rapporto con l’altro perché la mia identità è aperta ed esposta al
mio prossimo da sempre entrato in me al punto tale che “l’altro è in me prima di
me”.
Posso aprirmi all’altro, allo straniero, all’ebreo, allo zingaro, all’omosessuale,
al vicino di casa, al mio migliore amico perché la mia casa, la mia cultura, la
mia lingua sono già contaminate del loro essere e ciò non comporta di certo
una mescolanza indistinta: il confine indefinibile rende la singolarità
inappropriabile e il segreto che abita il “proprio” ci custodisce prima che noi
lo custodiamo.
L’apertura all’altro ci fa terreno di ospitalità, luogo in cui avviene un incontro tra
me e una persona di cui non mi posso appropriare e verso la quale sono tanto
accogliente quanto disarmata. E in questo sentirmi disarmata si gioca ancora
una volta la percezione di essere felice di stare in questo mondo e di abitare
l’altro, sempre e ancora una volta, come parte di me.
tentativi di ricostruzione dell’anima tra passato e futuro

                                  testi
                           Patrizia Nunnari


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                           Pietro Volpones




           realizzato a scopo didattico per la celebrazione del
                      “Giorno della memoria”


                           27 gennaio 2007

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tentativi di ricostruzione dell'anima tra passato e futuro

  • 1. Avvertenza: questa versione del lavoro è una riduzione del prodotto originale utilizzato per una lezione - spettacolo, in quanto è priva di animazioni, effetti di transizione e colonna sonora. Tuttavia ci è sembrato importante inserire, anche se in forma ridotta, questa testimonianza tra i lavori presenti nella speranza che possa suscitare riflessioni e interventi, oltre al doveroso impegno di non dimenticare quanto accaduto. Grazie
  • 2.
  • 3. Io mi sento parte di questo mondo … e sono felice di esserlo quando accarezzo il viso innocente del mio piccolo, quando ricevo un sorriso inaspettato o trovo nello stupore di sentire in me la vita, la gioia delle cose più piccole. Accorgermi di ciò che mi accade vicino e dare un significato a ogni evento rende ricco il mio pensiero e lo allontana da quel nulla che tutto può contenere. Lo allontana dunque dall’essere contenitore di ogni cosa, lo allontana dalla paura di essere preso da qualsiasi cosa che abbia solo una qualche parvenza di senso.
  • 4. Mi sento ugualmente parte di questo mondo anche per la responsabilità che devo avere verso la mia realtà, quella per la quale vivo, respiro, sento, sono nella mia plurale identità, nella mia continua crescita verso il bene che è mio come dell’altro. Io sono responsabile e lo sono sempre di un altro uomo, sostiene a gran voce Levinas.
  • 5.
  • 6. Posso certamente ignorarlo, ma in realtà sono responsabile anche di ciò che è successo poco fa a colui che è passato vicino a me. Sono responsabile quindi anche del passato di tutti noi perché espressione dell’umanità che è dentro di me. I fatti trascorsi sono testardi e non possono essere ignorati, distorti o peggio cancellati. Solo un folle e fallimentare delirio di onnipotenza può illudersi di riuscirci.
  • 7. Con Hannah Arendt urlo a gran voce: il genocidio ebraico è stato quot;un crimine contro l'umanità perpetrato sul corpo del popolo ebraicoquot;. Un quot;male estremo, radicalequot;, sebbene compiuto da uomini quot;banaliquot;, comuni, quot;normaliquot;, normalizzati, spersonalizzati, divenuti quot;incapaci di pensare, di volere, di giudicarequot;, di agire in modo critico, autonomo, e responsabile. Del dolore si deve avere soprattutto una percezione corporea perché solo di fronte alla sua potenza fisica dilaniante il pensiero può cogliersi realmente vulnerabile e quindi capace di stare nel mondo senza distruggerlo.
  • 8.
  • 9. L’uomo, come Hans Jonas ha osservato, possiede una straordinaria quot;facoltàquot;: quot;di essere buono o cattivo”, anzi, di essere l'uno e l'altroquot;; quot;benché a proposito dei casi di malvagità estrema si parli di quot;mostriquot;. Soltanto gli uomini possono essere quot;disumaniquot;: la disumanità rivela la natura dell'uomo non meno che la sua santitàquot;. Quella facoltà specificamente umana, antropologica, di essere buoni o cattivi, mostri e santi, si chiama libertà.
  • 10. Noi uomini siamo gli autori delle nostre azioni, responsabili e imputabili per quello che facciamo perché liberi di scegliere tra il bene e il male, in qualsiasi circostanza che non sia la condizione estrema dell'impotenza o dell'infermità mentale, dell'abbrutimento o dell'alienazione totale. Se il male dilaga, se Auschwitz si ripete e si moltiplica, crolla anche la possibilità di sperare nell'uomo e nella giustizia umana, di giustificare la nostra libertà, la nostra stessa esistenza e il nostro posto nel mondo.
  • 11.
  • 12. Levinas ritiene urgente meditare nuovamente sull’essenza umana nel tentativo, ed è il nostro e in questo preciso momento, di ricostruire un mondo vanificato dal male più imperdonabile a partire da noi stessi, dal nostro piccolo e grande mondo di giovani alla ricerca di un pensiero, di un problema, di una domanda, di uno zoccolo duro sul quale sostare nei momenti di smarrimento … prima di riprendere coraggio e slancio. Non so se l'educazione vi arriverà, commenta ancora Levinas, ma forse, da certe esperienze la gioventù ritroverà - me lo auguro - la giusta misura di quella che sembra essere una revisione possibile.
  • 13. E’ g iu pote sto defi n n dom za de ire l'uom a l s oa racc nda uo sape partire oma di dalla ricon ndar c re? o e l erto valo scere a s non Questa re c tu richi gran he l'inte pidità vuol a d o n e che mare l'a e; bis lligenza on l’'inte ttenz ogna sia di d omin lligenza ione su piutt un mon a n ll os do o re o sp on abb a neces to inco i ia la s ntro afferma egare t pret ità qual lla rs u e sias ta di li i come tto il no sa i lim ite. bertà, li espress stro bera io cioè ne da
  • 14.
  • 15. Va considerata la possibilità che la definizione stessa dell'uomo possa essere attinta da un altro ordine di cose. Ci domandiamo ancora con Levinas se la relazione di un essere umano con un altro essere umano, la relazione fra uomo e uomo invece di essere presentata - così si insegna - come una conseguenza remota dell'intelligenza, come una conseguenza della libertà, non debba essere piuttosto colta nella definizione stessa dell'uomo, nella sua vocazione: nel riconoscimento cioè della sua dignità e del suo posto nella realtà, come apertura sia all’altro che a se stessi tra la necessità e il compiacimento di esistere facendo tesoro anche, naturalmente, dell’intelligenza e della libertà.
  • 16. L’alterità, per ognuno di noi, è infinita trascendenza: il mio prossimo cioè, è una realtà che non posso conoscere profondamente e compiutamente. Emerge così quella che Derrida dice essere la discontinuità con l’altro: non posso donare abbastanza, non posso perdonare abbastanza, non posso essere abbastanza ospitale, non posso essere veramente giusto, non dono a sufficienza. Ma io mi costituisco nel rapporto con l’altro perché la mia identità è aperta ed esposta al mio prossimo da sempre entrato in me al punto tale che “l’altro è in me prima di me”.
  • 17.
  • 18. Posso aprirmi all’altro, allo straniero, all’ebreo, allo zingaro, all’omosessuale, al vicino di casa, al mio migliore amico perché la mia casa, la mia cultura, la mia lingua sono già contaminate del loro essere e ciò non comporta di certo una mescolanza indistinta: il confine indefinibile rende la singolarità inappropriabile e il segreto che abita il “proprio” ci custodisce prima che noi lo custodiamo.
  • 19. L’apertura all’altro ci fa terreno di ospitalità, luogo in cui avviene un incontro tra me e una persona di cui non mi posso appropriare e verso la quale sono tanto accogliente quanto disarmata. E in questo sentirmi disarmata si gioca ancora una volta la percezione di essere felice di stare in questo mondo e di abitare l’altro, sempre e ancora una volta, come parte di me.
  • 20.
  • 21. tentativi di ricostruzione dell’anima tra passato e futuro testi Patrizia Nunnari realizzazione grafica Pietro Volpones realizzato a scopo didattico per la celebrazione del “Giorno della memoria” 27 gennaio 2007