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nell’evoluzione della lingua
Adelante con juicio: manicheismo e ragionevolezza nell’evoluzione della
lingua
Abstract
Purismo e protezionismo linguistico sono di sicuro tratti sciovinisti specialmente quando diventano ossessivi e maniacali
e si rivelano spesso controproducenti perché sintomo di avvertita debolezza, tipici di un falso problema sollevato da una
classe dirigente ipocrita e incolta che se ne serve come alibi per l’elusione dei propri impegni e interpreta la difesa della
lingua come una sorta di Fortezza Bastiani. I traduttori sono tra i più fervidi difensori della lingua anche se dovrebbero
esserne soprattutto testimoni dell’evoluzione e sono impegnati soprattutto sul fronte della lotta all’impoverimento della
lingua di cui la semplificazione sarebbe il primo passo. Ma la semplicità rappresenta davvero un pericolo?
Secondo una leggenda ormai invalsa, al generale britannico Charles Colville che gli chiedeva di arrendersi, Pierre
Cambronne, comandante della guardia imperiale napoleonica a Waterloo, rispose: «La guardia muore, ma non si
arrende!» (La garde meurt mais ne se rend pas!). Il leggendario e apocrifo Nicolas Chauvin è molto probabilmente
ispirato al generale francese anche se l’eccessivo fervore attribuitogli lo ha nel tempo reso grottesco.
Lo sciovinismo con cui da allora si etichettano certi comportamenti di esagerata ammirazione verso il proprio Paese e la
propria lingua è all’origine di un certo purismo e protezionismo linguistico ossessivo e maniacale che può altresì
esprimere un interesse personale, o comunque di parte, e forse un po’ stonato, per la tutela di costumi, ambiti o
situazioni contingenti di una cultura o di un Paese che in realtà non ne costituiscono un tratto strutturale o persistente.
Forse è per questo che non si prova sorpresa leggendo che Sacha Guitry, attore, regista e sceneggiatore francese, autore
di 120 commedie, ritenesse che le parole che fanno fortuna impoveriscono la lingua (les mots qui font fortune
appauvrissent la langue), mentre fa un certo effetto sentire il Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano,
prendersela con i mezzi di informazione che accusa di restituire “così impoverita e contratta la nostra lingua”.
La difesa della lingua, però, è soprattutto sintomo di avvertita debolezza, oltre che un falso problema, che ritorna
periodicamente, anche marginalmente, in presenza di una classe dirigente priva di riferimenti culturali, magari incolta,
che se ne serve come arma di difesa protezionistica, senza tuttavia intervenire concretamente in alcun modo e nelle cui
mani appare quantomeno stramba se non ridicola, soprattutto quando si accompagna a scivolosi paragoni come quello
tra “cuscus e involtini primavera” contrapposti a “la pizza e gli spaghetti” in cui si avventurò un infelice ministro della
Repubblica.
La difesa della lingua assume allora i tratti di una sorta di Fortezza Bastiani, ultimo avamposto che domina una desolata
pianura da cui si temono provenire assalti che non giungono e che, dunque, svuotata di importanza strategica, rimane
solo una costruzione arroccata su una solitaria montagna, di cui molti finiscono con l’ignorare finanche l’esistenza.
Pur tuttavia continua a seguire norme ferree ormai desuete, alimentando in coloro che la abitano l’inconfessata
speranza di affrontare il nemico e, se non lo si può sconfiggere, almeno di diventare eroi.
È curioso che tra i più fervidi difensori della lingua vi siano i traduttori che pure dovrebbero essere meglio di altri
testimoni della sua evoluzione. È altrettanto curioso che tra gli stessi difensori si registrino spesso strafalcioni da far
rizzare i capelli. Questo, però, non impedisce loro di rivendicare uno spazio creativo al quale, invece, non avrebbero
diritto e di opporsi a qualunque tentativo di semplificazione funzionale, anche a livello normativo.
La direttiva macchina, per esempio, impone che informazioni e avvertenze siano espresse preferibilmente attraverso
simboli o pittogrammi e che le istruzioni siano chiare, facilmente comprensibili e brevi, in modo da risultare adeguate
anche a operatori non professionali. Del resto, come ricordava Vera Gheno nella rubrica di consulenza linguistica per il
sito Web dell’Accademia della Crusca a proposito delle “scritture tachigrafiche”, «ogni situazione comunicativa richiede
un suo tipo di lingua, ovvero un registro linguistico: la capacità linguistica sta nel sapersi muovere con sicurezza tra i vari
piani comunicativi, riuscendo a scegliere, per ogni occasione, il linguaggio più adatto».
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nell’evoluzione della lingua
Insomma, la lingua si dovrebbe vedere innanzitutto come strumento, e pensare che i linguaggi controllati possano
produrre un peggioramento qualitativo degli scritti se non addirittura impoverire una lingua è come sostenere che i
bisturi laser e i protocolli chirurgici possano produrre un incremento nella mortalità dei pazienti.
La lingua e le parole in sé non sono importanti; lo diventano quando sono veicolo di cultura e di convenzioni e si violano
soprattutto distorcendone l’uso, come si è fatto, per esempio, con “nuovo”, parola divenuta divinità assoluta, che
l’abuso ha svuotato, facendola divenire sinonimo di buono e, per estensione, di utile, proficuo, irrinunciabile, al punto
che, a sentirla pronunciare viene voglia di liberarsi del vecchio perché, in quanto tale, inutile e dannoso.
Non c’è niente di nuovo, per esempio, in gran parte delle cosiddette nuove professioni, immancabilmente associate alle
moderne tecnologie che, invece, sono spesso “solo” lavori complessi perché sintesi di specializzazioni diverse che
permettano di sfruttare le moderne tecnologie. È quanto accade nell’economia della comunicazione che si vuole
appunto “nuova”, ma che è cresciuta e si è modificata beneficiando della tecnologia e a beneficio di essa.
Il mestiere di traduttore, invece, sembra sempre lo stesso dai tempi di Livio Andronico. In verità, i traduttori devono
confrontarsi, come hanno sempre fatto, con la necessità di dotarsi di strumenti e conoscenze la cui applicazione
permetta loro di pervenire rapidamente ed efficacemente alla soluzione di problemi pratici e all’ottimizzazione delle
loro attività, e la conoscenza di una lingua di per sé è insufficiente.
La lingua è uno strumento la cui cura e precisione nell’uso aiuta la diffusione del pensiero e della conoscenza e che va
abbinato a conoscenze e informazioni e all’abilità di servirsene.
Di recente, per esempio, gli organi di informazione hanno dato ampio spazio alle rivelazioni di Wikileaks e quelli italiani
sono spesso caduti in errori di traduzione dovuti ai classici “falsi amici”. Valga, per tutti, l’esempio di idiosyncrasy
ricorrente nei “cablo” dell’ex ambasciatore americano Spogli sul Presidente del Consiglio dei Ministri e ripetutamente
reso con “idiosincrasia” da giornalisti sciatti, frettolosi o semplicemente con troppa fiducia nelle risorse linguistiche
reperibili in Rete.
Il Ragazzini (Zanichelli), il Sansoni e l’edizione italiana di Wikipedia, infatti, propongono “idiosincrasia” e bisogna
consultare il Picchi (Hoepli) per trovare “fisima, fissazione, mania, capriccio, eccentricità, peculiarità, particolarità,
comportamento insolito o strano, tratto caratteristico”.
Si tratta di un errore che certamente non sarebbe accettabile da un sedicente professionista, ma non si può pretendere
da un giornalista che non sia in possesso degli strumenti linguistici necessari a cavarsi d’impaccio in situazioni non
proprio agevoli come questa.
Peraltro, l’uso dell’equivalente corretto avrebbe fatto molto comodo ai difensori del Presidente del Consiglio dei
Ministri, che, invece, hanno taciuto.
L’obiettivo generale degli operatori della comunicazione, massime di quella specializzata, dovrebbe essere informare le
persone in modo preciso e conciso. Per questa ragione la critica più facile, ma anche la più ottusa e sciocca, che di solito
si muove all’uso di un linguaggio controllato è che limita, soffoca la creatività dell’autore quando, invece, nel
preoccuparsi della propria creatività l’autore finisce con il dimostrare scarsissima attenzione, se non autentico disprezzo,
per l’utente finale, che è esclusivamente interessato a comprendere il contenuto per servirsene secondo i suoi scopi. Le
competenze di un autore possono, quindi, addirittura esaltarsi nell’uso sapiente di un linguaggio controllato.
In un film del 1997, Air Force One, il presidente degli Stati Uniti, interpretato da Harrison Ford, intrappolato nella stiva
dell'aereo presidenziale, cercava disperatamente di mettersi in contatto con la Casa Bianca. Trovando un telefono
satellitare nel carico, apriva la confezione, ma si trovava di fronte a un apparecchio all’apparenza complicatissimo. Non
sapendo cosa fare, prendeva il manuale, ne scorreva alcune pagine e, voilà, faceva la sua telefonata. Il mondo libero
salvato da un buon manuale.
Stiamo parlando di un film in cui, forse, si richiede un eccesso di sospensione dell’incredulità, ma resta il fatto che gli
utenti continuano a essere disturbati, offesi e magari danneggiati da testi mal scritti e mal tradotti, incomprensibili,
fumosi, contorti, arzigogolati, barocchi, incoerenti.
I traduttori sono probabilmente i migliori custodi della lingua, i più pronti a coglierne e seguirne l’evoluzione
proteggendola da influenze negative, ma per questo è necessario educarli all’attenzione, più che all’ossessione.
Di ossessione, per esempio, si può parlare nel caso di StopItanglese, una nuova iniziativa nata dalla collaborazione fra
l’agenzia di traduzioni Agostini Associati e un gruppo di linguisti coordinato da Massimo Arcangeli, linguista, sociologo
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nell’evoluzione della lingua
della comunicazione, critico letterario e cinematografico, saggista, ordinario di linguistica italiana presso la facoltà di
lingue e letterature straniere dell'università di Cagliari.
Il sito del progetto StopItanglese, però, si presenta viziato da alcune vistose incongruenze che alcuni critici altrettanto
ossessivi hanno prontamente rilevato e segnalato.
Redditività, fruibilità ed efficacia dei contenuti dipendono tutte da un’accorta gestione dei dati, da strumenti adeguati e
da un sapiente uso di essi. Tutto questo richiede semplicità, che, da Guglielmo di Ockham in avanti, è sempre stato il
principio metodologico per eccellenza nell’esposizione di fatti e idee. Col tempo, infatti, l’entia non sunt multiplicanda
praeter necessitatem di Ockam è diventato il make things as simple as possible but no simpler di Albert Einstein.
Anche Giacomo Leopardi credeva che la semplicità della lingua non fosse di ostacolo alla creatività quando sosteneva
che «la proprietà delle parole è ben altro che la secchezza e nudità di ciascuna» e «la semplicità e naturalezza e facilità
della struttura di una lingua e di un discorso è ben altro che l’aridità e geometrica esattezza di esso», mentre Thomas
Jefferson sosteneva che «il più utile dei talenti è di non usare mai due parole quando una è sufficiente» (the most
valuable of all talents is that of never using two words when one will do).
Non è un caso, allora, che quasi duecento anni dopo, uno dei nostri più insigni giuristi avverta il bisogno di ricordare che
di parole «bisogna conoscerne tante per usarne poche», e, forse, il miglior insegnamento resta quello che ci ha lasciato
Ezra Pound: «l’unica vera ragione morale dello scrivere è una fondamentale accuratezza di espressione» (Fundamental
accuracy of statement is the one sole morality of writing).
In quest’ottica, dovrebbe apparire chiaro il contributo che l’area linguistica può ancora offrire alla traduzione
automatica. Anzi, probabilmente, da qui possono arrivare alcune importanti innovazioni, per cui l’obiettivo di quanti
operano del settore dovrebbe essere favorire l’integrazione dei sistemi di traduzione automatica con i sistemi autore e il
modo più semplice di farlo è intervenendo all’origine, agendo sulla lingua e sui processi, oltre che sulle interfacce e sui
formati.
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