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La Società degli Individui, 37/1: 48-53
Un convegno
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Le basi neurofisiologiche dell' intersoggettività
Vittorio Gallese
Le neuroscienze oggi sono molto discusse. Sono spesso presentate per quello che non sono, e cioè lo
strumento che ci darà le risposte ultimative a quesiti rimasti tutt'ora irrisolti dopo millenni di speculazioni
di natura filosofica. Questo tipo di atteggiamento non è sicuramente condiviso, almeno dalla gran parte
dei miei colleghi, ma è, nel nostro paese, spesso il risultato di un modo sensazionalistico e banale di
presentare i risultati della ricerca scientifica. Ciò detto, credo che le neuroscienze oggi possano
costituire un valido interlocutore per le scienze umane. Questo vale soprattutto per quella branca delle
neuroscienze che chiamiamo, a torto o a ragione, “neuroscienze cognitive”, che ha un fortissimo
interesse antropologico e che mette questa sua visione antropologica al centro delle proprie ricerche.
Di conseguenza studia il cervello di specie per certi versi a noi vicine, ma per altri lontanissime, come
quelle dei primati non umani ed in particolare del macaco, per tornare a porre interrogativi che
attengono a uno degli aspetti fondamentali che ci contraddistinguono, cioè quello relativo alla nostra
identità, sul perché siamo come siamo e sulle modalità del nostro funzionamento. A queste domande
possiamo aggiungere quella che ci suggerisce l'intervento del Prof. Escobar, che mi ha preceduto, cioè
quella che ci induce a chiederci come possiamo diventare quelli che siamo o addirittura come possiamo
diventare diversi da quelli che riteniamo di essere.
Gli interventi che hanno preceduto il mio hanno fatto emergere, a mio avviso, alcune parole chiave, che
esprimono sostanzialmente due concetti ben definiti. La prima parola-concetto è RELAZIONE (o
individuo come risultato della relazione); il secondo concetto è espresso da due termini solo a prima
vista antitetici, ma che molte ricerche contemporanee ci suggeriscono non essere tali, anzi
profondamente intrecciati: DIFFERENZA nell' UGUAGLIANZA oppure, come preferisco,
UGUAGLIANZA nella DIFFERENZA.
Ora, che cosa ci dicono le neuroscienze cognitive sui meccanismi nervosi che si attivano quando
entriamo in relazione con l'altro? Tradizionalmente, fino a non molti anni fa, abbiamo pensato al
funzionamento della nostra mente come al risultato dell’attivazione di una serie di moduli, organizzati
gerarchicamente, ognuno dei quali destinato a svolgere un particolare tipo di lavoro che ne definiva, in
maniera più o meno specifica, la funzione: apparati percettivi, motori, e cognitivi.
Oggi invece stiamo apprendendo come queste sfere si debbano interpretare, dal punto di vista delle
neuroscienze, in modo diverso. Apprendiamo cioè che quelle parti del nostro cervello che, fino a non
molti anni fa, ci sembravano deputate solamente a controllare i nostri movimenti sono anche molto
rilevanti nell'aiutarci a decodificare l'agire altrui. Quindi ridanno slancio, da un certo punto di vista, a una
tradizione di pensiero che, semplificando molto, possiamo identificare con una “linea continentale”, che
La Società degli Individui, 37/1: 48-53
vedeva nella prassi una delle radici fondamentali, una delle chiavi d'accesso fondamentali per capire la
natura umana, molto prima della dimensione teoretica. In parole povere oggi sappiamo che aree del
nostro cervello che si attivano durante l'esecuzione di movimenti motivati dal conseguimento di certi
scopi (per esempio, la mia mano che afferra un bicchiere per prenderlo e portarlo alla bocca per bere),
contengono neuroni – i neuroni specchio – che si attivano anche quando siamo testimoni di analoghe
azioni eseguite dagli altri. Il nostro ruolo di spettatori è molto meno passivo di quanto non si ritenesse
trent'anni fa o di quanto molti ritengano ancora oggi. Il mondo che sta di fronte a noi, prima di essere il
polo di una contemplazione in terza persona, è un mondo “zu handen”, un mondo alla mano. E'
l'oggetto di un’intrinseca potenziale relazione pragmatica. Lo stesso vale per il rapporto che, per
riprendere l'esempio fatto in precedenza, intercorre tra me e il bicchiere, ma è ancor più vero di fronte
ad un altro essere vivente, un animale oppure, ancora meglio, un altro essere umano.
Questi risultati hanno invogliato a esplorare altri aspetti della relazione interpersonale come il dominio
delle emozioni e degli affetti, e quello delle sensazioni. Abbiamo appreso che le aree del nostro cervello
che si attivano quando il nostro corpo viene, per esempio, accarezzato o schiaffeggiato vengono
attivate anche quando vediamo accarezzare o schiaffeggiare il corpo di un altro.
Le stesse aree e circuiti che si attivano quando proviamo fisicamente una sensazione dolorosa si
mettono in funzione anche quando siamo testimoni di una sensazione dolorosa esperita da chi ci sta di
fronte. Abbiamo dunque una base neurale condivisa, che ha questa duplice modalità di attivazione:
quando siamo soggetti dell'esperienza, dell'agire, del patire, del sentire; ma anche quando siamo solo
testimoni di analoghe condizioni che vedono come protagonista l'altro che ci sta di fronte. Partendo da
questi dati, il nostro compito non è quello di costruire delle teorie filosofiche, ma credo sia nostro dovere
presentare tali dati alla comunità delle persone che si interrogano sulla natura umana, offrendoli come
spunto per un dialogo che forzatamente deve scontare diversi livelli di descrizione, diversi linguaggi (la
mancanza iniziale di un linguaggio comune può porsi come ostacolo difficile da oltrepassare, ma non
impossibile se ci si lavora con dedizione). Non ultimo è, infatti, il problema della costitutività del
linguaggio, che è la cosa che ci rende così diversi dagli altri animali. Quando usiamo l'espressione
“comprendere l'altro” possiamo anche essere indotti a pensare che questo “comprendere” funzioni in
modo univoco; ad esempio, se diamo retta al cognitivismo classico, l'altro e il confronto con l'altro
richiedono da parte nostra il mettere in essere strategie cognitive non molto diverse da quelle che
utilizziamo per risolvere un problema logico. Le cose, ancora una volta, non sono così.
Questo non l'abbiamo scoperto unicamente noi neuroscienziati, ma è anche il portato di una lunga
tradizione di pensiero quale la Fenomenologia che vede il corpo non solo come oggetto fisico (Körper)
ma anche come corpo vivo (Leib), sorgente dell’esperienza vitale che facciamo del mondo. Ancora
prima della Fenomenologia, se guardiamo agli illuministi scozzesi, scopriamo come Hume avesse
utilizzato la metafora della risonanza (cioè la propagazione in uno strumento musicale della vibrazione
da una corda alle altre, che si mettono così a vibrare alla stessa frequenza della prima), per parlare di
come affetti ed emozioni si diffondono da un individuo all'altro. Hume utilizzò la stessa metafora da noi
scelta molto tempo per descrivere i neuroni specchio.
Ma allora perché ho utilizzato l'espressione “uguaglianza nella differenza”? Perché questo
meccanismo, per quanto ne sappiamo, è condiviso universalmente ma ha anche delle forti modulazioni,
La Società degli Individui, 37/1: 48-53
che dipendono da chi noi siamo, da come noi abbiamo costruito la nostra identità personale (questo ce
lo dimostra sempre meglio un altro filone di ricerca, quello della psicologia dello sviluppo) dall'inizio
della nostra vita, o forse ancora prima, a partire dalle ultime fasi dello sviluppo fetale in utero, uno
sviluppo che è legato fondamentalmente al concetto di relazione.
Le ricerche di molti psicologi dello sviluppo come Trevarthen o Stern hanno condotto alla formulazione
di concetti come “protoconversazioni”, “intersoggettività primaria”, “sintonizzazione affettiva” e così via.
Gli esseri umani appaiono essere programmati per essere relazionali. La relazione sociale è inscritta
nel nostro codice genetico, fa parte del nostro patrimonio biologico. Ovviamente le modalità con cui
possiamo declinare questa relazione sono molteplici e sono in gran parte influenzate dalla qualità e
dalla quantità di relazioni che noi esperiamo durante il nostro sviluppo, che non è solo somatico ma
anche, se non soprattutto, uno sviluppo di tipo psico-affettivo. Abbiamo questo meccanismo di
risonanza, che ci mette tutti, seppure in maniera diversa, automaticamente nella posizione di “mappare”
il sentire e l'agire altrui in un modo pre-linguistico, prerazionale, non introspettivo, diretto e automatico.
Oggi le neuroscienze stanno passando dallo studio di un ipotetico “cervello medio”, appartenente ad un
ipotetico “uomo medio”, il quale a sua volta è chiaramente il prodotto di un'artificiosa necessità
statistica, allo studio delle singole persone, dei singoli individui, dotati di una storia personale che può
essere molto diversa. Questa uguaglianza nella differenza si può vedere già a livello anatomico.
Se si vuole fare una cartografia cerebrale si scopre che il nostro cervello non è una superficie
equipotenziale, ma che è costituito da diverse tipologie di neuroni, che si organizzano in strati corticali
diversi, per cui siamo in grado di costruire delle mappe citoarchitettoniche delle aree cerebrali. Una
delle regioni corticali, ad esempio, è la cosiddetta “regione di Broca”, la cui scoperta è stato il primo
esempio di localizzazione di funzione cerebrale. La regione di Broca è infatti coinvolta nella produzione
linguistica. Introduciamo ora il concetto di “variabilità interindividuale”. Si tratta della differenza che
presenta una data regione corticale tra diversi soggetti. L'Istituto Vogt di Neuroanatomia dell’Università
di Düsseldorf ha elaborato una mappa citoarchitettonica quantitativa del cervello umano, cioè ha
proceduto a sezionare cervelli di cadaveri e ne ha colorato le diverse aree, confrontando poi i bordi
citoarchitettonici di queste proprio per misurare la variabilità interindividuale. Il risultato è che, ad
esempio, i confini della regione di Broca possono variare tra il 20 ed il 30% in individui diversi. Queste
rilevanti differenze anatomiche si traducono, ovviamente, in differenze funzionali. Siamo dunque tutti
diversi uno dall'altro anche se condividiamo meccanismi funzionali comuni. Questa era già stata una
geniale intuizione di Darwin, che nel libro “Le espressioni delle emozioni nell'uomo e negli animali” intuì
che esiste una modalità di comunicazione interindividuale delle emozioni di base (paura, rabbia,
disgusto, ecc.) che è universale. Una faccia spaventata si riconosce ovunque. Anche se diverso è il
motivo che suscita lo spavento.
Occorre stare attenti, però, a non tradurre questi dati empirici in una scomoda scorciatoia: la formula
conciliatoria ed autogratificante che trova nei neuroni specchio, nei meccanismi di risonanza che ci
mettono direttamente in sintonia con l'altro, la soluzione che ci spiega come e perché siamo così
naturalmente buoni.
Un ottimo antidoto a questa utilizzazione “buonista” dei neuroni specchio può venire dal pensiero di
René Girard. Cruciale nella Teoria Mimetica di Girard è, infatti, il concetto di desiderio mimetico,
La Società degli Individui, 37/1: 48-53
concepito come mimesi di appropriazione, la fonte principale dell’aggressività e della violenza che
caratterizza la nostra specie. Il valore intrinseco degli oggetti del nostro desiderio non è rilevante così
come il fatto che gli oggetti stessi sono gli obiettivi del desiderio altrui. La prospettiva di Girard,
sottolineando il carattere ambivalente della mimesi con la sua potenzialità di condurre l'umanità sia
verso un'escalation di violenza che verso la trasmissione simbolico-culturale, fornisce un quadro molto
interessante, di ampia portata, e un contributo stimolante alla nostra comprensione dell'evoluzione della
cultura umana.
L'idea che sto cercando di proporre è che all'origine dell’ambivalenza della mimesi vi sia l'apertura
ontologica dell'uomo verso gli altri. Il nostro desiderio “ontologico” di essere come l'Altro, il modello,
deriva dalla nostra apertura ontologica all'Altro, che, a sua volta, è determinata dal fatto che l'Altro è già
una parte costitutiva del Sé. Dal che segue che dobbiamo abbandonare la visione Cartesiana del
primato dell'Ego, e adottare una prospettiva secondo cui l'Altro è co-originariamente dato come il Sé.
Sia il Sé che l’Altro sembrano essere intimamente intrecciati a causa del loro legame intercorporeo.
L’intercorporeità descrive un aspetto cruciale dell’intersoggettività non perché quest'ultima
debba esser considerata come fondata sulla mera somiglianza percepita tra il nostro corpo e il corpo
degli altri. L’intercorporeità descrive un aspetto cruciale dell’intersoggettività, perché gli esseri umani
condividono gli stessi oggetti intenzionali e perché i loro sistemi motori sono similmente cablati per
raggiungere obiettivi di base simili. Prima del nostro approccio teorico alla realtà vi è il carattere
pragmatico della nostra apertura al mondo. L’auto-individuazione è un processo che nasce dalla
necessità di liberare il Sé dalla dimensione noi-centrica in cui è originariamente e costitutivamente
incorporato. La nostra costitutiva apertura agli altri, di cui la mimesi è una delle espressioni principali,
può essere declinata sia in termini di violenza sociale che di cooperazione sociale.
C’è un’esperienza originale che noi facciamo degli altri esseri umani, a prescindere dalla loro etnicità,
religione, status socio-economico o culturale. Tale esperienza originale sembra essere radicata nei
meccanismi neurali del cervello che mettono in relazione diversi sistemi cervello-corpo come esseri
umani come noi. La cognizione sociale non deve quindi essere concepita unicamente come
metacognizione sulla base dell'uso degli atteggiamenti proposizionali della psicologia del senso
comune. La psicologia del senso comune non è l'unica modalità di comprensione interpersonale. Forse
neppure la più rilevante. Prima (sia in termini filo- che onto-genetici) della lettura della mente
metarappresentazionale si trova l’intercorporeità - la reciproca risonanza di comportamenti sensoriali-
motori intenzionalmente significativi – quale principale fonte di conoscenza diretta degli altri.
Nel tempo presente, caratterizzato dalla veemente recrudescenza del particolarismo etnico-
religioso, in cui identità e differenza sono tra i problemi più discussi sia su scala globale, così come a
livello delle nostre comunità locali, stabilire che lo status universale dell'essere umano è prodotto dalla
identificazione sociale e dal riconoscimento reciproco e che è fondato biologicamente, dimostra la
potenziale rilevanza etica della ricerca neuroscientifica.
Per questo motivo credo che sia importante affrontare il più classico problema filosofico - chi
siamo - da una prospettiva multidisciplinare che integri ciò che discipline come le neuroscienze
cognitive possono insegnarci a questo proposito.

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La societa degli_individui_37_2010

  • 1. La Società degli Individui, 37/1: 48-53 Un convegno ______________________________________________________________________________________ Le basi neurofisiologiche dell' intersoggettività Vittorio Gallese Le neuroscienze oggi sono molto discusse. Sono spesso presentate per quello che non sono, e cioè lo strumento che ci darà le risposte ultimative a quesiti rimasti tutt'ora irrisolti dopo millenni di speculazioni di natura filosofica. Questo tipo di atteggiamento non è sicuramente condiviso, almeno dalla gran parte dei miei colleghi, ma è, nel nostro paese, spesso il risultato di un modo sensazionalistico e banale di presentare i risultati della ricerca scientifica. Ciò detto, credo che le neuroscienze oggi possano costituire un valido interlocutore per le scienze umane. Questo vale soprattutto per quella branca delle neuroscienze che chiamiamo, a torto o a ragione, “neuroscienze cognitive”, che ha un fortissimo interesse antropologico e che mette questa sua visione antropologica al centro delle proprie ricerche. Di conseguenza studia il cervello di specie per certi versi a noi vicine, ma per altri lontanissime, come quelle dei primati non umani ed in particolare del macaco, per tornare a porre interrogativi che attengono a uno degli aspetti fondamentali che ci contraddistinguono, cioè quello relativo alla nostra identità, sul perché siamo come siamo e sulle modalità del nostro funzionamento. A queste domande possiamo aggiungere quella che ci suggerisce l'intervento del Prof. Escobar, che mi ha preceduto, cioè quella che ci induce a chiederci come possiamo diventare quelli che siamo o addirittura come possiamo diventare diversi da quelli che riteniamo di essere. Gli interventi che hanno preceduto il mio hanno fatto emergere, a mio avviso, alcune parole chiave, che esprimono sostanzialmente due concetti ben definiti. La prima parola-concetto è RELAZIONE (o individuo come risultato della relazione); il secondo concetto è espresso da due termini solo a prima vista antitetici, ma che molte ricerche contemporanee ci suggeriscono non essere tali, anzi profondamente intrecciati: DIFFERENZA nell' UGUAGLIANZA oppure, come preferisco, UGUAGLIANZA nella DIFFERENZA. Ora, che cosa ci dicono le neuroscienze cognitive sui meccanismi nervosi che si attivano quando entriamo in relazione con l'altro? Tradizionalmente, fino a non molti anni fa, abbiamo pensato al funzionamento della nostra mente come al risultato dell’attivazione di una serie di moduli, organizzati gerarchicamente, ognuno dei quali destinato a svolgere un particolare tipo di lavoro che ne definiva, in maniera più o meno specifica, la funzione: apparati percettivi, motori, e cognitivi. Oggi invece stiamo apprendendo come queste sfere si debbano interpretare, dal punto di vista delle neuroscienze, in modo diverso. Apprendiamo cioè che quelle parti del nostro cervello che, fino a non molti anni fa, ci sembravano deputate solamente a controllare i nostri movimenti sono anche molto rilevanti nell'aiutarci a decodificare l'agire altrui. Quindi ridanno slancio, da un certo punto di vista, a una tradizione di pensiero che, semplificando molto, possiamo identificare con una “linea continentale”, che
  • 2. La Società degli Individui, 37/1: 48-53 vedeva nella prassi una delle radici fondamentali, una delle chiavi d'accesso fondamentali per capire la natura umana, molto prima della dimensione teoretica. In parole povere oggi sappiamo che aree del nostro cervello che si attivano durante l'esecuzione di movimenti motivati dal conseguimento di certi scopi (per esempio, la mia mano che afferra un bicchiere per prenderlo e portarlo alla bocca per bere), contengono neuroni – i neuroni specchio – che si attivano anche quando siamo testimoni di analoghe azioni eseguite dagli altri. Il nostro ruolo di spettatori è molto meno passivo di quanto non si ritenesse trent'anni fa o di quanto molti ritengano ancora oggi. Il mondo che sta di fronte a noi, prima di essere il polo di una contemplazione in terza persona, è un mondo “zu handen”, un mondo alla mano. E' l'oggetto di un’intrinseca potenziale relazione pragmatica. Lo stesso vale per il rapporto che, per riprendere l'esempio fatto in precedenza, intercorre tra me e il bicchiere, ma è ancor più vero di fronte ad un altro essere vivente, un animale oppure, ancora meglio, un altro essere umano. Questi risultati hanno invogliato a esplorare altri aspetti della relazione interpersonale come il dominio delle emozioni e degli affetti, e quello delle sensazioni. Abbiamo appreso che le aree del nostro cervello che si attivano quando il nostro corpo viene, per esempio, accarezzato o schiaffeggiato vengono attivate anche quando vediamo accarezzare o schiaffeggiare il corpo di un altro. Le stesse aree e circuiti che si attivano quando proviamo fisicamente una sensazione dolorosa si mettono in funzione anche quando siamo testimoni di una sensazione dolorosa esperita da chi ci sta di fronte. Abbiamo dunque una base neurale condivisa, che ha questa duplice modalità di attivazione: quando siamo soggetti dell'esperienza, dell'agire, del patire, del sentire; ma anche quando siamo solo testimoni di analoghe condizioni che vedono come protagonista l'altro che ci sta di fronte. Partendo da questi dati, il nostro compito non è quello di costruire delle teorie filosofiche, ma credo sia nostro dovere presentare tali dati alla comunità delle persone che si interrogano sulla natura umana, offrendoli come spunto per un dialogo che forzatamente deve scontare diversi livelli di descrizione, diversi linguaggi (la mancanza iniziale di un linguaggio comune può porsi come ostacolo difficile da oltrepassare, ma non impossibile se ci si lavora con dedizione). Non ultimo è, infatti, il problema della costitutività del linguaggio, che è la cosa che ci rende così diversi dagli altri animali. Quando usiamo l'espressione “comprendere l'altro” possiamo anche essere indotti a pensare che questo “comprendere” funzioni in modo univoco; ad esempio, se diamo retta al cognitivismo classico, l'altro e il confronto con l'altro richiedono da parte nostra il mettere in essere strategie cognitive non molto diverse da quelle che utilizziamo per risolvere un problema logico. Le cose, ancora una volta, non sono così. Questo non l'abbiamo scoperto unicamente noi neuroscienziati, ma è anche il portato di una lunga tradizione di pensiero quale la Fenomenologia che vede il corpo non solo come oggetto fisico (Körper) ma anche come corpo vivo (Leib), sorgente dell’esperienza vitale che facciamo del mondo. Ancora prima della Fenomenologia, se guardiamo agli illuministi scozzesi, scopriamo come Hume avesse utilizzato la metafora della risonanza (cioè la propagazione in uno strumento musicale della vibrazione da una corda alle altre, che si mettono così a vibrare alla stessa frequenza della prima), per parlare di come affetti ed emozioni si diffondono da un individuo all'altro. Hume utilizzò la stessa metafora da noi scelta molto tempo per descrivere i neuroni specchio. Ma allora perché ho utilizzato l'espressione “uguaglianza nella differenza”? Perché questo meccanismo, per quanto ne sappiamo, è condiviso universalmente ma ha anche delle forti modulazioni,
  • 3. La Società degli Individui, 37/1: 48-53 che dipendono da chi noi siamo, da come noi abbiamo costruito la nostra identità personale (questo ce lo dimostra sempre meglio un altro filone di ricerca, quello della psicologia dello sviluppo) dall'inizio della nostra vita, o forse ancora prima, a partire dalle ultime fasi dello sviluppo fetale in utero, uno sviluppo che è legato fondamentalmente al concetto di relazione. Le ricerche di molti psicologi dello sviluppo come Trevarthen o Stern hanno condotto alla formulazione di concetti come “protoconversazioni”, “intersoggettività primaria”, “sintonizzazione affettiva” e così via. Gli esseri umani appaiono essere programmati per essere relazionali. La relazione sociale è inscritta nel nostro codice genetico, fa parte del nostro patrimonio biologico. Ovviamente le modalità con cui possiamo declinare questa relazione sono molteplici e sono in gran parte influenzate dalla qualità e dalla quantità di relazioni che noi esperiamo durante il nostro sviluppo, che non è solo somatico ma anche, se non soprattutto, uno sviluppo di tipo psico-affettivo. Abbiamo questo meccanismo di risonanza, che ci mette tutti, seppure in maniera diversa, automaticamente nella posizione di “mappare” il sentire e l'agire altrui in un modo pre-linguistico, prerazionale, non introspettivo, diretto e automatico. Oggi le neuroscienze stanno passando dallo studio di un ipotetico “cervello medio”, appartenente ad un ipotetico “uomo medio”, il quale a sua volta è chiaramente il prodotto di un'artificiosa necessità statistica, allo studio delle singole persone, dei singoli individui, dotati di una storia personale che può essere molto diversa. Questa uguaglianza nella differenza si può vedere già a livello anatomico. Se si vuole fare una cartografia cerebrale si scopre che il nostro cervello non è una superficie equipotenziale, ma che è costituito da diverse tipologie di neuroni, che si organizzano in strati corticali diversi, per cui siamo in grado di costruire delle mappe citoarchitettoniche delle aree cerebrali. Una delle regioni corticali, ad esempio, è la cosiddetta “regione di Broca”, la cui scoperta è stato il primo esempio di localizzazione di funzione cerebrale. La regione di Broca è infatti coinvolta nella produzione linguistica. Introduciamo ora il concetto di “variabilità interindividuale”. Si tratta della differenza che presenta una data regione corticale tra diversi soggetti. L'Istituto Vogt di Neuroanatomia dell’Università di Düsseldorf ha elaborato una mappa citoarchitettonica quantitativa del cervello umano, cioè ha proceduto a sezionare cervelli di cadaveri e ne ha colorato le diverse aree, confrontando poi i bordi citoarchitettonici di queste proprio per misurare la variabilità interindividuale. Il risultato è che, ad esempio, i confini della regione di Broca possono variare tra il 20 ed il 30% in individui diversi. Queste rilevanti differenze anatomiche si traducono, ovviamente, in differenze funzionali. Siamo dunque tutti diversi uno dall'altro anche se condividiamo meccanismi funzionali comuni. Questa era già stata una geniale intuizione di Darwin, che nel libro “Le espressioni delle emozioni nell'uomo e negli animali” intuì che esiste una modalità di comunicazione interindividuale delle emozioni di base (paura, rabbia, disgusto, ecc.) che è universale. Una faccia spaventata si riconosce ovunque. Anche se diverso è il motivo che suscita lo spavento. Occorre stare attenti, però, a non tradurre questi dati empirici in una scomoda scorciatoia: la formula conciliatoria ed autogratificante che trova nei neuroni specchio, nei meccanismi di risonanza che ci mettono direttamente in sintonia con l'altro, la soluzione che ci spiega come e perché siamo così naturalmente buoni. Un ottimo antidoto a questa utilizzazione “buonista” dei neuroni specchio può venire dal pensiero di René Girard. Cruciale nella Teoria Mimetica di Girard è, infatti, il concetto di desiderio mimetico,
  • 4. La Società degli Individui, 37/1: 48-53 concepito come mimesi di appropriazione, la fonte principale dell’aggressività e della violenza che caratterizza la nostra specie. Il valore intrinseco degli oggetti del nostro desiderio non è rilevante così come il fatto che gli oggetti stessi sono gli obiettivi del desiderio altrui. La prospettiva di Girard, sottolineando il carattere ambivalente della mimesi con la sua potenzialità di condurre l'umanità sia verso un'escalation di violenza che verso la trasmissione simbolico-culturale, fornisce un quadro molto interessante, di ampia portata, e un contributo stimolante alla nostra comprensione dell'evoluzione della cultura umana. L'idea che sto cercando di proporre è che all'origine dell’ambivalenza della mimesi vi sia l'apertura ontologica dell'uomo verso gli altri. Il nostro desiderio “ontologico” di essere come l'Altro, il modello, deriva dalla nostra apertura ontologica all'Altro, che, a sua volta, è determinata dal fatto che l'Altro è già una parte costitutiva del Sé. Dal che segue che dobbiamo abbandonare la visione Cartesiana del primato dell'Ego, e adottare una prospettiva secondo cui l'Altro è co-originariamente dato come il Sé. Sia il Sé che l’Altro sembrano essere intimamente intrecciati a causa del loro legame intercorporeo. L’intercorporeità descrive un aspetto cruciale dell’intersoggettività non perché quest'ultima debba esser considerata come fondata sulla mera somiglianza percepita tra il nostro corpo e il corpo degli altri. L’intercorporeità descrive un aspetto cruciale dell’intersoggettività, perché gli esseri umani condividono gli stessi oggetti intenzionali e perché i loro sistemi motori sono similmente cablati per raggiungere obiettivi di base simili. Prima del nostro approccio teorico alla realtà vi è il carattere pragmatico della nostra apertura al mondo. L’auto-individuazione è un processo che nasce dalla necessità di liberare il Sé dalla dimensione noi-centrica in cui è originariamente e costitutivamente incorporato. La nostra costitutiva apertura agli altri, di cui la mimesi è una delle espressioni principali, può essere declinata sia in termini di violenza sociale che di cooperazione sociale. C’è un’esperienza originale che noi facciamo degli altri esseri umani, a prescindere dalla loro etnicità, religione, status socio-economico o culturale. Tale esperienza originale sembra essere radicata nei meccanismi neurali del cervello che mettono in relazione diversi sistemi cervello-corpo come esseri umani come noi. La cognizione sociale non deve quindi essere concepita unicamente come metacognizione sulla base dell'uso degli atteggiamenti proposizionali della psicologia del senso comune. La psicologia del senso comune non è l'unica modalità di comprensione interpersonale. Forse neppure la più rilevante. Prima (sia in termini filo- che onto-genetici) della lettura della mente metarappresentazionale si trova l’intercorporeità - la reciproca risonanza di comportamenti sensoriali- motori intenzionalmente significativi – quale principale fonte di conoscenza diretta degli altri. Nel tempo presente, caratterizzato dalla veemente recrudescenza del particolarismo etnico- religioso, in cui identità e differenza sono tra i problemi più discussi sia su scala globale, così come a livello delle nostre comunità locali, stabilire che lo status universale dell'essere umano è prodotto dalla identificazione sociale e dal riconoscimento reciproco e che è fondato biologicamente, dimostra la potenziale rilevanza etica della ricerca neuroscientifica. Per questo motivo credo che sia importante affrontare il più classico problema filosofico - chi siamo - da una prospettiva multidisciplinare che integri ciò che discipline come le neuroscienze cognitive possono insegnarci a questo proposito.