1. MODA E FUORIMODA
Sistema moda e subculture giovanili
Testi: Massimo Antonucci
2. La sce na italiana
In Italia, negli anni ‘50, la gioventù italiana, ancor più
di quella inglese, subì pesantemente l'influenza della cultura
americana, la cultura dei vincitori. Per addentrarci in questo
nuovo territorio ci faremo aiutare dal saggio di Francesco
Donadio e Marcello Giannotti Teddy Boys rockettari e
cyberpunk che, come recita il sottotitolo, si occupa di Tipi
mode e manie del teenager italiano dagli anni '50 a oggi .
In Italia rispetto ad altri paesi europei, è particolarmente viva
la voglia di imitare gli Stati Uniti. I motivi sono da ricercarsi
nella presenza americana sul nostro territorio durante la
seconda guerra mondiale, che aveva lasciato, in chi era
bambino in quegli anni, molti buoni ricordi e, soprattutto, dei
modelli da imitare. Il ragazzo italiano cresce a immagine e
somiglianza di quello americano; due sono i canali principali
attraverso cui impara dai modelli di oltreoceano: il cinema e
la musica. Gli eroi di celluloide funzionano a meraviglia:
Marlon Brando, Montgomery Clift, Sal Mineo, Natalie Wood,
Marylin Monroe e James Dean sono i grandi e universali punti
di riferimento di tutti i ragazzi italiani degli anni'50...E' così
che molti ragazzi, talvolta senza nemmeno rendersene conto,
si fanno coinvolgere dal grande mito dell'America consumista
e benestante: cominciano a bere coca-cola e, se capita, whisky
e soda, a dirsi reciprocamente <<occhei>>, a vestirsi in jeans e
t-shirts, a imporre alle proprie mamme di cucinare hamburger
e, addirittura, a imitare gli atteggiamenti da <<duri>> e le
cadenze vocali degli attori di oltreoceano... La divulgazione
del rock'n roll avviene invece con un paio di anni di ritardo
rispetto all'America e inizialmente incontra qualche difficoltà
a prendere piede. Sono i tempi in cui da noi dominano ancora
incontrastate le canzone italiana e la melodia napoletana: per
orecchie abituate ad assorbire suadenti armonie, l'irruzione
del nuovo genere è un vero e proprio shock.
3. L'affermarsi del rock'n roll in Italia è legato alla
diffusione dei juke-box. Se prima del 1955 solo il Foro
Italico a Roma poteva vantare un esemplare di swinging
tower (un modello di juke box che conteneva fino a dieci
dischi), nel 1956 se ne contano già 500, impiantati nei bar,
nelle latterie e negli stabilimenti balneari; all'inizio degli
anni '60 si arriva addirittura alle diecimila unità.
In un primo tempo, attecchisce la variante melodica
del rock'n roll, il doo-wop, eseguita da gruppi vocali di
colore: i Platters, con Only You e Smoke gets in your eyes ,
sono i portabandiera del genere. Presto, però, arriverà
anche il rock'n roll più spigoloso e ribelle di Bill Haley, di
Elvis e di Little Richard.
Testi: Massimo Antonucci
4. Tra il '57 e il '58 fa le sue prime apparizioni il rock'n
roll nostrano. Così, Francesco Donadio e Marcello Giannotti
ricostruiscono, nel saggio sopra citato, l'emergere di una
scena rock'n roll italiana:
La culla del rock'n roll in versione italianizzata è Milano: è qui
che il discografico di origine svizzera Walter Guertler ha le
intuizioni che procureranno a lui i denari, e ai teenager
italiani nuove mode e idoli. Guertler comincia dal
<<soffice>>, creando dapprima il fenomeno dei cosidetti
<<urlatori>>...: il caposcuola è Tony Dallara, al secolo Antonio
Lardera, che imita alla perfezione il singhiozzo di Tony
Williams, la voce dei Platters, e che ragiunge uno strepitoso
successo tra il 1957 e il '58 con la canzone Come prima ... Il
rock'n roll vero, però, quello scatenato, è un'altra cosa. E
Guertler, che è un tipo che tiene sempre drizzate le orecchie,
è in prima fila al Palaghiaccio di Milano il 18 maggio 1957, ad
assistere al <<Primo Festival Nazionale del Rock and
Roll>>...Per la prima volta nel nostro Paese si assiste allo
spettacolo di teenagers vestiti come James Dean e Natalie
Wood, urlanti e strepitanti, che lanciano in aria camicette e
bottiglie di coca-cola e demoliscono le sedie al suono delle
nuove musiche. Insomma, si vestono da <<ribelli>> e si
comportano da <<ribelli>>: il teenager italiano, in senso
moderno, forse nasce proprio quel giorno...
Il racconto della genesi del rock'n roll nostrano
prosegue in questo modo:
E mentre lo storico parto ha luogo, sul palco si sfidano due
interpreti, anch'essi adolescenti come il loro pubblico...: uno è
alto, allampanato, quasi timido; si chiama Giorgio Gabershik,
ma ha accorciato il suo nome in Gaber per motivi artistici.
Canta pacatamente una canzone dal titolo Ciao ti dirò, e
ottiene dal pubblico un responso altrettanto pacato. Il suo
5. concorrente è un diciannovenne... chiamato Adriano
Celentano;...come asserisce lo scrittore Umberto Simonetta,
aggredisce la canzone, la stessa di Gaber, <<con la furia di un
samurai>>, nel tentativo di emulare il suo idolo Elvis Presley.
Il pubblico è ai suoi piedi...: è lui il <<re del rock'n'roll>>
italiano. Guertler non se lo fa scappare e pochi giorni dopo gli
offre un contratto discografico. Il successo arride finalmente
al giovane rocker nell'estate del '58 con Il tuo bacio è come
un rock . Seguiranno altri successi come I ragazzi del juke-box
e Ventiquattromila baci.
L'americanismo dei giovani italiani diventa ben presto
oggetto di parodia: basti pensare alla figura di adolescente
portato sullo schermo da Alberto Sordi nel film
Un'americano a Roma , o alla memorabile caricatura dei
teenagers nostrani fatta da Renato Carosone nella canzone
Tu vuò fa l'americano.
Durante gli anni'50, secondo Donadio e Giannotti, si
possono individuare, oltre al teenager filoamericano, altri
modelli adolescenziali, più tipicamente italiani: il borgataro,
il figlio di papà, il parrocchiale e il pappagallo.
Testi: Massimo Antonucci
6. Il borgataro è quell'adolescente che abita dentro
squallide periferie urbane e che Pier Paolo Pasolini seppe
magistralmente rappresentare sia cinematograficamente che
letterariamente.
...nel 1955, nel suo primo romanzo Ragazzi di vita, descrive le
giornate sciatte e ingloriose di un gruppo di amici di una di
quelle periferie romane comunemente denominate
<<borgate>>. L'eroe della storia è il tredicenne <<Riccetto>>,
conosciuto, non a caso, solo con il suo soprannome, che abita
in un edificio dai muri screpolati, una ex scuola elementare
che prima della guerra era servita per alloggiare i tedeschi, e,
successivamente, i canadesi, e in cui in seguito si erano
sistemati <<gli sfollati, e da ultimo gli sfrattati, come la
famiglia del Riccetto>>. Pasolini si sofferma a descrivere con
cura le occupazioni giornaliere dell'adolescente borgataro nel
corso di una torrida estate romana: piccoli furti, approcci con
le prostitute, e lunghi pomeriggi passati in fatiscenti luna
park periferici, dove Riccetto e i suoi amici giocano a calcio
balilla finendo regolarmente per picchiarsi con dei
<<borgatari>> loro antagonisti; il ragazzo volge lo sguardo,
inoltre, con stupore e senso d'inferiorità verso il mondo dei
suoi coetanei borghesi e danarosi, con cui sente di non avere
niente in comune.
Il volto che incarna meglio la figura del <<borgataro>>
è quello di Ninetto Davoli, borgataro d.o.c. scoperto e
lanciato cinematograficamente da Pier Paolo Pasolini.
Nato nel 1948, di origine calabrese, si era trasferito in tenera
età a Roma alla borgata Prenestina, a due passi dall'Acqua
Bullicante. Passa l'adolescenza scorrazzando per strada o
dedicandosi a divertimenti da due soldi, come <<nizza>>,
<<spacca-picchi>>, <<tre-tre-giù-giù>> e <<zecchinetta>>. La
scuola l'abbandona presto, perché è costretto a portare soldi a
7. casa: fa il meccanico, il falegname e anche il cascherino. Poi,
all'età di 16 anni, il colpo di fortuna: fa la conoscenza di
Pasolini, che prende subito in simpatia questo <<ragazzo di
vita>> dagli occhi buoni e dagli atteggiamenti naif.
Improvvisamente Ninetto, dalla sua borgata, si trova
catapultato sui set di Cinecittà: dapprima ottiene una
particina da pastorello nel film Il vangelo secondo Matteo del
1964; poi è addirittura il co-protagonista di uno dei più
importanti film italiani del decennio, Uccellacci e uccellini ; e
il suo partner è nientemeno che il grande Totò. Il giovane
Ninetto diventa, così, dal giorno alla notte, oggetto di
adorazione, e anche di invidia, da parte dei suoi coetanei
delle periferie degradate di tutta Italia.
In una ben diversa posizione sociale si colloca il
<<figlio di papà>>, altro modello adolescenziale individuato
da Donadio e Giannotti. Si tratta di una gioventù senza
problemi economici, che spesso guarda più alla cultura
francese che a quella americana, ammirando "...idoli più
decadenti e imbronciati, come Alain Delon, Brigitte Bardot,
Annette Stroyberg e Pascale Petit.". Gli autori sottolineano
come una consistente dose di perbenismo conformistico
caratterizzi questa tipologia di adolescente italiano:
Testi: Massimo Antonucci
8. Le ragazze puntano a mantenere intatta la propria purezza:
affermano a voce alta (e con un pò di ipocrisia) che mai e poi
mai cadrebbero preda delle tentazioni prima del matrimonio.
Per loro, in ogni caso, è obbligatorio l'abito elegante, spesso
un bel tailleur scuro, tanto per non dare nell'occhio, e
qualche gioiellino d'oro; assolutamente indispensabile un
atteggiamento altezzoso verso tutto il mondo circostante,
eccetto pochissimi fortunati.
Per i maschi sono di rigore i capelli ordinati, i vestiti di classe,
e poche idee ma chiare sul proprio futuro. Fanno il
baciamano e la riverenza alle signore, studiano pianoforte in
privato; e, soprattutto, vengono esibiti con orgoglio da
mamma e papà a parenti e amici in visita.
Il <<figlio di papà>> ama la vita mondana e prestigiose
località di villeggiatura: "...Forte dei Marmi, Saint Tropez,
Portorotondo, le località della Versilia. In queste ultime, in
particolare, i figli di papà più all'avanguardia si
appassionano all'ascolto di ottima musica jazz: agli albori
degli anni'60, si ritrovano al <<Bussolotto>>...E' qui che
suonano il trombettista Nini Rosso, i Cinque di Lucca...e il
grande Chet Baker, che suona la tromba e canta ogni sera
facendosi accompagnare da Romano Mussolini.
9. Prima di passare alla scena degli anni '60, completiamo
il quadro dei tipi adolescenziali dell'Italia anni'50,
individuati da Donadio e Giannotti, parlando del "ragazzo di
parrocchia" e del "pappagallo".
Il "ragazzo di parrocchia" è il classico bravo ragazzo,
chiaramente cattolico, che prende parte attiva
nell'organizzazione delle messe e delle altre attività
parrocchiali:
Il giovane cattolico italiano degli anni Cinquanta e Sessanta è
figlio dello spirito del Concilio Vaticano Secondo, che si aprirà
nel 1962 per volontà di Giovanni XXIII, e conferirà ai ragazzi
un ruolo importante nella Chiesa del futuro. Prima del
Concilio, in chiesa si andava solo per assistere alla messa;
dopo il Concilio, la parola d'ordine sarà <<partecipare>>. E
che in chiesa i ragazzi potessero trovare un ruolo importante
era già chiaro da qualche anno in America: tra la gente di
colore che si dedicava alla religione c'erano, infatti, alcuni
giovani cantanti dilettanti che si esibivano la domenica e un
paio di sere alla settimana, e molti (Mahalia Jakson e Aretha
Franklin sono gli esempi più eclatanti) sarebbero diventati
molto famosi nel mondo.
Anche se questo fenomeno si manifesterà pienamente
solo negli anni'60, fin dagli anni '50 è evidente una
maggiore partecipazione dei giovani cattolici alle attività
parrocchiali.
Le abitudini di questo ragazzo tutto casa e chiesa sono
semplici: dopo la quotidiana preparazione dei canti religiosi, il
ragazzo della parrocchia vive, fa amicizia e si diverte
all'oratorio, dove può giocare a pallone, a pallavolo o a ping
pong ... La domenica poi, dopo la messa, l'adolescente
Testi: Massimo Antonucci
10. parrocchiale va fuori città con i suoi simili per una
scampagnata a base di preghiere e panini.
A rendere famoso questo tipo di adolescente,
facendone una gustosa caricatura, è ancora una volta
Alberto Sordi, dapprima in una serie di programmi
radiofonici e, poi, nel film Mamma mia che impressione!
del 1951.
Il ragazzo di parrocchia sembra essere completamente
disinteressato alle mode d'oltreoceano. A metà degli anni
'60, però, si verificherà una inaspettata conversione, capace
di cambiare le sue abitudini.
Il ragazzo della parrocchia si tiene prudentemente alla larga
dal rock'n roll; nel 1964, però, avviene un singolare aggancio
tra i due mondi. Tanto più singolare se si pensa che il fatto ha
per protagonista il re del rock'n roll italiano, Adriano
Celentano. Il molleggiato, infatti, in quell'anno cade preda di
una crisi mistica e cerca conforto nelle sapienti parole di un
consigliere spirituale, tale Padre Ugolino. Rinnega Elvis e
scopre Gesù Cristo...; dichiara di leggere solo la Bibbia e incide
canzoni che sono sincere dichiarazioni di fede, dai titoli
Pregherò, Pasticcio in Paradiso e Chi era lui . La musica è
sempre la stessa (rock, twist, surf), ma le parole non lasciano
più spazio a dubbi: <<...nel nome di Gesù/ voi non piangerete
11. più / è lui il Re dei Re/ un bimbo come voi...>>. I suoi fan
della prima ora sono sbigottiti e anche un pò delusi; gli unici a
prendere a cuore quelle canzoni e a strimpellarle con le
chitarre sono i ragazzi della parrocchia di tutta Italia. Presi in
giro e sbeffeggiati dai loro coetanei <<di mondo>> hanno
anche loro un idolo <<americano>>.
La brusca sterzata di Celentano, capace di
addomesticare il potenziale eversivo del rock'n roll
nostrano, non è un fenomeno isolato: anche il grande Elvis,
seppure in modo differente, cercò dopo il 1958 di
ridimensionare la portata rivoluzionaria del suo
personaggio. Nel saggio La terra promessa, quarant'anni di
cultura rock Gino Castaldo, così, racconta la svolta di Elvis:
Lennon disse che Presley è morto quando è partito per il
servizio militare, affermazione che contiene una gran parte di
verità... Presley... divenuto il più potente idolo giovanile mai
apparso, fa di tutto per frenare gli aspetti più ribellistici del
suo personaggio. Quando viene chiamato alla leva, accetta di
buon grado, sfruttando l'occasione per dimostrarsi buon
patriota e bravo cittadino. In qualche modo da
"rivoluzionario", sebbene in gran parte istintivo, si trasforma
in conservatore, inaugurando una dinamica che sarà spesso
presente nella storia del rock. Anche i suoi tanti film,
sdolcinati e banali, sembrano andare in questa direzione
rassicurante. Mai nella storia del rock, che pure di voltafaccia
ne ha visti tanti, si è visto nello stesso personaggio un tale
miscuglio di ribellismo e conservatorismo.
Tornando alla tipologia proposta da Giannotti e
Donadio, accenniamo ora alla figura del <<pappagallo>>,
che completa il quadro dei modelli adolescenziali italiani
degli anni'50. Il <<pappagallo>> è il giovane playboy
Testi: Massimo Antonucci
12. italiano che frequenta le coste romagnole in cerca di
avventure occasionali con ragazze straniere.
Vittime dell'intensa attività dei propri ormoni, questi
teenagers provengono perlopiù dalla piccola e media
borghesia e le ragazze sono la loro unica, grande fissazione...
Questi giovani <<tipi da spiaggia>> ambiscono,
innanzitutto, alla conquista di bellezze nordiche, in grado di
incarnare i biondissimi e mitici modelli cinematografici, tipo
Marylin Monroe o Brigitte Bardot.
Nasce così il mito della straniera, bella, bionda e disponibile, e
l'adolescente <<pappagallo>> inizia a mettere a punto un
vestiario e una tattica che lo assecondi nelle sue conquiste.
Innanzitutto abiti eleganti per dare l'impressione di
quell'<<italian look>> di cui già si parla tanto nel mondo.
Per il <<pappagallo doc>> prepararsi è una cosa seria, anzi
serissima: si fanno rapidi corsi di inglese e tedesco, si cura il
fisico con rudimentali esercizi ginnici, per fare risaltare i
muscoli, oppure si mandano a memoria i consigli di libretti,
decaloghi e vademecum per il <<perfetto pappagallo>>,
pubblicati da alcune case editrici in cerca di facili guadagni.
L'attore che meglio rappresenterà sullo schermo
questa figura di teenager, sfrontato e mammone allo stesso
tempo, sarà Vittorio Gassman.
E' proprio l'attore romano ad essere preso a modello dagli
adolescenti per aver incarnato in svariati film l'ideale del
vitellone bugiardo e donnaiolo, che riesce a farsi perdonare
tutto: specialmente in Se permettete parliamo di donne e ne
Il sorpasso, il <<mattatore>> offre alcune dimostrazioni del
miglior atteggiamento da seguire nei confronti dell'altro
sesso.
13. Dopo questa rapida ricostruzione dei modelli
adolescenziali italiani degli anni '50, passiamo ora agli anni
'60. La prima cosa da rilevare è la grande confusione che si
fece intorno al termine "beat", che venne, a torto o a
ragione, utilizzato in maniera disinvolta per etichettare i
fenomeni musicali e culturali più disparati. Giannotti e
Donadio osservano a questo proposito:
Più dibattuta è invece l'origine della definizione <<beat>>: c'è
chi, come i disc-jochey Renzo Arbore e Gianni Boncompagni,
la fanno risalire a motivi strettamente musicali (i Beatles, il
tempo in <<battere>> anziché in <<levare>> come nella
tradizione italiana precedentemente in voga); chi, invece, si
rifà a quel filone di scrittori e poeti americani degli anni'50
<<beat>> o <<beatniks>>, giovani anticonformisti come Jack
Kerouac, Allen Ginsberg e William Borroughs.
"Beat" diventa sempre più un termine-contenitore
dove ci sta dentro di tutto: "beat", nella traduzione che lo
stesso Kerouac propone significa "beato" e rimanda ad un
sentimento mistico di estasi: "Beat non significa stanco, o
Testi: Massimo Antonucci
14. sconfitto, bensì beato , la parola italiana per beatific: essere
in uno stato di beatitudine, come San Francesco, cercare di
amare tutta la vita, cercare di essere sinceri fino in fondo
con tutti, praticare la sopportazione, la gentilezza, coltivare
la gioia del cuore".
"Beat", quindi, come <<beato>>; ma anche "beat" come
<<tempo in battere>>, oppure come abbreviazione di
Beatles. In mezzo a questo ginepraio di significati di "beat"
risulta estremamente difficile districarsi: tanto più che,
parlando degli anni '60 in Italia, ciascuno adotta questo
termine come meglio gli pare.
A complicare ulteriormente il quadro, ecco che nel
1967 si delinea una divisione tutta interna alla scena beat
italiana. Amedeo Bruccoleri nel saggio Beat italiano , edito
da Castelvecchi, così ricostruisce la situazione:
Il 1967 era stato l'anno delle grandi divisioni. All'interno della
scena beat si delineavano due linee di pensiero divergenti che
scatenavano un acceso dibattito culturale. I componenti della
Linea Gialla, ovvero Lucio Dalla, Gianfranco Reverberi, Luigi
Tenco, Sergio Bardotti, Piero Vivarelli, entravano in aperta
polemica con la Linea Verde, sostenuta da Mogol,
caratterizzata da un beat meno impegnato politicamente e più
vicino a tematiche di fratellanza e amicizia. I sostenitori della
Linea Gialla avevano pubblicato sulle pagine del settimanale
<<Big>> un manifesto programmatico dai forti contenuti
politici e culturali che annunciava chiaramente:
Le persecuzioni razziali non sono e non possono essere
viste solo da un punto di vista politico, perché i
bombardamenti indiscriminati nel Vietnam sono quello che
sono, perché la censura più assurda esiste ancora e ne
abbiamo nuovamente avuto prova di recente. E perché per
passare dall'altra parte della barricata, i liberi intellettuali
nell' Urss finiscono in Siberia, il Muro di Berlino è ancora in
15. piedi e in Cina un certo tipo di mentalità nazista torna di
moda grazie alla cosiddetta Rivoluzione Culturale. Quanto
all'Italia, da Agrigento a Longarone, è tutto un fiorire di
scandali, mentre le persecuzioni della polizia, a Genova e a
Roma, contro i ragazzi colpevoli solo di portare i capelli
lunghi assumono forme sempre più preoccupanti. L'elenco
potrebbe continuare ma ci sembra inutile...
Perché dunque la Linea Verde ? A cosa serve? E soprattutto a
chi serve? La risposta ci sembra abbastanza semplice. Serve a
chi vuole intorbidare le acque o per cause bassamente
pubblicitarie o comunque speculative. Chi ha orecchie per
intendere intenda...
Il manifesto programmatico della Linea Gialla
prosegue in modo apertamente polemico:
I giovani dunque è bene che sappiano come, in chiara antitesi
alla Linea Verde , ci troviamo ben saldamente ancorati alla
linea del blues, di Dylan, di Kerouac e di tutti coloro che
ancora credono, in termini musicali e no, nella insopprimibile
necessità della pace e della libertà. Noi nella pace e nella
libertà non vogliamo <<sperare>>, ma preferiamo ora lottare
su una trincea fatta di splendide e significative note, per
conservarle o conquistarle. Questo è bene che si sappia, come
è bene che i giovani si guardino dai mistificatori della musica
leggera .
A soffiare sul fuoco della polemica ci pensa un articolo
firmato da Mogol, che compare sulle pagine dello stesso
giornale:
Caro direttore, una cosa è certa: Tenco, Bardotti, Dalla,
Reverberi e Vivarelli della Linea Verde non hanno capito
niente. La colpa non è loro, anzi non esitiamo ad ammettere
che è nostra. Purtroppo non abbiamo ancora avuto il tempo e
l'opportunità di spiegare che cos'è e a che serve la Linea
Testi: Massimo Antonucci
16. Verde... Linea Verde non è ottimismo: è speranza. Speranza
non significa resa, né tanto meno vittoria. Noi non
rinneghiamo la filosofia beat. Non neghiamo che da essa noi
abbiamo attinto coraggio, purezza e quasi tutti i suoi credo.
Non la consideriamo, però, un punto di arrivo, bensì un punto
di partenza. La Linea Verde è per noi il perfezionamento della
filosofia beat, più amore in senso universale. Amore è una
parola che non è stata quasi mai usata dai beatnick.
Mogol sicuramente non conosceva bene gli scritti di
Kerouac che, nel 1958, dava una definizione di beat, più
volte ricordata, che va proprio nella direzione che Mogol
rivendica come esclusiva della Linea Verde : "Beat non
significa stanco, o sconfitto, bensì beato…”.
Mettendo, quindi, tra virgolette l'esclusività della
proposta di Mogol e della Linea Verde, possiamo dire che
questa anima del beat italiano trovava espressione con
canzoni come Un mondo d'amore di Gianni Morandi, il cui
testo è oltremodo esplicito: <<C'è un grande prato verde/
dove nascono speranze/ che si chiamano ragazzi/ è il
grande prato dell'amore>>.
17. Comunque, al di là delle differenziazioni interne alla
scena beat italiana, è fuori da ogni dubbio che locali come il
Piper di Roma e giornali come <<Big>> costituiscano
elementi insostituibili per lo sviluppo del movimento.
Donadio e Giannotti, nel saggio più volte citato Teddy
boys rockettari e cyberpunk, così raccontano l'emergere
della nuova stampa specializzata:
...a contendersi questo mercato ai primi vagiti sono tre
settimanali, <<Ciao Amici>> e <<Giovani>>, più superficiali e
dedicati ad un pubblico di tredicenni, e <<Big>>, il cui primo
numero esce nel 1965, e che in breve tempo si afferma come
lettura indispensabile dei ragazzi aderenti al movimento. La
sua tiratura si assesta subito sulle 400-500.000 copie: <<Big>>
azzecca la formula giusta perché, se da un lato ripropone
alcuni schemi tipici dei rotocalchi sensazionalistici, con
grandi foto dei belli della canzone <<beat>> del tempo,
dall'altro stimola il dibattito tra i ragazzi nei confronti della
società dei <<grandi>>, considerata vetusta e autoritaria. E
nel far ciò utilizza lo stesso linguaggio dei ragazzi...
Testi: Massimo Antonucci
18. Sfogliando le pagine di questo tipo di stampa, s'
intuisce come anche in Italia inizi a delinearsi un vero e
proprio mercato "giovane". A questo proposito leggiamo nel
saggio Beat italiano di Amedeo Bruccoleri:
Il mondo dell'industria individuava nei ragazzi una grande
fascia di consumatori ai quali offrire prodotti... <<Big>>,
<<Ciao amici>>, <<Giovani>> non reclamizzavano più
solamente apparecchiature per la riproduzione musicale
(giradischi, registratori, microfoni) ma anche cosmetici,
motorini, viaggi e abbigliamento. Proprio l'abbigliamento si
affermava come elemento fondamentale dell'estetica beat in
grado di rappresentare simbolicamente la differenziazione tra
le varie generazioni.
Amedeo Bruccoleri continua la sua analisi della scena
beat italiana, individuando le connessioni tra oggetti di
consumo e i luoghi di consumo.
Pantaloni a righe larghe, minigonne disegnate da Mary Quant,
camicie e cravatte colorate vivacemente, stivaletti, braccialetti
esotici rappresentavano il simbolo della società di massa
costituito dalla moda giovanile. L'accertata esigenza di
consumo da parte dell'industria aveva trovato un'esauriente
risposta nell'apertura del Piper Club. Il Piper era un grande
garage sotterraneo con pista da ballo dalle pedane luminose,
con una enorme gigantografia iperrealista alle spalle del palco
dove si esibivano i complessi dal vivo.
Il Piper diventa ben presto uno spazio dove collaudare
nuove forme di socialità, più libere e disinvolte: "...lì potevi
star seduto per terra o scatenarti in pista a tempo di shake ,
senza alcuna inibizione. Si ballava, senza alcun
19. condizionamento per la scelta del partner. I giovani beat
esprimevano così, con lucida consapevolezza la propria
diversità decretando il successo di personaggi come Renato
Zero, Loredana Bertè, Patty Pravo, ospiti fissi del locale."
Oltre ai singoli cantanti, al Piper si esibiscono spesso
gruppi italiani con un ingaggio fisso, come l'Equipe 84 e i
Rokes, e gruppi stranieri del calibro dei Pink Floyd, Soft
Machine, Byrds e Genesis.
Il Piper, oltre ad essere un punto di riferimento per
tutto il movimento beat italiano, è un posto dove è possibile
fare sperimentazione artistica, come già da tempo si faceva
nei club newyorkesi. A questo proposito Amedeo Bruccoleri
afferma:
Anche la nascente controcultura italiana eleggeva come punto
di ritrovo importantissimo il locale di via Tagliamento. Anche
al Piper...si tentavano nuove forme di spettacolo di
avanguardia. Ispirati dagli Exploding Plastic Inevitables di
Andy Warhol, nascevano gli happening , dei veri e propri
esperimenti che combinavano con originalità arti visive e
musica. Il più importante di questi era stato il concerto
Testi: Massimo Antonucci
20. presentato al Piper da Le Stelle di Mario Schifano, in seguito
documentato discograficamente.
D'altra parte, la logica commerciale che abbiamo
visto all'opera tra le pagine della stampa specializzata
"giovane" non tarda a fare la sua apparizione anche nel
tempio del beat:
Nella primavera del 1966 era stato inaugurato ufficialmente il
Piper Market: un grande negozio dai prezzi acessibili a tutti
dove era possibile acquistare minigonne, pantaloni, camicie a
fiori, collane. Ancora una volta - come era già successo per
l'industria discografica - l'iniziativa commerciale
strumentalizzava il movimento beat per scopi lucrosi.
Sul finire degli anni '60 si fa sempre più chiara la
percezione di un cambiamento che non riguarda solo la
scena beat italiana. Così, Donadio e Giannotti ricostruiscono
questa fase:
Gli anni di massima fioritura del <<beat>> sono il 1966 e il
1967; i teenagers ora si vestono in modo più sofisticato con le
giacche militari e gli stivali resi popolari dai Beatles nel loro
LP Sergeant Pepper... i temi delle canzoni cominciano a
cambiare, passando dai tipici rapporti lui-lei a canzoni di
protesta impregnate di un generico pacifismo: è il caso di La
bomba atomica e Proposta dei Giganti, con il suo
memorabile ritornello <<mettete dei fiori nei vostri
cannoni>>...e della celeberrima C'era un ragazzo che come
me amava i Beatles e i Rolling Stones, sulla guerra in Vietnam.
Altri come i Nomadi, cercano un dialogo con gli adulti,
chiedendo: <<come potete giudicar/ per i capelli che
portiam>>. Al di là delle provocazioni, non c'è un progetto
politico alle spalle...Quando arriva il '68, il movimento
<<beat>> è già in declino...
21. Il famoso ritornello <<come potete giudicar/per i
capelli che portiam>> dei Nomadi indica il senso di una
rottura profonda, che si verifica proprio in questi anni, a
livello del costume maschile. I capelli lunghi, infatti,
costituiscono una novità dirompente, per quanto riguarda
l'aspetto maschile, forse ancora più forte e significativa
dell'apparizione della minigonna nella moda femminile degli
stessi anni.
Nell'interessante volume La moda italiana.
Dall'antimoda allo stilismo, a cura di Grazietta Butazzi e
Alessandra Mottola Molfino, edito da Electa, è contenuto un
saggio di Alessandra Gnecchi Ruscone, intitolato
"L'antimoda. Esempi milanesi", che comincia in questo
modo:
Gli anni Sessanta sono un periodo di grande rivoluzione dei
costumi in tutto il mondo occidentale. Dagli Stati Uniti
all'Olanda le giovani generazioni rifiutano improvvisamente i
modelli esistenti e cercano forme nuove che rompano con il
passato. E' un fenomeno di massa che contamina ogni settore
della vita quotidiana: dai rapporti fra i sessi, alla concezione
del lavoro e del tempo libero. Il veicolo principale di questo
contagio è la musica rock inglese e poi americana impersonata
da gruppi e cantanti che diffondono la loro popolarità al di là
di ogni confine e barriera linguistica. E poiché questi cantanti
sono per lo più uomini, è proprio l'abbigliamento maschile
quello che per primo subisce le più traumatiche
trasformazioni. I capelli, che già sembrano scandalosi quando
coprono le orecchie e la fronte, diventano sempre più lunghi;
ai primi stivaletti, maglie a righe e pantaloni attillati di
derivazione dall'abbigliamento per il tempo libero americano
subentra la più sfrenata libertà di accostamenti di colori,
materiali e stili.
Testi: Massimo Antonucci
22. Personaggi carismatici come Mick Jagger o Brian Jones, il
leggendario chitarrista dei Rolling Stones considerato l'uomo
più elegante del mondo rock, ostentano jabots, velluti, lamé,
pellicce, calzamaglie, stivali alla moschettiera, vestiti in
tessuto da tappezzeria e da biancheria intima, accompagnati
da collane, orecchini e un trucco sempre più smaccato. E' dal
Settecento che l'uomo non presentava un'immagine di sé
altrettanto vistosa e sessualmente provocatoria, arrivando
quasi a mettere in ombra quella femminile.
I cambiamenti a livello dell'immagine maschile,
superficialmente connotabili nel senso di una
"femminilizzazione" del costume, costituiscono una reazione
all'ingessatura e alla standardizzazione della moda maschile,
fenomeni che affondano le proprie radici in un terreno di
grandi cambiamenti storici. Nel XIX secolo, infatti,
l'affermazione della classe borghese e, conseguentemente,
l'affermazione della propria concezione della vita, del
lavoro e dei rapporti sociali, provocarono una brusca
23. rottura sul piano del costume, in particolare di quello
maschile.
A questo proposito, sono interessanti le considerazioni
fatte da Isabella Pezzini nel suo saggio "Il borghese
uniforme: un percorso letterario", contenuto nel volume
L'uniforme borghese , edito da De Agostini nella collana
"Idee di moda".
Il nuovo costume,"uniforme" perché non più "opera"
singolare e irripetibile degli artisti-artigiani di corte, ma ormai
avviata all'era della riproducibilità tecnica, ideologicamente
incarna una professione verso l'uguaglianza e la democrazia,
l'etica del lavoro e una virtuale apertura delle classi, la
sovranazionalità, non disgiunte da un franco conservatorismo.
Il borghese è economicamente produttivo, e dunque il suo
vestire richiama la serietà del mondo del lavoro, e concede
poco di appariscente alla frivolezza delle occasioni mondane.
La distinzione è la nuova parola d'ordine che domina
incontrastata su tutte le manifestazioni borghesi
La distinzione, e in particolare di status, è una delle funzioni
generalmente affidate all'abito. I valori del borghese sono il
lavoro, la saggezza pratica e calcolatrice, la prudenza,
l'ordine, la regolarità. Ripudia il lusso, l'ornamento, la
frivolezza e l'eccesso. Allo stesso tempo il borghese deve
riconoscersi all'interno della propria classe, come portatore di
una cultura e non solo di un censo: ne fa parte l'impiegato
come il libero professionista, il banchiere oppure l'industriale
come il maestro di scuola.
Il testo di Isabella Pezzini prosegue, analizzando il
rapporto di continuità e rispecchiamento tra abito e
ideologia borghese, dove l'anello di congiunzione è
costituito dal concetto di distinzione:
Testi: Massimo Antonucci
24. La distinzione diventa allora cifra di un'apparenza di
semplicità che omologa al di sopra delle differenze, rende
"presentabile" il membro anche più modesto della classe,
riuscendo pur sempre a distinguerlo dalle classi inferiori.
Inoltre, se nobili si nasce, non bisogna dimenticare che
borghesi si può diventare. Anche per questo il borghese
sembra sacrificare al "decoro" la funzione decorativa del
proprio vestito, demandata semmai a sua moglie. Il suo abito
non si limita a indicarlo come borghese, ma proprio lo
costituisce in quanto tale.
La moda borghese come attualizzazione della barriera e del
livello, i due termini chiave nella dinamica di questa classe,
secondo l'analisi di Edmond Goblot: barriera, per chi non vi
appartiene, non tanto nel senso di un limite invalicabile ma
piuttosto di un ostacolo da superare; livello per chi ha
raggiunto l'agognato status.
Per avere un'idea più concreta di ciò di cui stiamo
parlando, basti pensare all'efficace descrizione dell'uniforme
borghese propostaci da Flaubert nella sua Madame Bovary:
"Tutti quei signori si rassomigliavano,... le basette
abbondanti sfuggivano dai grandi colletti duri, ch'erano
sostenuti dalle cravatte bianche con l'orlo di trina ben
spiegato. Tutti i panciotti erano di velluto col risvolto a
scialle; tutti gli orologi portavano in capo a un lungo nastro
qualche sigillo ovale di corniola; e ognuno teneva
appoggiate le mani sulle cosce, abbassando con cura la forca
dei calzoni, ch'erano di panno lustro e brillavano più del
cuoio delle grosse scarpe".
Ritenere che la moda maschile sia sempre stata
"uniforme" è, quindi, la conseguenza di quel processo di
naturalizzazione del dato storico che per Roland Barthes
coincide il fenomeno della mitizzazione. In tutta la sua
25. storia, infatti, la moda maschile è stata, per lo meno,
altrettanto ricca e decorativa di quella femminile.
Riprendiamo a questo proposito le osservazioni di
Lipovetsky, contenute nel suo saggio l' Impero dell'effimero ,
edito da Garzanti:
Dal XIV al XVIII secolo la sovranità del capriccio e dell'artificio
si impone ugualmente ai due sessi. Durante questo lungo
periodo la moda ha indotto uomini e donne alla ricerca di un
lusso sofisticato e spettacolare. Anche quando le differenze
d'aspetto fra i sessi raggiunge l'estremo, uomini e donne si
dedicano in egual misura al culto delle novità e delle
preziosità... Nel secolo di Luigi XIV il costume maschile è
ancora più elaborato, infiocchettato, ludico...che non l'abito
femminile... Perché la moda maschile si eclissi dietro quella
femminile bisogna attendere la <<grande rinuncia>> del XIX
secolo, quando i nuovi canoni dell'eleganza virile (sobrietà,
discrezione, rifiuto di colori ed orpelli) fanno della moda e dei
suoi artifici una prerogativa femminile.
La <<grande rinuncia>> della moda maschile alla
decorazione e ai preziosismi, quindi, fa sì che questi
elementi vengano a connotarsi come "femminili": infatti,
solo alla donna è socialmente permesso l'uso di vestiti ricchi
sia dal punto di vista decorativo che di quello dei materiali.
Ai maschi rimane la magra consolazione di ricavare
indirettamente prestigio dall'eleganza femminile: una buona
immagine sociale del borghese, infatti, dipende anche dal
fatto che la propria coniuge sappia vestirsi in modo
adeguato in società.
Testi: Massimo Antonucci
26. Ritornando agli anni '60 in Italia, fenomeni come gli
abiti maschili fortemente decorativi e i capelli lunghi
implicano una rottura profonda a livello di costume. Tanto
più che l'Italia, agli inizi degli anni 60, è, più di altri, un
paese dove l'abbigliamento è estremamente uniforme e
sobrio.
E' così comprensibile l'allarme sociale generato
dall'apparizione della nuova moda maschile -capelli lunghi e
abiti con forti elementi decorativi-, sfociato nelle
persecuzioni di Genova e Roma da parte della polizia, contro
cui protestarono i sostenitori della Linea Gialla del beat
italiano -Tenco, Dalla e compagni- nel manifesto del '66
pubblicato su <<Big>> e già ricordato.
L' "antimoda" beat in Italia risulta essere influenzata
sia dalle stravaganti proposte vestimentarie delle rockstar
britanniche, di cui abbiamo parlato, sia dal contemporaneo
movimento hippy americano. Tra le testimonianze raccolte
da Fernanda Pivano nel doppio volume L'altra America ne
troviamo alcune, infatti, che confermano la linee generali
del cambiamento nel vestire maschile: l'hippy <<decora il
proprio corpo come un'opera d'arte. Lo ricopre di collane, lo
dipinge, lo addobba con i colori dell'arcobaleno e nello stile
composito formato dalla mescolanza stridente di tutti i
tempi e di tutti i paesi...>>. Anche a proposito dei capelli
lunghi si può leggere un passaggio significativo: <<i capelli
crescono, sì fluiscono: guarda ancora: non è bello?! I capelli
tenuti lunghi quando sono in grado di crescere possono
essere considerati solo una cosa desiderabile sul piano
estetico. Che altra funzione hanno? ... Perché ti tagli la
bellezza ogni giorno, ogni settimana, ogni mese?>>.
Nonostante le differenze particolari tra subculture,
27. quindi, negli anni'60 si verifica una profonda linea di
frattura per quanto riguarda l'estetica dell'abito maschile
In Italia, in quegli anni, alcuni cercarono di
sintonizzarsi sulle onde delle nuove tendenze, cercando di
rispondere alla crescente domanda dei giovani di un nuovo
modo di vestire. Basti ricordare, a titolo di esempio, la
catena di negozi Equipe 84 e Fiorucci.
La catena di negozi Equipe 84 è un caso, per certi
aspetti, unico. Nasce da una società, la Equipe 84 Saloon,
sorta dall'iniziativa di Bruno Manturini e Pierre Farri, agente
dell'Equipe 84, il più famoso gruppo di beat italiano degli
anni '60. L'idea è quella di utilizzare l'immagine del gruppo
musicale per distribuire abiti, prodotti per l'80% in
un'azienda di abbigliamento di Trecate, in provincia di
Novara. A cavallo tra la fine degli anni '60 e i primi anni '70
vengono aperti, utilizzando il sistema del franchising, 6
negozi a Milano e 38 in tutta Italia.
Il gruppo musicale partecipa alle inaugurazioni,
assicurando un'attenzione immediata da parte dei giornali,
letti proprio dal pubblico a cui le boutiques si vogliono
rivolgere. La produzione, soprattutto di moda maschile, ha
un'immagine d'avanguardia, legata alle trasgressioni di stile
tipiche dell'Equipe 84: camicie di tessuto per strofinacci da
cucina, di pizzo, di velo trasparente, di raso damascato,
giacche stile guru in batik indiano, abiti confezionati con
tessuti per arredamento o per abbigliamento ecclesiastico,
ponchos, stivali alti, giacche di pelle stile tramviere, bisacce,
collane hippy. Il grosso della produzione, dietro questa
facciata quasi provocatoria, è in realtà di abiti molto più
mettibili anche se caratterizzati da un taglio molto in linea
con i tempi: giacche attillate con spalle insellate, calzoni a
Testi: Massimo Antonucci
28. vita bassissima, aderenti fino al ginocchio e scampanati in
fondo.
Grande interprete delle nuove tendenze, a cavallo tra
gli anni '60 e'70, è stato sicuramente Elio Fiorucci, che nel
1967 apre una boutique a Milano in Galleria Passarella .
Aveva iniziato la sua attività lavorando per il negozio di
calzature del padre e nel 1962 ne aveva aperto in via Torino
uno suo, sempre di calzature, per il quale aveva iniziato una
produzione molto fantasiosa. Famose erano diventate,
proprio nel 1962, le galosce colorate, gli stivali in tutte le
tinte, compreso l'oro e l'argento, i sandali in plastica con
margherite applicate, gli zoccoli, le scarpe di corda, i
mocassini multicolori di velluto a coste,e, con l'arrivo della
minigonna, gli stivali calza alti fino a metà polpaccio.
Il negozio in Galleria Passarella è su tre piani ed è
allestito da Amalia Dal Ponte in stile modernissimo,
utilizzando tra l'altro scaffalature in acciaio sottile con
ripiani in plexiglass bianco, lampade alogene e sedili da
trattore smaltati al posto dei tradizionali sgabelli. Le ragazze
addette alla vendita sfoggiano gli abiti più appariscenti di
Fiorucci, e la musica rock suona ininterrottamente a tutto
volume. Per l'inaugurazione viene organizzata una sfilata
nella vetrina con modelle in minigonna e con pantaloni
aderentissimi e scampanati. La folla è tale che devono
intervenire i vigili.
Nel negozio si vendono scarpe, accessori, magliette,
maglioni, pantaloni per uomo e donna, minigonne hot
pants. Quasi tutto all'inizio è di produzione esterna,
importato da ogni parte del mondo: prima da Londra
(Carnaby Street, Portobello Road, Kensington Market), poi
anche da Parigi, dagli Stati Uniti, dall'Oriente, dal centro e
29. sud America. La produzione di Fiorucci si limita a scarpe,
stivali e sandali e accessori come bisacce in pelle stile
western, borse pop, cinture e cinturoni a stelle o con
paesaggi e farfalle applicate. Dopo il 1969 si aggiunge una
prima e sporadica produzione di abiti, quali minigonne di
panno lenci ad ampi spicchi colorati, camicioni da pittore
con carré davanti in tinte unite, scozzesi o a fiori, magliette
aderenti di tutti i colori con stampati fiorellini provenzali,
jeans scampanati con papaveri ricamati.
Il negozio sforna novità a ritmo continuo. La velocità
nel captare le richieste del pubblico e dar loro una risposta è
una delle ragioni del successo di Elio Fiorucci, il quale
sostiene che una nuova moda per essere efficace deve
raggiungere il mercato entro 15 giorni. Fiorucci capovolge
così i vecchi criteri commerciali, che assegnano al negozio
un ruolo passivo tra produttore e consumatore.
Il pubblico di Fiorucci è molto più vasto di quello
abituale delle boutiques. I prezzi sono bassissimi, accessibili
proprio alla massa dei giovani che costituiscono il vero
grande mercato che si è aperto alla nuova moda. La qualità
dei tessuti e della confezione spesso non è molto elevata, ma
il costo particolarmente contenuto rende anche possibile
Testi: Massimo Antonucci
30. una nuova filosofia di acquisto, che prevede tempi brevi di
utilizzo e continui rinnovamenti. Allo stesso tempo l'offerta
molto eterogenea dei capi in vendita lascia liberi i
compratori di selezionare tra un numero di alternative
molto maggiori del solito, e stabilire così una propria
immagine, indipendentemente dai dettami della moda del
momento.
Fiorucci non è uno stilista in senso proprio, per sua
stessa ammissione. La sua attività si sviluppa gradualmente,
dal semplice acquisto di vestiti di altri a una produzione in
gran parte imitata, fino ad affermarsi con una propria
impronta riconoscibile in tutto il mondo. La sua abilità è
quella di reinterpretare e riproporre cose già esistenti, senza
pregiudizi sui materiali o sui colori. Tipici in questo senso
sono la tuta tradizionale militare riproposta in rosa shocking
o la salopette di carta, lavabile in lavatrice fino a dieci volte.
Durante gli anni'60, accanto a questi innovatori, si
sviluppa il mercato della confezione che, però, non riesce
ancora a trovare una propria identità, limitandosi, per lo
più, a copiare le proposte dell'Alta Moda. I valori che si
affermano con la confezione sono riconducibili alla
vestibilità: si esprime, in sostanza, il concetto "fatto meglio
che dal sarto".
Nel 1965, in un servizio dedicato alle grandi sarte
apparso sul Corriere della Sera , Mila Schon, alla quale viene
chiesto se a suo avviso la confezione abbia le carte in regola
per imporsi sempre più, afferma che il futuro è della moda
pronta, a condizione che prenda esempio dalla confezione
americana, aumentando cioè di molto il numero delle taglie
"per offrire la massima garanzia di una perfezione bella e
pronta".
31. La confezione, concepita in questi termini, risulta
essere passiva: attende che le nuove idee discendano
dall'Olimpo dell'Alta Moda, per riprodurle poi in serie.
Risponde, così, ad un processo ristrutturazione profonda
della società che chiede anche una democratizzazione della
moda.
Gli anni '50 avevano segnato l'affermazione
dell'american way of life , fatto di cibi industriali,
automobili, gadgets domestici, oggetti in plastica, tutte cose
assolutamente nuove rispetto alle abitudini di consumo
dell'Italia tradizionale, orientate sull'idea di "focolare
domestico", di cibi genuini, di prodotti artigianali, ecc. Il
consumo del "nuovo" risponde, in primo luogo, all'esigenza
d'integrazione nella nuova società urbana industriale.
Negli anni '60, invece, emerge una forte ed allargata
esigenza di distinzione, coerente con un'accelerata mobilità
sociale. Al consumo delle "novità", tipico degli anni'50, si
sostituisce, quindi, durante gli anni '60, il consumo di beni
che rispondono al bisogno di distinzione. In questo periodo
il lusso vestimentario comincia a diventare fenomeno di
massa. Per dirla con le parole di Hirsch, contenute nel suo
saggioI limiti sociali dello sviluppo , edito da Bompiani,
componenti "posizionali" cominciano a presentarsi
intensamente nel settore della moda. Fino a quel momento,
infatti, il lusso vestimentario aveva riguardato unicamente le
classi superiori. Solo ai livelli più elevati della società cioè
circolavano capi costosi e fogge originali. Agli altri livelli,
invece, o giocava fortemente il ruolo della tradizione -ad
esempio nel mondo rurale- o ci si accontentava di imitazioni
a buon mercato di ciò che si presumeva fosse di moda tra le
elites agiate. Negli anni del boom economico, invece, il lusso
Testi: Massimo Antonucci
32. vestimentario comincia a diventare un ragionevole obiettivo
per larghi strati di popolazione. La grande ripresa
economica della metà degli anni'60 aveva provocato una
ricomposizione del sistema di stratificazione sociale, in
particolare un suo allargamento. Aumentava, cioè, a tutti i
livelli della stratificazione la disponibilità di posizioni
sociali: tutti sono spinti a fare qualche passo in avanti, a
guadagnare una posizione migliore.
Ma è proprio questo processo di ristrutturazione
sociale a comportare un'accentuazione dei fenomeni di
simbolizzazione dello status. Per essere socialmente
riconosciuti i passaggi di status richiedono, infatti,
l'esibizione di una prova. Diventano perciò importanti i
"segni di riconoscimento". Ecco perché, a proposito degli
anni '60, si parla di consumismo della "distinzione".
La confezione, quindi, offre l'opportunità di esibire il
raggiungimento di un nuovo status, fungendo da segno
visibile di quella dinamica di democratizzazione del
consumo signorile, presente in tutti gli ambiti merceologici.