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Università degli Studi
         di Genova
Facoltà di Lettere e Filosofia

Anno Accademico 1989/1990




GIOVAN BATTISTA BENEDETTI

     E LA MECCANICA DEL ‘500




Relatore: Chiarissimo Prof. Freguglia




                                        Tesi di Laurea del candidato
                                              Giovanni Ferretti
Sommario
INTRODUZIONE .......................................................................................................... 3
CAP. 1 - L’ESIGENZA DI UNA NUOVA SCIENZA: BENEDETTI ED IL SUO
TEMPO ........................................................................................................................... 7
   1.1 GLI INGEGNERI ED IL RINASCIMENTO ...................................................................... 9
   1.2 L’ABACHISMO, OVVERO LA MATEMATICA PRET-A-PORTER ................................... 11
   1.3 L’INFORMAZIONE SCIENTIFICA.............................................................................. 14
   1.4 MISCELLANEA ...................................................................................................... 17
CAP. 2 - FILOSOFIA E METODO............................................................................ 20
   2.1 ….ISMO ................................................................................................................. 21
   2.2 METODO ............................................................................................................... 30
CAP. 3 - GIOVAN BATTISTA BENEDETTI UOMO E SCIENZIATO ............... 38
   3.1   BIOGRAFIA ............................................................................................................ 38
   3.2   GEOMETRIA, ARITMETICA, PROSPETTIVA, OTTICA, GNOMONICA, MUSICA. ............ 41
   3.3   PERCHÉ IL FIUME VA AL MARE? ............................................................................ 43
   3.4   GUERRE STELLARI................................................................................................. 46
CAP. 4 - LA MECCANICA NEL XVI SECOLO ..................................................... 53
   4.1 CENNI SULLA STATICA PRE-BENEDETTINA............................................................ 54
   4.2 LA STATICA DI BENEDETTI. .................................................................................. 58
   4.3 CONATUS ED IMPETUS........................................................................................... 65
   4.4 VERSO LA LEGGE D’INERZIA: I CONTRIBUTI DINAMICI DI GIOVAN BATTISTA
   BENEDETTI. ................................................................................................................. 77
LE OPERE .................................................................................................................... 87
BIBLIOGRAFIA CITATA......................................................................................... 88
GIOVAN BATTISTA BENEDETTI

                      E LA MECCANICA DEL ‘500



                                    INTRODUZIONE



       La fisica aristotelica da un lato, Galileo e la nuova scienza dall’altro, fanno della
meccanica del ‘500 una scienza di confine. Vaso di coccio tra vasi di ferro, il suo studio
è stato a lungo trascurato, col risultato di trascurarne l’originalità. Emblematico è lo
scarso rilievo scientifico che per anni ha circondato il profilo di Giovan Battista
Benedetti, studioso che, in quel periodo, più di ogni altro è riuscito ad avvicinarsi allo
spirito galileiano.

       Ottimo esploratore di questa terra di nessuno, Benedetti suscita, oggi, sentimenti
di ammirazione e di rabbia, visto che davvero poco è mancato alla sua analisi affinché il
suo antiaristotelismo non portasse a quella rivoluzione scientifica che comunque vedrà
la luce una cinquantina di anni dopo.

       In cosa consista questa deficienza, e quindi quali siano i caratteri fondamentali
caratterizzanti quella svolta del pensiero umano, diremo in seguito. In questa
introduzione penso sia invece il caso di affrontare quei problemi che sono sottintesi da
questa tesi e dei quali è doverosa almeno una rapida elencazione.

       Tutti gli epistemologi e tutti gli storici della scienza si sono divisi (almeno sino a
qualche decennio fa) in posizioni, le quali, se accettate, offrono griglie interpretative
tendenti a sclerotizzare le nostre ricerche in immagini talvolta diametralmente opposte:
ad ogni lente, una diversa visione del mondo.

       Vedere in Galileo solo un disciplinato continuatore degli Studi parigini o
esaltarlo a genio assoluto emergente dal mare della mediocrità sua contemporanea,
influisce, ovviamente non poco, sul giudizio che possiamo dare degli sviluppi della
fisica benedettina. Altrettanto dicasi del vedere i nostri dotti quali torri isolate, tra di
loro e da una società distratta, o come depositari delle esigenze improcrastinabili di una
economia in evoluzione.

        E’ quindi necessario schierarsi, rendere chiaro il proprio pensiero, onde
preservarlo da possibili fraintendimenti. Far ciò, per fortuna, è semplificato dal fatto che
gli studiosi tendono, in questi ultimi anni, a non propinare più rigide ricette valevoli per
ogni stagione, ma a dare un’immagine più fluida, dialettica, del divenire scientifico:
continuismo, senz’altro, dato che la storia della scienza è storia di pensatori in diretto
contatto tra di loro (e visto che più si facilita questo scambio di esperienze, più la
scienza progredisce), ma anche rispetto dell’intuizione del singolo, vista, come dice
Ludovico Geymonat, non come metafisica presenza ma come capacità di estrapolare, di
cogliere relazioni ad altri nascoste1; esternismo, ovvio, ma anche cognizione del fatto
che certe scoperte ed invenzioni più che essere stimolate hanno stimolato un progresso
socio-economico.

        Un rapporto dinamico lega la storia del soggetto con la storia dell’oggetto
dell’indagine scientifica. A prima vista, sembra che questa mobilità voglia impedirci di
focalizzare il tutto. A nostro favore gioca, però, una carta che potremo definire
psicologica: come si è invogliati a guardare gli sviluppi della fisica cinquecentesca con
gli occhiali dei continuisti, così si è portati a calcare la mano sulla originalità dello
scienziato, quando si tratta di parlare della sua opera. C’è da augurarsi di non cadere in
marchiane contraddizioni.

        Quali sono i caratteri fondamentali della nuova scienza? A questa domanda si è

soliti rispondere che la novità sta nel diverso modo di indagare la natura: l’aristotelica

analisi qualitativa viene sostituita dal metodo sperimentale, fondato sull’applicazione

della matematica e sull’osservazione scrupolosa dell’esperienza. Questa svolta

metodologica ha rappresentato “quello che è l’evento più significativo della storia del



1
  Quanto comunque sia necessario un maturo humus scientifico alla genialità del singolo è provato dal
fatto che altrimenti le intuizioni, impossibilitate ad essere organicamente sviluppate, resterebbero sogni
fini a se stessi: Leonardo non è Galileo, né Verne è Einstein.
pensiero scientifico dal sorgere del cristianesimo”2, tanto da far ritenere ingiustificato

l’attribuire alle grandi scoperte geografiche il merito di essere fondatrici dell’era

moderna. Però, a ben vedere, questa consuetudine ha una ragion d’essere: i viaggi

transoceanici offrono delle date precise; maggiori difficoltà si incontrerebbero nel

cercare una data significativa per la nostra svolta epistemologica.

        Questo, perché la rivoluzione scientifica fu “un vasto ed articolato movimento di

ricerche e di operazioni concrete sulla realtà e di elaborazioni teoriche e concettuali”3.

Si potrebbero senz’altro avanzare delle proposte (la data di pubblicazione del Sidereus

nuncius, per esempio) ma far ciò non renderebbe giustizia a quel movimento del

pensiero che rese possibile la stesura di quel libro. A chi, poi, affermasse che non ci

vuole un enorme background culturale per alzare un cannocchiale verso la Luna e per

annotare quelle due o tre cose elementari, immediatamente percepibili, si potrebbero

citare le parole che un padre gesuita ha indirizzato, nel ‘600, a Scheiner: “Figlio mio, ho

passato tutta la notte a guardare se vi siano macchie nel sole: non può essere, vi assicuro

che Aristotele non ne fa menzione”4.

        E’ la moderna epistemologia che ci insegna che ogni esperimento, ogni ricerca,

ha alle spalle delle aspettative, quindi idee, teorie, che condizionano e sono nello stesso

tempo messe alla prova dall’esperimento stesso.

        Gli studiosi del ‘500 (e del ‘600) si trovavano di fronte ad una potente struttura

scientifica    (non    matematizzata       ma     profondamente        elaborata),    fortemente

interdipendente, con tutti i pregi ed i difetti di una scienza che Kuhn definirebbe

2
  Butterfield: Le origini della scienza moderna.
3
  A. Carugo: La nuova scienza. Le origini della rivoluzione scientifica e dell’età moderna in Nuove
questioni di storia moderna p. 3
4
  citato in F.Enriques, G. de Santillana: Compendio di storia del pensiero scientifico; p. 336
normalizzata. Metterne in discussione una parte significava trovarsi contro il tutto;

voleva dire scontrarsi con la cultura ufficiale. Solo più tardi, la forza del sistema

aristotelico si tramutò in debolezza: una volta crollato un pilastro, crollò, come un

castello di carte, tutto l’edificio. Uno ad uno saltarono tutti i paradigmi e ci si ritrovò,

non più nani sulle spalle di giganti, a fare i conti con un cosmo che non era più tale, con

un universo che aveva perso tutti i connotati sino ad allora familiari.

       Prima di accettare l’idea di aver avuto dei Padri fallibili, l’uomo medioevale

dovette scontrarsi con le mille contraddizioni innescate da una realtà socio-economica

in rapida evoluzione.

       E’ proprio dall’analisi delle cause che permisero questo terremoto colturale che

bisogna partire per poter comprendere la scienza di Benedetti e dei suoi contemporanei.
CAP. 1 - L’ESIGENZA DI UNA NUOVA SCIENZA: BENEDETTI ED IL SUO
                              TEMPO


       La rivoluzione scientifica dipese essenzialmente dal nuovo atteggiamento con il

quale l’uomo si pose di fronte alla natura. I mutamenti conseguenti non furono frutto di

nuove osservazioni: gli oggetti dell’indagine scientifica erano più o meno gli stessi dei

precedenti duemila anni.

       Fu, quindi, il mutare della qualità delle indagini che permise l’enunciazione di

leggi quali quella d’inerzia, di gravità, del moto ellittico dei pianeti, ecc.

       Se il primo a rendersi conto, compiutamente, della potenza conoscitiva del

nuovo metodo fu Galileo (e se, quindi, furono i secoli successivi al 1600 a beneficiare

dei benevoli influssi di tale innovazione), cionondimeno il ‘500 è da considerarsi come

il secolo che ha sancito definitivamente il crollo dell’indagine qualitativa aristotelica.

       Ad onor del vero, già da diversi decenni piccole crepe si erano aperte nella

tradizione ma, queste, non scalfirono per nulla il prestigio dello stagirita. Bisognò

arrivare sino al millecinquecento per trovare dei pensatori in grado di valutare

oggettivamente l’operato scientifico di Aristotele. Ciò non fu dovuto al caso: il XVI

secolo rappresentò il punto di arrivo e di fusione di nuove istanze storiche, sociali,

economiche e culturali. L’aristotelismo scientifico non fu più capace di rispondere

soddisfacentemente alle domande poste dai nuovi ceti emergenti.

       Elencare, rapidamente, queste situazioni, questi nuovi stimoli, ci permetterà di

capire il perché di determinati sviluppi scientifici o il mancato raggiungimento di certi

obbiettivi. In altre parole: il Rinascimento scientifico fu il frutto della maturazione di
determinati eventi, alcuni dei quali ebbero radici molto profonde nel tempo. In questo

senso, si può parlare di una certa continuità tra Medio Evo e Rinascimento.

       Primo segno della tensione ideale che legò queste due ere fu la crescente

necessità di progettazione e realizzazione di tecnologie legate ad un sempre più

rigoglioso sviluppo economico. Fu l’ascesa della borghesia a fare da volano.

       Se la stabilità monetaria e lo sviluppo dei traffici mercantili indussero un

crescente interesse per gli studi aritmetici, lo sviluppo dell’artigianato e delle tecniche

agricole e protoindustriali comportarono l’approfondimento della geometria e della

meccanica classica.

       Il rifiorire dell’interesse matematico si scontrò con una cultura ufficiale

dominata ancora da vezzi scolastici, legata ancora com’era ai ceti (leggi: esigenze)

feudali ed ecclesiastici; scarsi furono i loro interessi verso il nuovo; anzi, ogni critica

all’ordine stabilito fu spesso sentita come una minaccia al prestigio istituzionale.

       Di conseguenza, si cominciò a sviluppare una seconda cultura, emarginata dalle

Università ma comunque sempre più frequentata da quei giovani destinati a prendere in

mano le redini delle società mercantili paterne e che, quindi, dovevano fare i conti con

quei problemi pratici che ne derivavano.

       In tutta Europa, ma soprattutto in Italia, questa seconda cultura si manifestò col

sorgere di due scuole, non sempre distinguibili l’una dall’altra: quella degli ingegneri e

quella degli abachisti.
1.1 Gli ingegneri ed il Rinascimento


        Per Bertrand Gille (del quale il titolo di questo capitolo plagia, clamorosamente,

quello di una sua opera) l’incontro tra scienza e tecnica si ebbe agli inizi del ‘400.

        Poche le fonti greco-latine dalle quali i Nostri potevano attingere: Erone,
Vitruvio, Vegezio, Frontino offrivano, comunque, spunti di riflessione circa la trazione
dei corpi pesanti, le condutture idriche, le macchine belliche e poc’altro. Il XIII ed il
XIV secolo non videro un grosso incremento di questo patrimonio conoscitivo.

        E’ verso la fine del ‘400 che si ebbe una nuova, forte spinta: altiforni, telai,
orologi, aprirono nuovi campi di indagine, anche filosofica. Un esempio: è sempre
medioevale l’invenzione del sistema biella-manovella (cioè il tornio a pedale, cioè la
possibilità di modificale il moto rettilineo alternato in circolare o viceversa). Significò
porre le basi per quell’abito mentale che permise di trattare i due moti quali uguali, a
dispetto della divisione aristotelica tra moti circolari (celesti) e rettilinei (sublunari).

        Non deve sfuggire l’importanza di questo fatto, perché esso ebbe conseguenze
non solo filosofiche, poiché questo pose le basi per una corretta analisi dei moti e,
quindi, per la futura Dinamica rinascimentale.

        Vi è un altro particolare che, per così dire, spianò la strada ai nostri ingegneri (ed
abachisti): essi, non solo non entrarono a far parte del corpo accademico tradizionale,
ma furono, pure, di estrazione e formazione estranea a quella stessa cultura. Di
conseguenza, questi uomini senza lettere non furono plagiati dalle problematiche
scolastiche e, postisi di fronte alla natura, formularono domande e diedero risposte
indipendenti dalle necessità sistematiche aristoteliche.

        Giocando con immagini neorealiste, si potrebbe dire che la loro palestra di
scienza fu la strada, la vita quotidiana.

        Anche Benedetti fu uno scugnizzo, anzi, fu uno scugnizzo orgoglioso delle sue
origini autodidatte (Tartaglia permettendo). E non si può dire che fosse in cattiva
compagnia: Francesco di Giorgio Martini, Mariano Jacopo, Leonardo, Tartaglia stesso,
solo per citare i più famosi, furono i suoi compagni di gioco. Più in generale, ci si
potrebbe rifare a tutti quei ragazzi di bottega che fecero grande il Rinascimento
pittorico italiano, le origini dei quali erano, al massimo, detto in termini moderni,
piccolo borghesi. Per inciso: il movimento artistico italiano fu importantissimo per la
nuova scienza: lo studio della prospettiva implicò notevoli approfondimenti geometrici,
per non parlare, poi, dei rilevanti studi anatomici.

           Ma torniamo ai nostri ingegneri. Il legame tra il versante tecnico e quello
scientifico era comunque ancora molto debole. Importante, però, è che si iniziarono a
cercare non più solo spiegazioni valide ma soluzioni generali: “ricordiamoci che il
problema non era dire che Aristotele sbagliava, ma sostituire a lui qualcosa di più
valido5”.

           Fu Leonardo uno dei primi ad imboccare questa strada.

           Ultimamente, si sta ridimensionando non poco il valore del Leonardo-ingegnere:
eccezion fatta per l’idraulica, il grande italiano pare non eccellesse nelle scienze, tanto
che Bertrand Gille in Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento sembra preferirgli
Francesco di Giorgio Martina, suo predecessore. Comunque, pur se in modo incompleto
e pur se frustrati da un linguaggio molto oscuro, si notano in Leonardo interesse per le
misurazioni, il cercare riscontro, nella natura, delle proprie formule, il credere l’uomo
capace di conoscenza. Non è cosa da poco, in un mondo dove l’idea agostiniana di una
natura sacramentale (quindi solo da contemplare, quale opera divina) era ancora
radicata.

           Il de Ponderibus sotto il braccio, Euclide ed Archimede come modelli, i nostri
ingegneri cercarono lentamente di invertire quella tendenza per la quale “la tecnica
interveniva.. solo come le parabole del Vangelo, per confutare o convalidare
proposizioni costruite per tutt’altra via.. Questa congiunzione dei due metodi di pensiero
[tecnico e scientifico] costituì forse uno dei momenti determinanti dell’evoluzione
scientifica .. [coscienti che] nessuno dei due metodi, da solo, avrebbe potuto pervenire a
tali risultati6”.




5
    A. Rupert Hall: La Rivoluzione scientifica. 1500-1800.
6
    B.Gille: Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento. p. 255
Non tutti gli storici della scienza la pensano così: Duhem, negando una tale
relazione, afferma, addirittura, che è contro l’esperienza degli artificieri che si sono
spezzati gli sforzi di Leonardo, Tartaglia, Benedetti.

        A queste affermazioni ben risponde Gille: dopo aver ammesso che l’esperimento
(in senso moderno) è diretto, provocato, mentre la prima esperienza tecnica è subita, è
frutto del senso comune (e che quindi è legittimo parlare della loro diversità), Gille
afferma che “l’esperienza tecnica, verso la metà del ‘400.. ha pianificato i suoi
problemi, distinte alcune componenti, fatta una prima scelta fra le nozioni, per non dire
concetti, che la pratica quotidiana offriva” e che, comunque, “è in ogni caso curioso
constatare che i problemi dei tecnici e degli scienziati presenteranno un’esatta
coincidenza7”.

        E’ sempre Gille a parlare di scienza attratta dalla realtà e di tecnica preoccupata
di darsi spiegazioni più valide e più generali, ed offre due prove dei comuni interessi:
l’identico ideale, rappresentato da Archimede e dalla sua scienza da tecnico, ed il
comune interesse per la matematica.

        Prima di iniziare ad indagare quest’ultimo aspetto, alcune ultime considerazioni:
“quando si parla di tappe fondamentali nella strada della scienza moderna, si danno solo
nomi di ingegneri (Leonardo, Benedetti, Galileo, Stevino)8”: “affermare che Benedetti
si avvicinò alla verità non perché artigliere ma perché conosceva Archimede, equivalse
a negare l’accordo che si verificò, in quel preciso momento storico, tra i due ordini di
pensiero9”. E’ da sottolineare che quando un Gille o un Koyrè parlano di accordo tra
tecnica e scienza, non pensano alla scienza ufficiale.




1.2 L’abachismo, ovvero la matematica pret-a-porter


        I Teatri di machine non rappresentarono il solo genere letterario-scientifico di
moda agli inizi del ‘500. Essi furono validamente spalleggiati (e non poteva essere


7
  B.Gille: Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento. p. 257
8
  Ibidem. p. 271
9
  Ibidem. p. 258
altrimenti) dai manuali d’abaco, espressione cartacea di un vasto movimento culturale
che si protrasse per almeno quattro secoli. La sua nascita è, infatti, fatta risalire al Liber
Abbaci, di Leonardo Pisano, detto il Fibonacci, redatto attorno al 120010 e sopravvisse
sino ai tempi di Tartaglia e Benedetti.

         L’abachismo si sviluppò dietro alla necessità di chi, ingegnere, agrimensore,
mercante o militare, doveva risolvere nel modo più semplice possibile, e con la maggior
approssimazione possibile, i calcoli inerenti alla propria professione, senza avere alle
spalle una adeguata cultura matematica. Questa cultura underground possedeva una sua
lingua, il volgare, ed una sua scrittura, il mercantesco.

         “La domanda era così grande che sorse una nuova professione, comprendente
matematici pratici, in possesso di una cultura media, capaci di applicare la geometria e
la trigonometria ai problemi connessi agli strumenti scientifici di misura. Molti di essi
tennero lezioni di matematica in lingua volgare.. e scrissero libri elementari, in
linguaggio piano, semplice e facile”11.

         E’ da rimarcare il fatto che a questa arte non si rivolgessero solo i ceti inferiori: i
nobili veneziani, per esempio, stimolati dalla loro lunga tradizione mercantesca,
andavano a scuola d’abaco. L’abaco fu sviluppato ed insegnato anche da esponenti dello
strato dotto: possiamo ritrovare così, vicini, un Tartaglia che si guadagnava dieci scudi
il quesito, e che rischiava di saltare il pasto “se per le lezioni su Euclide invece del
prezzo pattuito gli davano un mantello logoro”12, e Luca Pacioli, che di questi problemi
certo non ne ebbe.

         L’abachistica si sviluppò in Toscana nel XIII secolo, anche stimolata
dall’introduzione in Italia del sistema di numerazione indiano, e si propagò nell’Italia
settentrionale, soprattutto nel Veneto.

         Nel ‘500, saper fare conti e misure si diceva haver buon abbaco, i numeri arabi
erano cifre abachistiche ed elencare, per punti, nomi ed oggetti era metter per via


10
   ache se Marie Boas, nel suo Il Rinascimento scientifico; 1450-1630 afferma che, in realtà, quel testo
rese inutile l’abaco.
11
   B.Gille: Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento. p. 168
12
   E.Zilsel Le origini del metodo scientifico di Gilbert. In Le radici del pensiero scientifico a cura di Ph.P.
Wiener, A. Noland. p. 272
d’abaco13. La nostra fu una scuola di avviamento professionale e, intesa in questo
senso, come mezzo di promozione sociale ed economica, contribuì certamente allo
sviluppo dell’alfabetizzazione.

        Lo scopo principale della scuola, la soluzione di problemi pratici, rappresentò
anche il suo limite principale: l’apprendimento mnemonico di talune operazioni non
aiutò di certo una sistematizzazione teorica o “una generalizzazione che si spingesse al
di là delle singole regole”14. Ciononostante riuscì a coagulare un’area di sapere, le
discipline mathematiche15, concepita come un’area di sapere autonoma, all’interno della
quale, come disse il Tartaglia, esse per se medesime si verificano e si approvano, et non
per auttorità .. come fanno altre scientie, ma per demonstratione.

        All’interno di questa area si iniziò a distinguere tra una parte theorica, cioè
speculativa, ed una prattica, cioè attiva. La prima attingeva alla forma euclidea
deduttivo-dimostrativa. La seconda era la vera e propria abachistica. Tra i due aspetti di
questo sapere vi fu un profondo interscambio, a dimostrazione della tranquillità con la
quale si accostava il teorico al pratico.

        E. Gamba e V. Montanelli definiscono questa seconda matematica induttiva,
perché parte dal caso singolo: è il gusto per il problema, del cercare regole valevoli
all’interno di una certa casistica, senza tentare generalizzazioni logiche di quanto
trovato. “La matematica abachistica prova, non dimostra.. fa vedere che funziona.. non
che il risultato è giusto nel senso logico del termine”16.

        Il far vedere che funziona significò lavorare a stretto contatto con la natura e, di
conseguenza, con gli strumenti di misurazione, dei quali si notò l’imprecisione.

        E’ del ‘500 la presa di coscienza circa la limitatezza dell’abachistica. Essa ha
ormai fatto il suo tempo: ha stimolato un dibattito che altrimenti non sarebbe forse
cresciuto; ha educato studiosi che hanno sentito la necessità di tradurre classici

13
    E.Gamba, V.Montebelli La matematica abachistica tra recupero della tradizione e rinnovamento
scientifico. In Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del ‘500. Atti del Convegno internazionale di
studio Giovan battista Benedetti e il suo tempo. p. 174
14
   Ibidem. p. 176
15
    Aritmetica, geometria, musica, astronomia, ottica, astrologia, cosmografia, geografia, corografia,
perspettiva, specularia, la scienza dei pesi, l’archiettura, ma anche piromanzia, hydromanzia,
negromanzia, geomanzia, horospizio, aruspizio, augurio, auspicio, ecc.
16
   E.Gamba, V.Montebelli La matematica abachistica.. cit. p. 185
fondamentali, anche in volgare; ha proposto ai dotti di quattro secoli la figura di
Archimede come punto di intersezione tra le speculazioni di Euclide ed il mondo fisico.
Ora, però, è maturata una seconda fase: quella delle conclusioni universali che superino
i singoli problemi, perché, posseduta la teoria, è conseguente saper risolvere il caso
particolare.

           Benedetti è portavoce di questo atteggiamento. Con lui, con Rafael Bombelli, ed
altri, l’abachistica cessa di esistere. Le generazioni future riceveranno da essa una
stimolante eredità. E’ Besson, dotto matematico che scrive: “la contemplazione delle
proporzioni dei numeri, dei punti e delle misure delle cose artificiali è inutile se non è
collegata all’azione; ne consegue che la meccanica è il frutto della geometria, e di
conseguenza ne è il fine”.

           Il XVI secolo vide nella costruzione delle macchine un’arte matematica, e di ciò
ne ebbe merito l’abachista. “La scienza soggiacente a quest’arte era la meccanica,
ovvero la fisica matematica: da un lato, lo studio delle leggi delle macchine… dall’altro,
lo studio delle leggi dei corpi, su cui queste macchine si fondavano, ossia lo studio della
Statica e della Dinamica”17




1.3 L’informazione scientifica


           Nel capitolo precedente abbiamo parlato di diversi tipi di cultura: tecnica,
scientifica, abachistica, dotta, conservatrice, rinnovatrice, aristotelica, medioevale,
ufficiale, ecc..

           Ci rendiamo conto che così facendo si corrono due grossi pericoli: quello di
schematizzare troppo, con la conseguente perdita di tutte quelle sfumature che legano le
varie posizioni, e quello, opposto, di vedere un unico colore là dove, invece, ve ne sono
diversi, anche se in movimento.

           Per evitare ciò, sono necessarie alcune precisazioni. La prima, fondamentale: il
movimento dei tecnici e degli abachisti stimolò la nuova scienza, ma non fu la nuova

17
     M. Boas, Il Rinascimento scientifico; 1450-1630. p.178
scienza. Quest’ultima, per essere scienza, dovette basarsi su generalizzazioni, su di un
metodo che alienasse il singolo caso concreto per aprirsi al puro spazio euclideo.

           Si è dovuto, sì, partire dalla dura pietra, dal covone di fieno e dalla catasta di
legna, ma solo superando queste cose, solo usando la linea senza spessore o la bilancia
con i bracci senza peso, si poté trarre regole generali, cioè far scienza.

           Questo non lo poterono fare gli artigiani superiori: ci vollero delle persone che,
pur pressate dalle esigenze dei tecnici, riuscissero a svincolarsi dalla materialità per
indagare gli aspetti matematici e geometrici di tali questioni.

           Neppure lo poterono fare gli scienziati legati alla tradizione scolastica, visto che
la loro ricerca fu basata essenzialmente sull’indagine qualitativa e sulla ricerca delle
finalità di un fenomeno.

           Per arrivare alla nuova scienza si dovette creare quel movimento del quale
Benedetti fu elemento di spicco; dapprima furono pochi pensatori eretici, non collegati
tra loro, poi, soprattutto nel 1500, essi diventarono movimento organico, sino a divenire,
nel tardo ‘600, cultura egemone.

           Fondamentale per questa ascesa fu la volontà e la capacità dei Nostri di
aggregarsi, di vedere quindi nello scambio di informazioni un fattore determinante per
lo sviluppo della scienza. Ciò fu reso possibile da due eventi: l’invenzione della stampa
e la riproposizione, prima solo estemporanea, poi più sistematica, di cenacoli ambiziosi
di riproporre l’antica Accademia.

           Superfluo spendere parole per sottolineare l’importanza che ebbe l’invenzione
della stampa, per lo sviluppo della scienza. Basti ricordare che l’Italia, e Venezia in
particolare, si distinsero per il numero di testi editi, e che questi compresero, oltre che la
traduzioni di classici, anche quei manuali che stimolarono ulteriormente il dibattito e le
richieste dei tecnici. Il dibattito culturale uscì dal chiuso della cella del monaco o anche
dallo studio dell’umanista per offrire anche la possibilità di frantumare lo storico
Quadrilatero della sapienza: Edimburgo, Cracovia, Napoli, Salamanca18.




18
     A. R. Hall: La Rivoluzione scientifica. 1500-1800.
Libri per tutte le esigenze e di tutte le misure. Piccoli dettagli che si rivelarono
determinanti: disegni sempre più accurati e piccoli volumi facilmente maneggiabili, non
fecero altro che stimolare la richiesta. Certo, gli editori non vollero rischiare: prima
pubblicarono le grandi traduzioni o i piccoli manuali di sicuro mercato. Si può
affermare che, sino al XVI secolo, si ristampò materiale già familiare nel ‘300.

        E’ del 1500 lo sviluppo del mercato della trattatistica. Furono pubblicati
moltissimi manuali, tanto da far dire che iniziò, con essi, quel movimento che culminò
con l’Enciclopedia di Diderot.

        Altrettanto importante fu il formarsi delle Accademie.

        Queste fiorirono, spontaneamente, al di fuori delle Università, divenute ormai
“luogo dell’acquisto ripetuto, dell’apprendimento mnemonico, della ruminazione
classificante”, al punto che “lo stesso Galilei, come docente, è piuttosto smorto: la
vivacità e l’inventiva la riserba alle lezioni private”19.

        E’ un modo come un altro per dialogare piacevolmente, per confrontare le
proprie idee, per non sopprimere le diversità filosofiche o scientifiche. Anche i testi
scritti assumono la forma di dialogo.

        Non è solo platonismo. Certo, il neoplatonismo degli umanisti può aver influito
sulla nuova moda, ma è principalmente la nascita di una nuova forma mentis, è la
condanna della sterilità della cultura ufficiale, incapace di stare al passo delle nuove
esigenze socio-economiche, che sono da rimarcare.

        Questo, almeno, fino a che il potere tollerò il dissenso. Poi, lentamente,
l’istituzionalizzazione: prima delle sedi, poi degli statuti, dell’oggetto dei dibattiti, e
così via.

        Intendiamoci: il dibattito scientifico restò ai margini del confronto accademico
anche nel suo periodo aureo. Pochi furono i cenacoli scientifici propriamente detti e, tra
questi, pochi andarono al di là di pure dichiarazioni d’intenti. Non dimentichiamoci,
inoltre, che non tutti gli uomini di scienza parteciparono a queste discussioni.


19
  G. Benzoni: L’Accademia: un luogo deputato per la cultura. In Cultura, scienze e tecniche nella
Venezia del ‘500... cit. p. 31
Questo fu proprio il caso del nostro Benedetti, il quale visse, pare, al di fuori di
questi àmbiti intellettuali, anche se, a ben vedere, il modo ed il luogo in cui nacque la
sua polemica con il Berga possono far pensare che, originale anche in questo, il Nostro,
più che essere membro di una Accademia, facesse accademia dove e quando ne avesse
voglia.




1.4 Miscellanea


          E’ ovvio che le motivazioni sino ad ora addotte non rappresentano che la punta
dell’iceberg delle motivazioni tecnico-economiche, sociali e culturali che portarono a
Benedetti e, dopo di lui, a Galileo ed alla nuova scienza. Elencare tutti questi stimoli
sarebbe compito improbo e, soprattutto, esulerebbe dall’oggetto di questa tesi.

          Senza partire dall’importanza delle nuove bardature dei cavalli, che consentirono
il surplus agricolo dei primi secoli del nuovo millennio (e del derivante, indiretto
sviluppo, dell’artigianato) o dalla formazione degli Stati cristiani nell’Europa nord-
orientale (che impedirono ulteriori invasioni barbariche), diamo un rapido sguardo a
cosa lasciamo indietro.

          Paradossalmente, una notevole spinta alla formazione di una mentalità
scientifica venne dalla magia. Questa, penetrata in occidente insieme alla diffusione dei
culti orientali nella Roma imperiale, ebbe, com’è noto, notevole sviluppo nel Medio
Evo.

          Molte delle discipline matematiche allora in auge (quelle che agli occhi di un
moderno possono essere tranquillamente traslate nel regno della parascienza) hanno
contribuito allo sviluppo della matematica propriamente detta. Rischiando la pedanteria,
ricordiamo anche che senza gli alchimisti non si sarebbe, forse, arrivati alla chimica.

          Valga, per tutti gli esempi proponibili, una considerazione generale di ordine
metodologico: la magia, con la sua idea di ricerca di formule (mezzi) per il dominio
della natura, contribuì alla creazione di quell’abito mentale per il quale l’uomo non era
più l’Adamo precipitato sulla Terra ad espiare la sua colpa, ma il Prometeo, simbolo di
scaltro dominio di esseri perfettibili su di una realtà conoscibile (anche se a costo di
grandi sacrifici).

           Come i matematici del ‘500-‘600 furono tutti un po’astrologi, gli scienziati del
‘300-‘400, ed oltre, furono tutti un po’ maghi. A distinguere la speculazione dalla
cialtroneria contribuì anche la distinzione sempre più marcata tra magia naturale e
magia pura.

           La fortuna degli scritti arabi di al-Kindi, o dell’allora famosissimo Secretum
secretorum, favorì lo sviluppo “di un tipo di scienza che identificò la ricerca delle cause
occulte con l’experentia naturalis e, anzi, i concetti di esperimento e di operazione
magica assunsero poi lo stesso significato”20

           Abbiamo parlato di alchimia e chimica. Come non pensare alla polvere da sparo
ed agli effetti dirompenti (è proprio il caso di dirlo) che provocò nella società e nella
cultura medioevale? Direttamente o no indusse sviluppi in chimica (ricerca di polveri
migliori), in medicina (nuove cure per nuove ferite), in architettura (rendendo
inadeguate le vecchie fortezze), in fisica ed aritmetica (balistica), in filosofia contribuì
al crollo della fisica aristotelica e, quindi, dell’aristotelismo in genere).

           Secondo Adriano Carugo21 è invece relativamente minore l’influsso della
bussola, dei viaggi transoceanici e delle esplorazioni, sulla mentalità dell’epoca: questi
ebbero, sì, un potente effetto sull’allargamento dell’orizzonte mentale degli europei, ma
il suo influsso si riversò più sull’Illuminismo che sul Rinascimento.

           Oltremodo rimarchevole è quella sorta di mecenatismo dei vari Capi di Stato e di
Governo che si creò nel 1500 (del quale Giovan Battista Benedetti usufruì). Questo
contribuì alla creazione della figura di scienziato ufficiale, con conseguente
rivalutazione ed ascesa sociale della categoria (lontani i tempi fiorentini nei quali gli
architetti facevano parte della corporazione dei muratori e dei carpentieri!). Legando il
dotto alla pubblica amministrazione, il mecenate pretese una ricaduta tecnica degli studi
del protetto, con conseguente obbligo dello scienziato alla verifica pratica delle sue
deduzioni.


20
     C. Vasoli, Scienza e tecnica nell’occidente cristiano. In Nuove questioni di storia Medioevale. p. 558
21
     A. Carugo, La nuova scienza.. cit.
Personalmente, credo che siano le condizioni materiali ad indurre mutamenti del
pensiero. Questa mia convinzione non esclude, però, la possibilità di un effetto
boomerang, di una ricaduta produttiva, frutto di determinate concezioni culturali.
Questo può essere il caso della Riforma e della Controriforma.

       Senza dimenticare Calvino e la sua condanna delle tesi copernicane, non è da
sottovalutare il rifiuto dell’autorità, implicito nel Protestantesimo, oltre alla sua
rivalutazione del lavoro manuale, quindi della tecnica, dell’osservazione scientifica e
della scienza in genere.

       Decisamente più difficile è trovare un nesso che unisca lo spirito conservatore
della Controriforma e lo sviluppo della scienza. Il processo a Galileo è tanto pressante
da inibire giudizi positivi sull’operato scientifico del Collegio romano dei Padri Gesuiti
(anche se basterebbe citare, ad esempio, il nome di Clavio, per incrinare una tale
valutazione) ed, in ogni caso, Bellarmino segue cronologicamente Benedetti.

       Un triste collegamento si può comunque proporre: la persecuzione di certi
filosofi quattrocenteschi ed il rogo di Giordano Bruno possono benissimo aver
contribuito alla teoria della Doppia verità, od alla separazione della speculazione
scientifica da quella teologico-filosofica, fatto da tutti considerato quale elemento
imprescindibile della rivoluzione scientifica.

       Dei contributi più prettamente filosofici tratteremo, comunque, nel prossimo
capitolo.
CAP. 2 - FILOSOFIA E METODO


           Demonstratio proportionum motum localium contro Aristotelem et omnes
philosophos: questo il titolo di un’opera di Benedetti.

           Quale fu il significato di questo titolo? Condanna dell’aristotelismo? E in nome
di cosa? Del neoplatonismo? O fu un attacco a tutti i sistemi filosofici (omnes
philosophos) a favore, forse, della fede in una razionalità superiore?

           Tralasciamo, per il momento, questa seconda eventualità: di essa, semmai,
discuteremo alla fine di questo piccolo excursus.

           Concentriamo l’attenzione sulla prima domanda, per constatare, d’acchito, che,
in armonia con il titolo sopra riportato, gli scritti di Benedetti, di Galileo e di altri
scienziati a loro contemporanei, han fatto sì che molti epistemologi parlassero di influssi
umanistici e neoplatonici, determinanti per il buon esito della rivoluzione scientifica.

           A prima vista tutto ciò non può che sembrare logico: siamo in presenza di un
sistema di pensiero totalizzante, che copre tutto lo scibile dell’epoca. Chi non è
d’accordo corre il rischio di essere deriso (e poco più tardi gli succederà di peggio); è
mosca bianca circondata non da tanti bravi scienziati che la pensano, purtroppo, in
modo diverso, ma da commentatori, talvolta mediocri, di una lontana autorità. Ovvio
che per dar forza alle proprie posizioni uno si richiami, coscientemente o meno, ad
un’altra autorità, magari di pari grado alla precedente.

           Ma accadde proprio questo?

           Constatando, insieme al Crombie che comunque “Aristotele è una sorta di eroe
tragico che campeggiò sulla scena del Medio Evo eccitando le passioni e dividendo gli
            22
animi”           , cerchiamo di analizzare i fermenti filosofici che formarono il substrato
culturale del Benedetti.




22
     A. Crombie, Dal razionalismo allo sperimentalismo. In Le radici del pensiero scientifico.. cit. p.138
2.1 ….ismo


        “Sappiamo che se già in Platone vi sono molti Platone, se già in Aristotele vi
sono molti Aristotele, molti sono stati poi, dopo Platone e dopo Aristotele, i platonismi
e gli aristotelismi”23. Già questa affermazione mostra quanto sia complicata la vita di un
cultore della filosofia medioevale. Se ad essa aggiungiamo la constatazione che “la
dialettica platonismo-aristotelismo si svolge in una unità di concorrenza culturale che le
contrapposizioni dei singoli platonici o aristotelici non valgono a superare.. perché
ciascun platonico post-aristotelico è aristotelico, come ciascun aristotelico non può non
essere platonico”24, si rischia di cadere nel più profondo sconforto.

        Una certa inclinazione al sorriso può tornare ad allietare i nostri studi, al
pensiero di quante orecchie Aristotele avrebbe tirato a chi, rifacendosi al suo nome,
andava cercando patenti di autorevolezza, disattendendo, però, il suo fondamentale
dettame, riassunto nel motto amicus Plato sed magis amica veritas.

        Diamo quindi ad Aristotele ciò che è suo e non incolpiamolo dei mancati
sviluppi della sua teoria.

        Questo non significa, però, che esse siano esenti da pecche, anzi. Senza entrare
nel dettaglio (questo sarà il compito del capitolo dedicato agli sviluppi della fisica
benedettina), basti ricordare la netta distinzione tra fisica, la quale, per lo stagirita, deve
indagare gli oggetti reali, e matematica, che deve ragionare su astrazioni: questi studi,
per Aristotele, non si potevano confondere e neppure compenetrare. Di fatto, significò
impedire la quantificazione dei fenomeni e la loro conseguente matematizzazione
(almeno per ciò che concerne la fisica sub-lunare).

        Indubbiamente, Benedetti dovette abbandonare certi presupposti (fondamentali)
del pensiero aristotelico; ma in nome di cosa lo fece?

        Molti studiosi, lo abbiamo già detto, ritengono fondamentale l’influsso
dell’umanesimo neoplatonico, rigoglioso, per esempio, nella Firenze del ‘500.

23
  F. Adorno. La filosofia antica. p.287
24
  E. Riondato. Giovan Battista Benedetti tra scienza e filosofia. Alcune indicazioni metodologiche
condivise con Aristotele. In Giovan Battista Benedetti – Spunti di storia delle scienze – Liceo scientifico
G.B. Benedetti Venezia – Celebrazioni del 60° anniversario della fondazione, 1923-1983.
Soprattutto reputano platonica la nuova tendenza alla matematizzazione dei fenomeni
fisici.

          A questo proposito, è molto interessante la posizione di E. Berti, secondo la
quale si è sempre sottovalutato, da parte dei moderni epistemologi, la posizione di
Aristotele riguardo alla fisica celeste, “forse perché è la meno originale, visto che, tutto
sommato, lo stagirita riprende le posizioni di Platone, che poi erano quelle dei
pitagorici”25. Per il Berti, in Aristotele è già presente l’esigenza di una forte
matematizzazione della fisica, anche se essa è confinata nell’etereo mondo sovralunare.
Afferma, quindi, che la fisica celeste dell’antichità fu una fisica matematica.

          Poco importa se questa esigenza di matematizzazione sia davvero presente in
Aristotele o lo sia tra gli allievi della sua scuola; quello che qui ha significato è che
Copernico, Benedetti, Galileo e Keplero dovettero fare i conti con una fisica celeste
quantificata26. Non si trattava, allora, di matematizzare ex-novo la fisica, “ma di portare
il cielo in terra”27.

          A questo proposito, si può parlare, più propriamente, di influsso neoplatonico,
facendo però molta attenzione: il suo fu più che altro un influsso negativo. Esso ebbe
funzione di demolitore di certezze. La sua ricaduta scientifica può essere paragonata a
quella provocata dal movimento ockamista28. Senza disconoscere l’avvallo neoplatonico
ad una concezione unitaria del mondo, riteniamo che andare oltre non sia, forse, lecito.

          G. Santaniello afferma che questo mondo è, per i neoplatonici, costruito sul
modello dell’armonia musicale, dominato, cioè, dalle relazioni matematiche29. Niente
da obiettare, se questa è una presa d’atto. Diversamente, se si volesse nuovamente
riproporre il legame matematizzazione della fisica – pitagorismo e platonismo, dovremo
constatare l’opposizione, in merito, di molti studiosi.

25
   E. Berti. La concezione del moto nella tradizione aristotelica. In Giovan Battista Benedetti – Spunti di
storia delle scienze. Cit.
26
   In verità, che questa quantificazione fosse imprecisa, lo si sapeva da tempo, viste le macroscopiche
differenze tra realtà e calendario. Ciò non toglie che neppure le tavole prodotte dopo Copernico
migliorassero di molto la situazione; si dovette attendere Keplero e le sue orbite ellittiche, le quali, non
per nulla, rappresentarono l’ultimo colpo di piccone alla metafisica aristotelica.
27
   E. Berti. La concezione del moto.. cit. p. 47
28
   “Ockam può aver incoraggiato la tendenza ad immaginare tutti i modi possibili, senza riguardo alla
realtà fisica o alla sua applicazione” in E. Grant. La scienza nel Medio Evo. p. 47
29
   G. Santaniello. Il pensiero platonizzante a Venezia e a Padova nel ‘500. In Cultura, scienze e tecniche
nella Venezia del ‘500.. Cit. p. 145
La matematica neoplatonica è una matematica mistica: non quantificazione ma
simbolismo. E’ della rigorosa matematica di Euclide che Tartaglia e Benedetti hanno
bisogno.

        “I platonici italiani non nutrivano alcun genuino interesse scientifico verso la
matematica intesa come scienza e le loro concezioni dei numeri erano frutto di confuse
credenze teologiche, se non addirittura teofisiche”30.

        Se poi al neoplatonismo aggiungiamo l’umanesimo (suo principale vettore) le
obiezioni si fanno ancora più numerose. E’ vero, sì, che l’umanesimo con la sua
massiccia opera filologica ha restituito all’occidente le opere dei classici (depurate di
almeno tre traduzioni), che ha fatto conoscere, rivelandone l’esistenza, il pensiero di
filosofi polemici con Aristotele e che, infine, ha scosso determinate auctoritates, ma è
anche vero che a quelle auctoritates ne ha sostituite delle altre (più antiche, ugualmente
totalizzanti), tanto che “gli storici della scienza nutrono gravi riserve circa l’effettiva
azione rinnovatrice esplicata dall’umanesimo rinascimentale nel campo della cultura
scientifica31.

        Ancora più drastici i giudizi di altri studiosi, quali Randall Jr., per il quale
“l’umanesimo, paragonato alla retorica, assale e scuote la fede, ma nulla più”32; e
ancora: “il platonismo ebbe come unico influsso sul pensiero scientifico quello di
sviarlo e di imporgli concetti degni di critiche drastiche”33. Rincara la dose
Dijkstrerhuis: “il neoplatonismo creò tutte le condizioni psicologiche per l’abbandono, e
persino disprezzo, dello studio empirico della natura”34, viste le propensioni di questa
corrente del pensiero per una identificazione tra materia e privazione, oltre che per la
sua facilità a subire il fascino dell’occulto.

        Di nostro vogliamo aggiungere che parlare di platonismo voleva anche dire
parlare di Sant’Agostino, della sua condanna delle scienze e, in generale e senza voler
scomodare Popper, della sua concezione di errore come morte dell’anima. Ricordiamo


30
   A. Carugo, La nuova scienza.. Cit. p. 22
31
   Ibidem.
32
   J.H. Randall Jr. Il metodi scientifico allo Studio di Padova. In Le radici del pensiero scientifico. Cit.
33
   J.H. Randall Jr. Il ruolo di Leonardo da Vinci nella nascita della scienza moderna. In Le radici del
pensiero scientifico Cit. p. 223
34
   E.J. Dijksterhuis. Il meccanicismo e l’immagine del mondo. Dai presocratici a Newton.
che il santo di Tagaste possedeva una visione esclusivamente religiosa del cosmo, con
la inevitabile conseguenza dell’assimilazione della sua fisica da parte della teologia. Per
Agostino il libro della natura è il libro dei simboli: la natura degli oggetti non è nella
loro concretezza fisica ma nell’essere, appunto, simbolo di una realtà trascendente. “La
natura, perduto il suo oggetto, diviene vana curiosità, da cui l’uomo studioso e religioso
deve guardarsi”35.

         Non vogliamo certo sminuire il ruolo che certo giocò la matematica nella
filosofia di Platone: il grande filosofo ateniese subì profondamente il fascino della
matematica (probabilmente successivamente ad un incontro con il pitagorico Archita) e,
nello stesso tempo, incoraggiò il suo studio. Neppure scordiamo che per Platone la
matematica è argano al vero, in quanto conduce alla contemplazione delle idee, e che,
nel celeberrimo mito della caverna, è sempre la matematica che scioglie i lacci dei
prigionieri del regno delle ombre e che, quindi, permette loro di presentarsi dinanzi alla
accecante luce della verità.

         Tutto questo è senz’altro ben presente. Quel che vogliono far notare                               i
denigratori della teoria secondo la quale fu il platonismo la vera molla del Rinascimento
scientifico è che la matematica di Platone è diversa dalla matematica del platonismo e
che, comunque, Platone si appellò sempre ad una matematica scevra da applicazioni
pratiche. Una matematica euclidea, quindi, utilissima per elaborare aritmeticamente e
geometricamente delle teorie fisiche quantificate, ma questo solo dopo che si fosse
riconosciuta l’esigenza di misurare la natura, di sporcare con aria, terra, acqua e fuoco il
regno della dianoia.

         Se proprio vogliamo trovare un modello di riferimento per gli scienziati del
‘500, bisogna volgere lo sguardo altrove, e, per l’esattezza, verso la figura di
Archimede. Con lui, “dall’assoluta teoreticità della trattazione euclidea si passa al gusto
delle applicazioni: la geometria si rivolge anche alle regole di misura e non vengono
disdegnate le applicazioni numeriche; la matematica trova poi la sua naturale estensione
nella meccanica dei solidi e dei fluidi”36.


35
   T. Gregory. L’idea di natura nella filosofia medioevale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. In
Interpretazioni del Medio Evo.
36
   A. Frajese. Attraverso la storia della matematica. p. 282
E’ a lui, alla sua Statica, che si rifanno i nostri validi studiosi, Galileo compreso.
E’ a lui che si rivolge Tartaglia, la cui devozione al siracusano è dimostrata dalla sua
traduzione del primo volume dell’opera Della sfera e del cilindro.

           Archiemede ha il pregio di coniugare, nelle proprie ricerche, amore per
l’applicazione pratica, il metodo spregiudicato (di esaustione) e, contemporaneamente,
una purezza matematica che gli permise di rinforzare nei posteri “quell’abito mentale di
vedere i corpi come figure perfette che si librano nel vuoto spazio euclideo”37.

           Per avere una misura di quanto fosse popolare Archimede nel ‘500, basti
ricordare che Cardano, divertendosi a classificare i grandi uomini in ordine di
superiorità, collocò il siracusano al primo posto, davanti, quindi, ad Aristotele.

           La centralità del problema del moto per lo sviluppo della fisica e della scienza
rinascimentale e la revisione dei concetti aristotelici di causalità e di vuoto possono,
infine, far emergere la figura di Democrito e della scuola atomistica greca, foriera di un
quantitativismo meccanico, non misticheggiante, nonché di un invito alla paziente
ricerca della conoscenza del mondo per mezzo dell’osservazione della natura.

           Questa tradizione è reinterpretata e conosciuta nel Medio Evo per mezzo
dell’opera dell’epicureo Lucrezio, il quale affermò che la stessa azione virtuosa consiste
nel saper comprendere la natura: cercare, cioè, la propria armonia, la propria sintonia
nella natura.

           Anche senza tener conto dei vari sincretismi tentati, il quadro storico-filosofico
che ci si presenta è di non facile interpretazione: risulta indubbiamente complesso
analizzare esaustivamente gli sviluppi filosofici che portarono allo sgretolamento
dell’aristotelismo scientifico.

           Pare che non resti altro che l’addentrarci nella tana del lupo, nella speranza di
cogliere qualche spiraglio di luce. Questo cambio di prospettiva ci conferma, purtroppo,
che il voler fare i conti in tasca all’oste non è mai compito agevole: più di una sono le
correnti rifacentesi all’autorità di Aristotele e, quasi tutte, subiscono deviazioni
sincretistiche.


37
     H. Butterfield. Le origini della scienza moderna.
In ogni caso, ci sorregge la sicurezza di Poppi, per il quale “solo a Padova e a
Venezia esistevano le condizioni ottimali per quello straordinario evento che fu la
nascita della scienza galileiana”38.

        L’orientamento spiccatamente logico e fisico, l’avversione alle suggestioni
magico-cabalistiche        ed    alle   impostazioni       teologiche     del    sapere,     favorirono
indubbiamente lo sviluppo del moderno approccio alle tematiche scientifiche. Di questa
atmosfera innovativa, il Benedetti, pur non frequentando lo Studio di Padova, si
avvalse.

        Se Padova e Bologna restarono le roccaforti aristoteliche d’Europa,
cionondimeno bisogna constatare, come prima accennato, che non si trattava di
costruzioni monolitiche. Tommaso, Averroè, Avicenna, Alessandro d’Afrodisia: tutti,
chi più, chi meno fedelmente, interpretarono Aristotele, piegandolo, talvolta, alle
proprie esigenze teoretiche.

        L’averroismo penetrò a Padova con Pietro d’Abano, Marsilio, Paolo Veneto. Per
Trailo è già un averroismo diverso, sia da quello originale arabo, sia da quello parigino,
dal quale deriva39.

        Sarà comunque con Pomponazzi e Zabarella che acquisterà quei caratteri di
cristianizzazione e di smetafisicizzazione di origine alessandrinista, i quali
permetteranno “di ritrovare l’Aristotele dello spirito scientifico, che sarà l’Aristotele
galileiano, della nuova scienza, da Galileo proposta in Padova averroista”40.

        Al di là di ogni dubbio, per Trailo, l’aristotelismo, soprattutto nella sua forma
alessandrinista, maggiormente critica nei confronti del Maestro, è l’unico vero scossone
portato alle istituzioni scientifico-culturali del Medio Evo.

        Questa affermazione sembra voler dire che, per il Trailo, l’alessandrinismo fu,
più che altro, una logica conseguenza dell’averroismo, cosa che, probabilmente, non fu.




38
   A.Poppi. Filosofia e scienza nel Rinascimento; introduzione al problema. In Cultura, scienze e tecniche
nella Venezia del ‘500…. Cit.
39
   E. Trailo. Averroismo e aristotelismo “alessandrinista” padovano. In Lincei; rendiconti morali; 1954;
serie VIII vol IX
40
   Ibidem. p. 205
Se volontà di tutti e due i commentatori fu quella di rifiutare l’interpretazione
platonica dello stagirita, l’Aristotele che emerge dall’opera dello scolarca ha evidenziato
l’aspetto più marcatamente metodologico e naturalista.

           In linea di massima, è il concetto-problema dell’anima che decide quale
posizione un filosofo assuma nell’ambito peripatetico.

           Se, a prima vista, la controversia tra averroisti ed alessandrinisti sembra limitata
al problema della immortalità (concessa dai primi ad un impersonale intelletto agente,
negata, in toto, dai secondi), essa trovò i suoi maggiori punti di attrito nella diversa
concezione della conoscenza.

           Fu Pietro Pomponazzi a ricondurre il problema sul terreno a lui proprio. Per lui,
l’anima non fu né sostanza spirituale (renderebbe inutili le funzioni vegetativa e
sensibile del corpo stesso) né intelletto unico separato degli averroisti (il quale non
faceva altro che annientare la singola personalità umana).

           Seguendo Alessandro d’Afrodisia. Pomponazzi e, più tardi, Zabarella videro
nell’anima la capacità intellettiva del singolo, la funzione più alta e complessa del
corpo; riavvicinarono così la conoscenza anche se, per farlo, dovettero pagar salato:
conseguente alla loro teoria è la negazione dell’immortalità dell’anima.

           Tutto soggiace alla legge del tempo: se prima fu l’averroismo, scavalcando il
tomismo, che diede nuovo impulso alla formazione di una mentalità scientifica, nel
nome del richiamo alle verità filosofiche indipendenti e addirittura più profonde delle
verità rivelate dai testi sacri, così l’averroismo e l’alessandrinismo stessi, non riuscendo
e non volendo andare oltre i limiti dettati da una custodia gelosa della tradizione
peripatetica, non furono capaci di cogliere gli elementi di novità delle filosofie
naturalistiche cinquecentesche.

           “Mentre alcuni scolastici del XIV secolo avevano dimostrato la possibilità di un
universo infinito creato da Dio, ed avevano preparato la via a Cusano e Bruno, gli
averroisti del ‘400 e del ‘500 continuarono a sostenere che il mondo non si estendesse al
di là dell’ottava sfera”41.


41
     B. Nardi. La fine dell’averroismo. In Saggi sull’aristotelismo padovano dal secolo XIV al XVI. p. 70.
Sarà Cremonini, successore di Zabarella, a rifiutare di guardare dentro il
cannocchiale di Galileo. Triste epilogo per un movimento che offrì grandi momenti di
trasgressione. Fu, infatti, il Pomponazzi a dire “se la verità della ragione sta nell’eresia,
bisogna andare all’eresia”, legando così il destino del filosofo a quello di Prometeo.

        Abbiamo prima parlato di filosofie naturalistiche: esse fiorirono nel ‘500, in
aperto contrasto con la filosofia peripatetica.

        La coincidenza tra macro e microcosmo ed il nuovo concetto di alchimia di
Paracelso42, la materia positiva e le indagini empiriche di Cardano, il sensismo e
l’avversione al finalismo aristotelico del Telesio, il sapere tecnico-pratico dei solari di
Campanella, l’universo infinito e policentrico del Bruno, indubbiamente stimolarono le
libere coscienze.

        I naturalisti non furono certo degli osservatori sistematici alla Galileo (e
neppure alla Benedetti): essi preferirono inquadrare le loro problematiche in un più
tradizionale discorso, spesso mistico, che talvolta si rifaceva anche alla tradizione
teologico-scolastica. Purtuttavia, anche se tra molte contraddizioni, il nuovo concetto di
luogo, del Cardano e del Telesio, oppure “il libro della natura aperto di fronte ai nostri
occhi” del Campanella, portarono il loro contributo alla causa dell’edificazione della
nuova mentalità scientifica.

        Tante posizioni, più o meno sfumate ed interfaccianti, si sono presentate ai nostri
occhi; ugualmente diverse si sono dimostrate le interpretazioni del rapporto
intercorrente tra quelle linee di pensiero e la rivoluzione scientifica. Molto
probabilmente queste difficoltà derivano dal fatto che, mai come nel XVI secolo, il
pensiero si trovasse spiazzato nei confronti del susseguirsi degli eventi storico-
economici.

        Il modello di scienza greca, basato “sulla prevalenza dell’interesse alla
conoscenza ed alla intelligenza su quello relativo all’utilizzazione pratica”43 non poteva
che crollare di fronte ad una società che non poteva più permettersi di considerare
l’artigiano poco più di uno schiavo (come sosteneva Aristotele).

42
   “quello stesso che quanto dalla natura cresce a vantaggio dell’uomo reca colà dove dalla natura è
stabilito che vada, è un alchimista”. Dal Paragranum. p. 70.
43
   A. C. Crombie. Dal razionalismo allo sperimentalismo.. Cit.
Nonostante questo, il concetto di filosofia naturale di Aristotele sopravvisse al
declino dell’impianto metafisico peripatetico, “offrendo fiducia nella piena conoscibilità
della natura, da attuarsi con mezzi razionali e con l’ausilio dei sensi”44.

           Vi è un altro motivo per il quale la filosofia del XVI secolo sembra rincorrere
affannosamente l’evoluzione tecnico-scientifica sua contemporanea: per la prima volta
nella storia della filosofia, una componente del pensiero ha trovato conferma alle
proprie affermazioni, al di fuori di se stesso.

           La scienza si è misurata con la realtà fisica ed ha scoperto che è ad essa che
deve rifarsi per provare la propria verità. I filosofi trovarono difficoltà nel dare le
spiegazioni generali del mondo perché il mondo è sempre più in movimento e perché i
principali fautori di questo movimento vogliono aver sempre meno a che fare con la
filosofia.

           Non vi sarà più un solo, unico, sapere: dal XVI secolo in avanti, i rapporti tra
scienza e filosofia si faranno sempre più sottili (e questo, almeno, fino alla moderna
epistemologia).

           Per Telesio, la natura va studiata iuxta propria principia: “è la distruzione del
cosmo, del mondo qualitativamente e ontologicamente differenziato e la sua
sostituzione con un universo aperto, indeterminato ed infinito, unito e governato dalle
stesse leggi universali”45.

           Lo scienziato della fine del ‘500 rifiuta la filosofia: soprattutto rifiuta la
scolastica, ritenuta palestra per esercizi (logici) inutili. E’ stufo della garrulatio; vuole
misurare la propria bravura misurando i propri esperimenti, la natura, le applicazioni
tecniche che propone. Lo stumentalismo e la fisica quantistica non turberanno i suoi
sonni per almeno tre secoli: lasciamolo godere dei suoi successi.

           All’inizio del capitolo ci eravamo chiesti se Benedetti fosse davvero contro
Aristotelem et omnes philosophos.                   Nonostante il fatto che in maturità il nostro
veneziano modificasse, almeno in parte, il giudizio a proposito dello stagirita, siamo
propensi a rispondere affermativamente: Benedetti crede nel suo titolo. Lo crede perché

44
     L. Geymonat. Storia del pensiero filosofico e scientifico; il 1500 e il 1600. p. 135.
45
     A. Koyrè. Galileo e Platone. In Le radici del pensiero scientifico. Cit. p. 160.
la filosofia, secondo lui, è scienza di recenti natali. Gli omnes philosophos, Aristotele
compreso, non sono philosophos: la patente di filosofo, Benedetti intende rilasciarla solo
a chi possieda un sapere che abbia un superiore carattere di certezza, ovverosia solo al
matematico. E’ per questi motivi che Benedetti prima, e Galilei dopo (pur con qualche
differenza) pretenderanno il titolo di filosofo.

           Certo, oggi noi sappiamo che scienza è metodo e che metodo e filosofia
convivono, anche se, talvolta, come separati in casa. Abbiamo già detto che determinati
concetti aristotelici sono tracimati all’interno della nuova metodologia scientifica.
Diciamo ora che non è tutto oro quello che luccica e che, quindi, come dice Einstein,
bisogna pur guardare a ciò che uno scienziato fa più che a quello che uno scienziato dice
di fare.




2.2 Metodo


           Indubbiamente, il primo Rinascimento fu caratterizzato da quello che Poppi
chiama “il ritardo epistemologico tra una riflessione teorica, inceppata in metodi
aprioristici e deduttivi, da un lato, e la vivacità degli studi applicativi e l’avanzamento
tecnico, dall’altro”46.

           Facile incolpare di ciò lo studioso medioevale ed il suo metodo, appunto
aprioristico, metodo che di scientifico aveva ben poco.

           Abituato a ragionare solo il termini di cause finali, il nostro dotto non faceva
altro che piegare i risultati delle sue osservazioni ad una teoria che era già ben ferma
nella sua mente: conseguenza di questo atteggiamento fu che eventuali esperimenti ed
induzioni modificarono, al massimo, solo dei particolari del grande edificio della
conoscenza peripatetica.

           Abbiamo già detto che questa frattura intercorrente tra realtà e speculazione
filosofico-scientifica della natura, era avvertita anche dagli esponenti conservatori della
cultura ufficiale. Ciononostante, la notevole sfiducia nelle spiegazioni fisiche in genere

46
     A. Poppi. Filosofia e scienza nel Rinascimento.. Cit. p. 87
impedì loro una spassionata analisi delle cause di questo gap culturale. Metodo
aprioristico: è un modo come un altro per dire che la filosofia (prima) traccia le grandi
linee dell’interpretazione del mondo e la scienza (filosofia seconda) prova la validità di
questa interpretazione.

         Diverse furono le griglie interpretative presentate, come più di uno furono i tipi
di approccio alla natura proposti. Carugo parla di osservazioni passive di Platone,
miranti a scoprire, nei fenomeni, l’esistenza di certe strutture, e delle aristoteliche
generalizzazioni delle osservazioni, base per future costruzioni teoriche47. Koyrè
sottolinea, invece, il dissidio intercorrente tra il qualitativo Aristotele ed un Platone
maggiormente propenso all’uso della matematica, all’interno della scienza fisica. “Non
è in discussione l’uso della matematica”, afferma Koyrè, “nessun aristotelico ha mai
negato il diritto di misurare ciò che è misurabile, quanto la struttura della scienza e,
pertanto, la struttura dell’essere”48.

         Siamo al punto di ricadere nella polemica descritta nel paragrafo precedente. Su
una cosa, però, penso che tutti siano d’accordo con il Koyrè, cioè sul fatto che è
impossibile fornire una deduzione matematica della qualità. I calculatores del Merton
College provarono a fare anche questo, fallendo su questo fronte, miseramente.
Benedetti e Galileo saranno costretti ad abbandonare la nozione di qualità: essa non ha
diritto di cittadinanza all’interno del moderno metodo scientifico.

         Senz’altro più consono alle esigenze della scienza, fu il metodo di Archimede, il
quale “aveva fra l’altro mostrato nelle sue opere di meccanica come sia possibile
procedere matematicamente alla conoscenza della natura, proponendo lo studio dei
fenomeni attraverso la definizione dei rapporti quantitativi”49.

         Gli apriorismi non si fermarono certo al qualitativismo; furono molti i tabù che
gli scienziati tardo rinascimentali dovettero infrangere: il concetto di cosmo, primo fra
tutti, e, legati ad esso, il concetto di luogo naturale e dell’impossibilità del vuoto.

         Incontreremo di nuovo, più avanti, sia i calculatores che i tabù. Vogliamo ora
parlare dell’altro aspetto sottolineato dal Poppi, quello del deduttivismo, e lo facciamo

47
   A. Carugo. La nuova scienza.. cit.
48
   A. Koyrè. Galileo e Platone.. cit. p. 176
49
   C. Maccagni. GB Benedetti filosofo della natura. In GB Benedetti spunti di storia delle scienze.. cit. p. 88
calandoci nel XVI secolo. E’ infatti in questo periodo che il deduttivismo aristotelico
iniziò a vedere minacciata la propria egemonia, sia in campo logico, che nel campo
prettamente naturalistico.

        E’ della seconda metà del ‘500 il dibattito, fiorente soprattutto tra Padova e
Venezia, circa la natura ed i procedimenti della matematica. I commento di Proco agli
Elementi di Euclide, appena tradotto, tirò in ballo la certezza matematica, la quale
sembrava eludere l’aristotelica dimostrazione apodittica, “onde si dovette concludere
riconoscendo che quella indiscutibile certezza era fondata su una sorta di privilegiata
natura, intrinseca alla stessa disciplina, la quale, in conseguenza, veniva ad essere posta
al di fuori della filosofia e in una posizione ad essa non più subordinata… prende così
corpo l’idea della autonomia e della superiorità del metodo matematico nei confronti dei
puri metodi logico-formali”50.

        Ci si rende conto che, nello stesso Euclide, non siamo in presenza di un solo
metodo di procedere, dall’evidenza alle conseguenze ( deduzione – sintesi), ma vi è una
notevole parte, quella dei problemi da risolvere, nella quale si percorre il cammino
inverso (induzione – analisi).

        Già Pappo Alessandrino aveva affrontato il problema; saranno ora gli aristotelici
padovani a sviscerarlo. Essi scoprirono che questo procedimento di salita e discesa, da
loro chiamato regressus, non era soltanto presente nell’approccio euclideo ai problemi
matematici (e, seppur in modo approssimativo, anche nello stesso Aristotele), ma che lo
stesso metodo era felicemente applicabile alla costruzione delle teorie della filosofia
naturale: “anche qui si parte dai dati forniti dall’esperienza e, per una via induttiva, si
sale alla scoperta di leggi o, addirittura, di principi, che costuiscono invece il punto di
partenza del percorso che, per via sintetica, arriva a dimostrare ciò da cui nell’altro
percorso si era partiti, e quindi a capirne il senso”51.

        E’ un passaggio fondamentale sulla strada della creazione del moderno metodo
scientifico.


50
   C. Maccagni. GB Benedetti filosofo della natura. In GB Benedetti spunti di storia delle scienze.. cit. p.
92
51
    A. Crescini. Considerazioni sul metodo risolutivo in Aristotele, nell’aristotelismo padovano e in
Benedetti. In Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del ‘500... cit. p. 97
Illuminante, a proposito, il già citato saggio del Crescini. Partendo da un
esempio che vede Aristotele e Benedetti alle prese con un problema di dinamica che li
accomuna nell’approccio analitico alla soluzione, Crescini rimarca le differenze di
metodo dei due filosofi. Tra queste, essenziale quella che vede lo stagirita partire dalla
pura osservazione dei dati empirici, ed il veneziano, invece, rimuginare quegli stessi
dati, al fine di darne una considerazione razionale.

        Il regressus, quindi, non è solo l’immagine speculare e complementare della
deduzione peripatetica. Esso va oltre: non ci si limita alla constatazione di una pura
evidenza, ma la si interpreta, sino a che il dato osservato non sarà conforme a ragione.

        Già accennate le altre differenze: quantificazione dei dati, eliminazione degli
apriorismi, in primo luogo della dipendenza del sistema scientifico peripatetico dalle
cause finali.

        “Aristotele poté accogliere tali cause finali nelle sue considerazioni, perché in lui
non era ancora presente con chiarezza la radicale differenza esistente tra gli aspetti
puramente fisici della natura, i suoi aspetti logici e, infine, ancor più a fondo, quelli
metafisici”52.

        Sia Aristotele che gli aristotelici padovani sapevano della necessità di partire dai
dati di senso e della possibilità, in caso di loro non intellezione, di poterli chiarire
ricorrendo alle loro cause (è un regressus in nuce); quello che mancò loro e che, di
riflesso, fece grande Benedetti, fu, oltre a quanto sopra indicato, l’uso “di modelli
spazio-temporali validi universalmente, per tutti i corpi … organo di una autentica,
rigorosa, conoscenza dovrà quindi essere l’immaginazione, con le sue supposizioni di
rapporti spazio-temporali … si avrà così l’incalcolabile vantaggio di poter verificare la
validità (verità) di questi rapporti … saranno le leggi spazio-temporali che esprimono
questi rapporti, i nuovi principi della conoscenza”53.

        Questo ebbe come conseguenza che “la logica valida per una scienza reale dovrà
essere la matematica e non una metafisica … a una logica attributiva imperniata sui



52
    A. Crescini. Considerazioni sul metodo risolutivo in Aristotele, nell’aristotelismo padovano e in
Benedetti. In Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del ‘500... cit. p. 100
53
   Ibidem. p. 107
rapporti sostanza-accidente, essenza-proprietà, si viene a far prevalere una logica
relazionale”54.

           Questo, il regressus.

           Il dibattito sul metodo non si fermò, comunque, qui. Se di diversità si può
parlare circa il metodi di avvicinarsi alla natura da parte dei grandi Padri della filosofia,
di diversità si può parlare anche a riguardo dei grandi Padri della scienza moderna.

           Fu il Benedetti ad intuire la necessità di matematizzare la fisica terrestre (portò il
cielo in terra), partendo dal problema più stressante per i tecnici e per i militari: il moto.
In questo modo, non solo fece compiere alla dinamica medioevale quei progressi che
poi analizzeremo accuratamente ma, da un punto di vista metodologico, rivoluzionò il
modo di porsi di fronte alla natura.

           Per Aristotele, il movimento non era solo moto, naturale o violento, ma
cambiamento in genere. Si può dire che Aristotele avsse subito il fascino di un
approccio di tipo biologico, nei confronti del movimento. “Vede l’universo sotto
l’aspetto della vita”55; ne consegue che il movimento fondamentale di questo mondo è
la generazione, sempre legata al ricorso ad una causa. Tipica conseguenza di questo
habitus mentale fu la trattazione peripatetica dei moti locali, e la conseguente difficoltà
nella formulazione della legge di inerzia.

           Proseguendo sulla strada di Leonardo e degli Ingegneri del ‘500, la
matematizzazione del Benedetti intaccò, anche se non infranse, questo atteggiamento
culturale, favorendo una interpretazione meccanicistica del mondo, sposando, cioè,
probabilmente in modo inconsapevole, la teoria degli atomisti, per i quali anche la
generazione e la corruzione erano riconducibili ai movimenti locali degli atomi.

           Benedetti matematico; Benedetti che rivendica alla matematica il titolo di
filosofia proprio in virtù del carattere di certezza posseduto dal suo sapere; Benedetti
che pensa che solo attraverso la matematica si possa comprendere il pensiero di Dio e se
ne possa emulare la creatività. Benedetti che si differenzia da Galileo, per il quale un
filosofo non può essere solo puro calcolatore.

54
     Ibidem. p. 108
55
     E. Berti. La concezione del moto.. cit. p. 110
“L’accentuazione del carattere puramente intellettuale della conoscenza
scientifica giunge, effettivamente, a costituire una peculiarità della figura di Benedetti,
proponendo – come ha indicato il Maccagni – un elemento di chiara differenziazione
nei confronti della nozione galileiana del ruolo scientifico delle sensate esperienze”56.

         Vi è diversità di metodo tra Benedetti e Galileo: “lo sforzo maggiore di
Benedetti non è rivolto, come farà invece Galilei, a contrapporsi sul medesimo piano del
riferimento dell’esperienza utilizzato da Aristotele stesso: quanto piuttosto a
neutralizzarne l’efficacia, mettendo in discussione il significato di tale riferimento”57.

         Anche l’adesione alla tesi copernicana è sposata dal Benedetti più in riferimento
alla sua, intrinseca, armonica proporzione tra le parti dell’universo, che in riferimento a
qualche dato osservativo.

         “Il ricorso all’esperienza nella prospettiva di Benedetti non manca di esser visto
anche come elemento perturbatore nei confronti di quella idea di scientificità che, come
si è visto, ha per lui la massima realizzazione nella filosofia matematica”58.

         Vi è molta distanza da un Galileo che si spinge sino ad affermare la necessità di
basare sui sensi anche le verità matematiche, cosa che per il nostro veneziano è
impossibile, anzi “da questo punto di vista non si doveva temere di dare ragione ad
Aristotele, che aveva distinto la scienza dalla conoscenza sensibile”59.

         Rivalutazione di Aristotele, ma anche rivalutazione di Benedetti, che si pone
nella storia del metodo scientifico non come precorritore di Galileo ma come originale
esploratore delle strutture della natura.

         Fu anche grazie alla sua opera che la quantità diventò primo accidente. Ciò pose
in nuova luce tutta una serie di intuizioni e sperimentazioni già effettuate nel Medio
Evo, soprattutto nel campo dell’ottica (il cui studio fu sempre invogliato dall’esegesi
biblica).




56
   L. Olivieri. Giovan Battista Benedetti e la crisi dell’aristotelismo. In Giovan Battista Benedetti – Spunti
di storia delle scienze.. Cit. p. 117
57
   Ibidem. p. 118
58
   Ibidem. p. 125
59
   Ibidem. p.128
Ne conseguì lo scardinamento della divisione aristotelica tra fisica (scienza della
natura) e matematica pura.

         Matematica come passepartout: secondo Benedetti “Aristotele non ha capito mai
un bel niente del movimento; il primo suo errore è stato l’aver trascurato o persino
escluso dalla fisica gli inamovibili fondamenti della filosofia matematica … solo
partendo da essi – il che significa partendo da Archimede – è possibile sostituire alla
fisica di Aristotele una fisica migliore”60.

         Il metodo matematico e quello sperimentale crebbero in seno alla fisica ed alla
astronomia aristotelica e, dal suo interno, riuscirono a cambiarne drasticamente i
presupposti. Aristotele può aver ragione a dire che quando il moto si esaurisce in calore
si ha un qualcosa di nuovo, la cui conoscenza si aggiunge alla spiegazione quantitativa e
la completa, ma ciò non toglie valore alla tesi dei meccanicisti, per i quali “la
spiegazione ha sempre valore perché vi è corrispondenza tra un certo ordine dei
fenomeni qualitativi e un processo quantitativo”61.

         “Viene abbandonata in fisica la ricerca delle cause finali a favore di quelle
materiali (corpuscoli, elementi chimici), delle cause efficienti (forze elastiche, gravità,
leggi della dinamica) e delle cause formali (funzioni matematiche di forza, energia,
ecc.)”62.

         Se gli uomini che si affacciarono al Rinascimento furono privi del concetto di
progresso e cedettero, tutt’al più, ad una cultura chiusa in se stessa, limitata e, nello
stesso tempo, difficile da mantenere viva; se, tra di loro, gli stessi studiosi videro la
Terra quale ipostatizzazione dell’antro platonico, fu grazie all’intelligenza ed alla vis
polemica di pensatori quali il Benedetti che si riuscirono ad offrire alternative tali da
modificare radicalmente lo stesso concetto di esistenza umana, laicizzandola, in gran
parte, sia da autorità divine che terrene.




60
   A. Koyrè. Studi galileiani
61
   F. Enriques, G. De Santillana: Compendio... Cit.
62
   Ph.P. Wiener, A. Noland. Le radici del pensiero scientifico Cit.
La rivoluzione scientifica del ‘500 rappresentò davvero (non solo per il Koyrè)
“la svolta più profonda nel pensiero umano dalla creazione dell’idea di cosmo da parte
dei greci”63.

           Non ci resta che vedere in quale modo Benedetti fu condizionato e, nello stesso
tempo, condizionò il clima culturale dei suoi tempi.




63
     A. Koyrè. Galileo e Platone. p. 156
CAP. 3 - GIOVAN BATTISTA BENEDETTI UOMO E SCIENZIATO


           In questo capitolo ci proponiamo di dare dei rapidi cenni biografici del nostro
autore, nonché di dare una rapida occhiata ai suoi interessi non propriamente meccanici.
Per far ciò ci avvalleremo dell’unica bibliografia edita sul Benedetti, scritta da Giovanni
Bordiga ed ultimamente ristampata, con l’aggiunta dell’aggiornamento bibliografico
ragionato, a cura di Pasquale Ventrice64. Approfondiremo qua e là il discorso,
ricorrendo ad alcuni saggi monografici.




3.1 Biografia


           Poche e disperse le notizia inerenti la vita di Benedetti.

           La sua tavola astronomica pubblicata da Luca Gaurico, oltre a darci l’unica
indicazione precisa della sua data di nascita (14 Agosto 1530), mette in risalto la fama
da lui già raggiunta in giovane età: quando aurico pubblicò il suo Tractatus
astrologicus, Benedetti aveva solo 22 anni.

           Il lignaggio del suo casato non è valso, purtroppo, a far giungere a noi notizie
attendibili circa la sua famiglia. Il padre è detto, dal Gaurico, Hispano, forse perché,
come commerciante, fu in buoni rapporti con i colleghi iberici.

           Molto interessanti anche le relazioni giovanili che Benedetti stesso ebbe a
Venezia con dotti spagnoli. Queste potrebbero aver influito non poco sui suoi futuri
studi di filosofia naturale: sarebbe utile sapere sino a che punto questi studioso fossero a
conoscenza delle tesi di Domingo de Soto e sino a che punto le tenevano in
considerazione.

           Dall’età di sette anni fu autodidatta. Unica eccezione, già citata, riguarda i primi
quattro libri degli Elementi di Euclide, che lo videro scolaro del famoso Niccolò


64
     G. Bordiga. Giovan Battista Benedetti filosofo e matematico veneziano del secolo XVI.
Tartaglia. Per il resto, studiò da sé “nulla essendo difficile conoscere ai forti di
volontà”65.

        Il giovane Giovan Battista rifuggì le cattive compagnie e si dedicò anima e corpo
allo studio, pubblicando i suoi primi scritti nel 1533.

        Già questi prima saggi diedero prova dello spirito antitradizionalista del nostro
autore: da essi partirono le prime critiche ad Aristotele ed in essi dimostrò fierezza nel
difendere le proprie teorie (“mio è il pensiero”).

        Dal 1558 fu a Parma, alla corte del duca Ottavio Farnese, forse seguito da una
figlia, la cui vita fu ancor più misteriosa di quella del padre: anche in questo caso
scontiamo il carattere riservato e assolutamente non autobiografico dei suoi lavori.

        A Parma restò per otto anni, durante i quali fu lettore di filosofia e matematica.
In questo periodo non pubblicò nulla, ma si occupò di gnomonica (costruì un orologio
solare a Rupielba) e di astronomia (fece lunghe osservazioni su Marte). E’ di quegli
anni il plagio della Demonstratio perpetuato dal Taisner. Sul principio del 1567,
Benedetti si trasferì a Torino, invitatovi dal duca di Savoia Emanuele Filiberto. Da
quella data, fino alla morte, restò al servizio della famiglia sabauda.

        Al riguardo, molto interessante è il saggio di Gaetano Cozzi, tendente a
comprendere il perché il nostro studioso abbandonò la Serenissima per non farvi più
ritorno, imitato, cinquant’anni più tardi, da Galileo Galilei66. Per darne ragione, compara
la situazione politico-istituzionale delle Repubblica veneta e del Ducato di Savoia:
consolidata ed intoccabile la prima, disastrata ma, per questo, ampiamente riformabile la
seconda.

        Furono la bravura e l’astuzia riformatrice del Principe Emanuele Filiberto di
Savoia che fecero sì che il Ducato divenisse florido economicamente e politicamente.

        La monarchia assoluta ivi instaurata offrì ad ogni studioso una sicurezza tale da
far entrare Torino in competizione con la dotta Padova. La scelta stessa di Torino
capitale creò la necessità di modificare ampiamente l’assetto urbanistico ed


65
 Ibidem. p. 4.
66
  G. Cozzi. La politica culturale della Repubblica di Venezia nell’età di Giovan Battista Benedetti. In
Cultura, scienze e tecnica.. Cit.
architettonico della città, al fine di adattarla al nuovo rango. Questo comportò l’arrivo di
molti studiosi. Lo stesso Palladio fu in Piemonte, invogliato dalla carica di Architetto di
Corte, allora vacante.

       Non secondario allo sviluppo della credibilità culturale di Torino fu pure
l’atteggiamento di riverenza di Emanuele Filiberto nei confronti del papato e della
Compagnia del Gesù, atteggiamento diametralmente opposto a quello della Serenissima.

       Il Cozzi conclude affermando che fu probabilmente la presenza di un monarca
assoluto ed illuminato ad attrarre il Benedetti a Torino (e Galileo a Firenze). Questi
aveva la facoltà di dispensare chiunque dalle costrizioni didattiche, lasciando quindi
liberi di studiare e di creare, cosa che a Venezia era praticamente impossibile.

       Stretti furono i rapporti del nobile veneziano con il Duca sabaudo: la stima di
quest’ultimo per Benedetti crebbe sino alla concessione della patente di nobiltà,
concessa nel 1570.

       Alla morte del sovrano (1580), successe sul trono torinese il duca Carlo
Emanuele I, che riservò al Nostro l’uguale trattamento del padre.

       Benedetti morì il 20 Gennaio 1590, due anni prima di quanto preventivato dalla
propria tavola astrologica, circa dieci anni dopo la morte della figlia e dopo aver
contratto, forse, un secondo matrimonio. Fu sepolto nel capoluogo piemontese, nella
chiesa di S.Agostino, completamente dimenticato (forse è meglio dire ignorato) dalla
sua madre patria.

       Questo, in breve, quanto si conosce della sua vita. Per fortuna, ben più esaustiva
è la nostra conoscenza degli studi del veneziano. Sette sono le opere a stampa del
Benedetti, una delle quali, la Demonstratio, fu pubblicata in due edizioni lievemente
differenti: una è l’opera che il Bordiga non è riuscito a rintracciare (De Coelo et
elementis, del 1591); cinque codici, contenenti manoscritti, completano la produzione
benedettina giunta sino a noi.

       Le sue opere spaziano nel campo delle discipline matematiche. Vediamo di farne
un rapido sunto.
3.2  Geometria, aritmetica, prospettiva, ottica, gnomonica,
musica.


        La prima opera edita da Benedetti (De Resolutione, del 1553) concerne problemi
geometrici inerenti la costruzione di figure geometriche piane, con compasso di data
apertura. Molto diffusi nel ‘500, questi trattati percorrevano in lungo ed in largo una
scienza che era ritenuta compiuta, grazie all’opera di Euclide, di Apollonio e di
Archimede.

        Rimarchevole a proposito il giudizio di Moritz Cantor, il quale afferma che il
Benedetti “ha portato quella dottrina particolare alla sua piena perfezione”67.

        Altri problemi di geometria si trovano nel Diversarum e sono scritti in forma
epistolare.

        Senza entrare nei particolari, leggendo le pagine del Bordiga, salta subito agli
occhi la fiera autonomia del pensiero del nostro matematico: nella disputa (a distanza)
con Aristotele su quali siano le prime figure, non esita a formulare pareri discordi dal
filosofo di Stagira.

        In generale, si può affermare che la sua opera evidenzia il limite della
matematica del suo tempo: difficile andare oltre Euclide e compagnia senza il
grimaldello dell’algebra.

        Sempre trattati in modo geometrico, furono i problemi di aritmetica (153
teoremi), raccolti nella prima parte del Diversarum. Questo modo di procedere
rappresentò, comunque, “l’anello di congiunzione tra la verifica induttiva delle
equazioni, propria dell’analisi abachistica (se la regola dava esiti positivi, allora si
poteva ritenere sufficientemente sicura) e il vero e proprio calcolo algebrico”68, il quale,
per essere sviluppato, dovette attendere la logistica speciosa del Viète.

        Il nostro studioso si dilettò pure di prospettiva, scienza relativamente nuova: se
tale materia fu trattata già da Euclide, è, però, solo con Daniele Barbaro che si ha il
primo trattato completo (anche se non ordinato) di prospettiva.
67
  Ibidem. p. 624.
68
   P. Freguglia. Niccolò Tartaglia e il rinnovamento delle matematiche nel ‘500. In Cultura, scienza e
tecnica.. Cit.
Cousin, Barozzi, Guidobaldo dal Monte e Benedetti contribuirono a dare
qualche regola scientifica alla prospettiva: il Benedetti, in particolare, fece uso di metodi
tridimensionali.

           Collegata alla prospettiva è la problematica collegata alla vista. L’ottica di
Euclide, influenzata da Platone, sosteneva la teoria secondo la quale i raggi luminosi
muovevano dagli occhi verso gli oggetti. Contro di essa Pietro d’Abano e Leonardo
avevano già rispolverato le più antiche, ed opposte, dottrine pitagoriche.

           Legato alla prospettiva, ed all’interesse che da quattro secoli suscitava il De
Aspectibus dell’arabo Alhazen, fu l’interesse che Benedetti stesso ebbe per l’ottica. I
suoi studi sono esposti nella lettera De visu, pubblicata nel Diversarum (Torino, 1585).
In essa il veneziano compara la camera oscura al bulbo oculare, individuandone il
senziente non nel christallinus ma nella retina69.

           Così affermando, Benedetti fu il secondo scienziato a parlare di visione retinale
(il primo fu, nel 1583, Felix Platter). A differenza del primo, però, il nostro autore cercò
di offrire una spiegazione geometrica, non arrivando, comunque, ad accettare il
capovolgimento dell’immagine sulla retina (si dovrà attendere Keplero).

           Fiorente all’epoca, la gnomonica attrasse l’attenzione di Giovan Battista, il quale
raccolse i suoi studi nel De gnomonum (alcuni studi particolari furono editi, sotto forma
epistolare, nel Diversarum).

           E’ il Bordiga ad informarci che, in questo caso, lo scienziato non andò oltre i
suoi contemporanei; anzi, in certi punti, segnò il passo nei confronti di alcuni suoi
colleghi (non tenne conto della parallasse e non usò le tangenti).

           In ogni caso, il fatto che il Clavio, in un’opera successiva, parlasse del De
gnomonum sottolineandone le carenze ma anche i pregi, offre un quadro ben preciso
della preparazione e della considerazione del Benedetti.

           In ultimo, anche in ordine di importanza (almeno per i nostri studi), citiamo,
seguendo Bordiga, due epistole indirizzate al De Rore, inerenti gli intervalli musicali.



69
     T. Frangenberg. Il De visu di Giovan Battista Benedetti. In Cultura, scienze e tecniche.. Cit.
Anche qui, il Benedetti tratta matematicamente l’argomento e suggerisce, nelle
conclusioni, che teoria e pratica vadano insieme congiunte.

        Prima di passare allo studio della parte meccanica del pensiero del Nostro,
dobbiamo ancora analizzare due tematiche affrontate dal veneziano, che riteniamo
propedeutiche all’oggetto della tesi: la questione della grandezza della terra e dell’acqua
e, più in generale, l’astronomia benedettina.




3.3 Perché il fiume va al mare?


        Perché il fiume va al mare? Vi è più terra o più acqua? Domande che oggi hanno
perso ogni significato ma che nel XVI secolo, e prima, furono al centro di accese
contese, le più fini delle quali celavano ben più pressanti questioni.

        Dietro a queste discussioni, che rimandavano alla forma della Terra, vi è
“l’avvallo del modello meccanico dal punto di vista degli esiti sperimentali propri della
scienza moderna … vi è la nascita del nuovo metodo scientifico che infrange
l’universalismo confuso della filosofia naturale e avvia alla costruzione delle scienze
particolari”70.

        Tutto sembra risalire alla pubblicazione del De aqua e terra, un’operetta
attribuita a Dante Alighieri: da Aristotele e da essa derivò la diffusa convinzione che
l’acqua fosse quantitativamente maggiore della terra. Terra ed acqua erano conformate
in due sfere distinte, eccentriche, e ciò comportava problemi circa quale fosse il centro
del globo terracqueo e dell’intero universo.

        Noi non vogliamo esporre qui le idee di Benedetti in proposito. Quello che ci
preme è far vedere contro quali motivazioni scientifiche Benedetti ed i nuovi scienziati
dovettero scontrarsi.


70
  P. Ventrice. La questione della grandezza della terra e dell’acqua e la dottrina delle maree nel secolo
XVI, con riferimenti all’ambiente scientifico veneziano e alcune considerazioni sul metodo. In Cultura,
scienza e tecnica.. Cit.
In generale, comunque, il dotto veneziano si riferì, migliorandole, alle teorie di
Alessandro Piccolomini. E’ del 1558 un opuscolo di quest’ultimo, all’interno del quale
è negata l’interpretazione peripatetica. Le sue convinzioni si fondano “più sulla certezza
della ragione che su quella del senso”, perché “qualunque possa essere la profondità
raggiungibile dall’acqua del mare non potrà mai essere rispetto al volume della terra,
così pure irrilevante sarà qualsiasi elevazione della crosta terrestre rispetto
all’estensione della superficie sferica”71.

        Le ragioni avanzate sulla sfericità della Terra sono l’eclisse parziale della luna, i
fusi orari, ecc..

        Probabilmente Piccolomini fu influenzato dal De rivolutionibus di Copernico,
per il quale “l’acqua e la terra formano una sola sfera, la massa terrestre è di gran lunga
superiore alla massa dell’acqua e il centro di gravità è anche il centro della
grandezza”72.

        Contro queste tesi insorse il Berga, professore all’Università di Torino,
soprattutto perché quelle tesi creavano diffidenza nei confronti delle verità derivanti dai
sensi (soppiantate dalle verità matematiche). “La pretesa dei matematici di definire, in
termini quantitativi, una questione squisitamente naturale è inconsistente, soprattutto
quando venga messa in relazione al problema dell’identificazione del centro di gravità,
la cui localizzazione è possibile solo in base alle procedure razionali proprie della
filosofia naturale”73.

        E’ col Berga che Benedetti entra in polemica. Invitato a pronunciarsi
ufficialmente dal principe Carlo Emanuele, il veneziano pubblicò il Consideratione, nel
quale, tanto per cambiare, attaccò le dottrine aristoteliche del collega. Diamo una rapida
occhiata a queste ultime.

        Per Aristotele, e per Platone, i quattro elementi si succedevano in progressione
geometrica e, per corruzione successiva, ognuno era il decuplo del precedente (quindi,
l’acqua era dieci volte la terra). Forse questo fu il richiamo principale all’Autorità fatto


71
   Ibidem. p. 438.
72
   Ibidem. p. 439.
73
    Ibidem. p. 439. Come, poi, questa razionalità legata ai sensi fosse precaria, lo notiamo
dall’affermazione del Berga secondo la quale le isole non sono più alte del mare che le circonda.
dal Berga. Lo stesso giustificò le proprie idee anche col dire che “l’acqua, essendo meno
grave della terra, bisogna che ne sia maggiore per equilibrarla e, spingendola, fermarla
al centro del mondo”74. Non manca neppure l’avvallo biblico “dopo il diluvio universale
le acque, dopo aver superato la terra, si sono soltanto ritirate, non consumate, quindi il
loro volume tuttora supera quello della terra”75.

        Come si vede, queste motivazioni, eccezion fatta per l’ultima, creano, con
l’aggiunta del metodo esposto dal Berga, una specie di circolo chiuso: si dà ragione di
una evidente contraddizione tra le affermazioni del filosofo della natura e la natura
stessa, negando la contraddizione, richiamandosi ai massimi sistemi e, viceversa, per
sorreggere principi cosmologici in discussione si usano, o meglio, si distorcono, i dati
del senso, badando bene di usarli nella loro forma immediata, oppure cercando di
elaborarli, a seconda delle convenienze.

        Per Benedetti queste sono ragioni filosofiche, argumenti sottili, con la prova in
mano”, facilmente confutabili, per esempio, dalle stesse esplorazioni geografiche
“essendosi scoperto per le nove navigationi tante insule e paesi da ogni parte”76.

        Non era, però, questo il punto e Benedetti se ne accorse bene. Posti in difficoltà
sulla Terra, gli avversari della nuova scienza si rifugiavano in cielo, eludendo così, in
pratica, il confronto. Non restava che inseguirli in quello che credevano essere il loro
elemento, ed ivi combatterli.

        Solo dopo averli sconfitti tra le stelle avrebbe avuto un senso il “portare il cielo
in terra”77.




74
   G. Bordiga. Giovan Battista Benedetti.. Cit. p. 88.
75
   Ibidem.
76
    Per capire meglio quanta presa ebbero, all’epoca, teorie quale quella che vedeva il globo acqueo
eccentrico rispetto a quello terrestre (creando così una gibbosità che permetteva a certe terre di emergere)
si ricordi che Colombo, giunto presso le foci dell’Orinoco, trovando una forte corrente contraria, credette
di essersi avvicinato all’altezza massima dell’oceano.
77
    Come già ripetutamente detto, la cosa non fu tanto pacifica. Messi in crisi sui massimi sistemi, i
peripatetici cercarono di mettere in dubbio i dati di senso: la scoperta delle gibbosità lunari o, ancora
meglio, dei satelliti medicei, furono addebitate alla non affidabilità del telescopio quale strumento di
osservazione.
3.4 Guerre stellari.


        “Un fisico incline ad attaccare la teoria aristotelica del moto non poteva non
capire quali fossero i vantaggi che derivano dall’estendere l’attacco anche alla
cosmologia di Aristotele … Benedetti era un fisico-matematico, non un astronomo, ma
elogiò con entusiasmo la teoria di Aristarco, spiegata in modo divino da Copernico”78.

        E’ avendo presente questo quadro che si può avvicinare il pensiero di Giovan
Battista Benedetti.

        Le questioni astronomiche non spiccano nella sua produzione; rimarchevole è,
però, il tipo di adesione al copernicanesimo, un’adesione che “va al di là della pura e
semplice accettazione del sistema o della difesa delle effemeridi basate sulle più recenti
tavole”79.

        Benedetti non fu un astronomo ma, oltre che ad osservare Marte, senz’altro lesse
con attenzione sia Tolomeo che Copernico. La ragione che fece propendere il Nostro
verso le tesi del grande polacco fu la seguente: se Tolomeo avesse avuto ragione, le
velocità lineari dei pianeti sarebbero state enormi, dalle 500 – 1.000 miglia italiche al
minuto della Luna, alle 260.000 di Saturno. Tutto ciò poteva essere eliminato con la
semplice introduzione del moto terrestre.

        “Ciò che è alla base del ragionamento del Benedetti è dunque un principio di
economicità della natura, e di armonia … che si basa su un’armonica proporzione tra le
parti dell’universo, verificabile in termini di rapporti numerici”80.

        Questo è quanto concerne il Giovan Battista Benedetti astronomo. Vediamo
invece quali conseguenze sortirono gli attacchi all’astronomia tolemaico – aristotelica.

        Nel 1500, si sapeva bene che i calcoli astronomici erano sbagliati: congiunzioni
ed eclissi non erano mai tempestive. Prima si cercò di ovviare a queste discrepanze
dando la colpa del tutto alle cattive trascrizioni dell’Almagesto, sino a che le traduzioni
del XV – XVI secolo riproposero, senza più alibi, il problema.

78
   M. Boas. Il Rinascimento scientifico.. Cit. p.83.
79
   M. Di Bono. L’astronomia copernicana nell’opera di Giovan Battista Benedetti. In Cultura, scienza e
tecnica.. Cit.
80
   Ibidem. p. 286.
Il De rivolutionibus di Copernico è del 1543.

        Questa opera fu, per molti versi, ancora molto lontana dalla moderna scienza:
non è matematizzata, si serve ancora dei concetti di valore, non esce dalla teleologia,
parla sempre di luoghi naturali e di moti naturali e violenti, nell’elencazione delle arti,
infine, pone la meccanica all’ultimo posto “perché abbisogna dell’uso delle mani”81.

        Questo testo non ottenne subito un grande successo. “Solo una mezza dozzina di
studiosi seguirono Copernico tra il 1543 ed il 1560: Retico, Gemma Frisio di Lovanio,
Pontus de Tyard, John Dee, Thomas Digges, John Field, Robert Recorde”82.

        Non si dovette attendere molto, però, perché si intuisse il carattere rivoluzionario
della tesi eliocentrica.

        Indubbiamente, il copernicanesimo dette manforte a chi, sia sul versante
filosofico, sia su quello scientifico, cercava pretesti per attaccare la tradizione. E di
pretesti Copernico ne stimolò molti: “una volta eliminata la rotazione della sfera celeste,
per Benedetti non ha più senso parlare di una qualche superficie delimitante l’universo,
il che significa, in ultima istanza, un’apertura verso l’infinito”83.

        Se Copernico, legato com’era alla scienza peripatetica, non riuscì a trarre queste
conseguenze, ciò fu invece possibile al nostro veneziano, il quale, in quanto fisico –
matematico,       fu    agevolato      “dalla    polemica       vincente     contro     alcuni     cardini
dell’aristotelismo, quali il concetto di vuoto, di luogo e di infinito attuale, ed i problemi
di moto ad essi relativi”84.

        Ecco le conseguenze a cui accennavamo prima. Non vogliamo credere, anzi, non
crediamo, ad un Benedetti opportunista: siamo convinti che il dotto veneziano credesse
nell’eliocentrismo. E’ innegabile, però, che le tesi del Copernico servirono a lui, come
ad altri suoi contemporanei, per costruire, poco a poco, quel Grande Sistema da
contrapporre all’aristotelica visione del mondo.




81
   Ricordiamoci che Aristotele elevava gli artigiani al di sopra degli schiavi solo per il fatto che i primi
accudiscono più persone mentre i secondi una sola.
82
   A. Rupert Hall. La rivoluzione scientifica.. Cit.
83
   M. Di Bono. L’astronomia copernicana.. Cit. pag. 289
84
   Ibidem. pag. 290.
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Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

  • 1. Università degli Studi di Genova Facoltà di Lettere e Filosofia Anno Accademico 1989/1990 GIOVAN BATTISTA BENEDETTI E LA MECCANICA DEL ‘500 Relatore: Chiarissimo Prof. Freguglia Tesi di Laurea del candidato Giovanni Ferretti
  • 2. Sommario INTRODUZIONE .......................................................................................................... 3 CAP. 1 - L’ESIGENZA DI UNA NUOVA SCIENZA: BENEDETTI ED IL SUO TEMPO ........................................................................................................................... 7 1.1 GLI INGEGNERI ED IL RINASCIMENTO ...................................................................... 9 1.2 L’ABACHISMO, OVVERO LA MATEMATICA PRET-A-PORTER ................................... 11 1.3 L’INFORMAZIONE SCIENTIFICA.............................................................................. 14 1.4 MISCELLANEA ...................................................................................................... 17 CAP. 2 - FILOSOFIA E METODO............................................................................ 20 2.1 ….ISMO ................................................................................................................. 21 2.2 METODO ............................................................................................................... 30 CAP. 3 - GIOVAN BATTISTA BENEDETTI UOMO E SCIENZIATO ............... 38 3.1 BIOGRAFIA ............................................................................................................ 38 3.2 GEOMETRIA, ARITMETICA, PROSPETTIVA, OTTICA, GNOMONICA, MUSICA. ............ 41 3.3 PERCHÉ IL FIUME VA AL MARE? ............................................................................ 43 3.4 GUERRE STELLARI................................................................................................. 46 CAP. 4 - LA MECCANICA NEL XVI SECOLO ..................................................... 53 4.1 CENNI SULLA STATICA PRE-BENEDETTINA............................................................ 54 4.2 LA STATICA DI BENEDETTI. .................................................................................. 58 4.3 CONATUS ED IMPETUS........................................................................................... 65 4.4 VERSO LA LEGGE D’INERZIA: I CONTRIBUTI DINAMICI DI GIOVAN BATTISTA BENEDETTI. ................................................................................................................. 77 LE OPERE .................................................................................................................... 87 BIBLIOGRAFIA CITATA......................................................................................... 88
  • 3. GIOVAN BATTISTA BENEDETTI E LA MECCANICA DEL ‘500 INTRODUZIONE La fisica aristotelica da un lato, Galileo e la nuova scienza dall’altro, fanno della meccanica del ‘500 una scienza di confine. Vaso di coccio tra vasi di ferro, il suo studio è stato a lungo trascurato, col risultato di trascurarne l’originalità. Emblematico è lo scarso rilievo scientifico che per anni ha circondato il profilo di Giovan Battista Benedetti, studioso che, in quel periodo, più di ogni altro è riuscito ad avvicinarsi allo spirito galileiano. Ottimo esploratore di questa terra di nessuno, Benedetti suscita, oggi, sentimenti di ammirazione e di rabbia, visto che davvero poco è mancato alla sua analisi affinché il suo antiaristotelismo non portasse a quella rivoluzione scientifica che comunque vedrà la luce una cinquantina di anni dopo. In cosa consista questa deficienza, e quindi quali siano i caratteri fondamentali caratterizzanti quella svolta del pensiero umano, diremo in seguito. In questa introduzione penso sia invece il caso di affrontare quei problemi che sono sottintesi da questa tesi e dei quali è doverosa almeno una rapida elencazione. Tutti gli epistemologi e tutti gli storici della scienza si sono divisi (almeno sino a qualche decennio fa) in posizioni, le quali, se accettate, offrono griglie interpretative tendenti a sclerotizzare le nostre ricerche in immagini talvolta diametralmente opposte: ad ogni lente, una diversa visione del mondo. Vedere in Galileo solo un disciplinato continuatore degli Studi parigini o esaltarlo a genio assoluto emergente dal mare della mediocrità sua contemporanea, influisce, ovviamente non poco, sul giudizio che possiamo dare degli sviluppi della
  • 4. fisica benedettina. Altrettanto dicasi del vedere i nostri dotti quali torri isolate, tra di loro e da una società distratta, o come depositari delle esigenze improcrastinabili di una economia in evoluzione. E’ quindi necessario schierarsi, rendere chiaro il proprio pensiero, onde preservarlo da possibili fraintendimenti. Far ciò, per fortuna, è semplificato dal fatto che gli studiosi tendono, in questi ultimi anni, a non propinare più rigide ricette valevoli per ogni stagione, ma a dare un’immagine più fluida, dialettica, del divenire scientifico: continuismo, senz’altro, dato che la storia della scienza è storia di pensatori in diretto contatto tra di loro (e visto che più si facilita questo scambio di esperienze, più la scienza progredisce), ma anche rispetto dell’intuizione del singolo, vista, come dice Ludovico Geymonat, non come metafisica presenza ma come capacità di estrapolare, di cogliere relazioni ad altri nascoste1; esternismo, ovvio, ma anche cognizione del fatto che certe scoperte ed invenzioni più che essere stimolate hanno stimolato un progresso socio-economico. Un rapporto dinamico lega la storia del soggetto con la storia dell’oggetto dell’indagine scientifica. A prima vista, sembra che questa mobilità voglia impedirci di focalizzare il tutto. A nostro favore gioca, però, una carta che potremo definire psicologica: come si è invogliati a guardare gli sviluppi della fisica cinquecentesca con gli occhiali dei continuisti, così si è portati a calcare la mano sulla originalità dello scienziato, quando si tratta di parlare della sua opera. C’è da augurarsi di non cadere in marchiane contraddizioni. Quali sono i caratteri fondamentali della nuova scienza? A questa domanda si è soliti rispondere che la novità sta nel diverso modo di indagare la natura: l’aristotelica analisi qualitativa viene sostituita dal metodo sperimentale, fondato sull’applicazione della matematica e sull’osservazione scrupolosa dell’esperienza. Questa svolta metodologica ha rappresentato “quello che è l’evento più significativo della storia del 1 Quanto comunque sia necessario un maturo humus scientifico alla genialità del singolo è provato dal fatto che altrimenti le intuizioni, impossibilitate ad essere organicamente sviluppate, resterebbero sogni fini a se stessi: Leonardo non è Galileo, né Verne è Einstein.
  • 5. pensiero scientifico dal sorgere del cristianesimo”2, tanto da far ritenere ingiustificato l’attribuire alle grandi scoperte geografiche il merito di essere fondatrici dell’era moderna. Però, a ben vedere, questa consuetudine ha una ragion d’essere: i viaggi transoceanici offrono delle date precise; maggiori difficoltà si incontrerebbero nel cercare una data significativa per la nostra svolta epistemologica. Questo, perché la rivoluzione scientifica fu “un vasto ed articolato movimento di ricerche e di operazioni concrete sulla realtà e di elaborazioni teoriche e concettuali”3. Si potrebbero senz’altro avanzare delle proposte (la data di pubblicazione del Sidereus nuncius, per esempio) ma far ciò non renderebbe giustizia a quel movimento del pensiero che rese possibile la stesura di quel libro. A chi, poi, affermasse che non ci vuole un enorme background culturale per alzare un cannocchiale verso la Luna e per annotare quelle due o tre cose elementari, immediatamente percepibili, si potrebbero citare le parole che un padre gesuita ha indirizzato, nel ‘600, a Scheiner: “Figlio mio, ho passato tutta la notte a guardare se vi siano macchie nel sole: non può essere, vi assicuro che Aristotele non ne fa menzione”4. E’ la moderna epistemologia che ci insegna che ogni esperimento, ogni ricerca, ha alle spalle delle aspettative, quindi idee, teorie, che condizionano e sono nello stesso tempo messe alla prova dall’esperimento stesso. Gli studiosi del ‘500 (e del ‘600) si trovavano di fronte ad una potente struttura scientifica (non matematizzata ma profondamente elaborata), fortemente interdipendente, con tutti i pregi ed i difetti di una scienza che Kuhn definirebbe 2 Butterfield: Le origini della scienza moderna. 3 A. Carugo: La nuova scienza. Le origini della rivoluzione scientifica e dell’età moderna in Nuove questioni di storia moderna p. 3 4 citato in F.Enriques, G. de Santillana: Compendio di storia del pensiero scientifico; p. 336
  • 6. normalizzata. Metterne in discussione una parte significava trovarsi contro il tutto; voleva dire scontrarsi con la cultura ufficiale. Solo più tardi, la forza del sistema aristotelico si tramutò in debolezza: una volta crollato un pilastro, crollò, come un castello di carte, tutto l’edificio. Uno ad uno saltarono tutti i paradigmi e ci si ritrovò, non più nani sulle spalle di giganti, a fare i conti con un cosmo che non era più tale, con un universo che aveva perso tutti i connotati sino ad allora familiari. Prima di accettare l’idea di aver avuto dei Padri fallibili, l’uomo medioevale dovette scontrarsi con le mille contraddizioni innescate da una realtà socio-economica in rapida evoluzione. E’ proprio dall’analisi delle cause che permisero questo terremoto colturale che bisogna partire per poter comprendere la scienza di Benedetti e dei suoi contemporanei.
  • 7. CAP. 1 - L’ESIGENZA DI UNA NUOVA SCIENZA: BENEDETTI ED IL SUO TEMPO La rivoluzione scientifica dipese essenzialmente dal nuovo atteggiamento con il quale l’uomo si pose di fronte alla natura. I mutamenti conseguenti non furono frutto di nuove osservazioni: gli oggetti dell’indagine scientifica erano più o meno gli stessi dei precedenti duemila anni. Fu, quindi, il mutare della qualità delle indagini che permise l’enunciazione di leggi quali quella d’inerzia, di gravità, del moto ellittico dei pianeti, ecc. Se il primo a rendersi conto, compiutamente, della potenza conoscitiva del nuovo metodo fu Galileo (e se, quindi, furono i secoli successivi al 1600 a beneficiare dei benevoli influssi di tale innovazione), cionondimeno il ‘500 è da considerarsi come il secolo che ha sancito definitivamente il crollo dell’indagine qualitativa aristotelica. Ad onor del vero, già da diversi decenni piccole crepe si erano aperte nella tradizione ma, queste, non scalfirono per nulla il prestigio dello stagirita. Bisognò arrivare sino al millecinquecento per trovare dei pensatori in grado di valutare oggettivamente l’operato scientifico di Aristotele. Ciò non fu dovuto al caso: il XVI secolo rappresentò il punto di arrivo e di fusione di nuove istanze storiche, sociali, economiche e culturali. L’aristotelismo scientifico non fu più capace di rispondere soddisfacentemente alle domande poste dai nuovi ceti emergenti. Elencare, rapidamente, queste situazioni, questi nuovi stimoli, ci permetterà di capire il perché di determinati sviluppi scientifici o il mancato raggiungimento di certi obbiettivi. In altre parole: il Rinascimento scientifico fu il frutto della maturazione di
  • 8. determinati eventi, alcuni dei quali ebbero radici molto profonde nel tempo. In questo senso, si può parlare di una certa continuità tra Medio Evo e Rinascimento. Primo segno della tensione ideale che legò queste due ere fu la crescente necessità di progettazione e realizzazione di tecnologie legate ad un sempre più rigoglioso sviluppo economico. Fu l’ascesa della borghesia a fare da volano. Se la stabilità monetaria e lo sviluppo dei traffici mercantili indussero un crescente interesse per gli studi aritmetici, lo sviluppo dell’artigianato e delle tecniche agricole e protoindustriali comportarono l’approfondimento della geometria e della meccanica classica. Il rifiorire dell’interesse matematico si scontrò con una cultura ufficiale dominata ancora da vezzi scolastici, legata ancora com’era ai ceti (leggi: esigenze) feudali ed ecclesiastici; scarsi furono i loro interessi verso il nuovo; anzi, ogni critica all’ordine stabilito fu spesso sentita come una minaccia al prestigio istituzionale. Di conseguenza, si cominciò a sviluppare una seconda cultura, emarginata dalle Università ma comunque sempre più frequentata da quei giovani destinati a prendere in mano le redini delle società mercantili paterne e che, quindi, dovevano fare i conti con quei problemi pratici che ne derivavano. In tutta Europa, ma soprattutto in Italia, questa seconda cultura si manifestò col sorgere di due scuole, non sempre distinguibili l’una dall’altra: quella degli ingegneri e quella degli abachisti.
  • 9. 1.1 Gli ingegneri ed il Rinascimento Per Bertrand Gille (del quale il titolo di questo capitolo plagia, clamorosamente, quello di una sua opera) l’incontro tra scienza e tecnica si ebbe agli inizi del ‘400. Poche le fonti greco-latine dalle quali i Nostri potevano attingere: Erone, Vitruvio, Vegezio, Frontino offrivano, comunque, spunti di riflessione circa la trazione dei corpi pesanti, le condutture idriche, le macchine belliche e poc’altro. Il XIII ed il XIV secolo non videro un grosso incremento di questo patrimonio conoscitivo. E’ verso la fine del ‘400 che si ebbe una nuova, forte spinta: altiforni, telai, orologi, aprirono nuovi campi di indagine, anche filosofica. Un esempio: è sempre medioevale l’invenzione del sistema biella-manovella (cioè il tornio a pedale, cioè la possibilità di modificale il moto rettilineo alternato in circolare o viceversa). Significò porre le basi per quell’abito mentale che permise di trattare i due moti quali uguali, a dispetto della divisione aristotelica tra moti circolari (celesti) e rettilinei (sublunari). Non deve sfuggire l’importanza di questo fatto, perché esso ebbe conseguenze non solo filosofiche, poiché questo pose le basi per una corretta analisi dei moti e, quindi, per la futura Dinamica rinascimentale. Vi è un altro particolare che, per così dire, spianò la strada ai nostri ingegneri (ed abachisti): essi, non solo non entrarono a far parte del corpo accademico tradizionale, ma furono, pure, di estrazione e formazione estranea a quella stessa cultura. Di conseguenza, questi uomini senza lettere non furono plagiati dalle problematiche scolastiche e, postisi di fronte alla natura, formularono domande e diedero risposte indipendenti dalle necessità sistematiche aristoteliche. Giocando con immagini neorealiste, si potrebbe dire che la loro palestra di scienza fu la strada, la vita quotidiana. Anche Benedetti fu uno scugnizzo, anzi, fu uno scugnizzo orgoglioso delle sue origini autodidatte (Tartaglia permettendo). E non si può dire che fosse in cattiva compagnia: Francesco di Giorgio Martini, Mariano Jacopo, Leonardo, Tartaglia stesso, solo per citare i più famosi, furono i suoi compagni di gioco. Più in generale, ci si
  • 10. potrebbe rifare a tutti quei ragazzi di bottega che fecero grande il Rinascimento pittorico italiano, le origini dei quali erano, al massimo, detto in termini moderni, piccolo borghesi. Per inciso: il movimento artistico italiano fu importantissimo per la nuova scienza: lo studio della prospettiva implicò notevoli approfondimenti geometrici, per non parlare, poi, dei rilevanti studi anatomici. Ma torniamo ai nostri ingegneri. Il legame tra il versante tecnico e quello scientifico era comunque ancora molto debole. Importante, però, è che si iniziarono a cercare non più solo spiegazioni valide ma soluzioni generali: “ricordiamoci che il problema non era dire che Aristotele sbagliava, ma sostituire a lui qualcosa di più valido5”. Fu Leonardo uno dei primi ad imboccare questa strada. Ultimamente, si sta ridimensionando non poco il valore del Leonardo-ingegnere: eccezion fatta per l’idraulica, il grande italiano pare non eccellesse nelle scienze, tanto che Bertrand Gille in Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento sembra preferirgli Francesco di Giorgio Martina, suo predecessore. Comunque, pur se in modo incompleto e pur se frustrati da un linguaggio molto oscuro, si notano in Leonardo interesse per le misurazioni, il cercare riscontro, nella natura, delle proprie formule, il credere l’uomo capace di conoscenza. Non è cosa da poco, in un mondo dove l’idea agostiniana di una natura sacramentale (quindi solo da contemplare, quale opera divina) era ancora radicata. Il de Ponderibus sotto il braccio, Euclide ed Archimede come modelli, i nostri ingegneri cercarono lentamente di invertire quella tendenza per la quale “la tecnica interveniva.. solo come le parabole del Vangelo, per confutare o convalidare proposizioni costruite per tutt’altra via.. Questa congiunzione dei due metodi di pensiero [tecnico e scientifico] costituì forse uno dei momenti determinanti dell’evoluzione scientifica .. [coscienti che] nessuno dei due metodi, da solo, avrebbe potuto pervenire a tali risultati6”. 5 A. Rupert Hall: La Rivoluzione scientifica. 1500-1800. 6 B.Gille: Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento. p. 255
  • 11. Non tutti gli storici della scienza la pensano così: Duhem, negando una tale relazione, afferma, addirittura, che è contro l’esperienza degli artificieri che si sono spezzati gli sforzi di Leonardo, Tartaglia, Benedetti. A queste affermazioni ben risponde Gille: dopo aver ammesso che l’esperimento (in senso moderno) è diretto, provocato, mentre la prima esperienza tecnica è subita, è frutto del senso comune (e che quindi è legittimo parlare della loro diversità), Gille afferma che “l’esperienza tecnica, verso la metà del ‘400.. ha pianificato i suoi problemi, distinte alcune componenti, fatta una prima scelta fra le nozioni, per non dire concetti, che la pratica quotidiana offriva” e che, comunque, “è in ogni caso curioso constatare che i problemi dei tecnici e degli scienziati presenteranno un’esatta coincidenza7”. E’ sempre Gille a parlare di scienza attratta dalla realtà e di tecnica preoccupata di darsi spiegazioni più valide e più generali, ed offre due prove dei comuni interessi: l’identico ideale, rappresentato da Archimede e dalla sua scienza da tecnico, ed il comune interesse per la matematica. Prima di iniziare ad indagare quest’ultimo aspetto, alcune ultime considerazioni: “quando si parla di tappe fondamentali nella strada della scienza moderna, si danno solo nomi di ingegneri (Leonardo, Benedetti, Galileo, Stevino)8”: “affermare che Benedetti si avvicinò alla verità non perché artigliere ma perché conosceva Archimede, equivalse a negare l’accordo che si verificò, in quel preciso momento storico, tra i due ordini di pensiero9”. E’ da sottolineare che quando un Gille o un Koyrè parlano di accordo tra tecnica e scienza, non pensano alla scienza ufficiale. 1.2 L’abachismo, ovvero la matematica pret-a-porter I Teatri di machine non rappresentarono il solo genere letterario-scientifico di moda agli inizi del ‘500. Essi furono validamente spalleggiati (e non poteva essere 7 B.Gille: Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento. p. 257 8 Ibidem. p. 271 9 Ibidem. p. 258
  • 12. altrimenti) dai manuali d’abaco, espressione cartacea di un vasto movimento culturale che si protrasse per almeno quattro secoli. La sua nascita è, infatti, fatta risalire al Liber Abbaci, di Leonardo Pisano, detto il Fibonacci, redatto attorno al 120010 e sopravvisse sino ai tempi di Tartaglia e Benedetti. L’abachismo si sviluppò dietro alla necessità di chi, ingegnere, agrimensore, mercante o militare, doveva risolvere nel modo più semplice possibile, e con la maggior approssimazione possibile, i calcoli inerenti alla propria professione, senza avere alle spalle una adeguata cultura matematica. Questa cultura underground possedeva una sua lingua, il volgare, ed una sua scrittura, il mercantesco. “La domanda era così grande che sorse una nuova professione, comprendente matematici pratici, in possesso di una cultura media, capaci di applicare la geometria e la trigonometria ai problemi connessi agli strumenti scientifici di misura. Molti di essi tennero lezioni di matematica in lingua volgare.. e scrissero libri elementari, in linguaggio piano, semplice e facile”11. E’ da rimarcare il fatto che a questa arte non si rivolgessero solo i ceti inferiori: i nobili veneziani, per esempio, stimolati dalla loro lunga tradizione mercantesca, andavano a scuola d’abaco. L’abaco fu sviluppato ed insegnato anche da esponenti dello strato dotto: possiamo ritrovare così, vicini, un Tartaglia che si guadagnava dieci scudi il quesito, e che rischiava di saltare il pasto “se per le lezioni su Euclide invece del prezzo pattuito gli davano un mantello logoro”12, e Luca Pacioli, che di questi problemi certo non ne ebbe. L’abachistica si sviluppò in Toscana nel XIII secolo, anche stimolata dall’introduzione in Italia del sistema di numerazione indiano, e si propagò nell’Italia settentrionale, soprattutto nel Veneto. Nel ‘500, saper fare conti e misure si diceva haver buon abbaco, i numeri arabi erano cifre abachistiche ed elencare, per punti, nomi ed oggetti era metter per via 10 ache se Marie Boas, nel suo Il Rinascimento scientifico; 1450-1630 afferma che, in realtà, quel testo rese inutile l’abaco. 11 B.Gille: Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento. p. 168 12 E.Zilsel Le origini del metodo scientifico di Gilbert. In Le radici del pensiero scientifico a cura di Ph.P. Wiener, A. Noland. p. 272
  • 13. d’abaco13. La nostra fu una scuola di avviamento professionale e, intesa in questo senso, come mezzo di promozione sociale ed economica, contribuì certamente allo sviluppo dell’alfabetizzazione. Lo scopo principale della scuola, la soluzione di problemi pratici, rappresentò anche il suo limite principale: l’apprendimento mnemonico di talune operazioni non aiutò di certo una sistematizzazione teorica o “una generalizzazione che si spingesse al di là delle singole regole”14. Ciononostante riuscì a coagulare un’area di sapere, le discipline mathematiche15, concepita come un’area di sapere autonoma, all’interno della quale, come disse il Tartaglia, esse per se medesime si verificano e si approvano, et non per auttorità .. come fanno altre scientie, ma per demonstratione. All’interno di questa area si iniziò a distinguere tra una parte theorica, cioè speculativa, ed una prattica, cioè attiva. La prima attingeva alla forma euclidea deduttivo-dimostrativa. La seconda era la vera e propria abachistica. Tra i due aspetti di questo sapere vi fu un profondo interscambio, a dimostrazione della tranquillità con la quale si accostava il teorico al pratico. E. Gamba e V. Montanelli definiscono questa seconda matematica induttiva, perché parte dal caso singolo: è il gusto per il problema, del cercare regole valevoli all’interno di una certa casistica, senza tentare generalizzazioni logiche di quanto trovato. “La matematica abachistica prova, non dimostra.. fa vedere che funziona.. non che il risultato è giusto nel senso logico del termine”16. Il far vedere che funziona significò lavorare a stretto contatto con la natura e, di conseguenza, con gli strumenti di misurazione, dei quali si notò l’imprecisione. E’ del ‘500 la presa di coscienza circa la limitatezza dell’abachistica. Essa ha ormai fatto il suo tempo: ha stimolato un dibattito che altrimenti non sarebbe forse cresciuto; ha educato studiosi che hanno sentito la necessità di tradurre classici 13 E.Gamba, V.Montebelli La matematica abachistica tra recupero della tradizione e rinnovamento scientifico. In Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del ‘500. Atti del Convegno internazionale di studio Giovan battista Benedetti e il suo tempo. p. 174 14 Ibidem. p. 176 15 Aritmetica, geometria, musica, astronomia, ottica, astrologia, cosmografia, geografia, corografia, perspettiva, specularia, la scienza dei pesi, l’archiettura, ma anche piromanzia, hydromanzia, negromanzia, geomanzia, horospizio, aruspizio, augurio, auspicio, ecc. 16 E.Gamba, V.Montebelli La matematica abachistica.. cit. p. 185
  • 14. fondamentali, anche in volgare; ha proposto ai dotti di quattro secoli la figura di Archimede come punto di intersezione tra le speculazioni di Euclide ed il mondo fisico. Ora, però, è maturata una seconda fase: quella delle conclusioni universali che superino i singoli problemi, perché, posseduta la teoria, è conseguente saper risolvere il caso particolare. Benedetti è portavoce di questo atteggiamento. Con lui, con Rafael Bombelli, ed altri, l’abachistica cessa di esistere. Le generazioni future riceveranno da essa una stimolante eredità. E’ Besson, dotto matematico che scrive: “la contemplazione delle proporzioni dei numeri, dei punti e delle misure delle cose artificiali è inutile se non è collegata all’azione; ne consegue che la meccanica è il frutto della geometria, e di conseguenza ne è il fine”. Il XVI secolo vide nella costruzione delle macchine un’arte matematica, e di ciò ne ebbe merito l’abachista. “La scienza soggiacente a quest’arte era la meccanica, ovvero la fisica matematica: da un lato, lo studio delle leggi delle macchine… dall’altro, lo studio delle leggi dei corpi, su cui queste macchine si fondavano, ossia lo studio della Statica e della Dinamica”17 1.3 L’informazione scientifica Nel capitolo precedente abbiamo parlato di diversi tipi di cultura: tecnica, scientifica, abachistica, dotta, conservatrice, rinnovatrice, aristotelica, medioevale, ufficiale, ecc.. Ci rendiamo conto che così facendo si corrono due grossi pericoli: quello di schematizzare troppo, con la conseguente perdita di tutte quelle sfumature che legano le varie posizioni, e quello, opposto, di vedere un unico colore là dove, invece, ve ne sono diversi, anche se in movimento. Per evitare ciò, sono necessarie alcune precisazioni. La prima, fondamentale: il movimento dei tecnici e degli abachisti stimolò la nuova scienza, ma non fu la nuova 17 M. Boas, Il Rinascimento scientifico; 1450-1630. p.178
  • 15. scienza. Quest’ultima, per essere scienza, dovette basarsi su generalizzazioni, su di un metodo che alienasse il singolo caso concreto per aprirsi al puro spazio euclideo. Si è dovuto, sì, partire dalla dura pietra, dal covone di fieno e dalla catasta di legna, ma solo superando queste cose, solo usando la linea senza spessore o la bilancia con i bracci senza peso, si poté trarre regole generali, cioè far scienza. Questo non lo poterono fare gli artigiani superiori: ci vollero delle persone che, pur pressate dalle esigenze dei tecnici, riuscissero a svincolarsi dalla materialità per indagare gli aspetti matematici e geometrici di tali questioni. Neppure lo poterono fare gli scienziati legati alla tradizione scolastica, visto che la loro ricerca fu basata essenzialmente sull’indagine qualitativa e sulla ricerca delle finalità di un fenomeno. Per arrivare alla nuova scienza si dovette creare quel movimento del quale Benedetti fu elemento di spicco; dapprima furono pochi pensatori eretici, non collegati tra loro, poi, soprattutto nel 1500, essi diventarono movimento organico, sino a divenire, nel tardo ‘600, cultura egemone. Fondamentale per questa ascesa fu la volontà e la capacità dei Nostri di aggregarsi, di vedere quindi nello scambio di informazioni un fattore determinante per lo sviluppo della scienza. Ciò fu reso possibile da due eventi: l’invenzione della stampa e la riproposizione, prima solo estemporanea, poi più sistematica, di cenacoli ambiziosi di riproporre l’antica Accademia. Superfluo spendere parole per sottolineare l’importanza che ebbe l’invenzione della stampa, per lo sviluppo della scienza. Basti ricordare che l’Italia, e Venezia in particolare, si distinsero per il numero di testi editi, e che questi compresero, oltre che la traduzioni di classici, anche quei manuali che stimolarono ulteriormente il dibattito e le richieste dei tecnici. Il dibattito culturale uscì dal chiuso della cella del monaco o anche dallo studio dell’umanista per offrire anche la possibilità di frantumare lo storico Quadrilatero della sapienza: Edimburgo, Cracovia, Napoli, Salamanca18. 18 A. R. Hall: La Rivoluzione scientifica. 1500-1800.
  • 16. Libri per tutte le esigenze e di tutte le misure. Piccoli dettagli che si rivelarono determinanti: disegni sempre più accurati e piccoli volumi facilmente maneggiabili, non fecero altro che stimolare la richiesta. Certo, gli editori non vollero rischiare: prima pubblicarono le grandi traduzioni o i piccoli manuali di sicuro mercato. Si può affermare che, sino al XVI secolo, si ristampò materiale già familiare nel ‘300. E’ del 1500 lo sviluppo del mercato della trattatistica. Furono pubblicati moltissimi manuali, tanto da far dire che iniziò, con essi, quel movimento che culminò con l’Enciclopedia di Diderot. Altrettanto importante fu il formarsi delle Accademie. Queste fiorirono, spontaneamente, al di fuori delle Università, divenute ormai “luogo dell’acquisto ripetuto, dell’apprendimento mnemonico, della ruminazione classificante”, al punto che “lo stesso Galilei, come docente, è piuttosto smorto: la vivacità e l’inventiva la riserba alle lezioni private”19. E’ un modo come un altro per dialogare piacevolmente, per confrontare le proprie idee, per non sopprimere le diversità filosofiche o scientifiche. Anche i testi scritti assumono la forma di dialogo. Non è solo platonismo. Certo, il neoplatonismo degli umanisti può aver influito sulla nuova moda, ma è principalmente la nascita di una nuova forma mentis, è la condanna della sterilità della cultura ufficiale, incapace di stare al passo delle nuove esigenze socio-economiche, che sono da rimarcare. Questo, almeno, fino a che il potere tollerò il dissenso. Poi, lentamente, l’istituzionalizzazione: prima delle sedi, poi degli statuti, dell’oggetto dei dibattiti, e così via. Intendiamoci: il dibattito scientifico restò ai margini del confronto accademico anche nel suo periodo aureo. Pochi furono i cenacoli scientifici propriamente detti e, tra questi, pochi andarono al di là di pure dichiarazioni d’intenti. Non dimentichiamoci, inoltre, che non tutti gli uomini di scienza parteciparono a queste discussioni. 19 G. Benzoni: L’Accademia: un luogo deputato per la cultura. In Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del ‘500... cit. p. 31
  • 17. Questo fu proprio il caso del nostro Benedetti, il quale visse, pare, al di fuori di questi àmbiti intellettuali, anche se, a ben vedere, il modo ed il luogo in cui nacque la sua polemica con il Berga possono far pensare che, originale anche in questo, il Nostro, più che essere membro di una Accademia, facesse accademia dove e quando ne avesse voglia. 1.4 Miscellanea E’ ovvio che le motivazioni sino ad ora addotte non rappresentano che la punta dell’iceberg delle motivazioni tecnico-economiche, sociali e culturali che portarono a Benedetti e, dopo di lui, a Galileo ed alla nuova scienza. Elencare tutti questi stimoli sarebbe compito improbo e, soprattutto, esulerebbe dall’oggetto di questa tesi. Senza partire dall’importanza delle nuove bardature dei cavalli, che consentirono il surplus agricolo dei primi secoli del nuovo millennio (e del derivante, indiretto sviluppo, dell’artigianato) o dalla formazione degli Stati cristiani nell’Europa nord- orientale (che impedirono ulteriori invasioni barbariche), diamo un rapido sguardo a cosa lasciamo indietro. Paradossalmente, una notevole spinta alla formazione di una mentalità scientifica venne dalla magia. Questa, penetrata in occidente insieme alla diffusione dei culti orientali nella Roma imperiale, ebbe, com’è noto, notevole sviluppo nel Medio Evo. Molte delle discipline matematiche allora in auge (quelle che agli occhi di un moderno possono essere tranquillamente traslate nel regno della parascienza) hanno contribuito allo sviluppo della matematica propriamente detta. Rischiando la pedanteria, ricordiamo anche che senza gli alchimisti non si sarebbe, forse, arrivati alla chimica. Valga, per tutti gli esempi proponibili, una considerazione generale di ordine metodologico: la magia, con la sua idea di ricerca di formule (mezzi) per il dominio della natura, contribuì alla creazione di quell’abito mentale per il quale l’uomo non era più l’Adamo precipitato sulla Terra ad espiare la sua colpa, ma il Prometeo, simbolo di
  • 18. scaltro dominio di esseri perfettibili su di una realtà conoscibile (anche se a costo di grandi sacrifici). Come i matematici del ‘500-‘600 furono tutti un po’astrologi, gli scienziati del ‘300-‘400, ed oltre, furono tutti un po’ maghi. A distinguere la speculazione dalla cialtroneria contribuì anche la distinzione sempre più marcata tra magia naturale e magia pura. La fortuna degli scritti arabi di al-Kindi, o dell’allora famosissimo Secretum secretorum, favorì lo sviluppo “di un tipo di scienza che identificò la ricerca delle cause occulte con l’experentia naturalis e, anzi, i concetti di esperimento e di operazione magica assunsero poi lo stesso significato”20 Abbiamo parlato di alchimia e chimica. Come non pensare alla polvere da sparo ed agli effetti dirompenti (è proprio il caso di dirlo) che provocò nella società e nella cultura medioevale? Direttamente o no indusse sviluppi in chimica (ricerca di polveri migliori), in medicina (nuove cure per nuove ferite), in architettura (rendendo inadeguate le vecchie fortezze), in fisica ed aritmetica (balistica), in filosofia contribuì al crollo della fisica aristotelica e, quindi, dell’aristotelismo in genere). Secondo Adriano Carugo21 è invece relativamente minore l’influsso della bussola, dei viaggi transoceanici e delle esplorazioni, sulla mentalità dell’epoca: questi ebbero, sì, un potente effetto sull’allargamento dell’orizzonte mentale degli europei, ma il suo influsso si riversò più sull’Illuminismo che sul Rinascimento. Oltremodo rimarchevole è quella sorta di mecenatismo dei vari Capi di Stato e di Governo che si creò nel 1500 (del quale Giovan Battista Benedetti usufruì). Questo contribuì alla creazione della figura di scienziato ufficiale, con conseguente rivalutazione ed ascesa sociale della categoria (lontani i tempi fiorentini nei quali gli architetti facevano parte della corporazione dei muratori e dei carpentieri!). Legando il dotto alla pubblica amministrazione, il mecenate pretese una ricaduta tecnica degli studi del protetto, con conseguente obbligo dello scienziato alla verifica pratica delle sue deduzioni. 20 C. Vasoli, Scienza e tecnica nell’occidente cristiano. In Nuove questioni di storia Medioevale. p. 558 21 A. Carugo, La nuova scienza.. cit.
  • 19. Personalmente, credo che siano le condizioni materiali ad indurre mutamenti del pensiero. Questa mia convinzione non esclude, però, la possibilità di un effetto boomerang, di una ricaduta produttiva, frutto di determinate concezioni culturali. Questo può essere il caso della Riforma e della Controriforma. Senza dimenticare Calvino e la sua condanna delle tesi copernicane, non è da sottovalutare il rifiuto dell’autorità, implicito nel Protestantesimo, oltre alla sua rivalutazione del lavoro manuale, quindi della tecnica, dell’osservazione scientifica e della scienza in genere. Decisamente più difficile è trovare un nesso che unisca lo spirito conservatore della Controriforma e lo sviluppo della scienza. Il processo a Galileo è tanto pressante da inibire giudizi positivi sull’operato scientifico del Collegio romano dei Padri Gesuiti (anche se basterebbe citare, ad esempio, il nome di Clavio, per incrinare una tale valutazione) ed, in ogni caso, Bellarmino segue cronologicamente Benedetti. Un triste collegamento si può comunque proporre: la persecuzione di certi filosofi quattrocenteschi ed il rogo di Giordano Bruno possono benissimo aver contribuito alla teoria della Doppia verità, od alla separazione della speculazione scientifica da quella teologico-filosofica, fatto da tutti considerato quale elemento imprescindibile della rivoluzione scientifica. Dei contributi più prettamente filosofici tratteremo, comunque, nel prossimo capitolo.
  • 20. CAP. 2 - FILOSOFIA E METODO Demonstratio proportionum motum localium contro Aristotelem et omnes philosophos: questo il titolo di un’opera di Benedetti. Quale fu il significato di questo titolo? Condanna dell’aristotelismo? E in nome di cosa? Del neoplatonismo? O fu un attacco a tutti i sistemi filosofici (omnes philosophos) a favore, forse, della fede in una razionalità superiore? Tralasciamo, per il momento, questa seconda eventualità: di essa, semmai, discuteremo alla fine di questo piccolo excursus. Concentriamo l’attenzione sulla prima domanda, per constatare, d’acchito, che, in armonia con il titolo sopra riportato, gli scritti di Benedetti, di Galileo e di altri scienziati a loro contemporanei, han fatto sì che molti epistemologi parlassero di influssi umanistici e neoplatonici, determinanti per il buon esito della rivoluzione scientifica. A prima vista tutto ciò non può che sembrare logico: siamo in presenza di un sistema di pensiero totalizzante, che copre tutto lo scibile dell’epoca. Chi non è d’accordo corre il rischio di essere deriso (e poco più tardi gli succederà di peggio); è mosca bianca circondata non da tanti bravi scienziati che la pensano, purtroppo, in modo diverso, ma da commentatori, talvolta mediocri, di una lontana autorità. Ovvio che per dar forza alle proprie posizioni uno si richiami, coscientemente o meno, ad un’altra autorità, magari di pari grado alla precedente. Ma accadde proprio questo? Constatando, insieme al Crombie che comunque “Aristotele è una sorta di eroe tragico che campeggiò sulla scena del Medio Evo eccitando le passioni e dividendo gli 22 animi” , cerchiamo di analizzare i fermenti filosofici che formarono il substrato culturale del Benedetti. 22 A. Crombie, Dal razionalismo allo sperimentalismo. In Le radici del pensiero scientifico.. cit. p.138
  • 21. 2.1 ….ismo “Sappiamo che se già in Platone vi sono molti Platone, se già in Aristotele vi sono molti Aristotele, molti sono stati poi, dopo Platone e dopo Aristotele, i platonismi e gli aristotelismi”23. Già questa affermazione mostra quanto sia complicata la vita di un cultore della filosofia medioevale. Se ad essa aggiungiamo la constatazione che “la dialettica platonismo-aristotelismo si svolge in una unità di concorrenza culturale che le contrapposizioni dei singoli platonici o aristotelici non valgono a superare.. perché ciascun platonico post-aristotelico è aristotelico, come ciascun aristotelico non può non essere platonico”24, si rischia di cadere nel più profondo sconforto. Una certa inclinazione al sorriso può tornare ad allietare i nostri studi, al pensiero di quante orecchie Aristotele avrebbe tirato a chi, rifacendosi al suo nome, andava cercando patenti di autorevolezza, disattendendo, però, il suo fondamentale dettame, riassunto nel motto amicus Plato sed magis amica veritas. Diamo quindi ad Aristotele ciò che è suo e non incolpiamolo dei mancati sviluppi della sua teoria. Questo non significa, però, che esse siano esenti da pecche, anzi. Senza entrare nel dettaglio (questo sarà il compito del capitolo dedicato agli sviluppi della fisica benedettina), basti ricordare la netta distinzione tra fisica, la quale, per lo stagirita, deve indagare gli oggetti reali, e matematica, che deve ragionare su astrazioni: questi studi, per Aristotele, non si potevano confondere e neppure compenetrare. Di fatto, significò impedire la quantificazione dei fenomeni e la loro conseguente matematizzazione (almeno per ciò che concerne la fisica sub-lunare). Indubbiamente, Benedetti dovette abbandonare certi presupposti (fondamentali) del pensiero aristotelico; ma in nome di cosa lo fece? Molti studiosi, lo abbiamo già detto, ritengono fondamentale l’influsso dell’umanesimo neoplatonico, rigoglioso, per esempio, nella Firenze del ‘500. 23 F. Adorno. La filosofia antica. p.287 24 E. Riondato. Giovan Battista Benedetti tra scienza e filosofia. Alcune indicazioni metodologiche condivise con Aristotele. In Giovan Battista Benedetti – Spunti di storia delle scienze – Liceo scientifico G.B. Benedetti Venezia – Celebrazioni del 60° anniversario della fondazione, 1923-1983.
  • 22. Soprattutto reputano platonica la nuova tendenza alla matematizzazione dei fenomeni fisici. A questo proposito, è molto interessante la posizione di E. Berti, secondo la quale si è sempre sottovalutato, da parte dei moderni epistemologi, la posizione di Aristotele riguardo alla fisica celeste, “forse perché è la meno originale, visto che, tutto sommato, lo stagirita riprende le posizioni di Platone, che poi erano quelle dei pitagorici”25. Per il Berti, in Aristotele è già presente l’esigenza di una forte matematizzazione della fisica, anche se essa è confinata nell’etereo mondo sovralunare. Afferma, quindi, che la fisica celeste dell’antichità fu una fisica matematica. Poco importa se questa esigenza di matematizzazione sia davvero presente in Aristotele o lo sia tra gli allievi della sua scuola; quello che qui ha significato è che Copernico, Benedetti, Galileo e Keplero dovettero fare i conti con una fisica celeste quantificata26. Non si trattava, allora, di matematizzare ex-novo la fisica, “ma di portare il cielo in terra”27. A questo proposito, si può parlare, più propriamente, di influsso neoplatonico, facendo però molta attenzione: il suo fu più che altro un influsso negativo. Esso ebbe funzione di demolitore di certezze. La sua ricaduta scientifica può essere paragonata a quella provocata dal movimento ockamista28. Senza disconoscere l’avvallo neoplatonico ad una concezione unitaria del mondo, riteniamo che andare oltre non sia, forse, lecito. G. Santaniello afferma che questo mondo è, per i neoplatonici, costruito sul modello dell’armonia musicale, dominato, cioè, dalle relazioni matematiche29. Niente da obiettare, se questa è una presa d’atto. Diversamente, se si volesse nuovamente riproporre il legame matematizzazione della fisica – pitagorismo e platonismo, dovremo constatare l’opposizione, in merito, di molti studiosi. 25 E. Berti. La concezione del moto nella tradizione aristotelica. In Giovan Battista Benedetti – Spunti di storia delle scienze. Cit. 26 In verità, che questa quantificazione fosse imprecisa, lo si sapeva da tempo, viste le macroscopiche differenze tra realtà e calendario. Ciò non toglie che neppure le tavole prodotte dopo Copernico migliorassero di molto la situazione; si dovette attendere Keplero e le sue orbite ellittiche, le quali, non per nulla, rappresentarono l’ultimo colpo di piccone alla metafisica aristotelica. 27 E. Berti. La concezione del moto.. cit. p. 47 28 “Ockam può aver incoraggiato la tendenza ad immaginare tutti i modi possibili, senza riguardo alla realtà fisica o alla sua applicazione” in E. Grant. La scienza nel Medio Evo. p. 47 29 G. Santaniello. Il pensiero platonizzante a Venezia e a Padova nel ‘500. In Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del ‘500.. Cit. p. 145
  • 23. La matematica neoplatonica è una matematica mistica: non quantificazione ma simbolismo. E’ della rigorosa matematica di Euclide che Tartaglia e Benedetti hanno bisogno. “I platonici italiani non nutrivano alcun genuino interesse scientifico verso la matematica intesa come scienza e le loro concezioni dei numeri erano frutto di confuse credenze teologiche, se non addirittura teofisiche”30. Se poi al neoplatonismo aggiungiamo l’umanesimo (suo principale vettore) le obiezioni si fanno ancora più numerose. E’ vero, sì, che l’umanesimo con la sua massiccia opera filologica ha restituito all’occidente le opere dei classici (depurate di almeno tre traduzioni), che ha fatto conoscere, rivelandone l’esistenza, il pensiero di filosofi polemici con Aristotele e che, infine, ha scosso determinate auctoritates, ma è anche vero che a quelle auctoritates ne ha sostituite delle altre (più antiche, ugualmente totalizzanti), tanto che “gli storici della scienza nutrono gravi riserve circa l’effettiva azione rinnovatrice esplicata dall’umanesimo rinascimentale nel campo della cultura scientifica31. Ancora più drastici i giudizi di altri studiosi, quali Randall Jr., per il quale “l’umanesimo, paragonato alla retorica, assale e scuote la fede, ma nulla più”32; e ancora: “il platonismo ebbe come unico influsso sul pensiero scientifico quello di sviarlo e di imporgli concetti degni di critiche drastiche”33. Rincara la dose Dijkstrerhuis: “il neoplatonismo creò tutte le condizioni psicologiche per l’abbandono, e persino disprezzo, dello studio empirico della natura”34, viste le propensioni di questa corrente del pensiero per una identificazione tra materia e privazione, oltre che per la sua facilità a subire il fascino dell’occulto. Di nostro vogliamo aggiungere che parlare di platonismo voleva anche dire parlare di Sant’Agostino, della sua condanna delle scienze e, in generale e senza voler scomodare Popper, della sua concezione di errore come morte dell’anima. Ricordiamo 30 A. Carugo, La nuova scienza.. Cit. p. 22 31 Ibidem. 32 J.H. Randall Jr. Il metodi scientifico allo Studio di Padova. In Le radici del pensiero scientifico. Cit. 33 J.H. Randall Jr. Il ruolo di Leonardo da Vinci nella nascita della scienza moderna. In Le radici del pensiero scientifico Cit. p. 223 34 E.J. Dijksterhuis. Il meccanicismo e l’immagine del mondo. Dai presocratici a Newton.
  • 24. che il santo di Tagaste possedeva una visione esclusivamente religiosa del cosmo, con la inevitabile conseguenza dell’assimilazione della sua fisica da parte della teologia. Per Agostino il libro della natura è il libro dei simboli: la natura degli oggetti non è nella loro concretezza fisica ma nell’essere, appunto, simbolo di una realtà trascendente. “La natura, perduto il suo oggetto, diviene vana curiosità, da cui l’uomo studioso e religioso deve guardarsi”35. Non vogliamo certo sminuire il ruolo che certo giocò la matematica nella filosofia di Platone: il grande filosofo ateniese subì profondamente il fascino della matematica (probabilmente successivamente ad un incontro con il pitagorico Archita) e, nello stesso tempo, incoraggiò il suo studio. Neppure scordiamo che per Platone la matematica è argano al vero, in quanto conduce alla contemplazione delle idee, e che, nel celeberrimo mito della caverna, è sempre la matematica che scioglie i lacci dei prigionieri del regno delle ombre e che, quindi, permette loro di presentarsi dinanzi alla accecante luce della verità. Tutto questo è senz’altro ben presente. Quel che vogliono far notare i denigratori della teoria secondo la quale fu il platonismo la vera molla del Rinascimento scientifico è che la matematica di Platone è diversa dalla matematica del platonismo e che, comunque, Platone si appellò sempre ad una matematica scevra da applicazioni pratiche. Una matematica euclidea, quindi, utilissima per elaborare aritmeticamente e geometricamente delle teorie fisiche quantificate, ma questo solo dopo che si fosse riconosciuta l’esigenza di misurare la natura, di sporcare con aria, terra, acqua e fuoco il regno della dianoia. Se proprio vogliamo trovare un modello di riferimento per gli scienziati del ‘500, bisogna volgere lo sguardo altrove, e, per l’esattezza, verso la figura di Archimede. Con lui, “dall’assoluta teoreticità della trattazione euclidea si passa al gusto delle applicazioni: la geometria si rivolge anche alle regole di misura e non vengono disdegnate le applicazioni numeriche; la matematica trova poi la sua naturale estensione nella meccanica dei solidi e dei fluidi”36. 35 T. Gregory. L’idea di natura nella filosofia medioevale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. In Interpretazioni del Medio Evo. 36 A. Frajese. Attraverso la storia della matematica. p. 282
  • 25. E’ a lui, alla sua Statica, che si rifanno i nostri validi studiosi, Galileo compreso. E’ a lui che si rivolge Tartaglia, la cui devozione al siracusano è dimostrata dalla sua traduzione del primo volume dell’opera Della sfera e del cilindro. Archiemede ha il pregio di coniugare, nelle proprie ricerche, amore per l’applicazione pratica, il metodo spregiudicato (di esaustione) e, contemporaneamente, una purezza matematica che gli permise di rinforzare nei posteri “quell’abito mentale di vedere i corpi come figure perfette che si librano nel vuoto spazio euclideo”37. Per avere una misura di quanto fosse popolare Archimede nel ‘500, basti ricordare che Cardano, divertendosi a classificare i grandi uomini in ordine di superiorità, collocò il siracusano al primo posto, davanti, quindi, ad Aristotele. La centralità del problema del moto per lo sviluppo della fisica e della scienza rinascimentale e la revisione dei concetti aristotelici di causalità e di vuoto possono, infine, far emergere la figura di Democrito e della scuola atomistica greca, foriera di un quantitativismo meccanico, non misticheggiante, nonché di un invito alla paziente ricerca della conoscenza del mondo per mezzo dell’osservazione della natura. Questa tradizione è reinterpretata e conosciuta nel Medio Evo per mezzo dell’opera dell’epicureo Lucrezio, il quale affermò che la stessa azione virtuosa consiste nel saper comprendere la natura: cercare, cioè, la propria armonia, la propria sintonia nella natura. Anche senza tener conto dei vari sincretismi tentati, il quadro storico-filosofico che ci si presenta è di non facile interpretazione: risulta indubbiamente complesso analizzare esaustivamente gli sviluppi filosofici che portarono allo sgretolamento dell’aristotelismo scientifico. Pare che non resti altro che l’addentrarci nella tana del lupo, nella speranza di cogliere qualche spiraglio di luce. Questo cambio di prospettiva ci conferma, purtroppo, che il voler fare i conti in tasca all’oste non è mai compito agevole: più di una sono le correnti rifacentesi all’autorità di Aristotele e, quasi tutte, subiscono deviazioni sincretistiche. 37 H. Butterfield. Le origini della scienza moderna.
  • 26. In ogni caso, ci sorregge la sicurezza di Poppi, per il quale “solo a Padova e a Venezia esistevano le condizioni ottimali per quello straordinario evento che fu la nascita della scienza galileiana”38. L’orientamento spiccatamente logico e fisico, l’avversione alle suggestioni magico-cabalistiche ed alle impostazioni teologiche del sapere, favorirono indubbiamente lo sviluppo del moderno approccio alle tematiche scientifiche. Di questa atmosfera innovativa, il Benedetti, pur non frequentando lo Studio di Padova, si avvalse. Se Padova e Bologna restarono le roccaforti aristoteliche d’Europa, cionondimeno bisogna constatare, come prima accennato, che non si trattava di costruzioni monolitiche. Tommaso, Averroè, Avicenna, Alessandro d’Afrodisia: tutti, chi più, chi meno fedelmente, interpretarono Aristotele, piegandolo, talvolta, alle proprie esigenze teoretiche. L’averroismo penetrò a Padova con Pietro d’Abano, Marsilio, Paolo Veneto. Per Trailo è già un averroismo diverso, sia da quello originale arabo, sia da quello parigino, dal quale deriva39. Sarà comunque con Pomponazzi e Zabarella che acquisterà quei caratteri di cristianizzazione e di smetafisicizzazione di origine alessandrinista, i quali permetteranno “di ritrovare l’Aristotele dello spirito scientifico, che sarà l’Aristotele galileiano, della nuova scienza, da Galileo proposta in Padova averroista”40. Al di là di ogni dubbio, per Trailo, l’aristotelismo, soprattutto nella sua forma alessandrinista, maggiormente critica nei confronti del Maestro, è l’unico vero scossone portato alle istituzioni scientifico-culturali del Medio Evo. Questa affermazione sembra voler dire che, per il Trailo, l’alessandrinismo fu, più che altro, una logica conseguenza dell’averroismo, cosa che, probabilmente, non fu. 38 A.Poppi. Filosofia e scienza nel Rinascimento; introduzione al problema. In Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del ‘500…. Cit. 39 E. Trailo. Averroismo e aristotelismo “alessandrinista” padovano. In Lincei; rendiconti morali; 1954; serie VIII vol IX 40 Ibidem. p. 205
  • 27. Se volontà di tutti e due i commentatori fu quella di rifiutare l’interpretazione platonica dello stagirita, l’Aristotele che emerge dall’opera dello scolarca ha evidenziato l’aspetto più marcatamente metodologico e naturalista. In linea di massima, è il concetto-problema dell’anima che decide quale posizione un filosofo assuma nell’ambito peripatetico. Se, a prima vista, la controversia tra averroisti ed alessandrinisti sembra limitata al problema della immortalità (concessa dai primi ad un impersonale intelletto agente, negata, in toto, dai secondi), essa trovò i suoi maggiori punti di attrito nella diversa concezione della conoscenza. Fu Pietro Pomponazzi a ricondurre il problema sul terreno a lui proprio. Per lui, l’anima non fu né sostanza spirituale (renderebbe inutili le funzioni vegetativa e sensibile del corpo stesso) né intelletto unico separato degli averroisti (il quale non faceva altro che annientare la singola personalità umana). Seguendo Alessandro d’Afrodisia. Pomponazzi e, più tardi, Zabarella videro nell’anima la capacità intellettiva del singolo, la funzione più alta e complessa del corpo; riavvicinarono così la conoscenza anche se, per farlo, dovettero pagar salato: conseguente alla loro teoria è la negazione dell’immortalità dell’anima. Tutto soggiace alla legge del tempo: se prima fu l’averroismo, scavalcando il tomismo, che diede nuovo impulso alla formazione di una mentalità scientifica, nel nome del richiamo alle verità filosofiche indipendenti e addirittura più profonde delle verità rivelate dai testi sacri, così l’averroismo e l’alessandrinismo stessi, non riuscendo e non volendo andare oltre i limiti dettati da una custodia gelosa della tradizione peripatetica, non furono capaci di cogliere gli elementi di novità delle filosofie naturalistiche cinquecentesche. “Mentre alcuni scolastici del XIV secolo avevano dimostrato la possibilità di un universo infinito creato da Dio, ed avevano preparato la via a Cusano e Bruno, gli averroisti del ‘400 e del ‘500 continuarono a sostenere che il mondo non si estendesse al di là dell’ottava sfera”41. 41 B. Nardi. La fine dell’averroismo. In Saggi sull’aristotelismo padovano dal secolo XIV al XVI. p. 70.
  • 28. Sarà Cremonini, successore di Zabarella, a rifiutare di guardare dentro il cannocchiale di Galileo. Triste epilogo per un movimento che offrì grandi momenti di trasgressione. Fu, infatti, il Pomponazzi a dire “se la verità della ragione sta nell’eresia, bisogna andare all’eresia”, legando così il destino del filosofo a quello di Prometeo. Abbiamo prima parlato di filosofie naturalistiche: esse fiorirono nel ‘500, in aperto contrasto con la filosofia peripatetica. La coincidenza tra macro e microcosmo ed il nuovo concetto di alchimia di Paracelso42, la materia positiva e le indagini empiriche di Cardano, il sensismo e l’avversione al finalismo aristotelico del Telesio, il sapere tecnico-pratico dei solari di Campanella, l’universo infinito e policentrico del Bruno, indubbiamente stimolarono le libere coscienze. I naturalisti non furono certo degli osservatori sistematici alla Galileo (e neppure alla Benedetti): essi preferirono inquadrare le loro problematiche in un più tradizionale discorso, spesso mistico, che talvolta si rifaceva anche alla tradizione teologico-scolastica. Purtuttavia, anche se tra molte contraddizioni, il nuovo concetto di luogo, del Cardano e del Telesio, oppure “il libro della natura aperto di fronte ai nostri occhi” del Campanella, portarono il loro contributo alla causa dell’edificazione della nuova mentalità scientifica. Tante posizioni, più o meno sfumate ed interfaccianti, si sono presentate ai nostri occhi; ugualmente diverse si sono dimostrate le interpretazioni del rapporto intercorrente tra quelle linee di pensiero e la rivoluzione scientifica. Molto probabilmente queste difficoltà derivano dal fatto che, mai come nel XVI secolo, il pensiero si trovasse spiazzato nei confronti del susseguirsi degli eventi storico- economici. Il modello di scienza greca, basato “sulla prevalenza dell’interesse alla conoscenza ed alla intelligenza su quello relativo all’utilizzazione pratica”43 non poteva che crollare di fronte ad una società che non poteva più permettersi di considerare l’artigiano poco più di uno schiavo (come sosteneva Aristotele). 42 “quello stesso che quanto dalla natura cresce a vantaggio dell’uomo reca colà dove dalla natura è stabilito che vada, è un alchimista”. Dal Paragranum. p. 70. 43 A. C. Crombie. Dal razionalismo allo sperimentalismo.. Cit.
  • 29. Nonostante questo, il concetto di filosofia naturale di Aristotele sopravvisse al declino dell’impianto metafisico peripatetico, “offrendo fiducia nella piena conoscibilità della natura, da attuarsi con mezzi razionali e con l’ausilio dei sensi”44. Vi è un altro motivo per il quale la filosofia del XVI secolo sembra rincorrere affannosamente l’evoluzione tecnico-scientifica sua contemporanea: per la prima volta nella storia della filosofia, una componente del pensiero ha trovato conferma alle proprie affermazioni, al di fuori di se stesso. La scienza si è misurata con la realtà fisica ed ha scoperto che è ad essa che deve rifarsi per provare la propria verità. I filosofi trovarono difficoltà nel dare le spiegazioni generali del mondo perché il mondo è sempre più in movimento e perché i principali fautori di questo movimento vogliono aver sempre meno a che fare con la filosofia. Non vi sarà più un solo, unico, sapere: dal XVI secolo in avanti, i rapporti tra scienza e filosofia si faranno sempre più sottili (e questo, almeno, fino alla moderna epistemologia). Per Telesio, la natura va studiata iuxta propria principia: “è la distruzione del cosmo, del mondo qualitativamente e ontologicamente differenziato e la sua sostituzione con un universo aperto, indeterminato ed infinito, unito e governato dalle stesse leggi universali”45. Lo scienziato della fine del ‘500 rifiuta la filosofia: soprattutto rifiuta la scolastica, ritenuta palestra per esercizi (logici) inutili. E’ stufo della garrulatio; vuole misurare la propria bravura misurando i propri esperimenti, la natura, le applicazioni tecniche che propone. Lo stumentalismo e la fisica quantistica non turberanno i suoi sonni per almeno tre secoli: lasciamolo godere dei suoi successi. All’inizio del capitolo ci eravamo chiesti se Benedetti fosse davvero contro Aristotelem et omnes philosophos. Nonostante il fatto che in maturità il nostro veneziano modificasse, almeno in parte, il giudizio a proposito dello stagirita, siamo propensi a rispondere affermativamente: Benedetti crede nel suo titolo. Lo crede perché 44 L. Geymonat. Storia del pensiero filosofico e scientifico; il 1500 e il 1600. p. 135. 45 A. Koyrè. Galileo e Platone. In Le radici del pensiero scientifico. Cit. p. 160.
  • 30. la filosofia, secondo lui, è scienza di recenti natali. Gli omnes philosophos, Aristotele compreso, non sono philosophos: la patente di filosofo, Benedetti intende rilasciarla solo a chi possieda un sapere che abbia un superiore carattere di certezza, ovverosia solo al matematico. E’ per questi motivi che Benedetti prima, e Galilei dopo (pur con qualche differenza) pretenderanno il titolo di filosofo. Certo, oggi noi sappiamo che scienza è metodo e che metodo e filosofia convivono, anche se, talvolta, come separati in casa. Abbiamo già detto che determinati concetti aristotelici sono tracimati all’interno della nuova metodologia scientifica. Diciamo ora che non è tutto oro quello che luccica e che, quindi, come dice Einstein, bisogna pur guardare a ciò che uno scienziato fa più che a quello che uno scienziato dice di fare. 2.2 Metodo Indubbiamente, il primo Rinascimento fu caratterizzato da quello che Poppi chiama “il ritardo epistemologico tra una riflessione teorica, inceppata in metodi aprioristici e deduttivi, da un lato, e la vivacità degli studi applicativi e l’avanzamento tecnico, dall’altro”46. Facile incolpare di ciò lo studioso medioevale ed il suo metodo, appunto aprioristico, metodo che di scientifico aveva ben poco. Abituato a ragionare solo il termini di cause finali, il nostro dotto non faceva altro che piegare i risultati delle sue osservazioni ad una teoria che era già ben ferma nella sua mente: conseguenza di questo atteggiamento fu che eventuali esperimenti ed induzioni modificarono, al massimo, solo dei particolari del grande edificio della conoscenza peripatetica. Abbiamo già detto che questa frattura intercorrente tra realtà e speculazione filosofico-scientifica della natura, era avvertita anche dagli esponenti conservatori della cultura ufficiale. Ciononostante, la notevole sfiducia nelle spiegazioni fisiche in genere 46 A. Poppi. Filosofia e scienza nel Rinascimento.. Cit. p. 87
  • 31. impedì loro una spassionata analisi delle cause di questo gap culturale. Metodo aprioristico: è un modo come un altro per dire che la filosofia (prima) traccia le grandi linee dell’interpretazione del mondo e la scienza (filosofia seconda) prova la validità di questa interpretazione. Diverse furono le griglie interpretative presentate, come più di uno furono i tipi di approccio alla natura proposti. Carugo parla di osservazioni passive di Platone, miranti a scoprire, nei fenomeni, l’esistenza di certe strutture, e delle aristoteliche generalizzazioni delle osservazioni, base per future costruzioni teoriche47. Koyrè sottolinea, invece, il dissidio intercorrente tra il qualitativo Aristotele ed un Platone maggiormente propenso all’uso della matematica, all’interno della scienza fisica. “Non è in discussione l’uso della matematica”, afferma Koyrè, “nessun aristotelico ha mai negato il diritto di misurare ciò che è misurabile, quanto la struttura della scienza e, pertanto, la struttura dell’essere”48. Siamo al punto di ricadere nella polemica descritta nel paragrafo precedente. Su una cosa, però, penso che tutti siano d’accordo con il Koyrè, cioè sul fatto che è impossibile fornire una deduzione matematica della qualità. I calculatores del Merton College provarono a fare anche questo, fallendo su questo fronte, miseramente. Benedetti e Galileo saranno costretti ad abbandonare la nozione di qualità: essa non ha diritto di cittadinanza all’interno del moderno metodo scientifico. Senz’altro più consono alle esigenze della scienza, fu il metodo di Archimede, il quale “aveva fra l’altro mostrato nelle sue opere di meccanica come sia possibile procedere matematicamente alla conoscenza della natura, proponendo lo studio dei fenomeni attraverso la definizione dei rapporti quantitativi”49. Gli apriorismi non si fermarono certo al qualitativismo; furono molti i tabù che gli scienziati tardo rinascimentali dovettero infrangere: il concetto di cosmo, primo fra tutti, e, legati ad esso, il concetto di luogo naturale e dell’impossibilità del vuoto. Incontreremo di nuovo, più avanti, sia i calculatores che i tabù. Vogliamo ora parlare dell’altro aspetto sottolineato dal Poppi, quello del deduttivismo, e lo facciamo 47 A. Carugo. La nuova scienza.. cit. 48 A. Koyrè. Galileo e Platone.. cit. p. 176 49 C. Maccagni. GB Benedetti filosofo della natura. In GB Benedetti spunti di storia delle scienze.. cit. p. 88
  • 32. calandoci nel XVI secolo. E’ infatti in questo periodo che il deduttivismo aristotelico iniziò a vedere minacciata la propria egemonia, sia in campo logico, che nel campo prettamente naturalistico. E’ della seconda metà del ‘500 il dibattito, fiorente soprattutto tra Padova e Venezia, circa la natura ed i procedimenti della matematica. I commento di Proco agli Elementi di Euclide, appena tradotto, tirò in ballo la certezza matematica, la quale sembrava eludere l’aristotelica dimostrazione apodittica, “onde si dovette concludere riconoscendo che quella indiscutibile certezza era fondata su una sorta di privilegiata natura, intrinseca alla stessa disciplina, la quale, in conseguenza, veniva ad essere posta al di fuori della filosofia e in una posizione ad essa non più subordinata… prende così corpo l’idea della autonomia e della superiorità del metodo matematico nei confronti dei puri metodi logico-formali”50. Ci si rende conto che, nello stesso Euclide, non siamo in presenza di un solo metodo di procedere, dall’evidenza alle conseguenze ( deduzione – sintesi), ma vi è una notevole parte, quella dei problemi da risolvere, nella quale si percorre il cammino inverso (induzione – analisi). Già Pappo Alessandrino aveva affrontato il problema; saranno ora gli aristotelici padovani a sviscerarlo. Essi scoprirono che questo procedimento di salita e discesa, da loro chiamato regressus, non era soltanto presente nell’approccio euclideo ai problemi matematici (e, seppur in modo approssimativo, anche nello stesso Aristotele), ma che lo stesso metodo era felicemente applicabile alla costruzione delle teorie della filosofia naturale: “anche qui si parte dai dati forniti dall’esperienza e, per una via induttiva, si sale alla scoperta di leggi o, addirittura, di principi, che costuiscono invece il punto di partenza del percorso che, per via sintetica, arriva a dimostrare ciò da cui nell’altro percorso si era partiti, e quindi a capirne il senso”51. E’ un passaggio fondamentale sulla strada della creazione del moderno metodo scientifico. 50 C. Maccagni. GB Benedetti filosofo della natura. In GB Benedetti spunti di storia delle scienze.. cit. p. 92 51 A. Crescini. Considerazioni sul metodo risolutivo in Aristotele, nell’aristotelismo padovano e in Benedetti. In Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del ‘500... cit. p. 97
  • 33. Illuminante, a proposito, il già citato saggio del Crescini. Partendo da un esempio che vede Aristotele e Benedetti alle prese con un problema di dinamica che li accomuna nell’approccio analitico alla soluzione, Crescini rimarca le differenze di metodo dei due filosofi. Tra queste, essenziale quella che vede lo stagirita partire dalla pura osservazione dei dati empirici, ed il veneziano, invece, rimuginare quegli stessi dati, al fine di darne una considerazione razionale. Il regressus, quindi, non è solo l’immagine speculare e complementare della deduzione peripatetica. Esso va oltre: non ci si limita alla constatazione di una pura evidenza, ma la si interpreta, sino a che il dato osservato non sarà conforme a ragione. Già accennate le altre differenze: quantificazione dei dati, eliminazione degli apriorismi, in primo luogo della dipendenza del sistema scientifico peripatetico dalle cause finali. “Aristotele poté accogliere tali cause finali nelle sue considerazioni, perché in lui non era ancora presente con chiarezza la radicale differenza esistente tra gli aspetti puramente fisici della natura, i suoi aspetti logici e, infine, ancor più a fondo, quelli metafisici”52. Sia Aristotele che gli aristotelici padovani sapevano della necessità di partire dai dati di senso e della possibilità, in caso di loro non intellezione, di poterli chiarire ricorrendo alle loro cause (è un regressus in nuce); quello che mancò loro e che, di riflesso, fece grande Benedetti, fu, oltre a quanto sopra indicato, l’uso “di modelli spazio-temporali validi universalmente, per tutti i corpi … organo di una autentica, rigorosa, conoscenza dovrà quindi essere l’immaginazione, con le sue supposizioni di rapporti spazio-temporali … si avrà così l’incalcolabile vantaggio di poter verificare la validità (verità) di questi rapporti … saranno le leggi spazio-temporali che esprimono questi rapporti, i nuovi principi della conoscenza”53. Questo ebbe come conseguenza che “la logica valida per una scienza reale dovrà essere la matematica e non una metafisica … a una logica attributiva imperniata sui 52 A. Crescini. Considerazioni sul metodo risolutivo in Aristotele, nell’aristotelismo padovano e in Benedetti. In Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del ‘500... cit. p. 100 53 Ibidem. p. 107
  • 34. rapporti sostanza-accidente, essenza-proprietà, si viene a far prevalere una logica relazionale”54. Questo, il regressus. Il dibattito sul metodo non si fermò, comunque, qui. Se di diversità si può parlare circa il metodi di avvicinarsi alla natura da parte dei grandi Padri della filosofia, di diversità si può parlare anche a riguardo dei grandi Padri della scienza moderna. Fu il Benedetti ad intuire la necessità di matematizzare la fisica terrestre (portò il cielo in terra), partendo dal problema più stressante per i tecnici e per i militari: il moto. In questo modo, non solo fece compiere alla dinamica medioevale quei progressi che poi analizzeremo accuratamente ma, da un punto di vista metodologico, rivoluzionò il modo di porsi di fronte alla natura. Per Aristotele, il movimento non era solo moto, naturale o violento, ma cambiamento in genere. Si può dire che Aristotele avsse subito il fascino di un approccio di tipo biologico, nei confronti del movimento. “Vede l’universo sotto l’aspetto della vita”55; ne consegue che il movimento fondamentale di questo mondo è la generazione, sempre legata al ricorso ad una causa. Tipica conseguenza di questo habitus mentale fu la trattazione peripatetica dei moti locali, e la conseguente difficoltà nella formulazione della legge di inerzia. Proseguendo sulla strada di Leonardo e degli Ingegneri del ‘500, la matematizzazione del Benedetti intaccò, anche se non infranse, questo atteggiamento culturale, favorendo una interpretazione meccanicistica del mondo, sposando, cioè, probabilmente in modo inconsapevole, la teoria degli atomisti, per i quali anche la generazione e la corruzione erano riconducibili ai movimenti locali degli atomi. Benedetti matematico; Benedetti che rivendica alla matematica il titolo di filosofia proprio in virtù del carattere di certezza posseduto dal suo sapere; Benedetti che pensa che solo attraverso la matematica si possa comprendere il pensiero di Dio e se ne possa emulare la creatività. Benedetti che si differenzia da Galileo, per il quale un filosofo non può essere solo puro calcolatore. 54 Ibidem. p. 108 55 E. Berti. La concezione del moto.. cit. p. 110
  • 35. “L’accentuazione del carattere puramente intellettuale della conoscenza scientifica giunge, effettivamente, a costituire una peculiarità della figura di Benedetti, proponendo – come ha indicato il Maccagni – un elemento di chiara differenziazione nei confronti della nozione galileiana del ruolo scientifico delle sensate esperienze”56. Vi è diversità di metodo tra Benedetti e Galileo: “lo sforzo maggiore di Benedetti non è rivolto, come farà invece Galilei, a contrapporsi sul medesimo piano del riferimento dell’esperienza utilizzato da Aristotele stesso: quanto piuttosto a neutralizzarne l’efficacia, mettendo in discussione il significato di tale riferimento”57. Anche l’adesione alla tesi copernicana è sposata dal Benedetti più in riferimento alla sua, intrinseca, armonica proporzione tra le parti dell’universo, che in riferimento a qualche dato osservativo. “Il ricorso all’esperienza nella prospettiva di Benedetti non manca di esser visto anche come elemento perturbatore nei confronti di quella idea di scientificità che, come si è visto, ha per lui la massima realizzazione nella filosofia matematica”58. Vi è molta distanza da un Galileo che si spinge sino ad affermare la necessità di basare sui sensi anche le verità matematiche, cosa che per il nostro veneziano è impossibile, anzi “da questo punto di vista non si doveva temere di dare ragione ad Aristotele, che aveva distinto la scienza dalla conoscenza sensibile”59. Rivalutazione di Aristotele, ma anche rivalutazione di Benedetti, che si pone nella storia del metodo scientifico non come precorritore di Galileo ma come originale esploratore delle strutture della natura. Fu anche grazie alla sua opera che la quantità diventò primo accidente. Ciò pose in nuova luce tutta una serie di intuizioni e sperimentazioni già effettuate nel Medio Evo, soprattutto nel campo dell’ottica (il cui studio fu sempre invogliato dall’esegesi biblica). 56 L. Olivieri. Giovan Battista Benedetti e la crisi dell’aristotelismo. In Giovan Battista Benedetti – Spunti di storia delle scienze.. Cit. p. 117 57 Ibidem. p. 118 58 Ibidem. p. 125 59 Ibidem. p.128
  • 36. Ne conseguì lo scardinamento della divisione aristotelica tra fisica (scienza della natura) e matematica pura. Matematica come passepartout: secondo Benedetti “Aristotele non ha capito mai un bel niente del movimento; il primo suo errore è stato l’aver trascurato o persino escluso dalla fisica gli inamovibili fondamenti della filosofia matematica … solo partendo da essi – il che significa partendo da Archimede – è possibile sostituire alla fisica di Aristotele una fisica migliore”60. Il metodo matematico e quello sperimentale crebbero in seno alla fisica ed alla astronomia aristotelica e, dal suo interno, riuscirono a cambiarne drasticamente i presupposti. Aristotele può aver ragione a dire che quando il moto si esaurisce in calore si ha un qualcosa di nuovo, la cui conoscenza si aggiunge alla spiegazione quantitativa e la completa, ma ciò non toglie valore alla tesi dei meccanicisti, per i quali “la spiegazione ha sempre valore perché vi è corrispondenza tra un certo ordine dei fenomeni qualitativi e un processo quantitativo”61. “Viene abbandonata in fisica la ricerca delle cause finali a favore di quelle materiali (corpuscoli, elementi chimici), delle cause efficienti (forze elastiche, gravità, leggi della dinamica) e delle cause formali (funzioni matematiche di forza, energia, ecc.)”62. Se gli uomini che si affacciarono al Rinascimento furono privi del concetto di progresso e cedettero, tutt’al più, ad una cultura chiusa in se stessa, limitata e, nello stesso tempo, difficile da mantenere viva; se, tra di loro, gli stessi studiosi videro la Terra quale ipostatizzazione dell’antro platonico, fu grazie all’intelligenza ed alla vis polemica di pensatori quali il Benedetti che si riuscirono ad offrire alternative tali da modificare radicalmente lo stesso concetto di esistenza umana, laicizzandola, in gran parte, sia da autorità divine che terrene. 60 A. Koyrè. Studi galileiani 61 F. Enriques, G. De Santillana: Compendio... Cit. 62 Ph.P. Wiener, A. Noland. Le radici del pensiero scientifico Cit.
  • 37. La rivoluzione scientifica del ‘500 rappresentò davvero (non solo per il Koyrè) “la svolta più profonda nel pensiero umano dalla creazione dell’idea di cosmo da parte dei greci”63. Non ci resta che vedere in quale modo Benedetti fu condizionato e, nello stesso tempo, condizionò il clima culturale dei suoi tempi. 63 A. Koyrè. Galileo e Platone. p. 156
  • 38. CAP. 3 - GIOVAN BATTISTA BENEDETTI UOMO E SCIENZIATO In questo capitolo ci proponiamo di dare dei rapidi cenni biografici del nostro autore, nonché di dare una rapida occhiata ai suoi interessi non propriamente meccanici. Per far ciò ci avvalleremo dell’unica bibliografia edita sul Benedetti, scritta da Giovanni Bordiga ed ultimamente ristampata, con l’aggiunta dell’aggiornamento bibliografico ragionato, a cura di Pasquale Ventrice64. Approfondiremo qua e là il discorso, ricorrendo ad alcuni saggi monografici. 3.1 Biografia Poche e disperse le notizia inerenti la vita di Benedetti. La sua tavola astronomica pubblicata da Luca Gaurico, oltre a darci l’unica indicazione precisa della sua data di nascita (14 Agosto 1530), mette in risalto la fama da lui già raggiunta in giovane età: quando aurico pubblicò il suo Tractatus astrologicus, Benedetti aveva solo 22 anni. Il lignaggio del suo casato non è valso, purtroppo, a far giungere a noi notizie attendibili circa la sua famiglia. Il padre è detto, dal Gaurico, Hispano, forse perché, come commerciante, fu in buoni rapporti con i colleghi iberici. Molto interessanti anche le relazioni giovanili che Benedetti stesso ebbe a Venezia con dotti spagnoli. Queste potrebbero aver influito non poco sui suoi futuri studi di filosofia naturale: sarebbe utile sapere sino a che punto questi studioso fossero a conoscenza delle tesi di Domingo de Soto e sino a che punto le tenevano in considerazione. Dall’età di sette anni fu autodidatta. Unica eccezione, già citata, riguarda i primi quattro libri degli Elementi di Euclide, che lo videro scolaro del famoso Niccolò 64 G. Bordiga. Giovan Battista Benedetti filosofo e matematico veneziano del secolo XVI.
  • 39. Tartaglia. Per il resto, studiò da sé “nulla essendo difficile conoscere ai forti di volontà”65. Il giovane Giovan Battista rifuggì le cattive compagnie e si dedicò anima e corpo allo studio, pubblicando i suoi primi scritti nel 1533. Già questi prima saggi diedero prova dello spirito antitradizionalista del nostro autore: da essi partirono le prime critiche ad Aristotele ed in essi dimostrò fierezza nel difendere le proprie teorie (“mio è il pensiero”). Dal 1558 fu a Parma, alla corte del duca Ottavio Farnese, forse seguito da una figlia, la cui vita fu ancor più misteriosa di quella del padre: anche in questo caso scontiamo il carattere riservato e assolutamente non autobiografico dei suoi lavori. A Parma restò per otto anni, durante i quali fu lettore di filosofia e matematica. In questo periodo non pubblicò nulla, ma si occupò di gnomonica (costruì un orologio solare a Rupielba) e di astronomia (fece lunghe osservazioni su Marte). E’ di quegli anni il plagio della Demonstratio perpetuato dal Taisner. Sul principio del 1567, Benedetti si trasferì a Torino, invitatovi dal duca di Savoia Emanuele Filiberto. Da quella data, fino alla morte, restò al servizio della famiglia sabauda. Al riguardo, molto interessante è il saggio di Gaetano Cozzi, tendente a comprendere il perché il nostro studioso abbandonò la Serenissima per non farvi più ritorno, imitato, cinquant’anni più tardi, da Galileo Galilei66. Per darne ragione, compara la situazione politico-istituzionale delle Repubblica veneta e del Ducato di Savoia: consolidata ed intoccabile la prima, disastrata ma, per questo, ampiamente riformabile la seconda. Furono la bravura e l’astuzia riformatrice del Principe Emanuele Filiberto di Savoia che fecero sì che il Ducato divenisse florido economicamente e politicamente. La monarchia assoluta ivi instaurata offrì ad ogni studioso una sicurezza tale da far entrare Torino in competizione con la dotta Padova. La scelta stessa di Torino capitale creò la necessità di modificare ampiamente l’assetto urbanistico ed 65 Ibidem. p. 4. 66 G. Cozzi. La politica culturale della Repubblica di Venezia nell’età di Giovan Battista Benedetti. In Cultura, scienze e tecnica.. Cit.
  • 40. architettonico della città, al fine di adattarla al nuovo rango. Questo comportò l’arrivo di molti studiosi. Lo stesso Palladio fu in Piemonte, invogliato dalla carica di Architetto di Corte, allora vacante. Non secondario allo sviluppo della credibilità culturale di Torino fu pure l’atteggiamento di riverenza di Emanuele Filiberto nei confronti del papato e della Compagnia del Gesù, atteggiamento diametralmente opposto a quello della Serenissima. Il Cozzi conclude affermando che fu probabilmente la presenza di un monarca assoluto ed illuminato ad attrarre il Benedetti a Torino (e Galileo a Firenze). Questi aveva la facoltà di dispensare chiunque dalle costrizioni didattiche, lasciando quindi liberi di studiare e di creare, cosa che a Venezia era praticamente impossibile. Stretti furono i rapporti del nobile veneziano con il Duca sabaudo: la stima di quest’ultimo per Benedetti crebbe sino alla concessione della patente di nobiltà, concessa nel 1570. Alla morte del sovrano (1580), successe sul trono torinese il duca Carlo Emanuele I, che riservò al Nostro l’uguale trattamento del padre. Benedetti morì il 20 Gennaio 1590, due anni prima di quanto preventivato dalla propria tavola astrologica, circa dieci anni dopo la morte della figlia e dopo aver contratto, forse, un secondo matrimonio. Fu sepolto nel capoluogo piemontese, nella chiesa di S.Agostino, completamente dimenticato (forse è meglio dire ignorato) dalla sua madre patria. Questo, in breve, quanto si conosce della sua vita. Per fortuna, ben più esaustiva è la nostra conoscenza degli studi del veneziano. Sette sono le opere a stampa del Benedetti, una delle quali, la Demonstratio, fu pubblicata in due edizioni lievemente differenti: una è l’opera che il Bordiga non è riuscito a rintracciare (De Coelo et elementis, del 1591); cinque codici, contenenti manoscritti, completano la produzione benedettina giunta sino a noi. Le sue opere spaziano nel campo delle discipline matematiche. Vediamo di farne un rapido sunto.
  • 41. 3.2 Geometria, aritmetica, prospettiva, ottica, gnomonica, musica. La prima opera edita da Benedetti (De Resolutione, del 1553) concerne problemi geometrici inerenti la costruzione di figure geometriche piane, con compasso di data apertura. Molto diffusi nel ‘500, questi trattati percorrevano in lungo ed in largo una scienza che era ritenuta compiuta, grazie all’opera di Euclide, di Apollonio e di Archimede. Rimarchevole a proposito il giudizio di Moritz Cantor, il quale afferma che il Benedetti “ha portato quella dottrina particolare alla sua piena perfezione”67. Altri problemi di geometria si trovano nel Diversarum e sono scritti in forma epistolare. Senza entrare nei particolari, leggendo le pagine del Bordiga, salta subito agli occhi la fiera autonomia del pensiero del nostro matematico: nella disputa (a distanza) con Aristotele su quali siano le prime figure, non esita a formulare pareri discordi dal filosofo di Stagira. In generale, si può affermare che la sua opera evidenzia il limite della matematica del suo tempo: difficile andare oltre Euclide e compagnia senza il grimaldello dell’algebra. Sempre trattati in modo geometrico, furono i problemi di aritmetica (153 teoremi), raccolti nella prima parte del Diversarum. Questo modo di procedere rappresentò, comunque, “l’anello di congiunzione tra la verifica induttiva delle equazioni, propria dell’analisi abachistica (se la regola dava esiti positivi, allora si poteva ritenere sufficientemente sicura) e il vero e proprio calcolo algebrico”68, il quale, per essere sviluppato, dovette attendere la logistica speciosa del Viète. Il nostro studioso si dilettò pure di prospettiva, scienza relativamente nuova: se tale materia fu trattata già da Euclide, è, però, solo con Daniele Barbaro che si ha il primo trattato completo (anche se non ordinato) di prospettiva. 67 Ibidem. p. 624. 68 P. Freguglia. Niccolò Tartaglia e il rinnovamento delle matematiche nel ‘500. In Cultura, scienza e tecnica.. Cit.
  • 42. Cousin, Barozzi, Guidobaldo dal Monte e Benedetti contribuirono a dare qualche regola scientifica alla prospettiva: il Benedetti, in particolare, fece uso di metodi tridimensionali. Collegata alla prospettiva è la problematica collegata alla vista. L’ottica di Euclide, influenzata da Platone, sosteneva la teoria secondo la quale i raggi luminosi muovevano dagli occhi verso gli oggetti. Contro di essa Pietro d’Abano e Leonardo avevano già rispolverato le più antiche, ed opposte, dottrine pitagoriche. Legato alla prospettiva, ed all’interesse che da quattro secoli suscitava il De Aspectibus dell’arabo Alhazen, fu l’interesse che Benedetti stesso ebbe per l’ottica. I suoi studi sono esposti nella lettera De visu, pubblicata nel Diversarum (Torino, 1585). In essa il veneziano compara la camera oscura al bulbo oculare, individuandone il senziente non nel christallinus ma nella retina69. Così affermando, Benedetti fu il secondo scienziato a parlare di visione retinale (il primo fu, nel 1583, Felix Platter). A differenza del primo, però, il nostro autore cercò di offrire una spiegazione geometrica, non arrivando, comunque, ad accettare il capovolgimento dell’immagine sulla retina (si dovrà attendere Keplero). Fiorente all’epoca, la gnomonica attrasse l’attenzione di Giovan Battista, il quale raccolse i suoi studi nel De gnomonum (alcuni studi particolari furono editi, sotto forma epistolare, nel Diversarum). E’ il Bordiga ad informarci che, in questo caso, lo scienziato non andò oltre i suoi contemporanei; anzi, in certi punti, segnò il passo nei confronti di alcuni suoi colleghi (non tenne conto della parallasse e non usò le tangenti). In ogni caso, il fatto che il Clavio, in un’opera successiva, parlasse del De gnomonum sottolineandone le carenze ma anche i pregi, offre un quadro ben preciso della preparazione e della considerazione del Benedetti. In ultimo, anche in ordine di importanza (almeno per i nostri studi), citiamo, seguendo Bordiga, due epistole indirizzate al De Rore, inerenti gli intervalli musicali. 69 T. Frangenberg. Il De visu di Giovan Battista Benedetti. In Cultura, scienze e tecniche.. Cit.
  • 43. Anche qui, il Benedetti tratta matematicamente l’argomento e suggerisce, nelle conclusioni, che teoria e pratica vadano insieme congiunte. Prima di passare allo studio della parte meccanica del pensiero del Nostro, dobbiamo ancora analizzare due tematiche affrontate dal veneziano, che riteniamo propedeutiche all’oggetto della tesi: la questione della grandezza della terra e dell’acqua e, più in generale, l’astronomia benedettina. 3.3 Perché il fiume va al mare? Perché il fiume va al mare? Vi è più terra o più acqua? Domande che oggi hanno perso ogni significato ma che nel XVI secolo, e prima, furono al centro di accese contese, le più fini delle quali celavano ben più pressanti questioni. Dietro a queste discussioni, che rimandavano alla forma della Terra, vi è “l’avvallo del modello meccanico dal punto di vista degli esiti sperimentali propri della scienza moderna … vi è la nascita del nuovo metodo scientifico che infrange l’universalismo confuso della filosofia naturale e avvia alla costruzione delle scienze particolari”70. Tutto sembra risalire alla pubblicazione del De aqua e terra, un’operetta attribuita a Dante Alighieri: da Aristotele e da essa derivò la diffusa convinzione che l’acqua fosse quantitativamente maggiore della terra. Terra ed acqua erano conformate in due sfere distinte, eccentriche, e ciò comportava problemi circa quale fosse il centro del globo terracqueo e dell’intero universo. Noi non vogliamo esporre qui le idee di Benedetti in proposito. Quello che ci preme è far vedere contro quali motivazioni scientifiche Benedetti ed i nuovi scienziati dovettero scontrarsi. 70 P. Ventrice. La questione della grandezza della terra e dell’acqua e la dottrina delle maree nel secolo XVI, con riferimenti all’ambiente scientifico veneziano e alcune considerazioni sul metodo. In Cultura, scienza e tecnica.. Cit.
  • 44. In generale, comunque, il dotto veneziano si riferì, migliorandole, alle teorie di Alessandro Piccolomini. E’ del 1558 un opuscolo di quest’ultimo, all’interno del quale è negata l’interpretazione peripatetica. Le sue convinzioni si fondano “più sulla certezza della ragione che su quella del senso”, perché “qualunque possa essere la profondità raggiungibile dall’acqua del mare non potrà mai essere rispetto al volume della terra, così pure irrilevante sarà qualsiasi elevazione della crosta terrestre rispetto all’estensione della superficie sferica”71. Le ragioni avanzate sulla sfericità della Terra sono l’eclisse parziale della luna, i fusi orari, ecc.. Probabilmente Piccolomini fu influenzato dal De rivolutionibus di Copernico, per il quale “l’acqua e la terra formano una sola sfera, la massa terrestre è di gran lunga superiore alla massa dell’acqua e il centro di gravità è anche il centro della grandezza”72. Contro queste tesi insorse il Berga, professore all’Università di Torino, soprattutto perché quelle tesi creavano diffidenza nei confronti delle verità derivanti dai sensi (soppiantate dalle verità matematiche). “La pretesa dei matematici di definire, in termini quantitativi, una questione squisitamente naturale è inconsistente, soprattutto quando venga messa in relazione al problema dell’identificazione del centro di gravità, la cui localizzazione è possibile solo in base alle procedure razionali proprie della filosofia naturale”73. E’ col Berga che Benedetti entra in polemica. Invitato a pronunciarsi ufficialmente dal principe Carlo Emanuele, il veneziano pubblicò il Consideratione, nel quale, tanto per cambiare, attaccò le dottrine aristoteliche del collega. Diamo una rapida occhiata a queste ultime. Per Aristotele, e per Platone, i quattro elementi si succedevano in progressione geometrica e, per corruzione successiva, ognuno era il decuplo del precedente (quindi, l’acqua era dieci volte la terra). Forse questo fu il richiamo principale all’Autorità fatto 71 Ibidem. p. 438. 72 Ibidem. p. 439. 73 Ibidem. p. 439. Come, poi, questa razionalità legata ai sensi fosse precaria, lo notiamo dall’affermazione del Berga secondo la quale le isole non sono più alte del mare che le circonda.
  • 45. dal Berga. Lo stesso giustificò le proprie idee anche col dire che “l’acqua, essendo meno grave della terra, bisogna che ne sia maggiore per equilibrarla e, spingendola, fermarla al centro del mondo”74. Non manca neppure l’avvallo biblico “dopo il diluvio universale le acque, dopo aver superato la terra, si sono soltanto ritirate, non consumate, quindi il loro volume tuttora supera quello della terra”75. Come si vede, queste motivazioni, eccezion fatta per l’ultima, creano, con l’aggiunta del metodo esposto dal Berga, una specie di circolo chiuso: si dà ragione di una evidente contraddizione tra le affermazioni del filosofo della natura e la natura stessa, negando la contraddizione, richiamandosi ai massimi sistemi e, viceversa, per sorreggere principi cosmologici in discussione si usano, o meglio, si distorcono, i dati del senso, badando bene di usarli nella loro forma immediata, oppure cercando di elaborarli, a seconda delle convenienze. Per Benedetti queste sono ragioni filosofiche, argumenti sottili, con la prova in mano”, facilmente confutabili, per esempio, dalle stesse esplorazioni geografiche “essendosi scoperto per le nove navigationi tante insule e paesi da ogni parte”76. Non era, però, questo il punto e Benedetti se ne accorse bene. Posti in difficoltà sulla Terra, gli avversari della nuova scienza si rifugiavano in cielo, eludendo così, in pratica, il confronto. Non restava che inseguirli in quello che credevano essere il loro elemento, ed ivi combatterli. Solo dopo averli sconfitti tra le stelle avrebbe avuto un senso il “portare il cielo in terra”77. 74 G. Bordiga. Giovan Battista Benedetti.. Cit. p. 88. 75 Ibidem. 76 Per capire meglio quanta presa ebbero, all’epoca, teorie quale quella che vedeva il globo acqueo eccentrico rispetto a quello terrestre (creando così una gibbosità che permetteva a certe terre di emergere) si ricordi che Colombo, giunto presso le foci dell’Orinoco, trovando una forte corrente contraria, credette di essersi avvicinato all’altezza massima dell’oceano. 77 Come già ripetutamente detto, la cosa non fu tanto pacifica. Messi in crisi sui massimi sistemi, i peripatetici cercarono di mettere in dubbio i dati di senso: la scoperta delle gibbosità lunari o, ancora meglio, dei satelliti medicei, furono addebitate alla non affidabilità del telescopio quale strumento di osservazione.
  • 46. 3.4 Guerre stellari. “Un fisico incline ad attaccare la teoria aristotelica del moto non poteva non capire quali fossero i vantaggi che derivano dall’estendere l’attacco anche alla cosmologia di Aristotele … Benedetti era un fisico-matematico, non un astronomo, ma elogiò con entusiasmo la teoria di Aristarco, spiegata in modo divino da Copernico”78. E’ avendo presente questo quadro che si può avvicinare il pensiero di Giovan Battista Benedetti. Le questioni astronomiche non spiccano nella sua produzione; rimarchevole è, però, il tipo di adesione al copernicanesimo, un’adesione che “va al di là della pura e semplice accettazione del sistema o della difesa delle effemeridi basate sulle più recenti tavole”79. Benedetti non fu un astronomo ma, oltre che ad osservare Marte, senz’altro lesse con attenzione sia Tolomeo che Copernico. La ragione che fece propendere il Nostro verso le tesi del grande polacco fu la seguente: se Tolomeo avesse avuto ragione, le velocità lineari dei pianeti sarebbero state enormi, dalle 500 – 1.000 miglia italiche al minuto della Luna, alle 260.000 di Saturno. Tutto ciò poteva essere eliminato con la semplice introduzione del moto terrestre. “Ciò che è alla base del ragionamento del Benedetti è dunque un principio di economicità della natura, e di armonia … che si basa su un’armonica proporzione tra le parti dell’universo, verificabile in termini di rapporti numerici”80. Questo è quanto concerne il Giovan Battista Benedetti astronomo. Vediamo invece quali conseguenze sortirono gli attacchi all’astronomia tolemaico – aristotelica. Nel 1500, si sapeva bene che i calcoli astronomici erano sbagliati: congiunzioni ed eclissi non erano mai tempestive. Prima si cercò di ovviare a queste discrepanze dando la colpa del tutto alle cattive trascrizioni dell’Almagesto, sino a che le traduzioni del XV – XVI secolo riproposero, senza più alibi, il problema. 78 M. Boas. Il Rinascimento scientifico.. Cit. p.83. 79 M. Di Bono. L’astronomia copernicana nell’opera di Giovan Battista Benedetti. In Cultura, scienza e tecnica.. Cit. 80 Ibidem. p. 286.
  • 47. Il De rivolutionibus di Copernico è del 1543. Questa opera fu, per molti versi, ancora molto lontana dalla moderna scienza: non è matematizzata, si serve ancora dei concetti di valore, non esce dalla teleologia, parla sempre di luoghi naturali e di moti naturali e violenti, nell’elencazione delle arti, infine, pone la meccanica all’ultimo posto “perché abbisogna dell’uso delle mani”81. Questo testo non ottenne subito un grande successo. “Solo una mezza dozzina di studiosi seguirono Copernico tra il 1543 ed il 1560: Retico, Gemma Frisio di Lovanio, Pontus de Tyard, John Dee, Thomas Digges, John Field, Robert Recorde”82. Non si dovette attendere molto, però, perché si intuisse il carattere rivoluzionario della tesi eliocentrica. Indubbiamente, il copernicanesimo dette manforte a chi, sia sul versante filosofico, sia su quello scientifico, cercava pretesti per attaccare la tradizione. E di pretesti Copernico ne stimolò molti: “una volta eliminata la rotazione della sfera celeste, per Benedetti non ha più senso parlare di una qualche superficie delimitante l’universo, il che significa, in ultima istanza, un’apertura verso l’infinito”83. Se Copernico, legato com’era alla scienza peripatetica, non riuscì a trarre queste conseguenze, ciò fu invece possibile al nostro veneziano, il quale, in quanto fisico – matematico, fu agevolato “dalla polemica vincente contro alcuni cardini dell’aristotelismo, quali il concetto di vuoto, di luogo e di infinito attuale, ed i problemi di moto ad essi relativi”84. Ecco le conseguenze a cui accennavamo prima. Non vogliamo credere, anzi, non crediamo, ad un Benedetti opportunista: siamo convinti che il dotto veneziano credesse nell’eliocentrismo. E’ innegabile, però, che le tesi del Copernico servirono a lui, come ad altri suoi contemporanei, per costruire, poco a poco, quel Grande Sistema da contrapporre all’aristotelica visione del mondo. 81 Ricordiamoci che Aristotele elevava gli artigiani al di sopra degli schiavi solo per il fatto che i primi accudiscono più persone mentre i secondi una sola. 82 A. Rupert Hall. La rivoluzione scientifica.. Cit. 83 M. Di Bono. L’astronomia copernicana.. Cit. pag. 289 84 Ibidem. pag. 290.