La storia negata...i militari internati italiani che iniziarono a resistere da partigiani...per chi vuole sapere oltre che ricordare qualcosa che non vedrà in tv
1. L’armistizio
dell’8
settembre
1943
Questo
è
un
anno
importante
per
la
svolta
della
guerra.
In
particolare,
sono
due
gli
eventi
che
cambieranno
le
sorti
dell’Italia
nel
‘43:
1. Il
10
luglio
1943
è
la
data
dello
sbarco
delle
truppe
alleate
in
Sicilia
nella
zona
del
siracusano
e
dell’agrigentino.
2. Il
25
luglio
dello
stesso
anno
Mussolini
si
dimette.
Mussolini
si
presenta
al
colloquio
settimanale
che
aveva
con
il
re
Vittorio
Emanuele
III,
(perché
solo
il
re
poteva
decidere
se
mantenere
un
governo
o
destituirlo)
pensando
che
gli
avrebbe
confermato
la
fiducia,
ma
stavolta
il
re
gli
chiede
di
dimettersi
e
di
nominare
Badoglio
come
capo
del
governo,
che
si
era
distinto
durante
la
prima
guerra
mondiale.
A
questo
punto
si
crea
una
situazione
difficile
in
Italia,
perché
gli
alleati
sono
in
Sicilia
e
avanzano,
essi
riescono
ad
occupare
tutta
l’isola
ed
inoltre
essi
si
apprestano
a
preparare
un
altro
sbarco
nel
continente
per
cacciare
i
tedeschi.
Qui
si
vede
la
difficoltà
che
ha
il
governo
italiano
con
Badoglio
ad
affrontare
la
situazione
poiché
da
una
parte
si
voleva
trattare
la
resa
con
gli
americani
e
quindi
si
voleva
la
pace,
ma
dall’altra
parte
Badoglio
dichiara
che
la
guerra
sarebbe
continuata
a
fianco
della
Germania,
sperando
di
tranquillizzare
Hitler
ed
i
nazisti.
Questa
situazione
ambigua
durerà
fino
il
3
settembre
quando
viene
firmato
a
Cassibile
in
provincia
di
Siracusa
l’armistizio.
Inizialmente
l’armistizio
venne
tenuto
segreto
perché
l’Italia
era
piena
di
tedeschi
e
le
loro
azioni
contro
gli
italiani
sarebbero
state
da
subito
evidenti
e
immediatamente
attuate
e,
dall’altra
parte
gli
americani
erano
solo
in
Sicilia
e
non
ancora
nella
parte
continentale
dell’Italia.
Il
patto
iniziale
prevedeva
quindi
che
l’Italia
doveva
arrendersi
senza
condizioni,
assumendo
il
ruolo
di
cobelligerante,
una
sorta
di
alleata
di
serie
“B”.
Tuttavia
questo
era
uno
status
ambiguo.
Solo
cinque
giorni
dopo,
cioè
l’8
settembre
1943
alle
ore
19.45
dai
microfoni
dell'E.I.A.R.,
il
Maresciallo
Pietro
Badoglio
comunicò
agli
italiani
che:
«Il
governo
italiano
riconosciuta
l`impossibilità
di
continuare
l`impari
lotta
contro
la
schiacciante
potenza
avversaria,
nell`intento
di
risparmiare
ulteriori
e
più
gravi
danni
alla
nazione,
ha
chiesto
l'armistizio
al
generale
Eisenhower,
comandante
in
capo
delle
forze
alleate
angloamericane.
La
richiesta
è
stata
accolta.
1
2. Conseguentemente
ogni
atto
di
ostilità
contro
le
forze
angloamericane
deve
cessare
da
parte
delle
forze
italiane
in
ogni
luogo.
Esse
però
reagiranno
a
eventuali
attacchi
da
qualsiasi
altra
provenienza».
Il
re
Vittorio
Emanuele
III
fuggiva
a
Brindisi
e
il
23
settembre
Mussolini
proclama
la
Repubblica
Sociale
Italiana
(RSI),
conosciuta
anche
come
Repubblica
di
Salò,
rivendicando
la
propria
sovranità
(specialmente
nei
territori
del
nord
Italia)
sostenuto
da
Hitler
e
dall’esercito
tedesco.
In
questo
caos,
ancora
una
volta,
l’esercito
italiano
fu
lasciato
solo
e
privo
d’indicazioni.
Non
tutte
le
truppe,
infatti,
vennero
avvisate
che
dovevano
disarmarsi,
dissolvere
l’esercito,
scappare
e
tornare
a
casa.
Accadde
infatti
che
molti
italiani
vennero
catturati
dai
tedeschi.
La
“resistenza”
degli
IMI
Le
parole
di
Badoglio
gettarono
l'Italia
nel
caos
più
completo
e
scatenarono
l`immediata
reazione
della
Germania
nazista:
mentre
il
re
e
il
governo
lasciavano
Roma,
i
tedeschi
scatenarono
la
controffensiva.
In
pochi
giorni
le
truppe
italiane,
prive
di
ordini
precisi,
furono
facile
preda
delle
milizie
naziste.
Oltre
alla
disorganizzazione,
alle
carenze
strutturali
del
regio
esercito
e
all’incapacità
dei
comandi
italiani
di
gestire
la
situazione,
in
quell'occasione
pesò
anche
il
comportamento
disonesto
degli
ufficiali
tedeschi
i
quali
promisero
in
perfetta
malafede
ai
loro
ex
alleati
che
li
avrebbero
rimpatriati
una
volta
consegnate
le
armi.
Nella
«retata»
organizzata
dai
nazisti
caddero
migliaia
e
migliaia
di
soldati:
«Consegnarono
le
armi
circa
416
mila
italiani
in
Italia,
nella
zona
di
Roma
e
nell'Italia
meridionale
ne
furono
disarmati
circa
102
mila,
nella
Francia
meridionale
non
più
di
59
mila
e
nei
Balcani
e
nelle
isole
del
Mediterraneo
orientale
circa
430
mila.
Complessivamente
furono
disarmati
quindi
1
milione
e
7
mila
italiani»
.
Tra
i
disarmati
una
parte
accettò
di
restare
al
servizio
dei
tedeschi
o
di
passare
alle
milizie
fasciste,
un'altra
riuscì
in
qualche
modo
a
sottrarsi
alla
prigionia,
mentre
una
terza,
quella
più
numerosa
conobbe
la
tragica
esperienza
della
deportazione:
tra
soldati
e
ufficiali,
circa
716
mila
uomini,
secondo
il
calcolo
dello
2
3. storico
ed
ex
deportato
Claudio
Sommaruga,
vennero
internati
nei
lager
del
Terzo
Reich.
L’evento
storico
che
oggi
viene
maggiormente
ricordato
è
ciò
che
avvenne
a
Cefalonia,
un’isola
greca,
dove
un’armata
italiana
che
era
insieme
ai
tedeschi
si
rifiutò
di
consegnare
le
armi
e
di
farsi
prendere
prigionieri,
per
tale
ragione
vennero
tutti
massacrati.
Ma
non
fu
l’unico
evento.
L’Esercito
Italiano
contava
allora
quasi
2.000.000
di
combattenti
e
territoriali,
presenti
in
Italia
e
all’estero,
ma
il
giorno
dell’armistizio
fu
fatale:
l’esercito
fu
assalito
dall’illusione
del
“tutti
a
casa!”
e
fu
piantato
allo
sbaraglio
senza
ordini,
piani,
mezzi
e
collegamenti,
dal
Re,
da
Badoglio,
da
200
generali
in
fuga
e
nell’
indifferenza
degli
alleati
americani.
Le
eroiche
resistenze
di
13
nostre
divisioni
senza
rifornimenti
e
rinforzi,
in
Corsica,
Italia,
nelle
isole
greche
(come
a
Cefalonia,
Corfù,
Lero…)
e
nei
Balcani
(Montenegro,
Croazia…)
furono
disarmate
dai
tedeschi
(1.007.000
militari
italiani)
con
la
falsa
promessa
del
rimpatrio.
“Da
questi
eventi
nacquero
i
primi
“NO”
della
Resistenza
all’oppressore
tedesca,
dove
fu
istintivo,
corale
e
disarmato
per
la
maggioranza
dei
militari
italiani,
ex
giovani
fascisti
del
“ventennio”
in
approdo
alla
democrazia.
In
Italia
alcuni
reparti
con
le
armi,
avviavano
la
resistenza
armata
popolare
partigiana,
a
maggioranza
social-‐comunista
e
repubblicana.
In
Grecia
e
nei
Balcani,
la
resistenza
fu
monarchica
badogliana,
combattuta
da
unità
del
Regio
Esercito
alleate
ai
partigiani
locali,
per
lo
più
comunisti,
oppure
fu
individuale
o
di
gruppi
di
militari
sbandati
e
finiti
prigionieri,
ausiliari
o
combattenti,
anche
in
alternanza,
nelle
contrapposte
bande
partigiane
(comuniste,
nazionaliste
ecc.)
greche
e
slave.
Successivamente
dall’Italia
del
sud,
ci
fu
la
rimonta
del
CIL,
il
Corpo
Italiano
di
Liberazione
del
Regio
Esercito,
cobelligerante
degli
Alleati.
In
due
parole,
la
Resistenza
nacque
monarchica
e
si
sviluppò
preponderantemente
repubblicana
e
ciò
influì,
come
vedremo,
sull’imbarazzata
accoglienza
in
patria
dei
reduci.
La
resistenza
degli
IMI,
nota
anche
come
l’altra
resistenza
(o
quella
senza
armi…
silenziosa…
bianca…)
fu
reiterata
in
ogni
istante,
per
venti
mesi,
stressante
più
della
fame
e
pagata
con
50.000
caduti.
Si
attuò
direttamente
e
a
rischio
di
morte,
col
sabotaggio,
la
non
collaborazione,
il
lavoro
rallentato
anche
a
un
terzo
della
norma
dell’operaio
tedesco
e,
indirettamente,
consumando
risorse
alimentari
ed
economiche
e
facendo
avvicendare
per
la
custodia,
in
venti
mesi,
60.000
militari
tedeschi
distolti
dai
fronti.
La
resistenza
degli
IMI
non
fu
quindi
passiva
e
inerme,
né
fu
moralmente
meno
valida
di
quella
armata!”.
3
4. Il
rifiuto
alla
RSI
Immediatamente
dopo
la
cattura,
gli
internati
italiani
furono
sollecitati
a
mettersi
agli
ordini
dei
comandi
nazisti
o
fascisti:
la
scelta
era
tra
una
vita
di
stenti
nei
lager
e
il
lavoro
coatto
o
un
«posto»
da
soldato
regolare
del
Terzo
Reich
o
della
nascente
Repubblica
sociale
(in
quest'ultimo
caso
con
la
possibilità
di
ritornare
subito
in
patria).
Coloro
che
accettarono
furono
una
minoranza,
nel
complesso
tra
i
716
mila
internati,
i
«sì»
furono
poco
più
del
14%.
Le
adesioni
maggiori
furono
raccolte
tra
gli
ufficiali
(40%
circa,
contro
il
13%
dei
soldati).
Tante
centinaia
di
migliaia
di
prigionieri
italiani
nelle
mani
dei
tedeschi
costituiscono
un
plebiscito
negativo
così
imponente
contro
la
nascente
Repubblica
di
Salò
da
indurre
i
responsabili
nazisti
e
fascisti
a
cercare
di
persuadere
gli
internati
a
continuare
la
guerra
assieme
alle
forze
del
Reich.
Nei
primi
giorni
dopo
la
cattura
sono
gli
ufficiali
tedeschi
a
far
leva
sul
preesistente
patto
di
alleanza,
sul
cameratismo
nato
fra
soldati
italiani
e
germanici,
per
ottenere
l'adesione
al
nazifascismo.
In
questa
prima
fase
l'opera
di
persuasione
tende
ad
avere
il
consenso
all`inquadramento
nei
reparti
SS,
con
la
rinuncia
alla
divisa
italiana.
Il
risultato
non
fu
soddisfacente.
Il
regime
nazista
offrì
la
liberazione
dai
campi
di
prigionia
e
il
rinvio
in
Italia
a
quei
prigionieri
italiani
che
si
fossero
arruolati
nelle
forze
armate
tedesche.
Una
quota
di
prigionieri
aderì
a
tale
proposta,
ma
il
fatto
che
la
stragrande
maggioranza
degli
Imi
rifiutò
di
aderire
alla
Rsi
costituì
(per
Berlino
non
meno
che
per
Salò)
un
affronto
e
un
disconoscimento
di
massa
di
altissimo
valore
politico.
Vi
sono
interpretazioni
diverse
sulle
ragioni
che
spinsero
la
stragrande
maggioranza
di
essi
a
rifiutare
l’alleanza
con
i
tedeschi.
Sommaruga
crede
che:
“Ebbero
gioco,
senza
dubbio,
anche
il
risentimento
e
la
rabbia
per
le
molte
umiliazioni
subite.
Ma
è
più
giusto
dire
che
gli
Imi
affrontarono
da
soldati
quelle
situazioni
e
seppero
resistere
come
se
si
trovassero
su
una
ideale
prima
linea.
Una
prima
linea
che
ebbe
il
suo
triste
tributo
di
numerosi
caduti,
feriti,
ammalati,
invalidi
e
dispersi”.
Uno
studio
statistico
condotto
nel
1994
su
431
Imi
ha
dato
i
seguenti
risultati:
il
30%
ha
detto
«no»
per
ragioni
militari
(«non
volevo
combattere
gli
italiani»,
«ero
stanco
della
guerra»),
il
26%
per
questioni
etiche
(«fedeltà
al
giuramento»,
4
5. «dignità»,
«solidarietà
di
gruppo»),
il
24%
per
motivi
ideologici
(«anti-‐
nazifascismo»,
«cattolicesimo»,
«liberalismo»,
«marxismo»),
il
20%,
infine,
per
valutazioni
diverse.
I
soldati
che
fecero
questa
scelta
subirono
l`immediata
ritorsione
dei
tedeschi:
gli
uomini
di
truppa
furono
avviati
al
lavoro
coatto,
gli
ufficiali
vennero
rinchiusi
nei
campi
di
detenzione.
La
cattura
e
il
trasferimento
nei
lager
Subito
dopo
la
cattura,
l’efficiente
apparato
burocratico-‐militare
nazista
organizzò
il
trasporto
dei
militari
italiani
nei
campi
di
concentramento.
L'obiettivo
di
Hitler
era
duplice:
1. eliminare
dallo
scacchiere
di
guerra
uomini
che
schierati
sul
fronte
opposto,
avrebbero
potuto
creare
problemi
alle
sue
armate
2. recuperare
braccia
giovani
e
forti,
a
costo
zero,
da
impiegare
nella
macchina
produttiva
tedesca
impegnata
nello
sforzo
bellico.
Dopo
l’8
settembre,
i
tedeschi
ricavarono
un
enorme
bottino:
armi,
materiale
di
ogni
genere
e
soprattutto
uomini.
Proprio
gli
uomini
prigionieri
di
guerra
o
lavoratori
coatti
furono
una
risorsa
importantissima
poiché
furono
adoperati
come
manodopera
sia
nelle
fabbriche
che
nei
campi,
mentre
i
soldati
tedeschi
erano
impegnati
su
molti
fronti.
Gli
uomini
furono
impegnati
come
manovali,
braccianti
e
anche
le
donne
furono
sfruttare
per
fabbricare
camion
armati,
aerei,
proiettili,
cannoni
e
anche
prodotti
alimentari
destinati
all'esercito
e
alla
popolazione
delle
città
bombardate
dagli
angloamericani.
Inoltre,
l’improvvisa
apparizione
sul
mercato
del
lavoro
dei
nuovi
schiavi
italiani,
che
è
possibile
impiegare
senza
dover
pagare
loro
alcuna
mercede
stabilita
per
contratto,
viene
salutata
dagli
imprenditori
gioia.
La
maggior
parte
dei
soldati
italiani
fu
deportata
nei
territori
del
Reich
nei
giorni
immediatamente
successivi
alla
cattura.
Gli
spostamenti
avvennero
via
ferrovia
e
via
nave,
in
condizioni
disumane.
Le
numerose
testimonianze
di
chi
viaggiò
in
treno
parlano
di
vagoni
merci
pieni
fino
all'inverosimile,
che
non
venivano
aperti
per
giorni
e
giorni,
dove
mancavano
cibo
e
acqua
e
persino
la
possibilità
di
soddisfare
i
bisogni
corporali.
Chi
affrontò
il
viaggio
con
la
nave
testimonia
che
furono
emanati
ordini
ben
precisi,
ad
esempio,
stabilivano
che
lo
spazio
sulle
navi
dovesse
essere
utilizzato
fino
ai
limiti
estremi
senza
tener
conto
di
alcuna
considerazione
di
comodità
e
5
6. sicurezza.
Nelle
stive
alcuni
energumeni,
armati
di
bastoni,
stipavano
fino
all`orlo
gli
italiani
via
via
che
giungevano.
Il
carico
era
enorme:
si
stava
in
piedi
uno
accanto
all'altro,
stretti,
senza
la
possibilità
di
muoversi,
e
già
dai
primi
momenti
l'aria
era
divenuta
irrespirabile.
I
militari
furono
divisi
in
campi
diversi
a
seconda
del
loro
status:
i
soldati
vennero
rinchiusi
negli
Stammlager
Stalag,
alle
cui
dipendenze
vi
erano
spesso
gli
Arbeitskommandos
(distaccamenti
di
minori
dimensioni
ubicati
nelle
vicinanze
delle
fabbriche
o
dei
luoghi
di
lavoro
in
cui
venivano
impiegati).
Gli
ufficiali
invece
furono
internati
negli
Oflager.
Altri
campi
erano
poi
i
Dulag
(
i
campi
di
transito
o
di
smistamento),
gli
Straflager
(i
campi
di
punizione)
e
i
Lazarett
(i
campi-‐ospedale,
dove
venivano
ricoverati
i
militari
gravemente
ammalati).
Gli
italiani
vennero
distribuiti
o
smistati
in
249
lager
principali:
192
ubicati
in
Germania,
15
in
Polonia,
15
in
Russia,
14
in
Francia,
11
in
Iugoslavia,
2
in
Grecia.
All'arrivo
a
destinazione,
la
burocrazia
del
Reich
procedeva
all’identificazione
dei
prigionieri:
i
tedeschi
compilavano
una
scheda
con
tutti
i
dati
anagrafici,
quindi
assegnavano
a
ognuno
un
numero
che
poi
veniva
riportato
su
una
piastrina
metallica.
Da
prigionieri
di
guerra
(KGF)
a
internati
(IMI-‐Italienische
Militär-‐Internierten)
Fin
dal
17
settembre
1943,
Hitler
privò
agli
italiani
il
loro
status
di
prigionieri
di
guerra
con
le
tutele
internazionali
di
uno
stato
neutrale
e
l’assistenza
umanitaria
della
Croce
Rossa
Internazionale
(CICR).
I
prigionieri
italiani
vennero
declassati
e
marchiati
sulle
divise
con
un
IMI,
una
qualifica
arbitraria,
prevista
dalla
Convenzione
di
Ginevra
del
1929
sui
prigionieri
di
guerra,
solo
in
nazioni
non
belligeranti.
Appena
arrivati
nel
lager
di
destinazione
i
soldati
italiani
si
rendono
conto
di
non
godere
dello
status
di
prigionieri
di
guerra
e
quindi
di
non
essere
tutelati
in
alcun
modo
dagli
accordi
internazionali
in
materia.
Hitler,
il
20
settembre
1943,
con
un
provvedimento
stabilisce
che
essi
devono
essere
identificati
come
IMI
(Internati
Militari
Italiani).
Si
tratta
di
una
denominazione
del
tutto
impropria
poiché
per
internati
si
dovrebbe
intendere
i
militari
che
si
rifugiano
in
uno
Stato
neutrale
in
attesa
della
fine
delle
ostilità,
ma
la
Germania
non
era
di
certo
uno
Stato
neutrale.
Nel
testo
originale
si
legge:
6
7. «Per
ordine
del
Fuhrer
e
con
effetto
immediato,
i
prigionieri
di
guerra
italiani
non
devono
più
essere
indicati
come
tali,
bensì
con
il
termine
di
internati
militari
italiani»
Con
questa
decisione
Hitler
si
vendicava
dei
soldati
italiani
,
considerati
«traditori»,
e
si
garantiva
mano
libera
sul
trattamento
da
riservare
loro.
Gli
Imi
non
potevano
avvalersi
delle
protezioni
previste
dalla
Convenzione
di
Ginevra
sul
trattamento
dei
prigionieri
di
guerra
(27
luglio
1929)
e
non
avevano
diritto
all'assistenza
della
Croce
rossa;
in
sostanza
erano
abbandonati
a
se
stessi
,
schiavi
nelle
mani
della
Germania
nazista.
Come
detto
in
precedenza,
i
soldati
vennero
subito
utilizzati
nelle
fabbriche
e
nei
campi
agricoli
a
sostegno
dello
sforzo
bellico,
mentre
gli
ufficiali
restarono
segregati
nei
lager.
Lo
status
degli
Imi
cambiò,
ancora
una
volta,
e
sempre
per
volere
del
Fuhrer.
Il
20
luglio
del
1944
Hitler
e
Mussolini
strinsero
un
accordo
in
base
al
quale
i
militari
deportati
venivano
trasformati
in
«liberi
lavoratori
civili»:
era
l'ennesima
tragica
beffa.
La
formalizzazione
del
nuovo
status
non
produsse
effetti
particolari
sui
soldati.
Essi
erano
obbligati
a
lavorare
da
Imi
e
avrebbero
continuato
a
farlo
da
«liberi».
Di
fatto
Mussolini
non
volle
o
non
potè
far
nulla
per
i
militari
internati,
che
rimasero
totalmente
alla
merce
dei
nazisti.
Infatti
chi
si
sarebbe
dovuto
interessare
dei
prigionieri
italiani?
Ufficialmente
il
compito
spettava
all'ambasciata
di
Mussolini
a
Berlino
presso
la
quale
fu
allestito
nel
febbraio
del
1944
un
Servizio
Assistenza
Internati
militari
italiani
e
civili
(Sai),
allo
scopo
di
soccorrere
i
connazionali
fatti
prigionieri
dall'alleato.
Ma,
i
responsabili
di
questo
Servizio
non
poterono
far
molto.
Essi
potevano
chiedere,
proporre,
insistere,
sollecitare,
ma
non
erano
assolutamente
in
grado
di
agire
efficacemente
o
prendere
qualcosa
sotto
la
propria
responsabilità.
Ad
esempio,
i
prigionieri
delle
altre
nazionalità
ricevevano
settimanalmente
qualche
pacco
dalla
Croce
Rossa
contenente
viveri
di
conforto,
sigarette
e
altro,
mentre
i
prigionieri
italiani
non
ricevevano
mai
nulla.
I
tedeschi
si
giustificavano
dicendo
che,
in
virtù
di
un
accordo
fatto
con
Mussolini,
i
prigionieri
italiani
dovevano
essere
considerati
lavoratori
volontari
e,
perciò,
non
aventi
diritto
a
godere
di
nessun
aiuto.
I
primi
soccorsi
arrivarono
con
grande
ritardo,
solo
nel
maggio
del
1944,
e
in
quantità
del
tutto
insufficiente.
Anche
il
generale
Badoglio
non
si
interessò
di
prestare
aiuto
agli
internati
italiani
con
la
scusa
che
non
poteva
intervenire
a
causa
del
fronte
di
guerra
che
lo
separava
da
ogni
possibile
contatto
coi
l'attuale
"nemica"
Germania.
Qualche
aiuto
venne
dalle
famiglie
in
patria.
La
vicenda
dei
pacchi
e
delle
corrispondenze
è,
davvero,
illuminante.
Mentre,
come
sottolineato,
i
prigionieri
di
altri
paesi
7
8. ricevevano
pacchi
con
una
certa
regolarità
dalla
Croce
rossa
o
dai
rispettivi
governi
,
gli
italiani
potevano
solo
sperare
nei
propri
cari,
e
per
chi
non
riceveva
nulla
(cibo,
vestiti,
notizie
da
casa)
il
senso
di
abbandono
diventava
insopportabile.
Prigionieri
di
guerra
Internati
militari
Internati
militari
italiani
(POW inglese, PDG francese Per la Convenzione di Ginevra Status illegale creato da
e italiano, KGF tedesco) sono militari di stati belligeranti Hitler e non previsto dalle
“dichiarata” o “non internati in stati neutrali (stati convenzioni perché detenuti
dichiarata”. Per la terzi non coinvolti nel conflitto) in uno stato belligerante
Convenzione di Ginevra con semilibertà di movimento (Terzo Reich), con uno stato
(1929) sono dei combattenti e di lavoro, retribuito come ai tutore non neutrale ma
nemici catturati e concentrati civili locali. Non presenti belligerante coinvolto (RSI),
in “campi” (“Lager” in ovviamente nel Terzo Reich, senza assistenza dalla Croce
tedesco) di transito, stato belligerante ma in Rossa Internazionale (CICR)
smistamento o detenzione, Svizzera e paradossalmente in ma dalla Croce Rossa
sotto tutela e ispezioni di uno Romania (regno alleato del fascista della RSI (con sede
stato tutore neutrale ed Terzo Reich e della RSI ma a Verona) con assistenza
assistenza umanitaria e con buoni rapporti diplomatici limitata a recapiti postali e
ispezioni della Croce Rossa col Regno d’Italia e al riguardo senza ispezione dei Lager.
Internazionale (CICR).
neutrale ! ).
Assistenza limitata e
propagandista politica del
SA-IMI (ambasciata RSI di
Berlino).
I
lager
e
i
continui
trasferimenti
«Il
lager»
era
organizzato
su
un'area
delimitata
da
una
recinzione
costituita
da
diverse
file
di
reticolati,
alternati
a
fosse
riempite
con
rotoli
di
filo
spinato
aggrovigliato.
In
alcuni
lager
il
reticolato
era
percorso
dalla
corrente
ad
alta
tensione.
Un
filo
spinato,
nel
lato
interno
del
perimetro,
preavvertiva
della
fucilazione
chiunque
l'avesse
toccato
o
sfiorato
accidentalmente.
Esso
costituiva
così
una
delle
preoccupazioni
maggiori
degli
internati,
e
al
tempo
stesso
era
anche
l'elemento
più
caratteristico
dell'architettura
del
campo,
poiché
separava
i
vari
settori,
le
viuzze
e
le
baracche.
La
vigilanza
era
garantita
da
un
sistema
di
torrette
ubicate
ai
lati
e
agli
angoli
del
campo,
e
dalle
quali
era
possibile
8
9. controllare
l`intera
area
interna
al
lager,
illuminandola
con
un
riflettore
di
notte;
sulle
torrette
prestavano
servizio
guardie
armate
di
fucili
e
mitragliatrici.
Nel
corso
del
periodo
di
detenzione
fu
abbastanza
frequente
lo
spostamento
da
un
campo
all'altro.
«Chi
non
l'ha
provato
difficilmente
può
immaginare
i
disagi,
le
sofferenze
e
le
umiliazioni
che
comportava
un
trasferimento
da
un
lager
all'altro».
Accanto
alle
difficoltà
in
cui
si
trovava
la
rete
ferroviaria
tedesca
per
i
bombardamenti,
sabotaggi,
intasamenti,
mancanza
di
materiale
rotabile,
c'era
la
volontà
della
scorta
di
rendere
più
dura
possibile
la
vita
degli
internati.
Mediamente
un
trasferimento
durava
una
settimana,
con
lunghissime
soste
sui
binari
morti.
I
viveri
della
già
scarsa
razione
erano
distribuiti,
per
tre
o
quattro
giorni
soltanto.
Vagoni
merci
ghiacciati.
Erano
stipati
con
40,
50
e
in
certi
casi
perfino
100
uomini
per
carro,
sprangato
all'esterno.
I
portelli
si
aprivano
una
sola
volta
al
giorno
e
per
appena
un
quarto
d'ora,
per
evacuare
a
comando.
L'acqua
era
distribuita
quando
faceva
comodo
alle
guardie.
Le
possibilità
di
riposare
erano
scarsissime,
anche
perché
mancava
lo
spazio
per
sdraiarsi.
Si
facevano
i
turni,
in
piedi
e
coricati.
Si
doveva
urinare
in
un
barattolo,
che
veniva
poi
passato
di
mano
in
mano
per
poterlo
vuotare
all'esterno,
da
un
pertugio
sbarrato
dal
filo
spinato.
E
piuttosto
spesso,
bombardamenti
e
mitragliamenti
aerei,
con
morti
e
feriti:
ma
i
tedeschi
non
aprivano,
rifiutavano
aiuti
e
il
viaggio
continuava.
Le
condizioni
di
vita
nei
campi
erano,
nella
maggior
parte
dei
casi,
disumane:
il
cibo
era
cattivo
e
scarsissimo,
le
baracche
in
legno
(e
raramente
in
muratura)
in
cui
dormivano
i
prigionieri
(sui
cosiddetti
«castelli»:
letti
di
due,
tre
o
più
piani
in
tavolaccio)
malsane
e
sovraffollate,
la
situazione
igienica
terribile,
dappertutto
c’erano
pidocchi,
cimici,
scarafaggi
e
topi;
l'abbigliamento
era
spesso
costituito
di
pochi
indumenti
laceri,
assolutamente
inadeguati
per
combattere
i
rigori
del
freddo
pungente
che
d’inverno,
in
certe
zone,
toccava
anche
i
30-‐40
gradi
sottozero;
le
malattie
erano
all'ordine
del
giorno,
moltissimi
internati
morirono
per
sfinimento,
denutrizione,
tubercolosi,
nella
totale
mancanza
di
assistenza
medica.
Nell'organizzazione
dei
lager
tedeschi
è
previsto
il
funzionamento
dell’infermeria
del
campo,
nella
quale
vengono
ricoverati
i
malati
più
gravi
provenienti
dai
campi
di
lavoro,
in
teoria
per
essere
curati,
in
realtà
per
lasciarli
morire
nei
lager
dove
sono
registrati.
In
tutti
i
lager
manca
l'assistenza
sanitaria
perché
quella
è
la
direttiva.
I
malati
gravi
vengono
abbandonati
a
loro
stessi
perché
irrecuperabili
per
il
lavoro.
All'assenza
di
assistenza
medica,
si
devono
poi
9
10. aggiungere
le
continue
minacce,
umiliazioni,
violenze
e
pressioni
psicologiche
da
parte
dei
nazisti:
il
lager
è
un
autentico
inferno.
La
sporcizia
come
arma
di
ricatto.
I
nazisti
volevano
i
pidocchi,
le
cimici,
le
pulci;
volevano
che
gli
indumenti
cadessero
in
brandelli,
che
maglie,
mutande,
calze
e
pezze
da
piedi
si
portassero
per
mesi,
stagioni
e
interi
semestri
senza
offrire
i
mezzi
per
lavarli
o
sostituirli.
Non
facevano
nulla
per
evitare
i
malanni
derivanti
dalla
sporcizia,
dissenteria
o
peggio
il
tifo.
L’interno
delle
baracche
era
lurido
per
l`impossibilità
di
tenerlo
pulito.
Se
poi
passiamo
al
capitolo
gabinetti...quando
andava
bene
consistevano
di
baracche
di
assi
sconnesse
che
circondavano
grandi
buche
malamente
ricoperte
con
tavolati
pericolanti.
Gli
escrementi
erano
dappertutto.
Si
effettuavano
due
appelli
giornalieri,
uno
nel
primo
mattino,
il
secondo
verso
sera.
Operazione
teoricamente
semplicissima:
si
trattava
di
fare
qualche
somma
contando
i
presenti
in
riga
e
quelli
che,
indisposti,
rimanevano
in
baracca.
Viceversa
era
raro
che
i
conti
tornassero
velocemente:
essi
venivano
fatti
e
rifatti
più
volte,
baracca
per
baracca,
poi
bisognava
fare
il
computo
totale.
Conclusione:
si
doveva
stare
all'aperto
a
lungo,
a
volte
un'ora
o
due,
con
qualunque
tempo,
alla
pioggia
o
sotto
la
neve,
d’inverno
con
parecchi
gradi
sotto
zero.
Gelando,
denutriti
e
mal
vestiti,
la
sofferenza
si
moltiplicava.
In
più,
non
di
rado,
i
tedeschi
esigevano
formalismi
assurdi,
in
quelle
condizioni:
posizione
di
attenti,
niente
coperte,
passamontagna
(chi
li
aveva)
rialzati.
Spessissimo
erano
urlacci
degli
addetti
alla
conta,
e
di
tanto
in
tanto
anche
botte,
schiaffi,
e
'carezze'
coi
calci
dei
fucili:
anche
in
faccia.
Le
spoliazioni
degli
averi
degli
internati
e
i
commerci
per
procurare
cibo,
sono
due
aspetti
di
un
unico
proposito:
quello
di
rapinare
tutto
ciò
che
era
possibile
a
gente
indifesa
e
in
momento
di
estremo
bisogno.
All’arrivo
degli
italiani
al
loro
primo
lager
i
tedeschi
dicevano
che
era
severamente
proibito
tenere
oggetti
come
radio,
bussole,
binocoli,
macchine
fotografiche,
pinze;
pertanto
li
sequestrarono,
con
modi
perfino
cortesi,
rilasciando
quasi
sempre
delle
ricevute
che
-‐
dicevano
-‐
sarebbero
servite
per
riavere
gli
oggetti
stessi
alla
fine
della
guerra.
Inoltre
attuavano
perquisizioni
durante
la
prigionia.
I
tedeschi
si
prendevano
tutto
quello
che
gli
internati
erano
riusciti
a
salvare
nella
prima
fase
e
andavano
alla
ricerca
di:
penne
stilografiche,
accendini,
temperini.
Senza
ricevute.
Durante
le
perquisizioni
"pesanti"
cercavano
valuta,
sterline,
oro,
quaderni,
appunti.
Misero
in
piedi
dei
veri
e
propri
commerci
all`interno
dei
lager,
effettuati
personalmente
da
militari
e
sottufficiali
tedeschi,
o
tramite
civili
che
bazzicavano
nei
lager.
Questo
tipo
di
furto
poteva
essere
estremamente
redditizio:
un
orologio
d'oro
di
marca,
scambiato
per
due
o
tre
pagnotte
di
pane
10
11. nero
di
segala,
una
fede
matrimoniale
per
un
paio
di
chili
di
fagioli,
una
catenina
d'oro
per
poche
patate.
Qualche
volta,
nel
corso
di
questi
commerci
clandestini,
ci
scappava
il
morto:
la
sentinella,
avuto
l'oggetto
attraverso
il
reticolato,
sparava.
Le
regole
internazionali
prescrivono
che
ai
prigionieri
di
guerra
sia
riservato
un
trattamento
alimentare
pari
a
quello
che
la
nazione
detentrice
offre
ai
propri
soldati
a
riposo.
Col
trucco
di
non
considerarli
prigionieri
i
nazifascisti
elusero
questa
regola.
La
novità
della
qualifica
di
internati
militari
italiani
offrì
loro
una
comoda
scappatoia
per
dosare
come
volevano
i
viveri.
E
il
dosaggio
fu
estremamente
parsimonioso...
erano
razioni
teoriche
che
venivano
decurtate
in
partenza,
assai
spesso,
per
trame
dei
quantitativi
con
i
quali
si
alimentava
il
mercato
nero.
Inoltre
bisogna
tenere
conto
della
qualità
dei
vari
alimenti:
ad
esempio,
era
frequente
il
caso
di
fornitura
di
patate
gelate,
immangiabili;
il
pane
conteneva
una
certa
percentuale
di
segatura
ed
era
sempre
umido;
la
minestra
(sbobba)
era
priva
di
grassi
e
di
sostanze
proteiche;
i
cosiddetti
generi
di
conforto
avevano
molto
saltuariamente,
specie
negli
ultimi
mesi
dell`internamento.
Comunque
la
razione
teorica
era
questa:
al
mattino,
un
infuso
caldo
di
erbe
varie
e
fiori
di
tiglio;
per
il
resto
della
giornata,
1
litro
di
sbobba
di
rape
da
foraggio,
tagliate
a
fettucce,
amare,
disgustose;
300
grammi
di
pane.
Agli
inizi
del
1944
calò
a
180
grammi
e
perfino
a
150;
200
grammi
di
patate;
25
grammi
di
margarina;
20
grammi
di
zucchero.
Quello
dell'alimentazione
fu
il
problema
principale
per
la
sopravvivenza
nei
campi.
I
medici
e
gli
economisti
nazisti,
avevano
programmato
una
razione
annonaria
base,
per
i
civili
tedeschi,
i
lavoratori
liberi
stranieri
e
i
prigionieri,
di
quasi
1736
kcal/giorno,
appena
sufficienti
per
una
vita
vegetativa,
contro
le
2300/3500
necessarie
per
un
lavoratore.
I
contadini
si
arrangiavano,
i
cittadini
integravano
la
tessera
con
la
borsa
nera
e
i
lavoratori
con
integrazioni
aziendali.
I
prigionieri
di
guerra
alleati
(POW
-‐
prisoners
of
war)
integravano
abbondantemente
la
razione
coi
pacchi
da
casa
e
della
Croce
Rossa.
I
prigionieri
senza
tutela
(come
gli
IMI,
i
deportati
civili,
gli
ebrei,
i
KGF
russi,
ecc.)
avevano
una
speranza
di
vita
programmata
dai
tedeschi
di
soli
nove
mesi,
ottimizzato
con
un
calcolo
”costi
/
benefici”,
fondato
su
una
dieta
base
teorica
di
1736
kcal/giorno
ed
un
ricambio
di
schiavi
dai
territori
orientali,
possibile
quando
le
armate
tedesche
avanzavano.
Con
una
dieta
effettiva
di
900/1500
kcal/giorno,
per
furti
delle
guardie
e
cucinieri,
scarti
di
cucina,
punizioni
e
intimidazioni,
veniva
a
crearsi
un
deficit
di
500/2000
kcal/giorno,
che
i
prigionieri
cercavano
di
colmare
con
rischiosi
11
12. espedienti
ed
attingendo
alle
proprie
risorse
corporee
dell’ordine
di
80.000
kcal
utilizzabili.
In
queste
condizioni,
pressione
sanguigna,
battiti
cardiaci
e
peso
si
abbassavano
fino
anche
a
dimezzarsi
e
si
dimagriva
anche
di
30/40
kg
(grasso,
muscoli…)
raggiungendo
un
peso
minimo,
mortale,
di
30/35
kg
(ossa,
acqua,
organi
vitali,
residuo
muscolare…),
in
stato
d’inedia,
depressione,
debolezza
estrema
e
malattie
conseguenti!
Gli
IMI
erano
trattati
come
i
prigionieri
russi
senza
tutele
e
quanti
sopravvissero
(il
92%),
lo
devono
agli
eventuali
pacchi
da
casa,
qualche
chilo
di
riso
e
gallette
(ma
non
a
tutti)
del
SA-‐IMI
(“Servizio
Assistenza
IMI”
dell’Ambasciata
di
Berlino
della
RSI)
e
soprattutto
a
furti
di
patate
e
rifiuti
di
cucina
(vietati),
svendite
a
borsa
nera
dei
pochi
effetti
personali
non
rapinati
nelle
perquisizioni
e
autodigerendo
le
proprie
riserve
energetiche
corporee!
Secondo
studi
storici
24
mila
dei
circa
50
mila
caduti
nei
lager,
morirono
di
fame
e
di
malattie
conseguenti.
La
dieta
quindi,
per
apporto
calorico,
era
al
di
sotto
del
livello
minimo
di
sopravvivenza.
Lo
ammette
anche
l'ambasciatore
a
Berlino
della
Rsi,
Filippo
Anfuso,
che
in
un
rapporto
sul
lager
di
Luckenwalde
scrive:
«Gli
internati
si
lagnano
del
nutrimento
assolutamente
insufficiente.
Effettivamente
si
riscontrano
numerosi
casi
di
edemi
da
fame
e
di
grave
deperimento
organico,
spesso
seguiti
da
morte».
La
situazione
era
particolarmente
tragica
per
gli
internati
utilizzati
come
lavoratori
coatti
nelle
fabbriche
(quelli
che
furono
impiegati
nelle
fattorie
se
la
cavarono
meglio).
E
spesso
sono
le
industrie
stesse
a
farlo
presente,
lamentando
che
il
precario
stato
di
salute
di
molti
lavoratori,
provocato
dalla
denutrizione,
condizionava
il
loro
rendimento.
«Una
dipendenza
della
Mannesmannrohren-‐
Werken
la
Heinrich-‐Bierwes-‐Hutte
di
Duisburg,
riferiva:
"Il
medico
aziendale
si
è
occupato
in
particolare
del
cattivo
stato
nutrizionale
degli
internati
militari
italiani,
i
quali
al
momento
del
loro
arrivo
in
fabbrica
erano
talmente
denutriti
che
un
certo
numero
di
loro
presentava
già
grossi
rigonfiamenti
(edemi
da
fame)
sulle
gambe".
Un
altro
impianto
siderurgico
della
Rurh,
la
Gutehoffnungshutte
di
Oberhausen,
che
nell'ottobre
del
1943
ricevette
1.227
Imi,
ci
offre
un
quadro
simile:
"La
percentuale
di
ammalati
era
straordinariamente
alta
fra
gli
internati
militari
italiani.”
12
13. La
causa
di
ciò
va
individuata
nel
fatto
che
gli
italiani
giunsero
a
Oberhausen
in
uno
stato
di
totale
debilitazione
e
denutrizione.
All’inizio
quasi
tutti
erano
in
condizioni
tali
da
non
poter
essere
impiegati
al
lavoro
e
soffrivano
dei
tipici
sintomi
della
denutrizione.
La
situazione
si
ripete
uguale
dappertutto.
Al
peggio,
però,
non
c'è
mai
fine.
l
tedeschi,
infatti
,
per
risolvere
il
problema
della
scarsa
produttività
degli
italiani,
invece
di
aumentare
la
quantità
delle
razioni
di
cibo,
inventarono
l’alimentazione
proporzionata
alla
produttività.
Questo
metodo,
applicato
a
partire
dall'ottobre
del
1942
ai
prigionieri
sovietici
impiegati
nelle
miniere
di
carbone,
venne
esteso
rapidamente
a
tutto
il
settore
industriale:
Esso
consisteva
nel
dividere
i
lavoratori
stranieri
in
tre
scaglioni:
il
primo
costituito
da
coloro
che
avevano
un
rendimento
pari
o
superiore
all`80%
di
quello
di
un
operaio
tedesco
di
pari
qualifica;
il
secondo
costituito
da
coloro
il
cui
rendimento
oscillava
tra
l'80%
e
il
60%;
e
il
terzo
costituito
da
coloro
il
cui
rendimento
era
inferiore
al
60%.
Questi
ultimi
subivano
una
decurtazione
della
razione
standard
e
ciò
che
veniva
tolto
a
loro
veniva
assegnato,
come
premio,
a
quelli
del
primo
scaglione.
Oltre
alla
riduzione
del
vitto
erano
inoltre
previste
anche
altre
punizioni,
come
lavoro
supplementare
e
l'assegnazione
a
incarichi
particolarmente
sporchi.
Il
lavoro
da
schiavi
Nei
Lager
nazisti,
la
speranza
di
vita
di
uno
schiavo,
non
considerando
l’eventualità
di
morte
violenta
(criminale
o
per
fatti
di
guerra)
erano
ridotte
a
pochi
mesi,
con
75
ore
settimanali
di
lavoro
duro
in
fabbrica
o
in
miniera,
ma
di
fatto
100
coi
servizi
al
campo
e
le
marce
al
luogo
di
lavoro,
sempre
con
la
fame,
la
debilitazione
e
le
malattie
conseguenti.
Come
già
evidenziato,
una
volta
giunti
nei
lager
i
soldati
e
i
sottufficiali
vennero
rapidamente
avviati
al
lavoro,
mentre
gli
ufficiali
furono
chiusi
in
campi
a
parte
e
momentaneamente
esclusi
dall'obbligo
di
lavorare
(ma
subirono
incessanti
pressioni
fisiche
e
psicologiche
per
convincerli
a
offrirsi
volontariamente).
Il
tutto
avvenne
con
le
regole
di
un
vero
e
proprio
mercato
degli
schiavi.
Un
mercato
di
carne
umana:
giovani
da
sfruttare
fino
alla
consunzione.
È
significativo
ciò
che
scrive,
già
nel
1942,
in
una
circolare
l'Obergruppenfuhrer
Oswald
Pohl:
«L'impiego
della
manodopera
deve
essere
completo,
nel
vero
senso
della
parola,
al
fine
di
ottenere
il
massimo
rendimento...
Il
tempo
di
lavoro
non
ha
alcun
limite.
La
13
14. sua
durata
dipende
dalla
struttura
del
lager...
Tutte
le
circostanze
che
possono
abbreviare
il
tempo
di
lavoro
devono
essere
ridotte
al
massimo.
Spostamenti
e
pause
di
mezzogiorno
soltanto
per
mangiare,
che
portano
via
tempo
destinato
al
lavoro,
sono
vietati...
Il
direttore
di
fabbrica
è
corresponsabile
per
i
danni
aziendali
o
economici
e
gli
insuccessi...
Deve
essere
ampliato
l`impiego
di
guardie
a
cavallo,
cani
da
guardia,
torri
di
controllo
mobili
e
ostacoli
mobili».
Secondo
un'analisi
riferita
al
febbraio
1944,
gli
Imi
furono
utilizzati
in
diversi
settori
produttivi,
con
una
netta
prevalenza
dell`industria
pesante.
I
dati
parlano
chiaro:
il
56%
fu
impiegato
in
imprese
minerarie,
metalmeccaniche
e
chimiche;
il
12%
in
edilizia;
il
10,8%
nei
settori
energia,
trasporti
e
comunicazioni;
il
10,6%
in
altri
comparti
industriali,
compreso
quello
alimentare;
mentre
solo
il
6%
in
attività
agricole
o
similari.
In
circostanze
particolari,
ma
non
infrequenti,
gli
Imi
vennero
anche
utilizzati
per
rimuovere
le
macerie
delle
città
bombardate,
e
qualcuno
ci
lasciò
la
vita.
Il
lavoro,
nella
maggior
parte
dei
casi,
era
durissimo:
in
cambio
di
ore
e
ore
di
fatica,
sotto
la
ferrea
sorveglianza
dei
nazisti,
gli
internati
ricevano
un
misero
vitto
e
(non
sempre)
una
paga
in
lager-‐mark,
una
moneta
che
circolava
solo
nei
campi,
ma
non
aveva
alcun
valore
legale
all'esterno.
Sulle
condizioni
di
lavoro
è
significativo
l'orario:
è
tremendo,
turni
di
12
ore
con
una
sola
mezz'ora
d`interruzione
per
cibarsi
con
una
zuppa
di
rape.
Un
esempio:
la
sveglia
al
campo
1011,
dove
si
costruiscono
camion
armati
e
componenti
degli
aerei,
viene
data
alle
2-‐2.30
di
notte.
Fino
alle
5.30
si
svolge
l'appello
all'aperto,
poi
la
colonna
di
forzati
si
mette
in
marcia,
scortata
dagli
addetti
alla
sicurezza
della
ditta.
Chi
non
è
perfettamente
allineato
o
non
mantiene
il
passo,
per
qualunque
motivo,
viene
segnalato
al
comandante
del
campo,
un
maresciallo
tedesco,
il
quale
gli
nega
la
razione
giornaliera
di
pane
e
in
più
lo
fa
bastonare.
Il
ritorno
avviene
alle
18;
prima
di
andare
a
dormire,
si
beve
un
litro
di
rancio
caldo
di
rape
e
si
mangia
un
pezzo
di
pane,
un
filone
di
pane
di
circa
200
grammi
viene
suddiviso
tra
sette
prigionieri
con
un
bilancino,
con
pochi
grammi
di
margarina,
salame
o
marmellata.
Le
fabbriche,
le
aziende,
le
fattorie
e
gli
uffici
che
comprano
gli
schiavi
sono
autorizzati
ad
allestire
alloggiamenti
o
piccoli
lager
nelle
vicinanze
dei
posti
di
lavoro.
Nascono
in
tal
modo
migliaia
di
centri.
I
lavoratori
coatti
fanno
parte
di
quelli
che
la
burocrazia
definisce
Arbeitskommandos,
gruppi
di
lavoro.
Restano
isolati
dagli
altri,
sorvegliati
giorno
e
notte,
e
vengono
sfruttati
fino
al
midollo.
Molti
muoiono
per
l'esaurimento
conseguente
alla
fame
che
riduce
la
loro
resistenza
al
lavoro
forzato,
altri
si
14
15. ribellano
e
vengono
subito
fucilati.
In
questo
scenario
mobile,
i
nazisti
hanno
anche
modo
di
lamentarsi.
Gli
italiani
vengono
dipinti
come
lazzaroni,
pigri,
gente
che
non
ha
voglia
di
lavorare,
che
trova
ogni
scusa
per
darsi
ammalata.
Alcune
testimonianze
al
riguardo
(ma
ve
ne
sono
molte
altre,
dello
stesso
tenore):
«Alla
miniera
David,
su
quarantadue
lavoratori
dichiaratisi
malati
e
visitati
dal
medico,
soltanto
cinque
lo
erano
veramente».
Il
medico
di
Cels
dichiara
che
la
maggior
parte
di
coloro
che
si
danno
malati
vuole
solamente
allontanarsi
dal
posto
di
lavoro.
A
Lausitz
un
lavoratore
tedesco
si
è
visto
assegnare
sette
italiani
per
lavori
stradali.
«Il
tedesco
lavorava
nonostante
il
freddo
mattutino
e
il
sudore
della
fatica,
mentre
gli
italiani,
con
il
colletto
rialzato,
le
mani
nelle
tasche
dei
pantaloni
o
del
cappotto,
saltellavano
su
un
piede
e
sull'altro,
infreddoliti,
intorno
all'uomo
che
lavorava».
Questo
pregiudizio
e
fanatismo
anti-‐italiano
è
alimentato
ad
arte
dalla
propaganda
nazista.
Gli
Imi,
quando
attraversano
un
villaggio
per
recarsi
al
lavoro
scortati
dalle
guardie,
vengono
spesso
insultati
dalla
popolazione
civile,
dileggiati
con
sputi
e
lanci
di
pietre,
minacciati.
Peri
tedeschi
gli
italiani
sono
«traditori»,
«badogliani»,
«vigliacchi»,
«maiali»,
«vermi»
e
altre
amenità
del
genere.
Il
disprezzo
è
profondo
e
condiviso.
Le
vittime
La
vita
nei
lager
era
durissima.
La
fame,
il
freddo,
la
pesantezza
del
lavoro,
le
violenze
dei
tedeschi,
la
mancanza
di
assistenza
medica
provocarono
tra
gli
internati
migliaia
di
morti.
In
mancanza
di
informazioni
certe
si
stima
che
la
deportazione
costò
la
vita
a
circa
50
mila
persone:
circa
20
mila
morti
nei
lager
-‐
in
base
alle
informazioni
tedesche
-‐
una
cifra
che
dovrebbe
essere
certamente
incompleta;
circa
5.400
internati
morti
o
dispersi
nella
zona
di
operazioni
dell'esercito
sul
fronte
orientale;
circa
13.300
che
persero
la
vita
nell'affondamento
delle
navi
da
trasporto;
fino
a
6.300
trucidati.
Senza
tener
conto
dei
caduti
in
combattimento
si
tratterrebbe
già
di
45
mila
morti.
Particolarmente
significativo
è
il
caso
di
Dora,
la
«fabbrica
più
crudele
d'Europa››,
un'immensa
officina
scavata
nel
cuore
della
montagna,
dove
si
producevano
le
15
16. temibili
V2,
i
missili
a
cui
Hitler
aveva
affidato
le
ultime
speranze
di
vincere
la
guerra.
In
queste
officine
i
turni
erano
di
12
ore,
giorno
e
notte,
e
dalle
gallerie
non
si
usciva
mai.
Morivano
in
media
200
prigionieri
al
giorno.
Racconta
un
sopravvissuto:
“Ogni
mattina
assistiamo
alla
raccolta
dei
morti
e
al
loro
trasferimento.
Vengono
caricati
confusamente
su
camole
o
vagoncini,
con
la
testa
penzoloni
e
le
membra
consunte
da
cui
sporgono
spaventosamente
i
muscoli
irrigiditi
per
i
crampi
o
per
la
paura
di
una
morte
infame,
senza
conforto
e
assistenza.
Talvolta
dal
mucchio
spunta
una
testa
con
le
ossa
sporgenti
e
gli
occhi
che
escono
dalle
orbite.
Uno
spettacolo
che
diventa
per
noi
una
visione
crudele
e
indimenticabile,
perché
si
ripete
ogni
giorno.
Molti
prigionieri
vengono
assassinati
per
punizione:
un
nonnulla
e
si
finisce
sulla
forca.”
Le
cifre
della
mattanza
sono
impressionanti:
dal
28
agosto
1943
all'aprile
1945,
sui
60
mila
prigionieri
di
circa
venti
nazioni
che
hanno
popolato
l`intero
complesso
di
Dora,
i
morti
furono
oltre
20
mila.
La
situazione
nei
lager
si
fece
particolarmente
grave
verso
la
fine
della
guerra,
quando
da
Berlino
partì
I'ordine
di
cancellare
le
tracce
della
loro
esistenza,
distruggendo
i
documenti,
le
strutture
e
facendo
scomparire
i
prigionieri.
La
decisione
di
Hitler
colpì
anche
gli
Imi,
molti
dei
quali
persero
la
vita
in
esecuzioni
di
massa.
Come
a
Hildesheim,
popolosa
città
della
Bassa
Sassonia,
dove
le
vittime
furono
oltre
200.
«I
prigionieri»
vennero
radunati
in
una
baracca,
i
nazisti
li
interrogarono
e
li
malmenarono,
dopo
di
che
scegliettero
i
condannati
all’impiccagione,
che
a
gruppi
di
tre
o
quattro,
vennero
fatti
salire
su
un
tavolo.
I
carnefici
posero
loro
il
cappio
intorno
al
collo,
e
altri
rovesciarono
quel
tavolo
su
cui
le
vittime
stavano
ritte,
le
mani
legate
dietro
la
schiena,
molte
con
un
pezzo
di
legno
in
bocca
per
non
gridare.
Appena
terminato
con
quel
gruppo
ne
avanzava
un
altro,
mentre
altri
prigionieri,
nell'attesa
di
morire,
prelevavano
i
cadaveri,
li
spogliano
e
li
gettano
in
una
fossa
in
cui
si
trovano
già
altre
vittime
della
Gestapo
o
delle
ss.
Il
massacro
durò
tutta
la
notte,
alcuni
vennero
uccisi
anche
con
un
colpo
di
pistola
alla
nuca.
16
17. La
liberazione
La
liberazione
dei
lager
avvenne
in
tempi
diversi,
con
l'avanzare
dei
fronti,
già
nel
1944
in
Ucraina
e
Prussia,
per
lo
più
tra
il
gennaio
e
i
primi
di
maggio
del
1945
in
Polonia
e
Germania
e
prima
ancora
nei
Balcani.
I
prigionieri
vennero
liberati
dai
soldati
alleati
(o
si
liberarono
da
soli,
fuggendo
dai
nazisti
man
mano
che
avanzava
il
fronte
di
guerra).
La
liberazione
fu
un
momento
di
grande
gioia.
Per
gli
Imi
significava
la
fine
delle
sofferenze
e
il
ritorno
a
casa.
Ma
il
rimpatrio
non
fu
immediato.
La
gran
parte
di
essi,
prima
di
potere
rivedere
l'Italia,
dovette
attendere
il
proprio
turno,
anche
a
lungo.
Con
le
fatiche
e
i
dolori
di
venti
mesi
di
prigionia
sulle
spalle
moltissimi
non
riuscirono
a
rientrare
prima
di
settembre,
ottobre
e
anche
oltre.
Sulla
vicenda
pesarono
il
caos
seguito
alla
guerra,
i
problemi
di
organizzazione
e
il
colpevole
disinteresse
mostrato
dal
governo
italiano.
Gli
Imi
furono,
sostanzialmente,
abbandonati
a
se
stessi.
La
dispersione
degli
Imi
liberati
ritardò
il
loro
raduno
in
centri
di
rimpatrio
organizzato.
Parecchi
tentarono
di
raggiungere
l'Italia
per
proprio
conto.
A
complicare
le
cose,
oltre
al
gran
numero,
era
anche
il
particolare
stato
giuridico
degli
Imi,
ignorati
dalla
Croce
rossa,
classificati
dagli
inglesi
come
"displaced
persons"
(Dp,
profughi,
apolidi)
e
dagli
americani
come
"prisoners
of
war"
(Pow),
prigionieri
di
guerra.
Nell'estate
del
1945
le
vie
e
i
mezzi
di
comunicazione
erano
ingolfati
da
milioni
di
soldati
vittoriosi
e
sconfitti,
ex
prigionieri
e
profughi
tedeschi
e
di
tutte
le
nazioni,
che
si
incrociavano
da
tutte
le
direzioni
cardinali,
con
ponti
di
fortuna,
ferrovie
malridotte,
ingorghi
stradali,
carenze
di
mezzi
di
trasporto.
L'Italia,
combinata
com'era
all`indomani
del
25
aprile,
non
poteva
fare
molto,
e
fece
ancora
meno,
per
recuperare
quel
'milione'
(come
lo
valutavano
allora)
di
ex
internati…
Il
rimpatrio
si
svolse
soprattutto
nell'estate
e
nell'autunno
1945,
da
Germania,
Francia,
Balcani
e
Russia.
Quello
dalla
Germania
fu
particolarmente
caotico
e
presentò
ritardi
per
ingolfamenti
e
scarse
sollecitazioni
delle
nostre
autorità.
Nessun
rappresentante
ufficiale
del
nostro
governo
si
presentò
nei
nostri
lager
liberati.
Dunque,
nessun
palese
interesse
dell'Italia,
e
i
"liberatori"
alleati
si
meravigliavano
di
non
vedere
commissioni
italiane
tra
le
molte
straniere
in
visita
ai
campi
liberati.
Il
rimpatrio,
nella
maggior
parte
dei
casi,
fu
gestito
dagli
angloamericani
e
avvenne
su
camion
o
via
treno,
lungo
percorsi
spesso
tortuosi
e
accidentati.
Varcato
il
confine,
gli
Imi
provenienti
dalle
regioni
del
Reich
venivano
solitamente
dirottati
verso
Pescantina,
nel
veronese,
dove
era
stato
istituito
un
centro
di
smistamento
e
accoglienza,
e
dove
si
organizzavano
i
trasporti
verso
le
17
18. destinazioni
interne
al
paese.
Nella
sostanza,
nel
caos
dell'Italia
del
primo
dopoguerra,
la
tragica
vicenda
degli
Imi
fu
presto
dimenticata.
Di
loro
non
si
occupò
e
non
parlò
nessuno,
istituzioni
comprese,
come
se
non
fossero
neppure
esistiti.
Sugli
altari
finirono
i
partigiani,
i
protagonisti
della
Resistenza
in
armi,
ma
la
resistenza
attiva
degli
ex
internati,
che
pagarono
il
loro
«no»
al
fascismo
con
venti
mesi
di
durissima
prigionia,
non
venne
riconosciuta.
All`indifferenza
che
li
aveva
accolti
in
patria
gli
Imi
stessi
risposero
con
il
silenzio,
facendo
scattare
un
vero
e
proprio
meccanismo
di
rimozione
della
realtà,
come
se
quello
che
era
successo,
fosse
capitato
a
qualcun
altro.
Dal
loro
esilio
volontario
e
da
una
resistenza
attiva,
anche
se
disarmata,
dispersi
al
loro
arrivo
in
Italia
e
politicamente
non
organizzati
essi
furono
accolti
nel
1945
con
indifferenza
e
diffidenza,
se
non
con
ostilità,
da
un
popolo
che
non
voleva
più
sentir
parlare
di
guerra
e
stava
in
bilico
tra
il
post-‐fascismo
della
Resistenza,
prerogativa
dei
partigiani
e
del
Corpo
di
liberazione,
l'anticomunismo
strumentalizzato
dalla
"Guerra
fredda"
e
l'agnosticismo
comodo
di
chi
sta
alla
finestra.
“Gli
IMI,
reduci
dai
Lager,
non
si
sentivano
eroi
perché
erano
tanti
(anche
se
individuali)
e
gli
eroi
per
definizione
non
possono
che
essere
pochi,
ma
erano
fieri
di
aver
compiuto
fino
ai
limiti
umani
il
proprio
dovere
patriottico
e
umano,
leali
all’Esercito,
allo
Stato
legalitario
e
alla
propria
coscienza.
Ma
a
guerra
finita,
il
rimpatrio
di
questa
marea
apolitica
e
traumatizzata
di
reduci
fu
accolto
con
gioia
da
milioni
di
mamme,
spose,
fidanzate,
parenti
e
amici
e
con
imbarazzo
generale
dagli
italiani:
con
diffidenza
dai
politici
(fascisti
e
antifascisti,
monarchici
e
repubblicani,
resistenti,
dissidenti
e
attendisti,
socialcomunisti
e
laico/cristiani)
e
con
diffidenza
e
apprensione
dalle
autorità,
tanto
più
che
gli
IMI,
per
venti
mesi,
erano
stati
camuffati
dalla
propaganda
repubblichina
come
”collaboratori”
e,
dall’agosto
1944,
come
“lavoratori
liberi”
volontari!”
Com’erano
visti
dunque
gli
IMI?
Per
i
tedeschi
e
gl’italiani,
nei
lager
e
dopo
i
lager,
gli
IMI
erano
un
rebus
di
difficile
soluzione:
di
fronte
ai
tedeschi
si
dichiaravano
“soldati
leali
di
Sua
Maestà
il
Re
d’Italia”
e
ripudiavano
coraggiosamente
la
loro
gioventù
fascista,
ma
in
cuor
loro,
soprattutto
i
più
giovani,
dopo
l’abbandono
sabaudo/badogliano
dell’“8
settembre”,
covavano
risentimenti
verso
la
monarchia
e
segrete
simpatie
repubblicane!
Il
ritorno
degli
IMI
si
svolse
quindi
nella
generale
incomprensione,
diffidenza
e
disinteresse
degli
italiani,
freschi
di
venti
mesi
di
propaganda
repubblichina
che
camuffava
gli
IMI
da
collaboratori!
18
19. “Ma
chi
sono
mai?
–
si
chiedeva
il
governo
–
fascisti…
comunisti…
gli
avranno
lavato
il
cervello…
forse
saranno
da
rieducare…
e
magari
sono
anche
repubblicani…
e
come
voteranno?”
–
in
una
monarchia
traballante
che
li
aveva
inguaiati
l’
8
settembre”!
–
“E
che
cosa
mai
rivendicheranno?
Ma,
insomma…
chi
gliel’ha
fatto
fare
di
non
firmare…
di
non
voler
lavorare…
almeno
mangiavano!”.
Così
il
governo
non
sollecitò
il
rimpatrio
dei
suoi
prigionieri
(o
addirittura
lo
ritardò,
come
per
quelli
dalla
Romania,
sospettati
comunisti!),
con
sorpresa
degli
Alleati
assillati
dagli
altri
paesi
per
il
rimpatrio
dei
propri
concittadini.
Il
rimpatrio
degli
IMI
si
svolse
un
po’
alla
spicciolata,
per
i
meno
distanti
dalla
frontiera
e,
per
gli
altri,
grazie
alla
Pontificia
Commissione
di
Assistenza.
Poi
gli
IMI
erano
troppi,
concorrenti
privilegiati
nel
mercato
del
lavoro
in
un’Italia
collassata,
piena
di
disoccupati
e
si
sommavano
agli
altrettanti
ex
prigionieri
degli
Alleati:
erano
apolitici
e
non
interessavano
i
politici,
per
i
media
non
facevano
notizia
come
i
partigiani,
l’olocausto
e
l’ARMIR,
la
scuola
li
ignorava
perché
nessuno
gliene
parlava
e
l’insegnamento
della
storia
si
fermava
alla
Grande
Guerra,
evitando
il
“ventennio”
imbarazzante
e
infine,
la
gente,
dopo
anni
di
guerra,
non
voleva
confronti
e
rievocare
tristezze!
Ma
allora
gli
italiani
non
avevano
capito
nulla
del
perché
e
del
duro
prezzo
dell’
“altra
resistenza”!
E
se
quella
marea
di
700.000
“NO!”
fosse
stata
invece
di
700.000
“SI”
dando,
fin
dall’
“8
settembre,
il
sostegno
politico
e
militare
a
Hitler
e
a
Mussolini,
quanti
sarebbero
stati
i
partigiani,
con
quali
armi,
addestrati
da
chi
e
con
quali
prospettive?
Gli
Alleati
avrebbero
vinto
lo
stesso
la
guerra,
ma
che
storia
si
sarebbe
scritta
con
un’avanzata
alleata
rallentata,
dando
per
esempio
fiato
ai
tedeschi
nella
corsa
alle
armi
missilistiche
e
atomiche?
I
pregiudizi
degli
italiani
offesero
e
avvilirono
gli
IMI
che
finirono,
già
traumatizzati
dai
Lager,
a
ghettizzarsi
tra
loro,
apolitici
ma
antifascisti,
a
rimuovere
la
memoria
del
Lager
e
della
loro
scelta,
buona
o
meno
buona
e
forse
inutile
ed
a
chiudersi
in
sé
stessi,
anche
in
famiglia!
Così
la
storia
degli
IMI
fu
psicologicamente,
politicamente
e
colpevolmente
affossata
da
tutti!
Delusi,
gli
ex
internati
ammutolirono,
chi
per
decenni
e
chi
per
sempre,
rimossero
il
"trauma
del
reticolato"
convinti
quasi
dell`inutilità
del
sacrificio
loro
e
dei
caduti.
Del
resto
i
nazisti
l'avevano
previsto
:
"Se
mai
uno
di
voi
sopravviverà,
qualunque
cosa
dirà
,
non
gli
crederanno".
E
non
parlando
gli
internati,
gli
'altri'
li
ignorarono:
la
stampa,
l'opinione
pubblica,
la
scuola,
la
generazione
dei
figli.
Le
ragioni
che
precipitarono
questa
vicenda
nell'oblio
furono
molteplici.
Nella
19
20. politica
i
diversi
schieramenti
in
campo
esaltarono
(giustamente,
ma
anche
appropriandosene
per
il
proprio
interesse)
i
meriti
della
lotta
partigiana,
quella
con
le
armi,
e
il
molo
decisivo
dei
liberatori
americani.
Degli
Imi,
questo
magma
così
composito
di
vite
sperse,
nessuno
sapeva
bene
cosa
farne,
dove
collocarli
politicamente.
Non
solo,
gli
internati
militari,
nonostante
il
sacrificio
personale
e
il
fatto
che
fossero,
nella
stragrande
maggioranza,
dei
«ragazzotti»
trascinati
loro
malgrado
in
una
guerra
che
non
avrebbero
voluto
combattere,
rappresentavano
il
passato,
l'ombra
lunga
del
regime
che
si
stendeva
sulla
nuova
Italia.
Gli
Imi
erano
infatti
i
resti
dell'esercito,
prima
protagonista
e
poi
vittima
della
guerra
fascista.
Metterli
al
centro
della
scena
avrebbe
implicato
una
piena
assunzione,
nell`identità
nazionale,
del
peso
della
guerra
fascista
e
della
quasi
totale
acquiescenza
con
la
quale
era
stata
portata
avanti,
senza
entusiasmo,
ma
nemmeno
senza
apprezzabili
forme
di
dissociazione,
fino
al
disastro
finale,
ai
bombardamenti,
alla
fame,
all'8
settembre.
Sono
queste,
probabilmente,
le
ragioni
di
fondo
per
cui
per
decenni
gli
internati
militari
hanno
fruito,
tutt'al
più,
dello
status
di
“assenti
giustificati"
o
di
protagonisti
di
una
“resistenza
passiva".
L'enorme
massa
dei
reduci
è
prima
di
tutto
una
massa
di
ex
combattenti
e,
soprattutto,
nel
biennio
1943-‐45,
di
non
combattenti.
Nella
guerra
cui
l'antifascismo
militante
ha
affidato
la
rinascita
morale
e
politica
della
nazione
-‐
guerra
anche
civile,
di
valori
di
civiltà,
armata
e
sanguinosa
-‐
i
militari
internati
non
ci
sono.
L'oblio
è
durato
a
lungo,
gli
studiosi
hanno
cominciato
ad
occuparsi
degli
Imi
solo
dalla
metà
degli
anni
Ottanta:
tardi,
ma
forse
ancora
in
tempo
per
far
conoscere
questa
pagina
di
storia
e
rendere
il
giusto
omaggio
ai
«600
mila»
che,
con
il
loro
sacrificio,
contribuirono
a
portare
la
libertà
e
la
democrazia
nel
nostro
paese.
Fu
un
vero
atto
di
resistenza.
Il
segretario
del
partito
comunista
Alessandro
Natta,
ex
internato,
parlò
di
“altra
resistenza”
ma
il
suo
libro
fu
rifiutato
nel
1954
e
pubblicato
solo
quarantadue
anni
dopo
da
Einaudi,
che
contribuì
al
riscatto
dell’Italia
e
degli
italiani
verso
la
democrazia
e
la
libertà.
L’esperienza
dei
lager
riguardò
(e
segnò)
anche
alcuni
tra
i
più
importanti
esponenti
della
cultura,
dell’arte,
della
politica
e
delle
professioni
del
dopoguerra,
di
cui
nel
libro
sono
contenuti
diversi
scritti
inediti
dell’epoca
(come
l’attore
Gianrico
Tedeschi,
i
senatori
Paolo
Desana
e
Carmelo
Santalco,
lo
storico
Vittorio
Emanuele
Giuntella,
il
manager
d’industria
Silvio
Golzio,
l’intellettuale
cattolico
Giuseppe
Lazzati,
il
pittore
Antonio
Martinetti,
il
caricaturista
Giuseppe
Novello,
20
21. il
filosofo
Enzo
Paci,
il
musicista
Mario
Pozzi,
gli
scrittori
Roberto
Rebora,
Mario
Rigoni
Stern
e
Giovannino
Guareschi)
La
rimozione
degli
IMI
e
la
memoria
storica
Come
si
è
detto,
il
90%
degli
IMI
rimosse
dal
1946,
anche
in
famiglia
e
con
gli
amici,
la
memoria
traumatica
dei
Lager,
per
di
più
complessata
dal
dubbio
di
una
scelta
continua,
a
conti
fatti
forse
inutile
o
sbagliata!
Alcune
migliaia
di
diari
clandestini,
annotati
nei
Lager,
per
lo
più
da
ufficiali
e
a
futura
memoria
di
una
storia
altrimenti
incredibile
e
rischiosamente
salvati
in
Italia,
finirono
al
macero
o
sbiadirono
nei
cassetti
dei
ricordi,
rifiutati
dall’editoria
commerciale.
Se
si
prescinde
dai
bestseller
autobiografici
di
Giovannino
Guareschi
e
di
Primo
Levi
e
di
quelli
antologici
di
Giulio
Bedeschi,
offerti
in
libreria
ad
un
vasto
pubblico,
nel
dopo
guerra
sono
stati
pubblicati,
per
lo
più
tardi,
in
proprio
e
fuori
commercio,
non
più
di
500
memoriali
e
antologie,
con
tirature
modeste
(300-‐2000
copie
per
titolo).
Con
poco
più
di
300
saggi
storici,
si
raggiunge
una
tiratura
complessiva,
di
pubblicazioni
sugli
IMI,
inferiore
al
numero
dei
reduci:
meno
d’un
libro
a
testa
e
non
è
detto
poi
lo
leggessero!
“Negli
ultimi
vent’anni,
per
il
tempo
libero
dei
protagonisti
ormai
pensionati,
la
riscoperta
dei
Lager,
dagli
anni
’80,
dagli
storici
italiani
e
tedeschi
e
dai
media,
il
battage
popolare
del
“caso
Leopoli”
(1988),
le
celebrazioni
pluri
decennali
e
le
testimonianze
degli
ultimi
superstiti
nelle
scuole
e
nelle
“giornate
della
memoria”,
sono
riaffiorati
o
rielaborati
dai
dimenticatoi
svariati
memoriali,
ma
sempre
di
difficile
pubblicazione
per
la
mancanza
di
lettori
interessati.
Purtroppo
gli
archivi
istituzionali,
trascurati
a
memoria
fresca,
sono
ancora
oggi,
colpevolmente
e
irrimediabilmente
poveri
e
lacunosi.
Questa
è
la
storia
ignorata
degli
IMI,
schiavi
di
Hitler”,
“traditi,
disprezzati,
dimenticati…”
come
li
definì
lo
storico
tedesco
Gerhard
Schreiber
e
vittime
di
una
beffa
(annunciata)
della
repubblica
Federale
Tedesca!
Questa,
infatti,
dopo
avere
illuso
gli
IMI,
invitandoli
a
presentare
domanda
di
indennizzo
come
“schiavi
di
Hitler”
e
che
nessun
risarcimento
potrà
mai
saldare,
poi
li
discrimina
pretestuosamente,
riclassificandoli
“prigionieri
di
guerra”,
obbligati
dalle
Convenzioni
a
lavorare,
sorvolando
sul
fatto
che,
a
differenza
degli
altri
prigionieri,
gli
IMI,
in
quanto
“internati”
non
godevano
di
tutela
e
assistenza
internazionale,
21
22. dissociando
lo
stato
tedesco
dalle
violazioni
dei
diritti
umani
di
Hitler,
giudicato
criminale
di
guerra.
Gli
IMI
sono
pure
ignorati
se
non
osteggiati
dallo
stato
italiano,
salvo
tardivi
attestati
di
benemerenza,
rare
formali
rievocazioni
ed
inevase
proposte
di
cavalierati
ed
oboli
una
tantum
agli
ormai
meno
di
90.000
reduci
ultra
ottantenni
ancora
(per
poco)
viventi!
Ma
i
pochi
IMI,
schiavi
di
Hitler
superstiti
dai
KZ,
vengono
sistematicamente
esclusi
dai
relativi
benefici
di
legge
italiani
e
non
difesi
dalla
Germania
che
li
beffa.
Infine,
i
contributi
alle
associazioni
combattentistiche,
forse
perché
antifasciste,
sono
stati
vistosamente
tagliati,
accelerandone
la
chiusura.
Gli
IMI,
col
loro
NO
individuale
e
corale,
fin
dall’8
settembre,
scagliarono
contro
gli
invasori
tedeschi
il
primo
sasso
della
Resistenza,
presto
seguito
da
quella
armata
dalla
Corsica
a
Roma,
a
Cefalonia
e
nelle
altre
isole
greche
e
nei
Balcani
ed
infine
a
quella
partigiana.
L’8
settembre
non
c’erano
ancora
in
piazza
Mussolini,
la
repubblica
di
Salò
e
i
neofascisti:
la
Resistenza
si
svolse
come
lotta
di
liberazione
e,
solo
in
un
secondo
tempo
e
marginalmente,
anche
come
guerra
civile
coi
repubblichini,
vassalli
fiancheggiatori
dei
tedeschi!”
22