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Indice
Introduzione

pag. 2

Capitolo 1 – I rapporti economici internazionali

pag. 5

1.1 Le teorie di base dello scambio internazionale

pag. 5

1.2 Una rassegna delle principali teorie sugli investimenti
diretti esteri

pag. 10

1.3 Le nuove teorie del commercio internazionale

pag. 22

1.4 Globalizzazione dell’economia e le imprese multinazionali

pag. 31

1.5 Analisi dei rischi nel commercio internazionale

pag. 47

Capitolo 2 - Le imprese agroalimentari italiane e lo
scenario internazionale

pag. 54

2.1 Ide e commercio internazionale nel settore agricolo

pag. 54

2.2 Internazionalizzazione del sistema agroalimentare italiano

pag. 66

2.3 La Politica Agricola Comunitaria e i suoi pilastri

pag. 81

2.4 Politiche fiscali di incentivazione

pag.112

Capitolo 3 - La struttura del sistema agroalimentare siciliano

pag. 116

3.1 Il comparto ortofrutticolo nel sistema agroalimentare della
regione

pag. 116

3.2 Le politiche a favore delle imprese siciliane

pag. 128

3.3 Analisi di un caso: Società Agricola Monterosso

pag. 140

Conclusioni

pag. 158

Bibliografia

pag. 161

Sitografia

pag.164

1
Introduzione
La nuova sfida a cui sono chiamate oggi le imprese è quella di essere
competitive in un contesto sempre più internazionalizzato dove si rileva
una maggiore pressione concorrenziale di carattere sovranazionale e
dove è possibile accedere a nuovi mercati, trovando nuove opportunità di
sviluppo.
Per spiegare il concetto di internazionalizzazione è importante
sottolineare come a lungo alcuni studiosi hanno utilizzato questo termine
in un’accezione riduttiva, riferendosi implicitamente o esplicitamente
all’aspetto puramente commerciale, quindi alla tendenza delle imprese a
vendere i propri prodotti all’estero.
Il fenomeno dell’internazionalizzazione presenta anche altri aspetti, oltre
quelli più strettamente legati alla produzione, e deve essere inquadrato
nell’ambito dei cambiamenti che interessano le strategie e le azioni di
marketing.
Per internazionalizzazione si intendono i processi evolutivi delle imprese
industriali, essenzialmente quantitativi in quanto volti ad ampliare
l’estensione geografica dello spazio economico. Quando si parla di
globalizzazione si intende invece un processo qualitativamente
differente, che non riguarda unicamente l’estensione geografica delle
attività economiche, ma anche e soprattutto l’integrazione funzionale di
queste attività distribuite a livello internazionale, per cui i manufatti ed i
servizi prodotti esprimono un complesso insieme di legami in una catena
di produzione che coinvolge numerosi paesi.
La globalizzazione ha portato ad un crescente movimento di capitali a
livello internazionale, alla diffusione di tecnologie di provenienza
plurinazionale ed alla nascita di mercati sopranazionali, perciò viene
coniato il termine villaggio globale.
La globalizzazione implica una forma di produzione internazionalizzata
in cui le attività generatrici del valore, possedute, controllate e gestite
dall’impresa si distribuiscono su una pluralità di mercati per cui una

2
quota crescente del valore della ricchezza è prodotta e distribuita
tramite un complesso ventaglio di processi e di relazioni che integrano,
tramite le imprese, le diverse economie nazionali.
Tali nuovi tipi di relazioni non si esprimono nella mera espansione
internazionale della singola impresa, bensì nello sviluppo di una
divisione del lavoro tra imprese fondate in misura crescente sugli accordi
e la cooperazione tra soggetti diversi. Il passaggio da un contesto
aziendale nazionale a uno internazionale comporta un aumento di
complessità.
In un ambiente internazionale, il potenziale di vantaggio competitivo di
un’azienda è determinato sia dalle proprie risorse e competenze, ma
anche dalle condizioni dell’ambiente nazionale in cui opera, inclusi i
prezzi dei fattori di produzione, i tassi di cambio e una molteplicità di
altri elementi.
Le forze trainanti del processo di internazionalizzazione sono, in primo
luogo, i tentativi di sfruttare le possibilità offerte dai mercati esteri e, in
secondo, il desiderio di sfruttare le opportunità produttive localizzando le
attività dove possono essere gestite in modo più efficiente. In ogni caso, i
benefici ottenibili da una delocalizzazione all’estero delle varie fasi della
catena del valore di un’impresa devono essere confrontati con i maggiori
costi legati al coordinamento di attività disperse a livello globale, inclusi
quelli di trasporto e di magazzino. La globalizzazione dell’economia ha
comportato e comporta la creazione di una rete internazionale di
transazioni che riguarda merci, persone, capitali e servizi.
Le imprese italiane

denotano una certa difficoltà nel

presenziare

in contesti internazionali, mostrano un ritardo in termini di esportazione
rispetto ai concorrenti dell’area euro. Una possibile spiegazione potrebbe
risiedere nella fragilità del sistema produttivo italiano e nel cosiddetto
“ nanismo ” tipico delle nostre imprese. Se consideriamo poi gli
investimenti diretti all’estero questi costituiscono il 3.5 % del totale
mondiale. Le opportunità offerte dai mercati mondiali aprono nuove

3
possibilità alle imprese di poter accedere a processi produttivi innovativi
e avanzati, a nuovi mercati e nuove risorse. La nostra attenzione è
focalizzata

sul

sistema

agroalimentare

italiano

nel

contesto

internazionale. Tale settore, ampiamente riconosciuto come uno dei
settori fondamentali della nostra economia, fa parte di una delle “4 A”
del made in Italy italiano, poiché tali prodotti sono ampiamente esportati
e costituiscono un elemento di traino per l’economia nazionale. Le
industrie agroalimentari sono orientate all’esportazione verso i paesi
esteri piuttosto che agli IDE in quanto la produzione e la trasformazione
dei prodotti agricoli deve essere svolta in un ambiente pedo – climatico
favorevole come quello mediterraneo tipico dell’Italia.
I dati analizzati fanno registrare un incremento delle esportazioni nei
primi mesi del 2010 in presenza di un netto calo dei prezzi a livello
internazionale. Le imprese agroalimentari italiane hanno avuto un
notevole sviluppo internazionale negli ultimi anni, anche grazie al
sempre più forte attaccamento ai brand italiani sinonimo di qualità.
Il ruolo ricoperto dalle politiche europee di incentivazione delle imprese
agroalimentari, con riferimento alla Pac ed ai suoi pilastri, ai fondi
europei per lo sviluppo agricolo regionale ed alle politiche fiscali,
fornisce un supporto fondamentale per le imprese sia di piccole che di
grandi

dimensioni operanti in tale settore che intendono sviluppare

rapporti con il mercato estero.

4
CAPITOLO 1 – I rapporti economici internazionali
1.1 Le teorie di base dello scambio internazionale
L’internazionalizzazione delle imprese è uno degli effetti più evidenti
dell’integrazione economica su scala mondiale e le imprese possono
creare o acquistare facilmente attività produttive all’estero al fine di
sfruttare i relativi vantaggi di costo.
La globalizzazione è quel fenomeno di crescita a livello mondiale
riguardante le interrelazioni fra i diversi sistemi economici e sociali,
mediato da istituzioni economiche. I processi di internazionalizzazione
sono da tempo studiati dalla teoria economica, indagando sia sulle
ragioni del commercio tra paesi sia sulle motivazioni che spingono agli
investimenti diretti all’estero (IDE).
Il Fondo Monetario Internazionale, nel 1997, ha dato una definizione
approssimata della globalizzazione, definendola come quella crescente
interdipendenza economica tra paesi realizzata attraverso l’aumento del
volume e delle varietà di beni e servizi scambiati internazionalmente, la
crescita dei flussi internazionali di capitali e la rapida ed estesa
diffusione della tecnologia.
In altre parole, questa crescita degli scambi internazionali di beni, servizi
e tecnologia congiuntamente a quella del flusso dei capitali stanno dando
luogo ad una forte interdipendenza economica ossia ad un fenomeno
che si può definire di globalizzazione.
Numerosi storici fanno risalire questo fenomeno a svariati secoli
precedenti, altri ritengono che risalga ai tempi della scoperta
dell’America, mentre altri ancora ritengono che già prima della I e II
guerra mondiale il fenomeno fosse già presente anche se poi disgregato
dagli eventi bellici.
Il commercio internazionale è un aspetto della teoria economica che
applica modelli microeconomici all’analisi dell’economia internazionale
e gli strumenti teorici utilizzati sono quelli classici della teoria dei prezzi
e dei mercati.

5
La finanza internazionale applica la macroeconomia all’economia
internazionale, e si interessa pertanto di variabili quali il PIL, il tasso di
occupazione, il saggio di interesse, il tasso di inflazione, il saldo della
bilancia commerciale e così via. Un’impresa può agire sui mercati esteri
in vari modi. I più comuni riguardano:
- l’acquisto di prodotti e materie prime da fornitori esteri (scegliendo
quindi mercati di approvvigionamento internazionali);
-la produzione in unità localizzate all’estero, attraverso la costituzione di
vere e proprie unità produttive in loco che richiede un notevole sforzo
economico e gestionale, e/o la produzione da parte di terzi all’estero, in
particolare in Paesi nei quali i costi del lavoro sono inferiori o in Paesi
vicini ai mercati di approvvigionamento o di sbocco (con uno sforzo di
carattere organizzativo ma senza esposizione economica);
- la vendita dei propri prodotti su mercati esteri, che richiede un
particolare impegno nel marketing: l’impresa deve infatti svolgere
accurate ricerche di mercato per comprendere bisogni e comportamenti
dei consumatori esteri, senza commettere l’errore di ritenere che i clienti
esteri si comportino allo stesso modo dei clienti italiani e non
riconoscendo differenze culturali. L’esportatore deve studiare e
analizzare la concorrenza, i prezzi applicati sul mercato, i canali di
distribuzione, i vantaggi e gli svantaggi di esportare in quel paese, i punti
deboli e i punti vincenti, i prodotti complementari, le possibili barriere
d’entrata (leggi, dazi doganali, ecc.).
Diverso dalle esportazioni è il traffico di perfezionamento passivo che
consiste in una operazione di esportazione di merci ed una successiva
loro importazione, dopo che esse hanno subito trasformazione,
lavorazione o riparazione (l’aggettivo passivo si deve al fatto che il
regime doganale comporta una passività per il paese che lo effettua).

6
Questo tipo di operazione rappresenta una forma di decentramento
produttivo, che nel caso italiano viene applicato spesso nel settore del
tessile – abbigliamento e calzaturiero.
Esistono cinque fondamentali motivi per cui si ha commercio tra paesi
diversi: a) differenze tecnologiche (nel modello ricardiano del vantaggio
comparato il commercio è dovuto proprio alle differenze tecnologiche);
b) differenze nella dotazione di risorse (nel modello di puro scambio
e nel modello di Heckscher- Ohlin è questa la motivazione base); c)
differenze nella domanda; d) esistenza di economie di scala; e) esistenza
di politiche pubbliche.
David Ricardo1 nel 1817 introduce la teoria neoclassica del vantaggio
comparato, basata sulla immobilità del lavoro tra paesi e sulla perfetta
mobilità interna, sostenendo che i paesi commerciano tra loro perché il
lavoro ha una diversa produttività tra i paesi. Egli dimostra che contano i
vantaggi comparati di costo: ogni paese tende ad esportare i beni che
riesce a produrre nel modo più efficiente e importa quelli che produce in
maniera inefficiente. Di conseguenza a ciascun paese conviene
specializzarsi nella produzione di un solo bene, ovvero quello in
cui il suo vantaggio è più elevato.
Ricardo formulò la teoria del vantaggio comparato su di una serie di
ipotesi semplificatrici: 1) solo due paesi e due beni; 2) libero scambio; 3)
perfetta mobilità del lavoro all’interno di ciascun paese, ma completa
immobilità da un paese all’altro; 4) costi di produzione costanti; 5)
assenza di costi di trasporto; 6) assenza di mutamenti tecnologici; 7) la
teoria del valore-lavoro. L’ultima ipotesi presenta particolari problemi
quando si voglia generalizzare la teoria del vantaggio comparato, ad
esempio perché il lavoro non è il solo fattore di produzione e non è un
fattore omogeneo. La spiegazione della teoria del vantaggio comparato

1

Ricardo D. (1817), “Principles of Political Economy and taxation”, John Murray Edition, London, Cap. 2
pag. 5 – 28.

7
sulla base della teoria del costo-opportunità, piuttosto che sulla base
della teoria del valore-lavoro, assume maggiore generalizzabilità.
Tuttavia questa teoria è stata modificata da Heckscher2 – Olhin3 nel corso
degli anni ‘30, con l’intento di evidenziare l’importanza del fattore
capitale. L’obiettivo di tale teoria è quello di spiegare le cause del
vantaggio comparato e di esaminare gli effetti del commercio
internazionale sulle remunerazioni dei fattori produttivi. Secondo la
teoria le differenze nei costi relativi emergono dalle differenze nelle
quantità relative di fattori disponibili nei due paesi. Un paese
relativamente ricco in forza lavoro e povero in capitale si specializzerà
nella produzione di prodotti ad alta intensità di capitale. Il modello si
basa sui seguenti assunti:
- due paesi; due fattori produttivi (lavoro e capitale) e due prodotti;
- i produttori nei due paesi hanno lo stesso livello di informazione,
tecnologie;
- i fattori della produzione sono mobili all’interno del paese ma non tra
paesi;
- mobilità dei prodotti internamente ai paesi e anche tra paesi;
- i mercati dei prodotti e dei fattori produttivi sono perfettamente
concorrenziali
- le preferenze dei consumatori nei due paesi sono le stesse.4

La dotazione fattoriale è dunque la causa dei vantaggi comparati ed il
commercio internazionale sostituisce la mobilità internazionale dei
fattori come meccanismo di pareggiamento dei rendimenti assoluti e

2

4

Heckscher E. (1919), “The effect of foreign trade on the distribuition of income”, in H. Ellis, L.A.
Metzler (Eds.), “Readings in the theory of International trade”, Allen and Unwin, London, (1950), pag. 272
– 300.
3
Olhin B.,(1933), “Interregional and International trade”, ed. 1967, Harvard University Press, Cambridge
(MA), pag. 7 – 20.
Jetto – Gilles G. ( 2005), “Imprese transnazionali”, Carocci Editore, Roma, pag. 59 – 60.

8
relativi dei fattori omogenei tra paesi. La teoria presentava un modello di
equilibrio generale (benché limitato a due paesi, due prodotti e due
fattori) poiché esamina l’equilibrio simultaneo dei mercati dei beni e dei
fattori. L’analisi di Ohlin fa specifico riferimento agli investimenti di
portafoglio e considera che i movimenti di capitale siano indipendenti
dalla altre variabili dell’economia interna.
Il suo obiettivo è quello di analizzare la nuova posizione di equilibrio
che si viene a creare a seguito dei disturbi causati da movimenti di
capitale. L’analisi è estesa agli effetti sui tassi di cambio, ragioni di
scambio, importazioni ed esportazioni5.
Uno dei principali limiti individuati in questo modello è che esso si
concentra sul commercio

di

merci

fra

paesi

senza

alcuna

considerazione delle imprese come soggetti competitivi, ovvero non si fa
alcun riferimento ai cambiamenti tecnologici ed ai cambiamenti
manageriali dell’impresa internazionale.
In breve, la formulazione dei modelli tradizionali non corrisponde alla
realtà dei mercati “imperfettamente concorrenziali”,

in cui i divari

tecnologici spiegano la diffusione e i ritardi tra le imprese e fra i paesi
nella specializzazione produttiva, in cui le tecnologie e le informazioni
non sono liberamente disponibili, in cui giocano un ruolo rilevante la
differenziazione e la diversificazione dei prodotti per sfruttare economie
di scala e innalzare le barriere all’entrata6.
Dunque il problema principale nell’analisi neoclassica è legato
all’ipotesi non realistica di concorrenza perfetta.
Tale ipotesi rappresentava forse un’approssimazione non eccessivamente
irragionevole della realtà nel momento in cui la teoria neoclassica è stata
inizialmente applicata al commercio internazionale. Essa diventa,
invece, troppo lontana dalla realtà quando si considerano le attività delle
imprese transnazionali7. Mundell corregge il modello H-O introducendo

5
6
7

Jetto – Gilles G., op. cit.. pag 61.
Valdani E. – Bertoli G. (2006), “Mercati internazionali e marketing”, Egea, Milano, pag 48.
Jetto – Gilles G., op. cit. pag 63.

9
per la prima volta i flussi di investimento internazionale e modifica due
ipotesi: presenza di ostacoli nello spostamento dei beni da un paese
all’altro; libertà di circolazione del capitale su scala internazionale. In
queste condizioni, i flussi internazionali di capitale assicurano che venga
raggiunto un equilibrio simile a quello del libero scambio, in cui i prezzi
relativi dei fattori e dei prodotti sono identici nei due paesi.
Se il capitale può circolare a livello internazionale, esso tenderà a
spostarsi dal paese X, dove percepisce minore remunerazione, verso il
paese Y, dove maggiore è il valore degli interessi, provocando un
cambiamento della dotazione dei fattori nei due paesi e, quindi, anche
delle loro possibilità produttive.
I flussi di capitale si arrestano solo quando i prezzi relativi dei fattori
sono identici nei due paesi, raggiungendo l’equilibrio nel punto di
tangenza tra le curve che indicano le nuove frontiere delle possibilità
produttive.
L’uguaglianza dei prezzi relativi dei fattori conduce ad una progressiva
convergenza anche dei prezzi relativi dei prodotti; nel contempo,
però, il movimento internazionale del capitale provoca anche una
riduzione della differenza nella dotazione fattoriale dei due paesi,
erodendo i vantaggi comparati all’origine del commercio che, infatti,
diminuisce progressivamente8.
1.2 Una rassegna delle principali teorie sugli investimenti diretti
esteri
La teoria di Hymer 9, sviluppata nella seconda metà del ‘900, parte dalla
differenza tra investimento diretto e quello di portafoglio e indica nel
controllo l’elemento di differenziazione fondamentale. L’investimento
diretto conferisce all’impresa il controllo sulle attività economiche al

8
9

Scoppola M., (2000), “Le multinazionali agroalimentari” , Carocci Editore, Roma, pag. 126.
Hymer S. H., (1960), “ The International operations of national firms: a study of direct foreign
investments”, MIT Press, Cambridge (MA), pubblicato nel 1976, pag. 14 – 35.

10
contrario di quello di portafoglio. Sottolinea che in quello diretto non
ci deve necessariamente essere il trasferimento di fondi dal Paese di
origine a quello ospitante, infatti l’investimento diretto potrebbe essere
finanziato da prestiti accesi nel paese ospitante.
Altro elemento tipico di quello diretto è la bidirezionalità dell’
investimento e il fatto che si concentra tendenzialmente in specifiche
industrie. Hymer, dopo aver delineato la presenza dei vari costi tipici di
un processo di internazionalizzazione, identifica nelle imperfezioni di
mercato la determinante che porta le imprese a sviluppare la produzione
internazionale piuttosto che una modalità esportativa.
Tali imperfezioni di mercato possono riguardare i mercati dei beni, i
mercati dei fattori produttivi, le economie di scala interne ed esterne
e l’ interferenza dei governi nella produzione o nel commercio.
Si pone il problema di verificare il momento in cui le imprese
preferiscono realizzare investimenti diretti all’estero finalizzati alla
produzione locale, piuttosto che il momento opportuno per continuare a
sviluppare flussi di

esportazioni di prodotti fabbricati nel paese di

origine. Il modello di Hymer pone al centro dell’attenzione l’impresa e
non il singolo prodotto partendo dalla constatazione che la teoria
tradizionale, quella neoclassica, non riesce a spiegare l’esistenza di
investimenti reciproci tra i paesi avanzati; egli

ricerca, nelle

caratteristiche dell’impresa le determinanti che influenzano il processo di
internazionalizzazione.
L’autore assegna all’impresa l’obiettivo di accrescere il proprio potere
di mercato e la quota di mercato, in quanto a questa ultima si associa un
tasso di redditività del capitale investito più elevato rispetto a quello dei
concorrenti.
La possibilità di aumentare la quota detenuta si collega alla capacità di
erigere delle barriere all’entrata che scoraggino i nuovi concorrenti e che
obblighino, in modo coatto, i produttori meno efficienti ad uscire dal
mercato.

11
Tali barriere riguardano il possesso di vantaggi competitivi di varia
natura: il controllo tecnologico, le economie di scala, la notorietà della
marca, il patrimonio di conoscenze e competenze e il controllo dei canali
distributivi.
Nella fase iniziale di sviluppo delle imprese, il mercato servito è quello
interno, a causa delle difficoltà che si verificano nella vendita sui mercati
esteri. L’impresa cresce a livello nazionale attraverso un processo di
concentrazione (aumento delle quote di mercato, acquisizioni e fusioni)
che le consente di ottenere profitti sempre maggiori. Ad un certo punto,
tuttavia, il processo di concentrazione a livello locale non può più essere
spinto oltre a causa di un numero ristretto di grandi imprese; pertanto,
l’elevato profitto derivante dal grado di monopolio raggiunto è rimasto
utilizzabile per gli investimenti diretti all’estero, i quali hanno come
obiettivo l’estensione del processo di crescita dell’impresa oltre
frontiera.
Una volta scelta la produzione in loco nei confronti delle esportazioni,
l’impresa dovrà decidere se intervenire direttamente (tramite IDE 10)
oppure cedere licenze a produttori locali. Tale scelta sarà condizionata
soprattutto dalla natura degli specifici vantaggi competitivi posseduti
dall’impresa.
In particolare, l’IDE risulterà favorito quanto più i vantaggi competitivi
consistono nel possesso di conoscenze e competenze specialistiche, che
difficilmente possono essere valorizzate attraverso la cessione di licenze
o tramite accordi di collaborazione nella fase di ricerca/sviluppo e/o di
produzione.
A questo punto l’autore si pone il problema dei motivi per i quali
l’impresa decide di sfruttare il proprio vantaggio competitivo tramite
l’IDE anziché vendere il prodotto ad un’impresa locale tramite qualche
forma di accordo contrattuale.

10

Investimento diretto estero.

12
Secondo Hymer, un’ impresa, qualora decida di dar vita ad una propria
unità organizzativa all’estero, è destinata ad incontrare una serie di
svantaggi competitivi. Essa si trova ad affrontare costi connessi alla
necessità di interagire con culture, con lingue e con sistemi
amministrativi e sociali diversi che rendono più costosa la sua operatività
rispetto alle aziende già presenti nel territorio.
Inoltre, per un’ impresa estera, i costi per l’acquisizione di determinate
conoscenze, soprattutto del mercato, possono essere rilevanti.
Allora ci si chiede per quale motivo le imprese, nonostante la presenza di
questi costi, decidono di realizzare ugualmente degli investimenti diretti
all’estero.
Le motivazioni sono da ricondursi, principalmente, al possesso di
vantaggi di tipo oligopolistico riproposti dall’impresa stessa su scala
internazionale. Più precisamente, quando un’ impresa decide di investire
all’estero dovrà poter compensare i maggiori costi sostenuti con dei
vantaggi competitivi durevoli, ed è proprio per

l’ effetto di questi

vantaggi che le aziende riescono ad essere competitive.
Dunque, l’IDE può avvenire solo in presenza di imperfezioni di mercato
tali da indurre le imprese a sostituire la tradizionale esportazione
all’investimento diretto. La teoria seminale di Hymer rappresenta un
punto di rottura rispetto alla tradizione sia precedente che successiva.
Uno dei principali elementi della sua teoria è l’accento sulla rimozione
dei conflitti dal mercato in cui operano le imprese.
Secondo la sua concezione, le principali determinanti dell’investimento
diretto estero sono in larga misura le stesse che generano l’investimento
in generale, sia a livello nazionale che internazionale, in condizioni di
oligopolio. Inoltre si riscontra un eccessivo accento sui costi delle
operazioni all’estero. Questa è una posizione comprensibile negli anni
Cinquanta e Sessanta; da allora però tali costi e rischi si sono
notevolmente ridotti11.

11

Jetto – Gilles G., op. cit. pag. 72.

13
Un'altra interessante teoria, che si distacca da quella di Hymer, è la
“teoria del gap tecnologico” formulata per la prima volta da Posner 12
(1961) che si concentra sugli sviluppi dinamici che avvengono
all’interno di un settore sotto il profilo del progresso tecnologico.
Posner analizza i meccanismi attraverso i quali un’iniziale innovazione
di prodotto in un paese porta a vantaggi tecnologici cumulativi e a
vantaggi nel commercio internazionale. A differenza di Hymer, che
focalizza la sua attenzione sull’impresa, Posner presta maggiore
attenzione al prodotto ed al tasso di innovazione a questo collegato.
La portata e la durata dei vantaggi del commercio dipenderanno dalla
portata dei vantaggi

cumulativi

dell’ impresa

innovatrice,

dalla

velocità con cui si diffonde la domanda per il nuovo prodotto e dalla
velocità di reazione delle altre imprese nazionali e straniere
nell’imitazione del nuovo prodotto13.
Quindi Posner propone una spiegazione del commercio internazionale
fondata sulle “differenze di costo comparato” generate dal differente
tasso di innovazione nei settori tra i vari paesi.
In particolare, i vantaggi economici di un’originaria innovazione in un
settore industriale sono correlati alla durata dell’intervallo temporale
durante il quale il settore innovatore usufruisce di una posizione
monopolistica sui mercati internazionali.
La durata di tale posizione è definita dalla differenza fra il tempo
necessario alle imprese straniere per imitare i nuovi processi produttivi e
il tempo occorrente ai consumatori esteri per manifestare la domanda di
nuovi prodotti14.
Tra l’altro i produttori operanti nel paese innovatore possono trarre il
vantaggio di economie di scala e da qui deriva l’effetto che una prima
innovazione può stimolare una “concentrazione” degli investimenti nel

12

13
14

Posner M. V., (1961), “ International trade and technical change”, in Oxford Economic Papers”, 13,
pag. 323- 341.
Jetto – Gilles G., op. cit. pag. 73.
Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 50.

14
settore. Ne consegue un flusso continuo di innovazioni sia di prodotto
che di processo. Anche se il singolo prodotto frutto di innovazione sarà
imitato dai produttori locali, facendo venire meno il flusso esportativo
dal paese innovatore, se si considera il settore industriale innovativo
nel suo complesso (comprendente più prodotti), sarà possibile avere un
flusso esportativo stabile da parte di un paese all’avanguardia di
settore

verso gli altri paesi, proprio in

quel

un

settore in cui

esso ha per primo effettuato le innovazioni.
Il contributo di Posner rappresenta senza dubbio un passo importante
nella formulazione delle teorie di internazionalizzazione, tuttavia esso si
concentra esclusivamente su fattori d’offerta, trascurando il ruolo dei
fattori concernenti la domanda, nell’influenzare la capacità di produrre e
di commercializzare un prodotto nuovo sui mercati internazionali.
Linder15 sposta infatti l’attenzione su tali fattori; secondo l’autore, la
varietà di beni manufatti potenzialmente esportabili è determinata dalla
domanda interna:” condizione necessaria, ma non sufficiente, affinchè
un prodotto sia potenzialmente un prodotto di esportazione è che esso sia
consumato nel mercato interno”. Linder afferma che le

funzioni di

produzione non sono identiche in tutti i paesi, ma che le funzioni di
produzione dei beni domandati all’interno sono quelle relativamente
convenienti.
Per ciò che riguarda, inoltre, le potenziali importazioni di un paese,
queste ultime sono a loro volta determinate dalla domanda interna; di
conseguenza, la gamma delle esportazioni potenziali è identica o inclusa
in quella delle importazioni potenziali16.
Se due paesi presentano la stessa struttura di domanda, tutti i beni
importabili ed esportabili dall’uno lo sono anche per l’altro. La
conclusione a cui si perviene è che quanto più è simile la struttura della

15

16

Linder B.S. (1961), “ An Essay on trade and transformation”, Almqvist & Wiksel,
Stoccolma, traduzione Italiana: in Franco R. e Gerosa C., (1980) “Il commercio internazionale.
Teorie e problemi”, Etas, Milano.
Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 51.

15
domanda di due paesi tanto più intenso è il commercio tra questi due.
Ovviamente bisogna stabilire come fare ad individuare il grado di
somiglianza delle strutture di domanda tra i due paesi; ci sono vari
fattori: il clima e la struttura geografica, la cultura, il reddito pro capite,
la distribuzione del reddito, variabili sociali e cosi via. Ovviamente tali
paesi non effettuerebbero nessuno scambio reciproco se potessero
produrre all’interno, ai medesimi prezzi relativi, i principali prodotti
richiesti dal mercato.
Le stesse forze che danno origine agli scambi all’interno di ciascuno dei
due paesi creano anche gli scambi tra di essi. Il libero scambio tra due
paesi che hanno livelli

di reddito

pro capite

simili

avrà

gli

stessi effetti del commercio interno.
La teoria di Linder è stata soggetta a varie critiche. Il fatto che si riduce
solo ai casi in cui due paesi abbiano livelli di reddito pro capite simili e il
fatto di non spiegare la composizione merceologica dello scambio tra i
paesi sono alcuni degli aspetti critici messi in evidenza. Tuttavia la
teoria ha avuto un’ampia risonanza anche nel seguito della stessa
evoluzione

delle teorizzazioni

sul modello

del ciclo di vita

internazionale.
Vernon17 negli anni ‘70 indaga sulla scelta localizzativa che affrontano le
imprese. L’autore sviluppa le sue argomentazioni usando una
configurazione a tre stadi del “ciclo del prodotto”. Nel primo stadio
egli considera che le imprese appartenenti ai paesi industrialmente più
avanzati abbiano uguale accesso alle conoscenze scientifiche. Tuttavia, a
parità di accesso a tali conoscenze non corrisponde una uguale
probabilità di applicazione delle stesse nella concreta attività di
produzione, poiché esiste un ampio divario tra la conoscenza di nuove
teorie scientifiche e la loro utilizzazione per produrre nuovi prodotti o
creare nuovi processi produttivi.

17

Vernon R., (1966), “ International investment and International trade in the product cycle”, in
“Quarterly Journal of Economics”, 80, pag. 190 – 207.

16
Vernon considera come modello il mercato statunitense, in virtù delle
grandi opportunità di sfruttamento delle conoscenze che esso consente e
per la loro incorporazione nei nuovi prodotti. Tra l’altro è un mercato
in cui i consumatori dispongono di un reddito medio pro capite elevato,
è un mercato di ampie dimensioni e anche con abbondanza di capitale.
Secondo l’autore il prodotto innovativo troverà localizzazione proprio
negli USA.
In tale contesto, il prodotto, almeno inizialmente, non ha concorrenti
visto che è nuovo e può essere venduto a prezzi più elevati. Un’offerta a
prezzi così alti trova comunque una domanda corrispondente poiché i
consumatori sono disposti a pagare prezzi elevati grazie alla loro
disponibilità di redditi elevati. Il secondo stadio è caratterizzato sia dallo
sviluppo e maturità del prodotto, sia da una domanda crescente, che
consente alle imprese il conseguimento di economie di scala. Ne
consegue una certa standardizzazione del prodotto.
Tali condizioni fanno diminuire la presenza di barriere all’ingresso e di
conseguenza aumentano i concorrenti. Inoltre, accanto alla domanda
locale (USA) si sviluppa con molta probabilità una domanda diffusa
anche nei paesi europei più avanzati. Per le imprese del paese innovatore
si prospetta quindi l’opportunità di dare avvio ad un processo di
internazionalizzazione.
La domanda dei paesi europei sarà inizialmente soddisfatta dalle
esportazioni statunitensi, tuttavia le imprese americane potrebbero
preferire una produzione diretta all’estero per ovviare alla minaccia
eventuale da parte dei concorrenti europei che iniziano ad imitare il
prodotto e anche per la possibilità di sostenere la produzione a costi più
bassi negli stessi paesi europei.
Infatti la scelta tra esportazione e insediamento produttivo all’estero
dipende anche da variabili di carattere economico: se la somma dei costi
di produzione e di trasporto dei beni esportati è inferiore al costo medio
previsto per produrre nel paese di importazione, è probabile che le

17
imprese preferiscano evitare l’investimento diretto estero, privilegiando
quindi i flussi esportativi. Tuttavia, il progressivo sviluppo della
domanda e la costituzione nei vari paesi avanzati di un mercato interno
di dimensioni adeguate possono costituire una condizione sufficiente per
la successiva decisione di produrre direttamente all’estero18.
Man mano che il prodotto diviene più standardizzato, esso richiederà
processi produttivi che si concentrano su alta intensità di capitale e
lavoro poco qualificato. In tale

fase

diventano

più

probabili

i

comportamenti imitativi e la concorrenza aumenta. Subentra così il terzo
stadio (standardizzazione e declino del prodotto), che corrisponde alla
scelta di localizzare

la produzione

in paesi

sottosviluppati

per

contenere i costi di produzione visto il basso costo del lavoro di tali
paesi. Quindi gli USA perderanno il loro vantaggio competitivo come
localizzazione produttiva.
A distanza di qualche anno Vernon revisiona la teoria analizzando
le mutate condizioni dei paesi europei. In primis l’autore nota un deciso
aumento dell’espansione geografica della rete delle operazioni delle
imprese multinazionali e tra l’altro è anche diminuito il lasso di tempo
tra l’introduzione di un nuovo prodotto negli USA e la sua diffusione in
altri paesi. Dunque le fasi di imitazione del prodotto si sviluppano in
tempi più rapidi rispetto a qualche decennio prima.
In secondo luogo Vernon considera i cambiamenti di carattere
macroeconomico dei paesi europei: le differenze tra Europa e USA si
sono assottigliate, in termini di reddito pro capite, costo del lavoro,
dimensione del mercato e gusti dei consumatori. Ciò lo induce a
concludere che l’ambiente internazionale che aveva portato il ciclo di
vita del prodotto stava scomparendo e che la teoria diventava sempre più
meno applicabile.
Non mancano le critiche al modello di Vernon. Innanzitutto il fatto che
tale teoria offre una spiegazione dell’ origine dei vantaggi comparati

18

Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 55.

18
limitata a un segmento particolare del commercio internazionale: quello
di prodotti manufatti concepiti per soddisfare consumatori ricchi. Poi la
sua analisi è criticata per essere limitata al caso delle innovazioni “labour
saving”.
Vernon non ha considerato come le imprese localizzate in paesi poco
dotati di materie prime, come per esempio quelle europee, fossero
interessate a introdurre innovazioni volte a risparmiare questo tipo di
fattore produttivo piuttosto che quello del fattore lavoro.
In ogni caso la teoria ha subito un logoramento, a causa dei profondi
cambiamenti dell’ambiente internazionale al punto che essa è apparsa
sempre meno in grado di fornire un’interpretazione adeguata dei processi
di internazionalizzazione delle imprese.
Infatti, l’assunto che la maggior parte delle innovazioni tecnologiche
provenissero da un unico paese (Stati Uniti), è stato superato con
l’affermarsi delle imprese giapponesi ed europee sui mercati mondiali 19.
Un'altra debolezza della teoria è data dall’enfasi eccessiva posta sul
prodotto e sulla sua vita, a scapito dell’impresa in se, ciò impedisce
un’adeguata analisi della diffusione dell’innovazione da prodotto a
prodotto e dei relativi vantaggi in ambito tecnologico, manageriale e di
marketing. Nonostante le critiche, l’accento posto

sull’investimento

diretto legato al divario tecnologico costituisce un notevole passo in
avanti rispetto alle teorie precedenti20.
Un altro autore che concentra i suoi studi sugli aspetti inerenti la
localizzazione degli investimenti diretti esteri è Knickerbocker21. La sua
analisi (1970) parte da considerazioni di carattere empirico. Il suo
approccio teorico differisce da quello di Vernon in quanto si concentra
sull’impresa piuttosto che sul prodotto e soprattutto sulle condizioni
macro - economiche del

19
20

mercato che caratterizzano il commercio

Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 56.
Jetto – Gilles G., op. cit. pag. 82.

21

Knickerbocker F. T. (1973), ‘’Oligopolistic Reaction and Multinational Enterprise’’, Division of
research, Graduate School of Business Administration, Harvard University, Cambridge (MA).

19
internazionale e le scelte di localizzazione produttiva. Egli afferma che
già nel secondo dopoguerra le imprese hanno affrontato processi di
internazionalizzazione in misura sempre maggiore e che molte imprese
(statunitensi) hanno mostrato la tendenza ad indirizzare i loro flussi di
investimenti diretti esteri verso i medesimi paesi ospitanti; poi sostiene
ancora che le imprese impegnate nell’espansione oltre frontiera
appartengono a industrie caratterizzate da strutture oligopolistiche.
Lo studioso propone la differenza tra investimenti aggressivi e difensivi:
i primi indicano la costituzione della prima affiliata in una data industria
in un certo paese ospitante, mentre con i secondi indica la creazione di
affiliata da parte di altre imprese. Le imprese che operano in un sistema
oligopolistico sono consapevoli del fatto che un atteggiamento
aggressivo porterà a reazioni difensive e quindi si svilupperebbe una
concorrenza distruttiva. Così, per evitare questo risultato, le imprese
scarterebbero l’ipotesi di una guerra di prezzo a favore di una
concorrenza basata su altri fattori, come ad esempio la pubblicità.
Tuttavia, in quei settori in cui si verificano cambiamenti rapidi e
caratterizzati da elevati tassi di crescita, le singole imprese potrebbero
trovare conveniente adottare un comportamento aggressivo. A questo
punto, l’autore, considerando che le sole reazioni oligopolistiche non
sono sufficienti a spiegare il motivo della prima mossa dell’impresa,
decide di collocare la sua teoria in un contesto più ampio.
Egli parte dall’assunto base della teoria del ciclo di vita del prodotto di
Vernon: a) il contesto economico statunitense ha portato a delle
opportunità di sviluppo di nuovi prodotti; b) è probabile che i prodotti
siano sviluppati e creati prima nel paese in qui sono stati ideati e poi
all’estero. L’autore arriva ad affermare che le imprese statunitensi
sono state molto abili nell’aprire la strada a nuovi prodotti, anche grazie
allo sviluppo di particolari competenze in R&S, nelle strutture
organizzative e nelle tecniche di marketing.
I mercati e le economie europee restavano indietro rispetto a quelli

20
statunitensi. Le esportazioni di prodotti statunitensi venivano seguite,
in un secondo momento, da IDE, i quali in alcuni casi, venivano
preceduti dalla concessione di licenze.
Le imprese statunitensi ebbero anche vantaggi nel produrre all’estero. Il
loro

vantaggio

nell’accumulazione

di

competenze

manageriali,

commerciali ed organizzative diede loro un totale vantaggio sulle
imprese locali europee. Altre circostanze possono aver spinto le imprese
statunitensi verso l’intrapresa di IDE piuttosto che verso licenze ed
esportazioni.
L’autore da riferimento all’esistenza di barriere, tariffarie e non, nei pesi
europei, e al fatto che produrre vicino al mercato di sbocco permette alle
imprese di offrire servizi di assistenza e di adattare il prodotto alle
esigenze dei consumatori locali22.
La motivazione di fondo è che gli imprenditori statunitensi mirano a
cercare e sviluppare opportunità e capacità produttive presenti oltre
frontiera. Bisogna ancora spiegare la scelta della mossa difensiva da
parte dei concorrenti.
L’investimento in un paese estero comporta un certo grado di incertezza,
lo stesso vale per le imprese rivali; tuttavia queste corrono dei rischi
anche se non investono: l’impresa che per prima ha rischiato investendo
(quindi la first mover) può trarre vantaggi considerevoli che può usare
per danneggiare i diretti rivali. Infatti tutte le competenze organizzative,
commerciali e manageriali conseguite durante la prima mossa, potranno
essere sfruttate per successive politiche aggressive.
Tutti questi vantaggi possono mutare l’equilibrio competitivo, così
le imprese concorrenti rispondono anch’esse con l’investimento diretto
all’estero. Knickerbocker alla fine spiega il raggruppamento geografico
degli IDE come il risultato di politiche difensive delle imprese tese a
minimizzare i rischi nel contesto di strutture di mercato oligopolistiche23.

22
23

Jetto – Gilles G., op. cit. pag 87.
Jetto – Gilles G.,op. cit. pag. 89.

21
1.3 Le nuove teorie del commercio internazionale
Dopo la seconda guerra mondiale si sviluppa la teoria dell’investimento
diretto estero e dell’impresa multinazionale. Nel corso degli anni ’80,
dopo il declino del primato americano circa la presenza di imprese
multinazionali,

si

registra

lo

stesso

declino

del

modello

di

internazionalizzazione basato sulla multinazionale classica e si lascia
spazio ai nuovi modelli basati sulla impresa transnazionale e l’impresa
rete.
Secondo l’autore Kojima24 gli investimenti creano commercio quando si
spostano da un paese all’altro in funzione del costo relativo delle risorse,
sempre sulla base dei vantaggi comparati dei paesi. Questi tipi di
investimenti sono stati effettuati dalle multinazionali giapponesi, le quali
hanno trasferito la produzione nei paesi limitrofi a basso costo del lavoro
e con una dotazione di risorse più favorevole. In altri casi tali
investimenti verrebbero effettuati per altri motivi quali ad esempio la
presenza di distorsioni sui mercati come la concorrenza oligopolistica o le
barriere tariffarie presenti nel paese che ospita l’investimento: tali
condizioni indurrebbero le imprese internazionali a trasferire direttamente
all’estero le produzioni. Tale sistema tuttavia ha determinato l’uso di
tecnologie inappropriate in rapporto alle risorse locali del paese ospitante
(come è accaduto nei processi di espansione delle multinazionali
statunitensi) con la conseguente inefficiente allocazione delle risorse.
Le imprese giapponesi, che dagli anni Ottanta fecero il loro ingresso sul
mercato mondiale, dimostrano nella pratica la tesi di Kojima utilizzando
strategie innovative sviluppate all’interno del proprio mercato e rivelatesi
vincenti anche sui mercati internazionali. Le imprese giapponesi si
concentrarono in investimenti diretti all’estero nei settori in cui il Paese
vedeva ridursi i propri vantaggi competitivi a causa dell’incremento dei

24

Kojima K., (1978), “ Direct foreign investment: a Japanese Mode of Multinational Business
Operations”, Croom Helm, London, pag. 21 – 47.

22
salari, dei tassi di cambio e della mancanza di materie prime. Gli
investimenti giapponesi erano quindi indirizzati verso i Paesi dell’area
asiatica che permettevano loro di sfruttare le varie strategie sviluppate
all’interno, ma avvantaggiandosi contemporaneamente dei minori costi
di produzione. Ciò ha permesso ad imprese giapponesi prima sconosciute
di diventare concorrenti diretti di multinazionali già presenti nel settore
da diversi anni25.
La teoria di Kojima è molto utile per comprendere gli sviluppi dei
processi di internazionalizzazione delle imprese dal secondo dopoguerra
in poi. In un primo momento le imprese sono diventate multinazionali
soprattutto allo scopo di superare le barriere tariffarie ed hanno
organizzato le loro operazioni internazionali secondo un modello
organizzativo multi – domestic, ovvero trasferendo in ogni mercato
estero l’intero processo produttivo e vendendo il prodotto localmente,
sostituendo così le precedenti esportazioni. Successivamente le imprese
hanno iniziato a localizzare ogni fase del processo produttivo in funzione
del costo relativo dei fattori nei diversi paesi, vendendo poi il prodotto
finale su tutti i mercati di consumo, adottando un modello organizzativo
di tipo globale.
La modalità tradizionale in cui si svolgono le operazioni economiche tra
i paesi è invece il commercio internazionale, consistente nello scambio
di merci, beni e servizi attraverso le frontiere nazionali. Il commercio
internazionale rimane, a livello globale, il principale tipo di transazione
economica oltre frontiera.
Le attività delle imprese transnazionali hanno un impatto considerevole
sulla distribuzione geografica del commercio; anche in considerazione
del fatto che le imprese transnazionali, in virtù dei processi di
integrazione verticale, determinano un considerevole sviluppo del
commercio internazionale intra – aziendale.

25

Baronchelli G., (2008), “Delocalizzazione nei mercati internazionali, dagli IDE agli offshoring”, LED
Edizioni Universitarie.

23
Questo tipo di commercio consiste nello scambio di beni e servizi tra
unità della stessa impresa operanti in paesi diversi. Si stima che esso
rappresenti non meno di un terzo del commercio mondiale e che sia in
aumento.
Le attività di produzione e di commercio internazionale delle imprese
transnazionali sono strettamente interrelate. Lo sviluppo dei mercati
internazionali, la ricerca di vantaggi di costo, l’obiettivo di penetrare
commercialmente nuovi paesi ha fatto si che le imprese tendessero ad
investire direttamente all’estero creando rapporti di collaborazione con
altre imprese del posto (licensing, franchising, joint ventures).
Gli investimenti diretti esteri hanno avuto un notevole sviluppo sia nella
forma di investimento di portafoglio (effettuato per ragioni tipicamente
finanziarie, con riferimento all’acquisizione di azioni di una società
straniera), sia nella forma diretta

(IDE) ovvero

il caso

in cui

l’investimento è tale da conferire il controllo nella società acquisita. Dai
dati statistici si rileva che la maggior parte di IDE ha origine da società
che hanno luogo in paesi sviluppati e sono diretti anche verso le stesse
economie sviluppate.
I paesi in via di sviluppo invece ricevono investimenti diretti, specie lì
dove è possibile reperire le risorse per la produzione quali materie prime
e forza lavoro a basso costo. In conclusione si può sostenere che con la
crescita degli IDE si riduce il commercio intra – settoriale del bene
finito, che viene spiazzato dalla produzione estera delle multinazionali;
tuttavia gli IDE generano un intenso flusso di scambi intra – firm, sia di
beni intermedi che di servizi generali.
Quando le differenze nelle dotazioni tra i paesi sono così ampie da non
consentire il pareggiamento dei prezzi dei fattori attraverso gli scambi
dei beni, gli IDE possono diventare complementari al commercio.
Secondo il modello teorico basato sulla ipotesi della prossimità –
concentrazione, invece, i risultati sarebbero diversi: se i paesi sono
identici sotto il profilo tecnologico, della domanda e della dotazione

24
fattoriale, gli IDE sarebbero dovuti all’eccessivo peso dei costi di
trasporto rispetto ai costi fissi degli impianti ed ai vantaggi che derivano
da una più intensa utilizzazione delle risorse dell’impresa. In tal caso gli
IDE sostituiscono i flussi commerciali intra – settoriali.
In ogni caso, anche se i paesi differiscono tra loro, la comparsa delle
multinazionali comporta una riduzione degli scambi intra – settoriali che
non viene compensata da alcun nuovo flusso di scambio di beni: gli IDE,
quindi, sostituiscono il commercio.
Le nuove teorie sul commercio internazionale evidenziano il fatto che il
commercio e la specializzazione sono dovuti a vantaggi di economie di
scala, così come a tradizionali vantaggi comparati dovuti a differenze
nella dotazione dei fattori. Commercio e specializzazione sono quindi
guidati da alcuni elementi statici ed esogeni imputabili alla dotazione dei
fattori, e da elementi più dinamici ed endogeni legati ai rendimenti
crescenti.
Un primo tipo di economie di scala, legato alla teoria della concorrenza
monopolistica di Chamberlin, è interno all’impresa. Si ritiene che le
economie di scala crescenti non siano compatibili con la perfetta
concorrenza dato che l’impresa che realizza rendimenti crescenti ha costi
decrescenti man mano che aumenta la sua dimensione; ciò le da un
vantaggio rispetto ai concorrenti.
Dunque questo tipo di economie di scala necessita di un modello
di concorrenza monopolistica.Nell’applicazione di tale schema si assume
in genere, che l’impresa operi con un singolo impianto produttivo, per
cui livello di impresa e livello di impianto produttivo coincidono.
Un secondo tipo di economie, quelle di tipo “marshalliano” considerano
i rendimenti crescenti ottenibili tramite effetti di spillover da impresa ad
impresa e dunque le economie si riferiscono all’industria nel suo
complesso piuttosto che alla singola impresa26.

26

Jetto – Gilles G., op. cit. pag. 141- 142.

25
In questo approccio le economie di scala rimangono compatibili con il
modello di concorrenza perfetta perché la fonte dei rendimenti crescenti
è la scala dell’industria e non quella dell’impresa/impianto produttivo.
Le economie interne aumentano la probabilità che l’impresa si
specializzi. L’esistenza di economie esterne fa sì che imprese
appartenenti alla stessa industria si localizzino nella stessa area per
godere dei benefici degli effetti di spillover.
La concentrazione spaziale dell’industria può essere verticale oppure
orizzontale. Quella verticale fa riferimento alla non commerciabilità di
alcuni prodotti intermedi ( nel senso che alcuni prodotti intermedi sono
specifici dell’impresa) e tale non commerciabilità può portare alla
formazione di distretti industriali.
Gli ulteriori sviluppi teorici modificano alcune assunzioni, soprattutto
quella relativa alla immobilità del capitale. Infatti, le teorie sugli
investimenti diretti all’estero si basano sulla sostanziale mobilità del
capitale. Gli approcci sono riferiti sia agli IDE verso paesi in via di
sviluppo che agli IDE in paesi sviluppati. Nel primo caso si considerano
diversi paesi a diversi livelli di sviluppo e con differenti dotazioni di
fattori e con presenza di economie di scala interne a livello di impianto e
di impresa.
Partendo da tali assunti si ha che la direzione degli IDE verso i paesi in
via di sviluppo determina una integrazione di tipo verticale a livello
internazionale; l’internazionalizzazione risulta essere favorita rispetto
all’uso di licenze per via degli input congiunti, inoltre si sviluppa un
commercio internazionale intra- aziendale.
Con riferimento al secondo caso (teoria di Markusen27), ovvero con
direzione degli IDE verso paesi sviluppati, gli assunti di base indicano
che i due paesi sono entrambi sviluppati e con mercati ampi, la
produzione internazionale è solo di tipo orizzontale (si producono
prodotti simili in entrambi i paesi), i due paesi hanno simili dotazioni di

27

Markusen J. R., (1984), “ Multinationals, Multiplant Economies and the Gains from Trade”, in
“Journal of International Economics”, 16, MIT Press, Cambridge (MA), pag. 205 – 224.

26
fattori e quindi costi di produzione simili, esistono poi alti costi di
trasporto e barriere al commercio (ma non agli IDE). Sulla base di tali
assunti si determina una produzione internazionale di tipo orizzontale e
gli investimenti diretti esteri si sviluppano tra paesi sviluppati preferendo
la produzione diretta piuttosto che la concessione di licenze e con
commercio internazionale intra – industriale.
La tradizionale teoria del commercio internazionale non riesce pertanto a
spiegare come possa avvenire un commercio intra-settoriale, cioè
all’interno dello stesso settore industriale, e tra paesi molto simili per
dotazione dei fattori produttivi necessari alla produzione di tali beni.
A questo proposito, Krugman 28 ha contribuito a spiegare questo
fenomeno introducendo, insieme ad altri economisti, le cosiddette
“nuove teorie sul commercio internazionale”. Tali teorie spostano
l’attenzione dal tipo di struttura produttiva presente in ciascun paese, ad
altre variabili di tipo microeconomico, quali i diversi gusti dei
consumatori, la presenza di economie per le imprese localizzate in un
certo paese, il temporaneo monopolio tecnologico posseduto da chi
presenta sul mercato un prodotto innovativo, ecc.
Più in particolare, il contributo di Krugman afferma che il commercio
internazionale esiste perché i gusti dei consumatori sono profondamente
differenti anche in riferimento ad uno stesso prodotto e perchè le imprese
hanno la possibilità di concentrare la produzione in un unico
stabilimento per sfruttare economie di scala produttive.
La prima determinante è molto importante

per spiegare il nuovo

beneficio del consumatore, che non è più in termini di prezzi ma bensì
in termini di varietà di prodotti a disposizione. Tale beneficio aumenta
con il procedere dell’integrazione economica europea in quanto i
consumatori hanno a disposizione una maggiore varietà d’offerta
(all’offerta nazionale si affianca anche l’offerta proveniente dai partner
europei). La possibilità che ciascun paese si specializzi in una certa

28

Krugman P., (1991), “ Increasing returns and economic geography”, in “Journal of Political Economy”
99, pag. 483 – 499.

27
varietà di prodotto, pur all’interno dello stesso settore produttivo,
consente a tale paese di soddisfare la domanda di varietà che sorge anche
negli altri paesi comunitari. Si considera, in questo modo, la cosiddetta
differenziazione di prodotto: ciascun prodotto, per quanto uguale agli
altri, è in realtà profondamente diverso per quanto attiene alla sue
caratteristiche appariscenti o a quelle intrinseche.
La differenza può essere quindi sostanziale, come tra un’auto di lusso o
un’auto utilitaria, o puramente formale, come nei detersivi impacchettati
in contenitori di diverso tipo, o indotta dalla pubblicità, o attribuibile al
valore del marchio (a cui è associato un certo status symbol, o un certo
contenuto qualitativo o tecnologico), e così via. Più i paesi hanno
raggiunto lo stesso livello di sviluppo e più è probabile che i consumatori
richiedano beni differenziati, e quindi più è probabile che nasca un
commercio internazionale di prodotti diversi ma appartenenti allo stesso
settore industriale.
Le analisi empiriche condotte sul commercio comunitario indicano, per
l’appunto, che i flussi commerciali tra i paesi europei sono soprattutto di
tipo intra-settoriale, e che le dotazioni fattoriali dei vari paesi sono
piuttosto simili (EC Commission, 1996), pur esistendo comunque alcune
specializzazioni industriali di tipo nazionale.
Dal punto di vista della politica economica all’interno dell’Unione
Economica e Monetaria, se le strutture economiche sono simili, ciò
implica anche un minor “costo di aggiustamento” per i paesi partner nel
caso in cui si verifichino crisi economiche non generalizzate, ma
concentrate in un solo paese (shock asimmetrici).
Per esempio, se i consumatori europei modificassero improvvisamente i
loro gusti e non volessero più acquistare auto di piccola cilindrata, il
paese specializzato nella produzione di

utilitarie

dovrebbe

“semplicemente” spostare i suoi lavoratori nella varietà delle auto di
lusso

(varietà

che

nell’esempio

verrebbe

molto

richiesta

dai

consumatori).

28
Tale spostamento rappresenta per il paese un costo di aggiustamento,
perché occorre modificare in parte gli impianti e le tecnologie utilizzate
nella costruzione delle auto, che sicuramente è inferiore al costo di
aggiustamento che ci sarebbe stato se il paese avesse dovuto
convertire la sua produzione in un altro settore (per esempio, passare
dalle auto ai computer, o all’abbigliamento), cioè in una produzione più
“distante” per quanto riguarda le caratteristiche dei fattori produttivi
utilizzati.
Per i paesi comunitari si assiste quindi ad un aumento dei flussi di
commercio internazionale che provengono dagli stessi settori (flussi
intra-settoriali) e che generano vantaggi per i consumatori in termini di
minori prezzi di acquisto e di maggiori varietà di beni a disposizione.
Tale commercio per differenziazione di prodotto viene a sua volta
distinto dalla teoria economica tra commercio di prodotti simili ma
differenti per qualità (cioè prezzo) o differenti semplicemente per la
varietà del prodotto. Nel primo caso si tratta di differenziazione verticale
di prodotto, nel secondo di differenziazione orizzontale.
Dal punto di vista metodologico, la distinzione tra le due forme di
differenziazione di prodotto nelle indagini empiriche utilizza il seguente
criterio: si ha differenziazione verticale quando i valori unitari (cioè i
prezzi) all’import o all’export dei flussi tra due paesi differiscono di più
del 15%. I prodotti sarebbero invece differenziati per semplice varietà se
i prezzi fossero meno distanti del 15%, cioè se possono essere
considerati praticamente simili.
Gli studi in materia indicano che la crescita del commercio intrasettoriale europeo è stata soprattutto tra prodotti differenti per qualità e
prezzo. Si hanno anche facili evidenze di tale specializzazione dei paesi
europei: i tedeschi sono specializzati nella produzione di auto di grossa
cilindrata, mentre gli italiani sanno costruire bene le utilitarie;
l’abbigliamento italiano è destinato ai segmenti di mercato medio-alti,
mentre quello portoghese o spagnolo è diretto ai consumatori medio-

29
bassi; mentre i vini francesi sono di alta qualità, e quindi destinati a
consumatori esigenti, i vini greci o portoghesi sarebbero, in media,
destinati ad un consumo più popolare; ecc.
La seconda determinante del commercio internazionale, sempre con
riferimento al contributo di Krugman, riguarda la possibilità che
un’impresa sfrutti le economie di scala tecniche per produrre in un
unico stabilimento la produzione destinata atutto il resto dell’Europa.
Anziché aprire diversi stabilimenti in ogni paese europeo – come
accadeva in precedenza al fine di superare le barriere protezionistiche,
prima di tipo tariffario e poi di tipo non tariffario, che segmentavano il
mercato europeo e ostacolavano il libero commercio – con l’Unione
Economica e Monetaria l’impresa concentra la produzione in un unico
sito, dove ottiene notevoli risparmi di costi di produzione.
Le due determinanti del commercio derivanti dal contributo di Krugman,
quella relativa alla varietà dei beni e quella relativa allo sfruttamento
delle economie di scala sono apparentemente in contraddizione tra loro.
Infatti, mentre la prima spiega l’aumento del commercio intra –
settoriale, la seconda giustifica un aumento del commercio inter –
settoriale.
In realtà non è così, in quanto occorre tenere conto dell’unità di
rilevazione del fenomeno di cui stiamo trattando: le esportazioni delle
imprese, che vengono aggregate in esportazioni di settore e poi in
esportazioni di un paese.
Ma se consideriamo i dati a livello di impresa, possiamo notare come la
specializzazione necessaria per raggiungere le economie di scala avviene
generalmente all’interno di una certa varietà di bene.
Per esempio, la Fiat si specializza nella produzione di auto di piccola
cilindrata mentre le BMW nella produzione di auto sportive: si
raggiungono economie di scala se la produzione si concentra in un unico
stabilimento, ma i flussi tra la Germania e l’Italia sarebbero
comunque intra – settoriali (all’interno del settore auto) e non inter settoriali,

come

un’errata

interpretazione

della

teoria

potrebbe

suggerire29.
29

Vitali G. (2007) “L’integrazione commerciale europea e le nuove teorie sul commercio
internazionale”, Rivista “Imprese e territorio, n°4.

30
1.4 Globalizzazione dell’economia e le imprese multinazionali
Internazionalizzazione e globalizzazione sono fenomeni che denotano un
accorciamento delle distanze culturali, economiche, sociali tra i paesi nel
mondo. Tuttavia ci sono sfumature di significato diverse tra i due
termini. Il processo di internazionalizzazione è legato ai fenomeni quali
la riduzione delle barriere agli scambi commerciali ed eliminazione dei
vincoli

posti

agli

investimenti

diretti esteri e indica quindi

la

progressiva integrazione economico - politica tra più mercati – paese.
La globalizzazione indica la crescita del commercio mondiale, specie
attraverso grandi compagnie che producono e commerciano beni e
servizi in differenti paesi.
È un fenomeno che fa riferimento alla similarità sia delle esigenze dei
consumatori nei vari mercati nazionali, sia delle influenze sociali e
culturali nelle varie parti del mondo. Un mercato globale ammette la
libera circolazione di merci e capitali, che non esista nessun tipo di
barriera agli scambi worldwide, un forte grado di omogeneità della
domanda e dell’offerta.
Levitt parla di globalizzazione come una convergenza di tutte le culture
verso un’unica cultura globale; la diversità nelle preferenze culturali è un
concetto superato e le esigenze, i gusti e i desideri dei popoli di tutto il
mondo diventano sempre più simili e omogenei. La globalizzazione
coinvolge consumatori, imprese, mercati, culture, istituzioni e stati. Tale
processo ha raggiunto stadi differenti nei diversi mercati dell’economia
mondiale; alcuni di questi tendono ad essere più vicini al globale di altri.
I mercati business to consumer (B2C) tendono ad essere prevalentemente
locali, nazionali o regionali per effetto di differenze socioculturali,
politico – legislative, linguistiche e monetarie.

31
I mercati business to business (B2B) tendono ad essere più regionali o
quasi globali per effetto di economie nei costi o nei rendimenti dei fattori
di

produzione, di

strategici

opportunità

localizzative

(vicinanza a clienti

operanti all’estero). Le opportunità del processo di

globalizzazione riguardano la riduzione, l’annullamento di alcune voci di
costo, l’incremento delle economie e dei ricavi. Negli ultimi decenni il
numero delle imprese in grado di competere nel commercio globale è
andato progressivamente aumentando sia in termini di esportazioni che
di investimenti diretti esteri.
Si può anche notare come le economie più aperte agli scambi
internazionali crescano più rapidamente di quelle chiuse; si verifica
inoltre come le performance reddituali delle imprese che operano sui
mercati internazionali sono superiori a quelle nazionali. L'espressione
"globalizzazione dell'economia" (Gde) risulta essere in definitiva
piuttosto generica e non univoca. Infatti è utilizzata per connotare
fenomeni differenti che presentano forti ambivalenze e che sono
spesso contraddittori.
Su questa base si propone di intendere con Gde tutti gli elementi che
caratterizzano l'attuale fase di internazionalizzazione del capitale (il cui
inizio può essere collocato intorno alla fine degli anni '60). Essa presenta
contemporaneamente elementi di persistenza e di trasformazione e può
essere interpretata come un processo che sviluppa contestualmente, ma
in ambiti differenti, omogeneità ed eterogeneità.
Non può essere analizzata come un fenomeno esclusivamente
economico, né può essere interpretata esclusivamente attraverso gli
strumenti conoscitivi delle discipline economiche.
La Gde rappresenta una delle concrete determinazioni della dinamica di
espansione e approfondimento del modo sociale di produzione
capitalistico, essa non può non coinvolgere tutti gli altri ambiti
rilevanti nella produzione/riproduzione sia a livello sociale che culturale.

32
Secondo diversi autori alla Gde si assocerebbe una radicale
trasformazione delle strategie produttive e dei processi lavorativi, alla
quale dovrebbe corrispondere una trasformazione delle forme della
regolazione sociale.
Emerge su questo tema una generale condivisione, seppur da punti di
vista anche radicalmente differenti, della tesi secondo la quale il mercato
non rappresenta di per sé uno strumento di regolazione sociale
sufficiente, quindi anche con la Gde continua ad essere necessario
l'intervento di istituzioni politiche e sociali. Le posizioni ovviamente si
divaricano

in

ordine all'ambito

in cui

si può

collocare questo

intervento (locale, regionale, nazionale, sovranazionale), ai suoi obiettivi
contingenti e strategici, alle sue modalità.
D'altronde la non prevedibilità delle future traiettorie della Gde è
confermata da diverse
cosiddetto

evidenze: il

carattere

contraddittorio

del

"declino" dell'egemonia statunitense; l'ambivalenza del

fenomeno della "finanziarizzazione" dell'economia la quale sembra
indicare sia la incapacità ad individuare investimenti adeguati per i
capitali eccedenti, sia una accresciuta competizione tra i territori per
attirare denaro e investimenti produttivi; la difficoltà di individuare
istituzioni sovranazionali in grado di regolare in forme cooperative
l'economia globale. Su queste basi si può allora proporre l'ipotesi che la
possibilità degli attori locali di progettare e
sviluppo relativamente

autonomi

gestire

percorsi

di

non è annientata dalla Gde.

Questa possibilità e le caratteristiche assunte dallo sviluppo locale
continuano ad essere connesse alla persistenza nella società di interessi e
punti di vista eterogenei e quindi a dipendere dagli esiti, di per sé non
definitivi, del loro conflitto.
Si assume quindi che la categoria del conflitto - inteso come
contraddizione, attuale o potenziale - sia centrale per offrire una
rappresentazione adeguata del mutamento sia a livello globale che a
livello locale.

33
Per comprendere come l’internazionalizzazione modifichi le basi della
concorrenza, bisogna estendere il modello di analisi per includervi
l’influenza che l’ambiente nazionale esercita sulla singola impresa. Per
conseguire un vantaggio competitivo deve esserci una corrispondenza tra
le risorse e competenze dell’impresa e i fattori critici di successo del
settore.
I settori internazionali differiscono da quelli nazionali nelle fonti del
vantaggio competitivo. Se le imprese sono localizzate in paesi diversi, le
loro potenzialità in termini di vantaggio competitivo dipendono non solo
dalle risorse e competenze interne a loro disposizione, ma anche dalle
condizioni dell’ambiente nazionale30. La globalizzazione dell’economia
si basa sui processi di multi nazionalizzazione - transnazionalizzazione
delle imprese. Si può definire l'impresa multinazionale come un insieme
di società ognuna delle quali opera secondo le norme dell'ordinamento
giuridico

del

paese

in cui è localizzata, essendo partecipate e

coordinate con tutte le altre da un'altra società (la società madre),
localizzata in un paese terzo, alle cui norme deve attenersi.
La definizione mette in evidenza la possibilità di una contrapposizione di
interessi tra imprese multinazionali e paese ospite.
Nel caso in cui il complesso delle norme del paese ospite limita o
intralcia le attività, la società madre potrà trovare più conveniente
investire in un altro paese (questa flessibilità è però limitata quando
l'impresa operi nel settore delle

materie prime ).

La sfera d'azione della impresa multinazionale più che uno spazio
fisico, è uno spazio tecnico-economico: attraverso l'internalizzazione
delle transazioni

di mercato (quando i mercati sono inesistenti o

troppo rischiosi) essa assimila nel proprio spazio economico lo spazio
geografico – istituzionale degli stati. L'internalizzazione, leggibile
come risposta alla "rigidità" degli stati, crea un'economia "parallela"
caratterizzata dai prezzi di trasferimento.

30

Grant R., ( 2004),“ L’analisi strategica per le decisioni aziendali”, Il Mulino, Bologna, pag. 461.

34
Nel secondo dopoguerra si possono distinguere, quattro diverse
generazioni di impresa multinazionale, relativamente alla strategia
adottata: I) quelle che si basano su investimenti supply oriented, tesi ad
acquisire soprattutto materie prime, gli Stati del "centro" e le imprese
hanno un reciproco interesse nell'espansione all'estero (prevale fino alla
fine degli anni '60); II) quelle spinte dalla concorrenza oligopolistica
verso nuovi mercati, sostituendo le esportazioni con IDE aggressivi
(market oriented), i flussi di investimento si concentrano nei paese
industrializzati (in particolare Usa-Europa), mentre nei "Paesi in via di
sviluppo" (di seguito, Pvs) si sviluppa una polarizzazione tra aree di
nuova industrializzazione e aree più fortemente periferizzate; III) quelle
che si sviluppano a seguito dell'internazionalizzazione delle attività
industriali che si accompagna a quella dell'indotto, per cui si sviluppano
imprese multinazionali (soprattutto statunitensi) che forniscono servizi
alle imprese (gli IDE nel settore dei servizi passano dal 25,2% del 1975,
al 39,9% del 1985), il fenomeno interessa pochissimo i Pvs, salvo i
"paradisi fiscali"; IV) quelle per le quali lo spazio fisico "diventa
ininfluente" agli effetti delle decisioni strategiche in materia di
localizzazione industriale dei grandi gruppi e anche dei medi.
Si tratta delle imprese multinazionali "runaway": obiettivo strategico è la
compressione dei costi aziendali attraverso il decentramento
segmenti

del

ciclo tecnico di

produzione

nei

di

paesi che

presentano le migliori opportunità di costo dei fattori utilizzati nella
produzione.
Si creano spazi aziendali integrati, con una distribuzione geografica
strategica per l'impresa (ma non per il paese ospite). L'impresa
multinazionale si sgancia progressivamente dal paese d'origine e
contribuisce alla continua trasformazione della divisione internazionale
del lavoro puntando alla ricerca di vantaggi comparati.
Benché la multinazionalità sia spesso appannaggio della grande impresa,
sono numerosissime anche le imprese multinazionali di media - piccola

35
dimensione (in molti paesi sono la maggioranza), anche se si muovono su
uno spazio economico limitato. In genere si ha un’internazionalizzazione
graduale, poco diversificata, verso paesi limitrofi (prolungamento del
mercato domestico), che evita localizzazioni in paesi a rischio politico
(sono quasi assenti nei Pvs), e che tende a ridurre il rischio di
investimento tramite joint-ventures. Il ruolo dell'impresa multinazionale
ha registrato mutamenti sostanziali assumendo rilievo strategico nel
riequilibrio di divari economici.
Questa funzione di redistribuzione di risorse e opportunità tra i diversi
paesi sarebbe assolta dalle multinazionali in differenti campi. Esse
creano occupazione: impiegano oggi all'estero (e quindi anche nei Pvs)
un numero di addetti superiore a quello occupato nei paesi d'origine.
Attivano la crescita economica dei Pvs: non tanto attraverso gli IDE
market-oriented quanto con quelli trade-creating per mezzo dei quali si
razionalizza la produzione nel paese di origine spostando settori labour
intensive (attraverso multinazionali runaway) in paesi a basso costo di
manodopera, dove quindi si crea lavoro e sviluppo industriale.
Crescono le esportazioni dei Pvs, anche quelli ad alta intensità di ricerca
e di tecnologia. Al movimento internazionale delle merci si sta
lentamente sostituendo un movimento internazionale dei fattori
produttivi (capitale, forza lavoro, materie prime).
Consideriamo il concetto proposto da Porter 31 di "catena del valore",
attraverso il quale si può suddividere l'impresa nelle diverse attività che
essa svolge quando progetta, produce, distribuisce e vende i suoi
prodotti. Nella strategia internazionale la catena del valore ha due
dimensioni: a)

la localizzazione

delle attività della catena; b) il

coordinamento delle attività dislocate nei diversi paesi.
Nell'impresa transnazionale la configurazione delle attività (risorse,
responsabilità, decisioni) risulta diffusa, non solo per sfruttare meglio i
differenziali nazionali, ma anche per offrire risposte migliori alle

31

Porter M.E., (1985), “ Competitive advantage: creating and sustaining superior performance”,
NewYork, Free Press, ( trad. it.: “ Il vantaggio competitivo”, Milano, Comunità, 1986).

36
domande specifiche dei mercati locali; in questa configurazione diffusa
vi è la tendenza alla specializzazione delle risorse e delle

capacità, e

prevalgono le interdipendenze reciproche e l'interazione cooperativa
tra le parti del sistema. La cooperazione inter-firm può essere
rappresentata come una nuova modalità competitiva per affrontare la
complessità.
Una competizione globale più aperta fa diventare, secondo Porter,
la base domestica non meno, ma più importante, mentre secondo Reich
invece si avrebbe il risultato opposto: progressiva perdita di importanza
della nazionalità delle aziende.
Grandinetti e Rullani32 sostengono che una risposta adeguata alle tesi di
Reich deve spostare l'analisi sul piano delle conoscenze e sul rapporto
dialettico tra le sfere cognitive del locale e del globale 33. Allo stesso
modo rifiutano la "tesi estrema" di Levitt, secondo il quale l'impresa
globale può estendere a livelli prima impensabili la standardizzazione,
le economie di scala e la produzioni di massa, data la progressiva
omogeneizzazione del mercato e l'imporsi del consumatore globale. La
varietà non viene ridotta e l'intensità della concorrenza favorisce le
politiche di differenziazione degli out – put delle imprese.
Un modello che sembra convincere i due Autori è quello proposto da
Bartlett e Ghoshal34. La crescente complessità impone alle imprese di
adottare

un

modello

organizzativo

transnazionale;

l'impresa

transnazionale sotto il profilo organizzativo si configura nella forma di
una rete integrata; le filiali all'estero sono entità specializzate e
interdipendenti, entro una logica sistemica "evoluta", sotto i due profili

32

Grandinetti R. – Rullani E. (1996) “Impresa transnazionale ed economia globale”, NIS Editore, Roma,
pag . 114 – 149.
33

Barrucci P., (1998), “Economia globale e sviluppo locale. Per una dialettica della modernità avanzata”,
Pisa, Felici.
34
Ghoshal S. – Bartlett C.A., (1998), “Innovation processes in multinational corporations”, in M.L.
Tushman, W.L. Moore (eds.), “Readings in the management of innovation”, Ballinger Publishing
Company, Cambridge (MA), pag. 499 – 518.

37
del coordinamento e dell'apprendimento. La capacità di apprendere in
modo diffuso e di trasferire conoscenze diventa una leva competitiva
sempre più importante per le imprese che operano nei settori globali. La
specializzazione

implica

la

differenziazione

dei

ruoli

e

delle

responsabilità delle consociate, recuperando sia i benefici della divisione
internazionale del lavoro, sia una superiore flessibilità nell'operare in
diversi mercati-paese comunque globalmente interdipendenti.
Secondo Bartlett e Ghoshal la differenziazione interna e l'integrazione
non gerarchica delle parti sono le fondamentali risposte strategiche e
organizzative dell'impresa multinazionale alla continua sfida della
complessità/globalità35. In definitiva il modello di Bartlett e Ghoshal
riconosce che è la varietà dei paesi il dato da organizzare, attraverso il
coordinamento di consociate autonome che possono attingere a tale
varietà e alimentare con questa le competenze, le strategie e le fasi di
sviluppo nei mercati esteri dell'impresa multinazionale.
Il dibattito attuale, secondo Grandinetti e Rullani, sembra polarizzarsi su
due posizioni: a) quella dell'organizzazione multi - domestica, che
riconosce autonomia alle filiali o alle consociate su una base di tipo
territoriale (con un'autonomia strategica delle unità nazionali o
continentali); b) quella dell'impresa globale (secondo la lettura di Levitt)
che identifica centri globali di responsabilità per funzione, i quali hanno
autorità sulle attività delle imprese ovunque localizzate. Rispetto a
questa polarizzazione la soluzione "transnazionale" di Bartlett e Ghoshal
rappresenterebbe il superamento della rappresentazione dicotomica
locale-globale, prendendo così le distanze sia dal modello che valorizza
in modo unidimensionale le autonomie locali, sia da un modello
riduttivamente"globale".
Fondamentale, secondo i due Autori, diventa il riferimento alle economie
di scala a livello di conoscenza. La scelta di concentrare le conoscenze in

35

Grandinetti R. – Rullani E. (1996) “Impresa transnazionale ed economia globale”, NIS Editore,
Roma, pag. 115 – 136.

38
un unico punto significa legare le innovazioni possibili al sapere
contestuale di un singolo paese. Mentre va sottolineato che la
conoscenza contestuale prodotta nei diversi paesi è una risorsa, sia come
arricchimento delle conoscenze già codificate, sia per la ricontestualizzazione e l'utilizzazione del sapere codificato nei diversi
paesi.
L'autonomia locale può allora entrare in gioco in due modi: a)
diventando una specificazione interna della posizione globale, ossia di
reti che sono unificate globalmente per competenza distintiva, ma
articolate in una varietà di soluzioni che utilizzano il sapere contestuale
delle consociate. Il criterio globale risponde alla logica della rete dove i
nodi centrali possono risiedere nelle consociate e non necessariamente
nella casa-madre; b) le consociate sono collegate in una rete come un
insieme di "business unit autonome", le quali costruiscono le loro linee
di divisione del lavoro con altre consociate estere, ma anche con imprese
indipendenti.
A queste
relazionale

business unit è affidata la funzione comunicativa e
con

tutto

il

contesto

nazionale

di

riferimento.

In questo modo, il modello organizzativo transnazionale, superando la
dicotomia

centralizzazione/decentramento, opera innanzitutto all'

interno dell'organizzazione una distribuzione

selettiva del processo

decisionale, e quindi dei luoghi in cui si gestisce il coordinamento,
tramite sistemi formali e informali. Quando la densità delle relazioni di
scambio nell'ambito dell'insieme organizzativo locale della consociata
è alta, ad essa deriva un potere nei confronti della casa- madre alla
quale risulta difficile rispondere in base al principio gerarchico. D'altra
parte, un'elevata densità nel network esterno corrisponde tipicamente a
un elevato livello di interazioni tra le consociate della multinazionale.
In sintesi Grandinetti e Rullani sostengono che le reti globali
rappresentano un modo di organizzare

il sistema cognitivo della

39
produzione internazionale, un integratore specifico (diverso dai mercati e
dalle gerarchie) su cui può reggersi la divisione del lavoro cognitivo su
scala internazionale.
In particolare, nell'internazionalizzazione tipica dell'epoca post– fordista,
la divisione del lavoro si appoggia a reti trans– contestuali, trasferendo
così la conoscenza tra i tanti mondi locali che partecipano all'economia
globale36.
Da una recente analisi di alcuni gruppi multinazionali europei
emergerebbe un quadro in qualche misura coerente con l'approccio dei
due Autori: non sarebbe individuabile un unico modello di
internazionalizzazione;

si

hanno

invece

soluzioni

organizzative

differenziate, all'interno delle quali variano i compiti affidati alle
consociate. Queste avrebbero maggiore autonomia nella gestione delle
risorse umane e nello stesso tempo assumerebbero comportamenti più
omogenei

sulla

base

dell'accelerata

internazionalizzazione

del

management. L'omogeneità aumenta nelle effettive modalità di
funzionamento delle organizzazioni, in quanto la spinta competitiva alla
maggiore efficienza rivaluta il ruolo delle economie di scala e la capacità
di ottimizzare su scala globale la divisione del lavoro. Aumenta
l'importanza delle divisioni verticali e quindi della capacità di gestire e
valorizzare le differenze in un'ottica globale. Da ciò deriverebbe la
necessità per l'impresa di sviluppare un management con un forte
radicamento locale, ovvero una struttura tipicamente etnocentrica al
fine di connettere più culture regionali e creare la rete di rapporti sui
quali costruire i vantaggi competitivi derivanti dal processo di
internazionalizzazione.
Ciononostante i due Autori (così come nella interpretazione della
globalizzazione), anche in
processo

di

riferimento

alla specifica

analisi

del

trans – nazionalizzazione, sembrano prospettare una

troppo facile e pacifica convergenza tra le morfologie e le strategie

36

Grandinetti R. – Rullani E., op. cit., pag. 147 – 149.

40
transnazionali, da una parte, e le caratteristiche e le possibilità di autodirezione dei contesti locali, dall'altra. In questo modo, nonostante
l'enfasi sulla varietà,vengono di fatto sottovalutate le differenze sia tra i
processi di trans – nazionalizzazione, sia tra i contesti locali, i quali
presentano in realtà differenti concentrazioni di capacità e di risorse con
le quali poter affrontare gli attori e i vari processi di sviluppo
internazionale.
Un altro limite ricorrente della proposta è riscontrabile nel modo con cui
è tematizzato il ruolo della conoscenza. La conoscenza e le informazioni
che in un determinato contesto sono valutate come "rilevanti"
rappresentano indubbiamente nell'attuale fase dello sviluppo capitalistico
un bene fondamentale. Certamente questo bene trova nelle "reti" trans –
nazionali un canale di circolazione preferenziale. Ma che nell'economia
trans – nazionale la conoscenza rappresenterebbe il meccanismo di
integrazione più adeguato (rispetto alla gerarchia e al mercato) è
un'affermazione

difficilmente

sostenibile.

Grandinetti

e

Rullani

sostanzialmente suggeriscono la tesi secondo la quale la conoscenza è un
"integratore" al pari della fiducia, della reciprocità, delle relazioni tipo
clan. Al contrario la conoscenza, proprio in quanto bene prezioso, è
trattata come una merce, oppure circola incorporata nelle merci (forzalavoro compresa). In quanto merce è scambiata sul mercato con denaro e
il suo prezzo dipende dal suo livello di standardizzazione/innovatività e
da altri fattori (ad esempio i rapporti di forza tra i contraenti).
Ovviamente all'interno della impresa transnazionale la conoscenza, oltre
a poter assumere la forma di merce scambiata nel mercato interno tra
filiali e tra queste e la casa-madre, è un fattore di produzione che, al pari
degli altri fattori di produzione, viene collocato nei modi più adeguati
per massimizzare le performance dell'impresa stessa.
Il controllo della conoscenza è un terreno di conflitti assai aspri sia nella
dialettica locale/globale (nella relazione tra impresa transnazionale e
contesto locale ), sia nei rapporti di produzione. Nella dialettica

41
locale/globale è verosimile che le forze globali dispongano di maggiori
risorse rispetto ai soggetti locali, per cui per le prime sarà più
facile tradurre

le "conoscenze contestuali" (frutto dell'esperienza) in

conoscenze astratte e formalizzate, viceversa i secondi incontreranno
maggiori difficoltà, pur avendo acquistato una determinata merceconoscenza, a tradurre il suo contenuto astratto nello specifico contesto
di utilizzazione. Non a caso le imprese trans – nazionali riescono nel commercio di tecnologie - a imporre ai contraenti più deboli
l'acquisto di interi pacchetti di conoscenza, in quanto all'utente manca
spesso il know-how
potenzialità

di

necessario o di base per
un

singolo

segmento

sfruttare a pieno le
di

conoscenza.

Nell'ambito dei rapporti di produzione il capitalista e i suoi agenti hanno
bisogno, per legittimare il loro potere sociale, di mantenere il più alto
controllo possibile del processo lavorativo, di conseguenza alla forza –
lavoro

verranno "cedute" esclusivamente le conoscenze e le

informazioni necessarie per garantire determinati risultati produttivi (e
questo vale sia nella "vecchia" organizzazione taylorista, sia nella
"nuova" organizzazione toyotista), viceversa attraverso le più "moderne"
e "sofisticate" tecniche di gestione delle risorse umane (paternalismo,
coercizione, ricatto, ecc.) la direzione di impresa cercherà di ottenere
gratuitamente

le

conoscenze

e

le

informazioni

che

vengono

costantemente prodotte e fatte circolare sulle linee di produzione dalla
forza-lavoro.
In un processo di internazionalizzazione è di assoluto rilievo per
l’impresa individuare e scegliere i paesi verso cui orientare la propria
attività. Le due variabili fondamentali sono il grado di attrattività di un
paese che deve ospitare i flussi commerciali o gli IDE e il grado di
accessibilità dello stesso. Per quanto riguarda l’analisi della attrattività,
questa va valutata rispetto alle dimensioni del paese, alle caratteristiche
della domanda ed al grado di accettazione del prodotto. L’analisi si basa
su una serie di screening successivi in modo da individuare un gruppo di

42
paesi potenziali verso cui estendere l’attività internazionale dell’impresa.
Con il primo screening si individua infatti un primo gruppo di paesi per i
quali ancora non sia possibile esprimere un giudizio negativo, quindi
individuare quelli in ordine ai quali non sia da escludersi l’interesse per
l’impresa(paesi accettabili). Con il secondo screening si cerca di
individuare il mercato potenziale in ciascuno dei paesi presi in
considerazione e quindi un terzo e ultimo screening teso ad individuare
quei paesi in cui si prospetta una maggiore coerenza tra la domanda
primaria e la specifica offerta aziendale.
Tutto il processo di selezione di basa sull’analisi di un insieme di
variabili

macro-ambientali:

fisico

–

geografiche,

demografiche,

economiche, tecnologiche. Circa le variabili demografiche bisogna
considerare l’entità numerica della popolazione, la densità abitativa, la
dispersione geografica e la tendenza allo spostamento. Una popolazione
molto numerosa non è detto che sia attraente, se pensiamo ad un paese
molto popoloso ma caratterizzato da una crescita economica marginale
logicamente non sarà reputato come un’area interessante sulla quale
poter investire. Le variabili economiche da considerare riguardano il
prodotto interno loro, la disponibilità di fonti energetiche, il potere di
acquisto della popolazione, la distribuzione del reddito e la propensione
al consumo.
Dopo aver delineato le determinanti che rendono un paese più o meno
attrattivo, bisogna verificare il grado di accessibilità ed eventualmente
correlarlo al grado di attrattività dello stesso. L’accessibilità dipende da
due ordini di fattori: quelli relativi alle barriere artificiali che le imprese
devono

affrontare

qualora

vogliano

avviare

un

processo

di

internazionalizzazione e poi quelli relativi all’ambiente competitivo
tipici del paese verso il quale orientare la propria offerta commerciale.
L’ambiente competitivo comprende l’analisi della concorrenza reale e
potenziale ( considerando le loro risorse a disposizione, la strategia

43
perseguita, i loro obiettivi), le caratteristiche della domanda e le
variabili del

marketing mix da adottare ( variabili relative alle

caratteristiche dei canali distributivi, alle politiche di comunicazione, al
pricing).
Per quanto riguarda le barriere artificiali, queste solitamente sono
distinte in tariffarie e non tariffarie 37. Quelle tariffarie indicano
l’imposizione di una tariffa specifica il cui pagamento è obbligatorio da
parte delle imprese che vogliono introdurre le loro merci in altri paesi
che non fanno parte dell’unione doganale. Ciò implica logicamente
un’aggravio dei costi per l’impresa che diventa anche meno competitiva
rispetto alla produzione delle imprese locali. La barriera tariffaria per
eccellenza è il dazio doganale che consiste in una imposta indiretta sui
beni che circolano da uno Stato ad un altro e viene riscossa nel momento
in cui una merce fa ingresso nel territorio doganale dello Stato.
Nonostante l’OMC abbia cercato di abbassare e di armonizzare i
dazi

doganali

per rendere

più

efficiente il sistema economico

internazionale, i prelievi daziari rimangono ancora piuttosto diffusi
riducendo il vantaggio competitivo di costo di cui un impresa potrebbe
disporre. Per evitare che il costo del dazio si rifletta sul prezzo della
merce al consumo, le imprese sono costrette ad accollarsene l’onere
riducendo i propri margini. I dazi a scopo fiscale hanno l’intento di
conseguire un’entrata tributaria colpendo i consumi delle merci
provenienti dall’estero, mentre i dazi a scopo protettivo intendono
impedire od ostacolare l’ingresso di alcuni prodotti stranieri.
Per quanto riguarda il criterio di calcolo del dazio si distinguono i dazi
ad valorem, ad pesum e misti. I dazi ad valorem sono prelievi
proporzionali, con aliquota percentuale, al valore imponibile della merce
importata, mentre per quelli ad pesum l’aliquota è fissa per ogni unità di

37

Valdani E. – Bertoli G., op cit. pag. 143 – 144.

44
bene importato a prescindere dal prezzo. I dazi misti integrano i due
sistemi su riportati.
Altro strumento tariffario sono i diritti integrativi di confine: un insieme
di tributi imposti dalle autorità doganali che riproducono gli stessi
meccanismi di funzionamento del dazio; tra questi elenchiamo
l’IVA, i diritti di monopolio, tasse di varia natura, diritti di
magazzinaggio e facchinaggio, le tasse di imbarco e di sbarco, le tasse di
ispezione della merce.
Passando ad analizzare le barriere di carattere non tariffario iniziamo a
discorrere sul contingentamento delle importazioni: consiste in un
provvedimento delle autorità competenti che mira a stabilire una
limitazione quantitativa all’approvvigionamento estero di determinate
merci. La conseguenza di un simile limite alle importazioni è quella di
generare incrementi dei prezzi delle merci al consumo. Altro tipo di
barriera sono gli embarghi e i divieti di esportazione che vanno oltre
le ragioni di carattere economico, spesso infatti vi sono motivi di
carattere politico come per esempio la garanzia della sicurezza nazionale
lì dove ad esempio alcune merci potrebbero essere applicate in campo
militare.
Una tipica barriera non tariffaria è costituita dalle regole tecniche e
standard di prodotto. Per commercializzare un prodotto agricolo o
industriale, infatti, non è sufficiente pagare un dazio doganale ma
occorre che il prodotto nazionale o importato sia sicuro. Per determinare
la sicurezza di un prodotto, molti paesi hanno sviluppato nel corso degli
anni delle regole tecniche che indicano le caratteristiche che i prodotti
devono possedere o i modi di produzione che devono essere seguiti.
Accade così che un’impresa che voglia internazionalizzarsi debba
seguire una pluralità di prescrizioni normative in materia di
caratteristiche tecniche di base che devono essere assicurate nei prodotti
collocati all’estero.

45
Oltre alle regole tecniche ci possono essere altri requisiti di carattere non
obbligatorio il cui rispetto è necessario al fine di beneficiare di un
trattamento commerciale in qualche modo più favorevole. Grazie
all’azione

condotta

soprattutto

dall’ISO

(International

Standard

Organization), si è creato un processo di armonizzazione delle regole e
degli standard tecnici relativi ad una pluralità di settori merceologici38.
Altro tipo di barriera non tariffaria è costituita dai

calendari

di

importazione che stabiliscono determinati periodi dell’anno in cui può
essere liberamente effettuata l’introduzione di nuovi prodotti all’interno
dello Stato, mentre viene bloccata in altri periodi. Tendenzialmente
l’accesso delle merci è reso possibile nei periodi della bassa stagione
agricola, cioè proprio nel momento in cui la produzione stagionale
interna ha già trovato assorbimento sul mercato nazionale. Ultimo tipo di
barriera non tariffaria è data dalle misure di carattere valutario e
finanziario, tra tali misure ricordiamo: le restrizioni valutarie consistono
in un controllo statale sui cambi delle valute in modo da incidere sul
costo dei beni importati; autorizzazioni governative per acquisire valuta
estera; soppressione o temporanea sospensione della convertibilità.
Altri strumenti affini sono i cambi valutari multipli che pongono
implicitamente un limite all’ingresso delle merci straniere poiché
l’autorità monetaria nazionale discrimina i cambi di acquisto e di vendita
delle valute. La discriminazione dei cambi riferita all’importazione può
consentire l’attuazione di una politica economica tendente a rincarare le
merci estere non considerate di prima necessità ed a rendere convenienti
quelle giudicate di elevato grado di utilità per l’economia nazionale39.
Sulla base dell’analisi della attrattività di un paese e della sua
accessibilità, le imprese che vogliono internazionalizzare la propria
attività dovranno stimare il numero di paesi verso i quali orientarsi, la

38

Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 157 – 158.

39

Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 163.

46
tempistica dello sviluppo internazionale e la posizione competitiva
acquisibile.
1.5 Analisi dei rischi nel commercio internazionale
Negli ultimi decenni il commercio internazionale è cresciuto a un ritmo
doppio di quello della crescita del PIL globale, il flusso internazionale di
capitali finanziari e investimenti diretti esteri è più che raddoppiato
nell’ultimo decennio ( in rapporto al PIL mondiale), la ricerca di
economie di scala e di diversificazione ha indotto le imprese ad investire
capitali e tecnologie all’estero, ad acquisire know – how dall’estero, ad
approvvigionarsi

di

beni e servizi dovunque sia più utile e

conveniente40.
Dal lato delle imprese che si internazionalizzano, si tratta sempre di
decisioni complesse, accompagnate da un processo di trasformazione
aziendale fondamentale e spesso irreversibile e va sottolineato che le
attività economiche internazionali sono soggette a tutti i rischi che
caratterizzano ogni business.
Per identificare le categorie di rischio è opportuno partire dalle fonti,
esaminandole sotto il profilo delle differenze che si presentano tra i paesi
coinvolti. Si tratta di differenze di natura geografico – climatica,
culturale, politico – legislativa41.
Per gli stati le cui imprese affrontano processi di internazionalizzazione,
le implicazioni possono essere in termini di competizione a livello di
paese o di area regionale nell’attrazione di investimenti internazionali, in
termini di permeabilità delle economie nazionali ai fenomeni di
instabilità finanziaria ed economica e quindi in termini di politiche
protezionistiche a livello di mercati – regione.

40

Pagliacci M., (2010),“Rischi finanziari nelle operazioni commerciali”, Franco Angeli, Milano, pag 84.
41

Pagliacci M., op cit. pag 85.

41

47
Un problema importante, che una impresa che si internazionalizza deve
affrontare, è quello relativo alla gestione della diversità. La diversità è
connessa a tutta una serie di rischi:
- Rischio paese: identifica il rischio del mancato o negativo esito
dell’operazione d’affari a causa di eventi politici, sociali , economici,
finanziari del paese ove la controparte opera.
- Rischio di cambio: è generato dalla volatilità delle monete di
riferimento, in relazione al valore della propria moneta.
- Rischio

variabilità

delle

condizioni

di

domanda/offerta:

si

manifesta quando le condizioni inizialmente previste subiscono un
cambiamento significativo per ragioni politico-normative, per una crisi
economica o per l’entrata di nuovi prodotti o concorrenti.
- Rischio di incremento dei costi e/o variabilità dei prezzi: tali eventi
sono particolarmente problematici quando si manifestano in presenza o a
causa di controparti pubbliche, quando gli spazi di trattativa e di
rinegoziazione dei contratti sono ridotti o esclusi.
- Rischio legale: si manifesta anche in relazione alla difficile o
controversa interpretazione delle normative locali, ma soprattutto quando
si incorre in liti giudiziarie con soggetti locali42.
Un particolare tipo di rischio è quello fisico nelle fasi di trasporto,
magazzinaggio e nella gestione complessiva della compravendita. I
trasferimenti espongono le merci a tutta una serie di rischi che possono
compromettere il buon esito dell’operazione, determinando danni
all’integrità della merce. Per quanto avanzati possano essere i vettori
utilizzati e perfezionate le tecniche di imballaggio, il trasferimento di una
merce difficilmente potrà evitare il rischio che l’originaria integrità o
altri termini della consegna vengano meno.
Da un lato ci sono tutti i rischi relativi ad eventi naturali o fortuiti non
controllabili dall’uomo, dall’altro lato ci sono i cosiddetti “atti umani”
che comprendono gli atti incolpevoli ( imprevedibili e che provocano

42

Pagliacci M.. op. cit., pag. 86.

48
incidenti ai mezzi di trasporto); atti colpevoli i quali per fatto colposo
provocano incidenti ai mezzi dei vettori o perdite, avarie e ritardi alle
merci; atti dolosi, come furti, manomissioni o danneggiamenti
internazionali. Il rischio fisico può essere ricondotto anche alla
combinazione degli elementi sopra considerati43.
Si procede ora ad una descrizione delle principali metodologie che la
dottrina e la

pratica hanno elaborato in questa materia. Particolare

rilevanza assume il rischio politico, il quale si riconnette a possibili
provvedimenti adottati dalle pubbliche autorità del paese estero, in grado
di compromettere lo sviluppo delle attività dell’impresa nel mercato di
riferimento. I provvedimenti possono essere adottati, oltre che per
motivazioni politiche, per motivazioni di carattere economico, come per
esempio quando un paese si trova ad affrontare una situazione di
recessione o di iperinflazione.
Root considera il rischio politico suddiviso in quattro classi: rischi di
instabilità, rischi sul controllo della proprietà dell’investimento, rischi
operativi, rischi di trasferimento.
I rischi di instabilità riguardano l’eventuale insorgere di conflitti nel
paese estero, la eventuale instabilità del governo oppure l’avvio di
ostilità verso altri paesi. Invece i rischi relativi al controllo della
proprietà riguardano quelle situazioni in cui i beni di una impresa
potrebbero essere oggetto di provvedimenti restrittivi ( espropriazione,
requisizione, collettivizzazione), oppure delle rinegoziazioni contrattuali
con ridefinizione di norme e provvedimenti.
I rischi operativi derivano dalle conseguenze negative indotte da
normative su regimi fiscali più stringenti o sui limiti imposti al personale
proveniente dal paese di origine dell’impresa, oppure normative su
vincoli all’import – export di materiali, controlli pubblici sui mezzi.

43

43

Caroli M. (2008),“Economia e gestione delle imprese internazionali”, McGraw-Hill, Milano, pag 232- 232.

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  • 1. Indice Introduzione pag. 2 Capitolo 1 – I rapporti economici internazionali pag. 5 1.1 Le teorie di base dello scambio internazionale pag. 5 1.2 Una rassegna delle principali teorie sugli investimenti diretti esteri pag. 10 1.3 Le nuove teorie del commercio internazionale pag. 22 1.4 Globalizzazione dell’economia e le imprese multinazionali pag. 31 1.5 Analisi dei rischi nel commercio internazionale pag. 47 Capitolo 2 - Le imprese agroalimentari italiane e lo scenario internazionale pag. 54 2.1 Ide e commercio internazionale nel settore agricolo pag. 54 2.2 Internazionalizzazione del sistema agroalimentare italiano pag. 66 2.3 La Politica Agricola Comunitaria e i suoi pilastri pag. 81 2.4 Politiche fiscali di incentivazione pag.112 Capitolo 3 - La struttura del sistema agroalimentare siciliano pag. 116 3.1 Il comparto ortofrutticolo nel sistema agroalimentare della regione pag. 116 3.2 Le politiche a favore delle imprese siciliane pag. 128 3.3 Analisi di un caso: Società Agricola Monterosso pag. 140 Conclusioni pag. 158 Bibliografia pag. 161 Sitografia pag.164 1
  • 2. Introduzione La nuova sfida a cui sono chiamate oggi le imprese è quella di essere competitive in un contesto sempre più internazionalizzato dove si rileva una maggiore pressione concorrenziale di carattere sovranazionale e dove è possibile accedere a nuovi mercati, trovando nuove opportunità di sviluppo. Per spiegare il concetto di internazionalizzazione è importante sottolineare come a lungo alcuni studiosi hanno utilizzato questo termine in un’accezione riduttiva, riferendosi implicitamente o esplicitamente all’aspetto puramente commerciale, quindi alla tendenza delle imprese a vendere i propri prodotti all’estero. Il fenomeno dell’internazionalizzazione presenta anche altri aspetti, oltre quelli più strettamente legati alla produzione, e deve essere inquadrato nell’ambito dei cambiamenti che interessano le strategie e le azioni di marketing. Per internazionalizzazione si intendono i processi evolutivi delle imprese industriali, essenzialmente quantitativi in quanto volti ad ampliare l’estensione geografica dello spazio economico. Quando si parla di globalizzazione si intende invece un processo qualitativamente differente, che non riguarda unicamente l’estensione geografica delle attività economiche, ma anche e soprattutto l’integrazione funzionale di queste attività distribuite a livello internazionale, per cui i manufatti ed i servizi prodotti esprimono un complesso insieme di legami in una catena di produzione che coinvolge numerosi paesi. La globalizzazione ha portato ad un crescente movimento di capitali a livello internazionale, alla diffusione di tecnologie di provenienza plurinazionale ed alla nascita di mercati sopranazionali, perciò viene coniato il termine villaggio globale. La globalizzazione implica una forma di produzione internazionalizzata in cui le attività generatrici del valore, possedute, controllate e gestite dall’impresa si distribuiscono su una pluralità di mercati per cui una 2
  • 3. quota crescente del valore della ricchezza è prodotta e distribuita tramite un complesso ventaglio di processi e di relazioni che integrano, tramite le imprese, le diverse economie nazionali. Tali nuovi tipi di relazioni non si esprimono nella mera espansione internazionale della singola impresa, bensì nello sviluppo di una divisione del lavoro tra imprese fondate in misura crescente sugli accordi e la cooperazione tra soggetti diversi. Il passaggio da un contesto aziendale nazionale a uno internazionale comporta un aumento di complessità. In un ambiente internazionale, il potenziale di vantaggio competitivo di un’azienda è determinato sia dalle proprie risorse e competenze, ma anche dalle condizioni dell’ambiente nazionale in cui opera, inclusi i prezzi dei fattori di produzione, i tassi di cambio e una molteplicità di altri elementi. Le forze trainanti del processo di internazionalizzazione sono, in primo luogo, i tentativi di sfruttare le possibilità offerte dai mercati esteri e, in secondo, il desiderio di sfruttare le opportunità produttive localizzando le attività dove possono essere gestite in modo più efficiente. In ogni caso, i benefici ottenibili da una delocalizzazione all’estero delle varie fasi della catena del valore di un’impresa devono essere confrontati con i maggiori costi legati al coordinamento di attività disperse a livello globale, inclusi quelli di trasporto e di magazzino. La globalizzazione dell’economia ha comportato e comporta la creazione di una rete internazionale di transazioni che riguarda merci, persone, capitali e servizi. Le imprese italiane denotano una certa difficoltà nel presenziare in contesti internazionali, mostrano un ritardo in termini di esportazione rispetto ai concorrenti dell’area euro. Una possibile spiegazione potrebbe risiedere nella fragilità del sistema produttivo italiano e nel cosiddetto “ nanismo ” tipico delle nostre imprese. Se consideriamo poi gli investimenti diretti all’estero questi costituiscono il 3.5 % del totale mondiale. Le opportunità offerte dai mercati mondiali aprono nuove 3
  • 4. possibilità alle imprese di poter accedere a processi produttivi innovativi e avanzati, a nuovi mercati e nuove risorse. La nostra attenzione è focalizzata sul sistema agroalimentare italiano nel contesto internazionale. Tale settore, ampiamente riconosciuto come uno dei settori fondamentali della nostra economia, fa parte di una delle “4 A” del made in Italy italiano, poiché tali prodotti sono ampiamente esportati e costituiscono un elemento di traino per l’economia nazionale. Le industrie agroalimentari sono orientate all’esportazione verso i paesi esteri piuttosto che agli IDE in quanto la produzione e la trasformazione dei prodotti agricoli deve essere svolta in un ambiente pedo – climatico favorevole come quello mediterraneo tipico dell’Italia. I dati analizzati fanno registrare un incremento delle esportazioni nei primi mesi del 2010 in presenza di un netto calo dei prezzi a livello internazionale. Le imprese agroalimentari italiane hanno avuto un notevole sviluppo internazionale negli ultimi anni, anche grazie al sempre più forte attaccamento ai brand italiani sinonimo di qualità. Il ruolo ricoperto dalle politiche europee di incentivazione delle imprese agroalimentari, con riferimento alla Pac ed ai suoi pilastri, ai fondi europei per lo sviluppo agricolo regionale ed alle politiche fiscali, fornisce un supporto fondamentale per le imprese sia di piccole che di grandi dimensioni operanti in tale settore che intendono sviluppare rapporti con il mercato estero. 4
  • 5. CAPITOLO 1 – I rapporti economici internazionali 1.1 Le teorie di base dello scambio internazionale L’internazionalizzazione delle imprese è uno degli effetti più evidenti dell’integrazione economica su scala mondiale e le imprese possono creare o acquistare facilmente attività produttive all’estero al fine di sfruttare i relativi vantaggi di costo. La globalizzazione è quel fenomeno di crescita a livello mondiale riguardante le interrelazioni fra i diversi sistemi economici e sociali, mediato da istituzioni economiche. I processi di internazionalizzazione sono da tempo studiati dalla teoria economica, indagando sia sulle ragioni del commercio tra paesi sia sulle motivazioni che spingono agli investimenti diretti all’estero (IDE). Il Fondo Monetario Internazionale, nel 1997, ha dato una definizione approssimata della globalizzazione, definendola come quella crescente interdipendenza economica tra paesi realizzata attraverso l’aumento del volume e delle varietà di beni e servizi scambiati internazionalmente, la crescita dei flussi internazionali di capitali e la rapida ed estesa diffusione della tecnologia. In altre parole, questa crescita degli scambi internazionali di beni, servizi e tecnologia congiuntamente a quella del flusso dei capitali stanno dando luogo ad una forte interdipendenza economica ossia ad un fenomeno che si può definire di globalizzazione. Numerosi storici fanno risalire questo fenomeno a svariati secoli precedenti, altri ritengono che risalga ai tempi della scoperta dell’America, mentre altri ancora ritengono che già prima della I e II guerra mondiale il fenomeno fosse già presente anche se poi disgregato dagli eventi bellici. Il commercio internazionale è un aspetto della teoria economica che applica modelli microeconomici all’analisi dell’economia internazionale e gli strumenti teorici utilizzati sono quelli classici della teoria dei prezzi e dei mercati. 5
  • 6. La finanza internazionale applica la macroeconomia all’economia internazionale, e si interessa pertanto di variabili quali il PIL, il tasso di occupazione, il saggio di interesse, il tasso di inflazione, il saldo della bilancia commerciale e così via. Un’impresa può agire sui mercati esteri in vari modi. I più comuni riguardano: - l’acquisto di prodotti e materie prime da fornitori esteri (scegliendo quindi mercati di approvvigionamento internazionali); -la produzione in unità localizzate all’estero, attraverso la costituzione di vere e proprie unità produttive in loco che richiede un notevole sforzo economico e gestionale, e/o la produzione da parte di terzi all’estero, in particolare in Paesi nei quali i costi del lavoro sono inferiori o in Paesi vicini ai mercati di approvvigionamento o di sbocco (con uno sforzo di carattere organizzativo ma senza esposizione economica); - la vendita dei propri prodotti su mercati esteri, che richiede un particolare impegno nel marketing: l’impresa deve infatti svolgere accurate ricerche di mercato per comprendere bisogni e comportamenti dei consumatori esteri, senza commettere l’errore di ritenere che i clienti esteri si comportino allo stesso modo dei clienti italiani e non riconoscendo differenze culturali. L’esportatore deve studiare e analizzare la concorrenza, i prezzi applicati sul mercato, i canali di distribuzione, i vantaggi e gli svantaggi di esportare in quel paese, i punti deboli e i punti vincenti, i prodotti complementari, le possibili barriere d’entrata (leggi, dazi doganali, ecc.). Diverso dalle esportazioni è il traffico di perfezionamento passivo che consiste in una operazione di esportazione di merci ed una successiva loro importazione, dopo che esse hanno subito trasformazione, lavorazione o riparazione (l’aggettivo passivo si deve al fatto che il regime doganale comporta una passività per il paese che lo effettua). 6
  • 7. Questo tipo di operazione rappresenta una forma di decentramento produttivo, che nel caso italiano viene applicato spesso nel settore del tessile – abbigliamento e calzaturiero. Esistono cinque fondamentali motivi per cui si ha commercio tra paesi diversi: a) differenze tecnologiche (nel modello ricardiano del vantaggio comparato il commercio è dovuto proprio alle differenze tecnologiche); b) differenze nella dotazione di risorse (nel modello di puro scambio e nel modello di Heckscher- Ohlin è questa la motivazione base); c) differenze nella domanda; d) esistenza di economie di scala; e) esistenza di politiche pubbliche. David Ricardo1 nel 1817 introduce la teoria neoclassica del vantaggio comparato, basata sulla immobilità del lavoro tra paesi e sulla perfetta mobilità interna, sostenendo che i paesi commerciano tra loro perché il lavoro ha una diversa produttività tra i paesi. Egli dimostra che contano i vantaggi comparati di costo: ogni paese tende ad esportare i beni che riesce a produrre nel modo più efficiente e importa quelli che produce in maniera inefficiente. Di conseguenza a ciascun paese conviene specializzarsi nella produzione di un solo bene, ovvero quello in cui il suo vantaggio è più elevato. Ricardo formulò la teoria del vantaggio comparato su di una serie di ipotesi semplificatrici: 1) solo due paesi e due beni; 2) libero scambio; 3) perfetta mobilità del lavoro all’interno di ciascun paese, ma completa immobilità da un paese all’altro; 4) costi di produzione costanti; 5) assenza di costi di trasporto; 6) assenza di mutamenti tecnologici; 7) la teoria del valore-lavoro. L’ultima ipotesi presenta particolari problemi quando si voglia generalizzare la teoria del vantaggio comparato, ad esempio perché il lavoro non è il solo fattore di produzione e non è un fattore omogeneo. La spiegazione della teoria del vantaggio comparato 1 Ricardo D. (1817), “Principles of Political Economy and taxation”, John Murray Edition, London, Cap. 2 pag. 5 – 28. 7
  • 8. sulla base della teoria del costo-opportunità, piuttosto che sulla base della teoria del valore-lavoro, assume maggiore generalizzabilità. Tuttavia questa teoria è stata modificata da Heckscher2 – Olhin3 nel corso degli anni ‘30, con l’intento di evidenziare l’importanza del fattore capitale. L’obiettivo di tale teoria è quello di spiegare le cause del vantaggio comparato e di esaminare gli effetti del commercio internazionale sulle remunerazioni dei fattori produttivi. Secondo la teoria le differenze nei costi relativi emergono dalle differenze nelle quantità relative di fattori disponibili nei due paesi. Un paese relativamente ricco in forza lavoro e povero in capitale si specializzerà nella produzione di prodotti ad alta intensità di capitale. Il modello si basa sui seguenti assunti: - due paesi; due fattori produttivi (lavoro e capitale) e due prodotti; - i produttori nei due paesi hanno lo stesso livello di informazione, tecnologie; - i fattori della produzione sono mobili all’interno del paese ma non tra paesi; - mobilità dei prodotti internamente ai paesi e anche tra paesi; - i mercati dei prodotti e dei fattori produttivi sono perfettamente concorrenziali - le preferenze dei consumatori nei due paesi sono le stesse.4 La dotazione fattoriale è dunque la causa dei vantaggi comparati ed il commercio internazionale sostituisce la mobilità internazionale dei fattori come meccanismo di pareggiamento dei rendimenti assoluti e 2 4 Heckscher E. (1919), “The effect of foreign trade on the distribuition of income”, in H. Ellis, L.A. Metzler (Eds.), “Readings in the theory of International trade”, Allen and Unwin, London, (1950), pag. 272 – 300. 3 Olhin B.,(1933), “Interregional and International trade”, ed. 1967, Harvard University Press, Cambridge (MA), pag. 7 – 20. Jetto – Gilles G. ( 2005), “Imprese transnazionali”, Carocci Editore, Roma, pag. 59 – 60. 8
  • 9. relativi dei fattori omogenei tra paesi. La teoria presentava un modello di equilibrio generale (benché limitato a due paesi, due prodotti e due fattori) poiché esamina l’equilibrio simultaneo dei mercati dei beni e dei fattori. L’analisi di Ohlin fa specifico riferimento agli investimenti di portafoglio e considera che i movimenti di capitale siano indipendenti dalla altre variabili dell’economia interna. Il suo obiettivo è quello di analizzare la nuova posizione di equilibrio che si viene a creare a seguito dei disturbi causati da movimenti di capitale. L’analisi è estesa agli effetti sui tassi di cambio, ragioni di scambio, importazioni ed esportazioni5. Uno dei principali limiti individuati in questo modello è che esso si concentra sul commercio di merci fra paesi senza alcuna considerazione delle imprese come soggetti competitivi, ovvero non si fa alcun riferimento ai cambiamenti tecnologici ed ai cambiamenti manageriali dell’impresa internazionale. In breve, la formulazione dei modelli tradizionali non corrisponde alla realtà dei mercati “imperfettamente concorrenziali”, in cui i divari tecnologici spiegano la diffusione e i ritardi tra le imprese e fra i paesi nella specializzazione produttiva, in cui le tecnologie e le informazioni non sono liberamente disponibili, in cui giocano un ruolo rilevante la differenziazione e la diversificazione dei prodotti per sfruttare economie di scala e innalzare le barriere all’entrata6. Dunque il problema principale nell’analisi neoclassica è legato all’ipotesi non realistica di concorrenza perfetta. Tale ipotesi rappresentava forse un’approssimazione non eccessivamente irragionevole della realtà nel momento in cui la teoria neoclassica è stata inizialmente applicata al commercio internazionale. Essa diventa, invece, troppo lontana dalla realtà quando si considerano le attività delle imprese transnazionali7. Mundell corregge il modello H-O introducendo 5 6 7 Jetto – Gilles G., op. cit.. pag 61. Valdani E. – Bertoli G. (2006), “Mercati internazionali e marketing”, Egea, Milano, pag 48. Jetto – Gilles G., op. cit. pag 63. 9
  • 10. per la prima volta i flussi di investimento internazionale e modifica due ipotesi: presenza di ostacoli nello spostamento dei beni da un paese all’altro; libertà di circolazione del capitale su scala internazionale. In queste condizioni, i flussi internazionali di capitale assicurano che venga raggiunto un equilibrio simile a quello del libero scambio, in cui i prezzi relativi dei fattori e dei prodotti sono identici nei due paesi. Se il capitale può circolare a livello internazionale, esso tenderà a spostarsi dal paese X, dove percepisce minore remunerazione, verso il paese Y, dove maggiore è il valore degli interessi, provocando un cambiamento della dotazione dei fattori nei due paesi e, quindi, anche delle loro possibilità produttive. I flussi di capitale si arrestano solo quando i prezzi relativi dei fattori sono identici nei due paesi, raggiungendo l’equilibrio nel punto di tangenza tra le curve che indicano le nuove frontiere delle possibilità produttive. L’uguaglianza dei prezzi relativi dei fattori conduce ad una progressiva convergenza anche dei prezzi relativi dei prodotti; nel contempo, però, il movimento internazionale del capitale provoca anche una riduzione della differenza nella dotazione fattoriale dei due paesi, erodendo i vantaggi comparati all’origine del commercio che, infatti, diminuisce progressivamente8. 1.2 Una rassegna delle principali teorie sugli investimenti diretti esteri La teoria di Hymer 9, sviluppata nella seconda metà del ‘900, parte dalla differenza tra investimento diretto e quello di portafoglio e indica nel controllo l’elemento di differenziazione fondamentale. L’investimento diretto conferisce all’impresa il controllo sulle attività economiche al 8 9 Scoppola M., (2000), “Le multinazionali agroalimentari” , Carocci Editore, Roma, pag. 126. Hymer S. H., (1960), “ The International operations of national firms: a study of direct foreign investments”, MIT Press, Cambridge (MA), pubblicato nel 1976, pag. 14 – 35. 10
  • 11. contrario di quello di portafoglio. Sottolinea che in quello diretto non ci deve necessariamente essere il trasferimento di fondi dal Paese di origine a quello ospitante, infatti l’investimento diretto potrebbe essere finanziato da prestiti accesi nel paese ospitante. Altro elemento tipico di quello diretto è la bidirezionalità dell’ investimento e il fatto che si concentra tendenzialmente in specifiche industrie. Hymer, dopo aver delineato la presenza dei vari costi tipici di un processo di internazionalizzazione, identifica nelle imperfezioni di mercato la determinante che porta le imprese a sviluppare la produzione internazionale piuttosto che una modalità esportativa. Tali imperfezioni di mercato possono riguardare i mercati dei beni, i mercati dei fattori produttivi, le economie di scala interne ed esterne e l’ interferenza dei governi nella produzione o nel commercio. Si pone il problema di verificare il momento in cui le imprese preferiscono realizzare investimenti diretti all’estero finalizzati alla produzione locale, piuttosto che il momento opportuno per continuare a sviluppare flussi di esportazioni di prodotti fabbricati nel paese di origine. Il modello di Hymer pone al centro dell’attenzione l’impresa e non il singolo prodotto partendo dalla constatazione che la teoria tradizionale, quella neoclassica, non riesce a spiegare l’esistenza di investimenti reciproci tra i paesi avanzati; egli ricerca, nelle caratteristiche dell’impresa le determinanti che influenzano il processo di internazionalizzazione. L’autore assegna all’impresa l’obiettivo di accrescere il proprio potere di mercato e la quota di mercato, in quanto a questa ultima si associa un tasso di redditività del capitale investito più elevato rispetto a quello dei concorrenti. La possibilità di aumentare la quota detenuta si collega alla capacità di erigere delle barriere all’entrata che scoraggino i nuovi concorrenti e che obblighino, in modo coatto, i produttori meno efficienti ad uscire dal mercato. 11
  • 12. Tali barriere riguardano il possesso di vantaggi competitivi di varia natura: il controllo tecnologico, le economie di scala, la notorietà della marca, il patrimonio di conoscenze e competenze e il controllo dei canali distributivi. Nella fase iniziale di sviluppo delle imprese, il mercato servito è quello interno, a causa delle difficoltà che si verificano nella vendita sui mercati esteri. L’impresa cresce a livello nazionale attraverso un processo di concentrazione (aumento delle quote di mercato, acquisizioni e fusioni) che le consente di ottenere profitti sempre maggiori. Ad un certo punto, tuttavia, il processo di concentrazione a livello locale non può più essere spinto oltre a causa di un numero ristretto di grandi imprese; pertanto, l’elevato profitto derivante dal grado di monopolio raggiunto è rimasto utilizzabile per gli investimenti diretti all’estero, i quali hanno come obiettivo l’estensione del processo di crescita dell’impresa oltre frontiera. Una volta scelta la produzione in loco nei confronti delle esportazioni, l’impresa dovrà decidere se intervenire direttamente (tramite IDE 10) oppure cedere licenze a produttori locali. Tale scelta sarà condizionata soprattutto dalla natura degli specifici vantaggi competitivi posseduti dall’impresa. In particolare, l’IDE risulterà favorito quanto più i vantaggi competitivi consistono nel possesso di conoscenze e competenze specialistiche, che difficilmente possono essere valorizzate attraverso la cessione di licenze o tramite accordi di collaborazione nella fase di ricerca/sviluppo e/o di produzione. A questo punto l’autore si pone il problema dei motivi per i quali l’impresa decide di sfruttare il proprio vantaggio competitivo tramite l’IDE anziché vendere il prodotto ad un’impresa locale tramite qualche forma di accordo contrattuale. 10 Investimento diretto estero. 12
  • 13. Secondo Hymer, un’ impresa, qualora decida di dar vita ad una propria unità organizzativa all’estero, è destinata ad incontrare una serie di svantaggi competitivi. Essa si trova ad affrontare costi connessi alla necessità di interagire con culture, con lingue e con sistemi amministrativi e sociali diversi che rendono più costosa la sua operatività rispetto alle aziende già presenti nel territorio. Inoltre, per un’ impresa estera, i costi per l’acquisizione di determinate conoscenze, soprattutto del mercato, possono essere rilevanti. Allora ci si chiede per quale motivo le imprese, nonostante la presenza di questi costi, decidono di realizzare ugualmente degli investimenti diretti all’estero. Le motivazioni sono da ricondursi, principalmente, al possesso di vantaggi di tipo oligopolistico riproposti dall’impresa stessa su scala internazionale. Più precisamente, quando un’ impresa decide di investire all’estero dovrà poter compensare i maggiori costi sostenuti con dei vantaggi competitivi durevoli, ed è proprio per l’ effetto di questi vantaggi che le aziende riescono ad essere competitive. Dunque, l’IDE può avvenire solo in presenza di imperfezioni di mercato tali da indurre le imprese a sostituire la tradizionale esportazione all’investimento diretto. La teoria seminale di Hymer rappresenta un punto di rottura rispetto alla tradizione sia precedente che successiva. Uno dei principali elementi della sua teoria è l’accento sulla rimozione dei conflitti dal mercato in cui operano le imprese. Secondo la sua concezione, le principali determinanti dell’investimento diretto estero sono in larga misura le stesse che generano l’investimento in generale, sia a livello nazionale che internazionale, in condizioni di oligopolio. Inoltre si riscontra un eccessivo accento sui costi delle operazioni all’estero. Questa è una posizione comprensibile negli anni Cinquanta e Sessanta; da allora però tali costi e rischi si sono notevolmente ridotti11. 11 Jetto – Gilles G., op. cit. pag. 72. 13
  • 14. Un'altra interessante teoria, che si distacca da quella di Hymer, è la “teoria del gap tecnologico” formulata per la prima volta da Posner 12 (1961) che si concentra sugli sviluppi dinamici che avvengono all’interno di un settore sotto il profilo del progresso tecnologico. Posner analizza i meccanismi attraverso i quali un’iniziale innovazione di prodotto in un paese porta a vantaggi tecnologici cumulativi e a vantaggi nel commercio internazionale. A differenza di Hymer, che focalizza la sua attenzione sull’impresa, Posner presta maggiore attenzione al prodotto ed al tasso di innovazione a questo collegato. La portata e la durata dei vantaggi del commercio dipenderanno dalla portata dei vantaggi cumulativi dell’ impresa innovatrice, dalla velocità con cui si diffonde la domanda per il nuovo prodotto e dalla velocità di reazione delle altre imprese nazionali e straniere nell’imitazione del nuovo prodotto13. Quindi Posner propone una spiegazione del commercio internazionale fondata sulle “differenze di costo comparato” generate dal differente tasso di innovazione nei settori tra i vari paesi. In particolare, i vantaggi economici di un’originaria innovazione in un settore industriale sono correlati alla durata dell’intervallo temporale durante il quale il settore innovatore usufruisce di una posizione monopolistica sui mercati internazionali. La durata di tale posizione è definita dalla differenza fra il tempo necessario alle imprese straniere per imitare i nuovi processi produttivi e il tempo occorrente ai consumatori esteri per manifestare la domanda di nuovi prodotti14. Tra l’altro i produttori operanti nel paese innovatore possono trarre il vantaggio di economie di scala e da qui deriva l’effetto che una prima innovazione può stimolare una “concentrazione” degli investimenti nel 12 13 14 Posner M. V., (1961), “ International trade and technical change”, in Oxford Economic Papers”, 13, pag. 323- 341. Jetto – Gilles G., op. cit. pag. 73. Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 50. 14
  • 15. settore. Ne consegue un flusso continuo di innovazioni sia di prodotto che di processo. Anche se il singolo prodotto frutto di innovazione sarà imitato dai produttori locali, facendo venire meno il flusso esportativo dal paese innovatore, se si considera il settore industriale innovativo nel suo complesso (comprendente più prodotti), sarà possibile avere un flusso esportativo stabile da parte di un paese all’avanguardia di settore verso gli altri paesi, proprio in quel un settore in cui esso ha per primo effettuato le innovazioni. Il contributo di Posner rappresenta senza dubbio un passo importante nella formulazione delle teorie di internazionalizzazione, tuttavia esso si concentra esclusivamente su fattori d’offerta, trascurando il ruolo dei fattori concernenti la domanda, nell’influenzare la capacità di produrre e di commercializzare un prodotto nuovo sui mercati internazionali. Linder15 sposta infatti l’attenzione su tali fattori; secondo l’autore, la varietà di beni manufatti potenzialmente esportabili è determinata dalla domanda interna:” condizione necessaria, ma non sufficiente, affinchè un prodotto sia potenzialmente un prodotto di esportazione è che esso sia consumato nel mercato interno”. Linder afferma che le funzioni di produzione non sono identiche in tutti i paesi, ma che le funzioni di produzione dei beni domandati all’interno sono quelle relativamente convenienti. Per ciò che riguarda, inoltre, le potenziali importazioni di un paese, queste ultime sono a loro volta determinate dalla domanda interna; di conseguenza, la gamma delle esportazioni potenziali è identica o inclusa in quella delle importazioni potenziali16. Se due paesi presentano la stessa struttura di domanda, tutti i beni importabili ed esportabili dall’uno lo sono anche per l’altro. La conclusione a cui si perviene è che quanto più è simile la struttura della 15 16 Linder B.S. (1961), “ An Essay on trade and transformation”, Almqvist & Wiksel, Stoccolma, traduzione Italiana: in Franco R. e Gerosa C., (1980) “Il commercio internazionale. Teorie e problemi”, Etas, Milano. Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 51. 15
  • 16. domanda di due paesi tanto più intenso è il commercio tra questi due. Ovviamente bisogna stabilire come fare ad individuare il grado di somiglianza delle strutture di domanda tra i due paesi; ci sono vari fattori: il clima e la struttura geografica, la cultura, il reddito pro capite, la distribuzione del reddito, variabili sociali e cosi via. Ovviamente tali paesi non effettuerebbero nessuno scambio reciproco se potessero produrre all’interno, ai medesimi prezzi relativi, i principali prodotti richiesti dal mercato. Le stesse forze che danno origine agli scambi all’interno di ciascuno dei due paesi creano anche gli scambi tra di essi. Il libero scambio tra due paesi che hanno livelli di reddito pro capite simili avrà gli stessi effetti del commercio interno. La teoria di Linder è stata soggetta a varie critiche. Il fatto che si riduce solo ai casi in cui due paesi abbiano livelli di reddito pro capite simili e il fatto di non spiegare la composizione merceologica dello scambio tra i paesi sono alcuni degli aspetti critici messi in evidenza. Tuttavia la teoria ha avuto un’ampia risonanza anche nel seguito della stessa evoluzione delle teorizzazioni sul modello del ciclo di vita internazionale. Vernon17 negli anni ‘70 indaga sulla scelta localizzativa che affrontano le imprese. L’autore sviluppa le sue argomentazioni usando una configurazione a tre stadi del “ciclo del prodotto”. Nel primo stadio egli considera che le imprese appartenenti ai paesi industrialmente più avanzati abbiano uguale accesso alle conoscenze scientifiche. Tuttavia, a parità di accesso a tali conoscenze non corrisponde una uguale probabilità di applicazione delle stesse nella concreta attività di produzione, poiché esiste un ampio divario tra la conoscenza di nuove teorie scientifiche e la loro utilizzazione per produrre nuovi prodotti o creare nuovi processi produttivi. 17 Vernon R., (1966), “ International investment and International trade in the product cycle”, in “Quarterly Journal of Economics”, 80, pag. 190 – 207. 16
  • 17. Vernon considera come modello il mercato statunitense, in virtù delle grandi opportunità di sfruttamento delle conoscenze che esso consente e per la loro incorporazione nei nuovi prodotti. Tra l’altro è un mercato in cui i consumatori dispongono di un reddito medio pro capite elevato, è un mercato di ampie dimensioni e anche con abbondanza di capitale. Secondo l’autore il prodotto innovativo troverà localizzazione proprio negli USA. In tale contesto, il prodotto, almeno inizialmente, non ha concorrenti visto che è nuovo e può essere venduto a prezzi più elevati. Un’offerta a prezzi così alti trova comunque una domanda corrispondente poiché i consumatori sono disposti a pagare prezzi elevati grazie alla loro disponibilità di redditi elevati. Il secondo stadio è caratterizzato sia dallo sviluppo e maturità del prodotto, sia da una domanda crescente, che consente alle imprese il conseguimento di economie di scala. Ne consegue una certa standardizzazione del prodotto. Tali condizioni fanno diminuire la presenza di barriere all’ingresso e di conseguenza aumentano i concorrenti. Inoltre, accanto alla domanda locale (USA) si sviluppa con molta probabilità una domanda diffusa anche nei paesi europei più avanzati. Per le imprese del paese innovatore si prospetta quindi l’opportunità di dare avvio ad un processo di internazionalizzazione. La domanda dei paesi europei sarà inizialmente soddisfatta dalle esportazioni statunitensi, tuttavia le imprese americane potrebbero preferire una produzione diretta all’estero per ovviare alla minaccia eventuale da parte dei concorrenti europei che iniziano ad imitare il prodotto e anche per la possibilità di sostenere la produzione a costi più bassi negli stessi paesi europei. Infatti la scelta tra esportazione e insediamento produttivo all’estero dipende anche da variabili di carattere economico: se la somma dei costi di produzione e di trasporto dei beni esportati è inferiore al costo medio previsto per produrre nel paese di importazione, è probabile che le 17
  • 18. imprese preferiscano evitare l’investimento diretto estero, privilegiando quindi i flussi esportativi. Tuttavia, il progressivo sviluppo della domanda e la costituzione nei vari paesi avanzati di un mercato interno di dimensioni adeguate possono costituire una condizione sufficiente per la successiva decisione di produrre direttamente all’estero18. Man mano che il prodotto diviene più standardizzato, esso richiederà processi produttivi che si concentrano su alta intensità di capitale e lavoro poco qualificato. In tale fase diventano più probabili i comportamenti imitativi e la concorrenza aumenta. Subentra così il terzo stadio (standardizzazione e declino del prodotto), che corrisponde alla scelta di localizzare la produzione in paesi sottosviluppati per contenere i costi di produzione visto il basso costo del lavoro di tali paesi. Quindi gli USA perderanno il loro vantaggio competitivo come localizzazione produttiva. A distanza di qualche anno Vernon revisiona la teoria analizzando le mutate condizioni dei paesi europei. In primis l’autore nota un deciso aumento dell’espansione geografica della rete delle operazioni delle imprese multinazionali e tra l’altro è anche diminuito il lasso di tempo tra l’introduzione di un nuovo prodotto negli USA e la sua diffusione in altri paesi. Dunque le fasi di imitazione del prodotto si sviluppano in tempi più rapidi rispetto a qualche decennio prima. In secondo luogo Vernon considera i cambiamenti di carattere macroeconomico dei paesi europei: le differenze tra Europa e USA si sono assottigliate, in termini di reddito pro capite, costo del lavoro, dimensione del mercato e gusti dei consumatori. Ciò lo induce a concludere che l’ambiente internazionale che aveva portato il ciclo di vita del prodotto stava scomparendo e che la teoria diventava sempre più meno applicabile. Non mancano le critiche al modello di Vernon. Innanzitutto il fatto che tale teoria offre una spiegazione dell’ origine dei vantaggi comparati 18 Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 55. 18
  • 19. limitata a un segmento particolare del commercio internazionale: quello di prodotti manufatti concepiti per soddisfare consumatori ricchi. Poi la sua analisi è criticata per essere limitata al caso delle innovazioni “labour saving”. Vernon non ha considerato come le imprese localizzate in paesi poco dotati di materie prime, come per esempio quelle europee, fossero interessate a introdurre innovazioni volte a risparmiare questo tipo di fattore produttivo piuttosto che quello del fattore lavoro. In ogni caso la teoria ha subito un logoramento, a causa dei profondi cambiamenti dell’ambiente internazionale al punto che essa è apparsa sempre meno in grado di fornire un’interpretazione adeguata dei processi di internazionalizzazione delle imprese. Infatti, l’assunto che la maggior parte delle innovazioni tecnologiche provenissero da un unico paese (Stati Uniti), è stato superato con l’affermarsi delle imprese giapponesi ed europee sui mercati mondiali 19. Un'altra debolezza della teoria è data dall’enfasi eccessiva posta sul prodotto e sulla sua vita, a scapito dell’impresa in se, ciò impedisce un’adeguata analisi della diffusione dell’innovazione da prodotto a prodotto e dei relativi vantaggi in ambito tecnologico, manageriale e di marketing. Nonostante le critiche, l’accento posto sull’investimento diretto legato al divario tecnologico costituisce un notevole passo in avanti rispetto alle teorie precedenti20. Un altro autore che concentra i suoi studi sugli aspetti inerenti la localizzazione degli investimenti diretti esteri è Knickerbocker21. La sua analisi (1970) parte da considerazioni di carattere empirico. Il suo approccio teorico differisce da quello di Vernon in quanto si concentra sull’impresa piuttosto che sul prodotto e soprattutto sulle condizioni macro - economiche del 19 20 mercato che caratterizzano il commercio Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 56. Jetto – Gilles G., op. cit. pag. 82. 21 Knickerbocker F. T. (1973), ‘’Oligopolistic Reaction and Multinational Enterprise’’, Division of research, Graduate School of Business Administration, Harvard University, Cambridge (MA). 19
  • 20. internazionale e le scelte di localizzazione produttiva. Egli afferma che già nel secondo dopoguerra le imprese hanno affrontato processi di internazionalizzazione in misura sempre maggiore e che molte imprese (statunitensi) hanno mostrato la tendenza ad indirizzare i loro flussi di investimenti diretti esteri verso i medesimi paesi ospitanti; poi sostiene ancora che le imprese impegnate nell’espansione oltre frontiera appartengono a industrie caratterizzate da strutture oligopolistiche. Lo studioso propone la differenza tra investimenti aggressivi e difensivi: i primi indicano la costituzione della prima affiliata in una data industria in un certo paese ospitante, mentre con i secondi indica la creazione di affiliata da parte di altre imprese. Le imprese che operano in un sistema oligopolistico sono consapevoli del fatto che un atteggiamento aggressivo porterà a reazioni difensive e quindi si svilupperebbe una concorrenza distruttiva. Così, per evitare questo risultato, le imprese scarterebbero l’ipotesi di una guerra di prezzo a favore di una concorrenza basata su altri fattori, come ad esempio la pubblicità. Tuttavia, in quei settori in cui si verificano cambiamenti rapidi e caratterizzati da elevati tassi di crescita, le singole imprese potrebbero trovare conveniente adottare un comportamento aggressivo. A questo punto, l’autore, considerando che le sole reazioni oligopolistiche non sono sufficienti a spiegare il motivo della prima mossa dell’impresa, decide di collocare la sua teoria in un contesto più ampio. Egli parte dall’assunto base della teoria del ciclo di vita del prodotto di Vernon: a) il contesto economico statunitense ha portato a delle opportunità di sviluppo di nuovi prodotti; b) è probabile che i prodotti siano sviluppati e creati prima nel paese in qui sono stati ideati e poi all’estero. L’autore arriva ad affermare che le imprese statunitensi sono state molto abili nell’aprire la strada a nuovi prodotti, anche grazie allo sviluppo di particolari competenze in R&S, nelle strutture organizzative e nelle tecniche di marketing. I mercati e le economie europee restavano indietro rispetto a quelli 20
  • 21. statunitensi. Le esportazioni di prodotti statunitensi venivano seguite, in un secondo momento, da IDE, i quali in alcuni casi, venivano preceduti dalla concessione di licenze. Le imprese statunitensi ebbero anche vantaggi nel produrre all’estero. Il loro vantaggio nell’accumulazione di competenze manageriali, commerciali ed organizzative diede loro un totale vantaggio sulle imprese locali europee. Altre circostanze possono aver spinto le imprese statunitensi verso l’intrapresa di IDE piuttosto che verso licenze ed esportazioni. L’autore da riferimento all’esistenza di barriere, tariffarie e non, nei pesi europei, e al fatto che produrre vicino al mercato di sbocco permette alle imprese di offrire servizi di assistenza e di adattare il prodotto alle esigenze dei consumatori locali22. La motivazione di fondo è che gli imprenditori statunitensi mirano a cercare e sviluppare opportunità e capacità produttive presenti oltre frontiera. Bisogna ancora spiegare la scelta della mossa difensiva da parte dei concorrenti. L’investimento in un paese estero comporta un certo grado di incertezza, lo stesso vale per le imprese rivali; tuttavia queste corrono dei rischi anche se non investono: l’impresa che per prima ha rischiato investendo (quindi la first mover) può trarre vantaggi considerevoli che può usare per danneggiare i diretti rivali. Infatti tutte le competenze organizzative, commerciali e manageriali conseguite durante la prima mossa, potranno essere sfruttate per successive politiche aggressive. Tutti questi vantaggi possono mutare l’equilibrio competitivo, così le imprese concorrenti rispondono anch’esse con l’investimento diretto all’estero. Knickerbocker alla fine spiega il raggruppamento geografico degli IDE come il risultato di politiche difensive delle imprese tese a minimizzare i rischi nel contesto di strutture di mercato oligopolistiche23. 22 23 Jetto – Gilles G., op. cit. pag 87. Jetto – Gilles G.,op. cit. pag. 89. 21
  • 22. 1.3 Le nuove teorie del commercio internazionale Dopo la seconda guerra mondiale si sviluppa la teoria dell’investimento diretto estero e dell’impresa multinazionale. Nel corso degli anni ’80, dopo il declino del primato americano circa la presenza di imprese multinazionali, si registra lo stesso declino del modello di internazionalizzazione basato sulla multinazionale classica e si lascia spazio ai nuovi modelli basati sulla impresa transnazionale e l’impresa rete. Secondo l’autore Kojima24 gli investimenti creano commercio quando si spostano da un paese all’altro in funzione del costo relativo delle risorse, sempre sulla base dei vantaggi comparati dei paesi. Questi tipi di investimenti sono stati effettuati dalle multinazionali giapponesi, le quali hanno trasferito la produzione nei paesi limitrofi a basso costo del lavoro e con una dotazione di risorse più favorevole. In altri casi tali investimenti verrebbero effettuati per altri motivi quali ad esempio la presenza di distorsioni sui mercati come la concorrenza oligopolistica o le barriere tariffarie presenti nel paese che ospita l’investimento: tali condizioni indurrebbero le imprese internazionali a trasferire direttamente all’estero le produzioni. Tale sistema tuttavia ha determinato l’uso di tecnologie inappropriate in rapporto alle risorse locali del paese ospitante (come è accaduto nei processi di espansione delle multinazionali statunitensi) con la conseguente inefficiente allocazione delle risorse. Le imprese giapponesi, che dagli anni Ottanta fecero il loro ingresso sul mercato mondiale, dimostrano nella pratica la tesi di Kojima utilizzando strategie innovative sviluppate all’interno del proprio mercato e rivelatesi vincenti anche sui mercati internazionali. Le imprese giapponesi si concentrarono in investimenti diretti all’estero nei settori in cui il Paese vedeva ridursi i propri vantaggi competitivi a causa dell’incremento dei 24 Kojima K., (1978), “ Direct foreign investment: a Japanese Mode of Multinational Business Operations”, Croom Helm, London, pag. 21 – 47. 22
  • 23. salari, dei tassi di cambio e della mancanza di materie prime. Gli investimenti giapponesi erano quindi indirizzati verso i Paesi dell’area asiatica che permettevano loro di sfruttare le varie strategie sviluppate all’interno, ma avvantaggiandosi contemporaneamente dei minori costi di produzione. Ciò ha permesso ad imprese giapponesi prima sconosciute di diventare concorrenti diretti di multinazionali già presenti nel settore da diversi anni25. La teoria di Kojima è molto utile per comprendere gli sviluppi dei processi di internazionalizzazione delle imprese dal secondo dopoguerra in poi. In un primo momento le imprese sono diventate multinazionali soprattutto allo scopo di superare le barriere tariffarie ed hanno organizzato le loro operazioni internazionali secondo un modello organizzativo multi – domestic, ovvero trasferendo in ogni mercato estero l’intero processo produttivo e vendendo il prodotto localmente, sostituendo così le precedenti esportazioni. Successivamente le imprese hanno iniziato a localizzare ogni fase del processo produttivo in funzione del costo relativo dei fattori nei diversi paesi, vendendo poi il prodotto finale su tutti i mercati di consumo, adottando un modello organizzativo di tipo globale. La modalità tradizionale in cui si svolgono le operazioni economiche tra i paesi è invece il commercio internazionale, consistente nello scambio di merci, beni e servizi attraverso le frontiere nazionali. Il commercio internazionale rimane, a livello globale, il principale tipo di transazione economica oltre frontiera. Le attività delle imprese transnazionali hanno un impatto considerevole sulla distribuzione geografica del commercio; anche in considerazione del fatto che le imprese transnazionali, in virtù dei processi di integrazione verticale, determinano un considerevole sviluppo del commercio internazionale intra – aziendale. 25 Baronchelli G., (2008), “Delocalizzazione nei mercati internazionali, dagli IDE agli offshoring”, LED Edizioni Universitarie. 23
  • 24. Questo tipo di commercio consiste nello scambio di beni e servizi tra unità della stessa impresa operanti in paesi diversi. Si stima che esso rappresenti non meno di un terzo del commercio mondiale e che sia in aumento. Le attività di produzione e di commercio internazionale delle imprese transnazionali sono strettamente interrelate. Lo sviluppo dei mercati internazionali, la ricerca di vantaggi di costo, l’obiettivo di penetrare commercialmente nuovi paesi ha fatto si che le imprese tendessero ad investire direttamente all’estero creando rapporti di collaborazione con altre imprese del posto (licensing, franchising, joint ventures). Gli investimenti diretti esteri hanno avuto un notevole sviluppo sia nella forma di investimento di portafoglio (effettuato per ragioni tipicamente finanziarie, con riferimento all’acquisizione di azioni di una società straniera), sia nella forma diretta (IDE) ovvero il caso in cui l’investimento è tale da conferire il controllo nella società acquisita. Dai dati statistici si rileva che la maggior parte di IDE ha origine da società che hanno luogo in paesi sviluppati e sono diretti anche verso le stesse economie sviluppate. I paesi in via di sviluppo invece ricevono investimenti diretti, specie lì dove è possibile reperire le risorse per la produzione quali materie prime e forza lavoro a basso costo. In conclusione si può sostenere che con la crescita degli IDE si riduce il commercio intra – settoriale del bene finito, che viene spiazzato dalla produzione estera delle multinazionali; tuttavia gli IDE generano un intenso flusso di scambi intra – firm, sia di beni intermedi che di servizi generali. Quando le differenze nelle dotazioni tra i paesi sono così ampie da non consentire il pareggiamento dei prezzi dei fattori attraverso gli scambi dei beni, gli IDE possono diventare complementari al commercio. Secondo il modello teorico basato sulla ipotesi della prossimità – concentrazione, invece, i risultati sarebbero diversi: se i paesi sono identici sotto il profilo tecnologico, della domanda e della dotazione 24
  • 25. fattoriale, gli IDE sarebbero dovuti all’eccessivo peso dei costi di trasporto rispetto ai costi fissi degli impianti ed ai vantaggi che derivano da una più intensa utilizzazione delle risorse dell’impresa. In tal caso gli IDE sostituiscono i flussi commerciali intra – settoriali. In ogni caso, anche se i paesi differiscono tra loro, la comparsa delle multinazionali comporta una riduzione degli scambi intra – settoriali che non viene compensata da alcun nuovo flusso di scambio di beni: gli IDE, quindi, sostituiscono il commercio. Le nuove teorie sul commercio internazionale evidenziano il fatto che il commercio e la specializzazione sono dovuti a vantaggi di economie di scala, così come a tradizionali vantaggi comparati dovuti a differenze nella dotazione dei fattori. Commercio e specializzazione sono quindi guidati da alcuni elementi statici ed esogeni imputabili alla dotazione dei fattori, e da elementi più dinamici ed endogeni legati ai rendimenti crescenti. Un primo tipo di economie di scala, legato alla teoria della concorrenza monopolistica di Chamberlin, è interno all’impresa. Si ritiene che le economie di scala crescenti non siano compatibili con la perfetta concorrenza dato che l’impresa che realizza rendimenti crescenti ha costi decrescenti man mano che aumenta la sua dimensione; ciò le da un vantaggio rispetto ai concorrenti. Dunque questo tipo di economie di scala necessita di un modello di concorrenza monopolistica.Nell’applicazione di tale schema si assume in genere, che l’impresa operi con un singolo impianto produttivo, per cui livello di impresa e livello di impianto produttivo coincidono. Un secondo tipo di economie, quelle di tipo “marshalliano” considerano i rendimenti crescenti ottenibili tramite effetti di spillover da impresa ad impresa e dunque le economie si riferiscono all’industria nel suo complesso piuttosto che alla singola impresa26. 26 Jetto – Gilles G., op. cit. pag. 141- 142. 25
  • 26. In questo approccio le economie di scala rimangono compatibili con il modello di concorrenza perfetta perché la fonte dei rendimenti crescenti è la scala dell’industria e non quella dell’impresa/impianto produttivo. Le economie interne aumentano la probabilità che l’impresa si specializzi. L’esistenza di economie esterne fa sì che imprese appartenenti alla stessa industria si localizzino nella stessa area per godere dei benefici degli effetti di spillover. La concentrazione spaziale dell’industria può essere verticale oppure orizzontale. Quella verticale fa riferimento alla non commerciabilità di alcuni prodotti intermedi ( nel senso che alcuni prodotti intermedi sono specifici dell’impresa) e tale non commerciabilità può portare alla formazione di distretti industriali. Gli ulteriori sviluppi teorici modificano alcune assunzioni, soprattutto quella relativa alla immobilità del capitale. Infatti, le teorie sugli investimenti diretti all’estero si basano sulla sostanziale mobilità del capitale. Gli approcci sono riferiti sia agli IDE verso paesi in via di sviluppo che agli IDE in paesi sviluppati. Nel primo caso si considerano diversi paesi a diversi livelli di sviluppo e con differenti dotazioni di fattori e con presenza di economie di scala interne a livello di impianto e di impresa. Partendo da tali assunti si ha che la direzione degli IDE verso i paesi in via di sviluppo determina una integrazione di tipo verticale a livello internazionale; l’internazionalizzazione risulta essere favorita rispetto all’uso di licenze per via degli input congiunti, inoltre si sviluppa un commercio internazionale intra- aziendale. Con riferimento al secondo caso (teoria di Markusen27), ovvero con direzione degli IDE verso paesi sviluppati, gli assunti di base indicano che i due paesi sono entrambi sviluppati e con mercati ampi, la produzione internazionale è solo di tipo orizzontale (si producono prodotti simili in entrambi i paesi), i due paesi hanno simili dotazioni di 27 Markusen J. R., (1984), “ Multinationals, Multiplant Economies and the Gains from Trade”, in “Journal of International Economics”, 16, MIT Press, Cambridge (MA), pag. 205 – 224. 26
  • 27. fattori e quindi costi di produzione simili, esistono poi alti costi di trasporto e barriere al commercio (ma non agli IDE). Sulla base di tali assunti si determina una produzione internazionale di tipo orizzontale e gli investimenti diretti esteri si sviluppano tra paesi sviluppati preferendo la produzione diretta piuttosto che la concessione di licenze e con commercio internazionale intra – industriale. La tradizionale teoria del commercio internazionale non riesce pertanto a spiegare come possa avvenire un commercio intra-settoriale, cioè all’interno dello stesso settore industriale, e tra paesi molto simili per dotazione dei fattori produttivi necessari alla produzione di tali beni. A questo proposito, Krugman 28 ha contribuito a spiegare questo fenomeno introducendo, insieme ad altri economisti, le cosiddette “nuove teorie sul commercio internazionale”. Tali teorie spostano l’attenzione dal tipo di struttura produttiva presente in ciascun paese, ad altre variabili di tipo microeconomico, quali i diversi gusti dei consumatori, la presenza di economie per le imprese localizzate in un certo paese, il temporaneo monopolio tecnologico posseduto da chi presenta sul mercato un prodotto innovativo, ecc. Più in particolare, il contributo di Krugman afferma che il commercio internazionale esiste perché i gusti dei consumatori sono profondamente differenti anche in riferimento ad uno stesso prodotto e perchè le imprese hanno la possibilità di concentrare la produzione in un unico stabilimento per sfruttare economie di scala produttive. La prima determinante è molto importante per spiegare il nuovo beneficio del consumatore, che non è più in termini di prezzi ma bensì in termini di varietà di prodotti a disposizione. Tale beneficio aumenta con il procedere dell’integrazione economica europea in quanto i consumatori hanno a disposizione una maggiore varietà d’offerta (all’offerta nazionale si affianca anche l’offerta proveniente dai partner europei). La possibilità che ciascun paese si specializzi in una certa 28 Krugman P., (1991), “ Increasing returns and economic geography”, in “Journal of Political Economy” 99, pag. 483 – 499. 27
  • 28. varietà di prodotto, pur all’interno dello stesso settore produttivo, consente a tale paese di soddisfare la domanda di varietà che sorge anche negli altri paesi comunitari. Si considera, in questo modo, la cosiddetta differenziazione di prodotto: ciascun prodotto, per quanto uguale agli altri, è in realtà profondamente diverso per quanto attiene alla sue caratteristiche appariscenti o a quelle intrinseche. La differenza può essere quindi sostanziale, come tra un’auto di lusso o un’auto utilitaria, o puramente formale, come nei detersivi impacchettati in contenitori di diverso tipo, o indotta dalla pubblicità, o attribuibile al valore del marchio (a cui è associato un certo status symbol, o un certo contenuto qualitativo o tecnologico), e così via. Più i paesi hanno raggiunto lo stesso livello di sviluppo e più è probabile che i consumatori richiedano beni differenziati, e quindi più è probabile che nasca un commercio internazionale di prodotti diversi ma appartenenti allo stesso settore industriale. Le analisi empiriche condotte sul commercio comunitario indicano, per l’appunto, che i flussi commerciali tra i paesi europei sono soprattutto di tipo intra-settoriale, e che le dotazioni fattoriali dei vari paesi sono piuttosto simili (EC Commission, 1996), pur esistendo comunque alcune specializzazioni industriali di tipo nazionale. Dal punto di vista della politica economica all’interno dell’Unione Economica e Monetaria, se le strutture economiche sono simili, ciò implica anche un minor “costo di aggiustamento” per i paesi partner nel caso in cui si verifichino crisi economiche non generalizzate, ma concentrate in un solo paese (shock asimmetrici). Per esempio, se i consumatori europei modificassero improvvisamente i loro gusti e non volessero più acquistare auto di piccola cilindrata, il paese specializzato nella produzione di utilitarie dovrebbe “semplicemente” spostare i suoi lavoratori nella varietà delle auto di lusso (varietà che nell’esempio verrebbe molto richiesta dai consumatori). 28
  • 29. Tale spostamento rappresenta per il paese un costo di aggiustamento, perché occorre modificare in parte gli impianti e le tecnologie utilizzate nella costruzione delle auto, che sicuramente è inferiore al costo di aggiustamento che ci sarebbe stato se il paese avesse dovuto convertire la sua produzione in un altro settore (per esempio, passare dalle auto ai computer, o all’abbigliamento), cioè in una produzione più “distante” per quanto riguarda le caratteristiche dei fattori produttivi utilizzati. Per i paesi comunitari si assiste quindi ad un aumento dei flussi di commercio internazionale che provengono dagli stessi settori (flussi intra-settoriali) e che generano vantaggi per i consumatori in termini di minori prezzi di acquisto e di maggiori varietà di beni a disposizione. Tale commercio per differenziazione di prodotto viene a sua volta distinto dalla teoria economica tra commercio di prodotti simili ma differenti per qualità (cioè prezzo) o differenti semplicemente per la varietà del prodotto. Nel primo caso si tratta di differenziazione verticale di prodotto, nel secondo di differenziazione orizzontale. Dal punto di vista metodologico, la distinzione tra le due forme di differenziazione di prodotto nelle indagini empiriche utilizza il seguente criterio: si ha differenziazione verticale quando i valori unitari (cioè i prezzi) all’import o all’export dei flussi tra due paesi differiscono di più del 15%. I prodotti sarebbero invece differenziati per semplice varietà se i prezzi fossero meno distanti del 15%, cioè se possono essere considerati praticamente simili. Gli studi in materia indicano che la crescita del commercio intrasettoriale europeo è stata soprattutto tra prodotti differenti per qualità e prezzo. Si hanno anche facili evidenze di tale specializzazione dei paesi europei: i tedeschi sono specializzati nella produzione di auto di grossa cilindrata, mentre gli italiani sanno costruire bene le utilitarie; l’abbigliamento italiano è destinato ai segmenti di mercato medio-alti, mentre quello portoghese o spagnolo è diretto ai consumatori medio- 29
  • 30. bassi; mentre i vini francesi sono di alta qualità, e quindi destinati a consumatori esigenti, i vini greci o portoghesi sarebbero, in media, destinati ad un consumo più popolare; ecc. La seconda determinante del commercio internazionale, sempre con riferimento al contributo di Krugman, riguarda la possibilità che un’impresa sfrutti le economie di scala tecniche per produrre in un unico stabilimento la produzione destinata atutto il resto dell’Europa. Anziché aprire diversi stabilimenti in ogni paese europeo – come accadeva in precedenza al fine di superare le barriere protezionistiche, prima di tipo tariffario e poi di tipo non tariffario, che segmentavano il mercato europeo e ostacolavano il libero commercio – con l’Unione Economica e Monetaria l’impresa concentra la produzione in un unico sito, dove ottiene notevoli risparmi di costi di produzione. Le due determinanti del commercio derivanti dal contributo di Krugman, quella relativa alla varietà dei beni e quella relativa allo sfruttamento delle economie di scala sono apparentemente in contraddizione tra loro. Infatti, mentre la prima spiega l’aumento del commercio intra – settoriale, la seconda giustifica un aumento del commercio inter – settoriale. In realtà non è così, in quanto occorre tenere conto dell’unità di rilevazione del fenomeno di cui stiamo trattando: le esportazioni delle imprese, che vengono aggregate in esportazioni di settore e poi in esportazioni di un paese. Ma se consideriamo i dati a livello di impresa, possiamo notare come la specializzazione necessaria per raggiungere le economie di scala avviene generalmente all’interno di una certa varietà di bene. Per esempio, la Fiat si specializza nella produzione di auto di piccola cilindrata mentre le BMW nella produzione di auto sportive: si raggiungono economie di scala se la produzione si concentra in un unico stabilimento, ma i flussi tra la Germania e l’Italia sarebbero comunque intra – settoriali (all’interno del settore auto) e non inter settoriali, come un’errata interpretazione della teoria potrebbe suggerire29. 29 Vitali G. (2007) “L’integrazione commerciale europea e le nuove teorie sul commercio internazionale”, Rivista “Imprese e territorio, n°4. 30
  • 31. 1.4 Globalizzazione dell’economia e le imprese multinazionali Internazionalizzazione e globalizzazione sono fenomeni che denotano un accorciamento delle distanze culturali, economiche, sociali tra i paesi nel mondo. Tuttavia ci sono sfumature di significato diverse tra i due termini. Il processo di internazionalizzazione è legato ai fenomeni quali la riduzione delle barriere agli scambi commerciali ed eliminazione dei vincoli posti agli investimenti diretti esteri e indica quindi la progressiva integrazione economico - politica tra più mercati – paese. La globalizzazione indica la crescita del commercio mondiale, specie attraverso grandi compagnie che producono e commerciano beni e servizi in differenti paesi. È un fenomeno che fa riferimento alla similarità sia delle esigenze dei consumatori nei vari mercati nazionali, sia delle influenze sociali e culturali nelle varie parti del mondo. Un mercato globale ammette la libera circolazione di merci e capitali, che non esista nessun tipo di barriera agli scambi worldwide, un forte grado di omogeneità della domanda e dell’offerta. Levitt parla di globalizzazione come una convergenza di tutte le culture verso un’unica cultura globale; la diversità nelle preferenze culturali è un concetto superato e le esigenze, i gusti e i desideri dei popoli di tutto il mondo diventano sempre più simili e omogenei. La globalizzazione coinvolge consumatori, imprese, mercati, culture, istituzioni e stati. Tale processo ha raggiunto stadi differenti nei diversi mercati dell’economia mondiale; alcuni di questi tendono ad essere più vicini al globale di altri. I mercati business to consumer (B2C) tendono ad essere prevalentemente locali, nazionali o regionali per effetto di differenze socioculturali, politico – legislative, linguistiche e monetarie. 31
  • 32. I mercati business to business (B2B) tendono ad essere più regionali o quasi globali per effetto di economie nei costi o nei rendimenti dei fattori di produzione, di strategici opportunità localizzative (vicinanza a clienti operanti all’estero). Le opportunità del processo di globalizzazione riguardano la riduzione, l’annullamento di alcune voci di costo, l’incremento delle economie e dei ricavi. Negli ultimi decenni il numero delle imprese in grado di competere nel commercio globale è andato progressivamente aumentando sia in termini di esportazioni che di investimenti diretti esteri. Si può anche notare come le economie più aperte agli scambi internazionali crescano più rapidamente di quelle chiuse; si verifica inoltre come le performance reddituali delle imprese che operano sui mercati internazionali sono superiori a quelle nazionali. L'espressione "globalizzazione dell'economia" (Gde) risulta essere in definitiva piuttosto generica e non univoca. Infatti è utilizzata per connotare fenomeni differenti che presentano forti ambivalenze e che sono spesso contraddittori. Su questa base si propone di intendere con Gde tutti gli elementi che caratterizzano l'attuale fase di internazionalizzazione del capitale (il cui inizio può essere collocato intorno alla fine degli anni '60). Essa presenta contemporaneamente elementi di persistenza e di trasformazione e può essere interpretata come un processo che sviluppa contestualmente, ma in ambiti differenti, omogeneità ed eterogeneità. Non può essere analizzata come un fenomeno esclusivamente economico, né può essere interpretata esclusivamente attraverso gli strumenti conoscitivi delle discipline economiche. La Gde rappresenta una delle concrete determinazioni della dinamica di espansione e approfondimento del modo sociale di produzione capitalistico, essa non può non coinvolgere tutti gli altri ambiti rilevanti nella produzione/riproduzione sia a livello sociale che culturale. 32
  • 33. Secondo diversi autori alla Gde si assocerebbe una radicale trasformazione delle strategie produttive e dei processi lavorativi, alla quale dovrebbe corrispondere una trasformazione delle forme della regolazione sociale. Emerge su questo tema una generale condivisione, seppur da punti di vista anche radicalmente differenti, della tesi secondo la quale il mercato non rappresenta di per sé uno strumento di regolazione sociale sufficiente, quindi anche con la Gde continua ad essere necessario l'intervento di istituzioni politiche e sociali. Le posizioni ovviamente si divaricano in ordine all'ambito in cui si può collocare questo intervento (locale, regionale, nazionale, sovranazionale), ai suoi obiettivi contingenti e strategici, alle sue modalità. D'altronde la non prevedibilità delle future traiettorie della Gde è confermata da diverse cosiddetto evidenze: il carattere contraddittorio del "declino" dell'egemonia statunitense; l'ambivalenza del fenomeno della "finanziarizzazione" dell'economia la quale sembra indicare sia la incapacità ad individuare investimenti adeguati per i capitali eccedenti, sia una accresciuta competizione tra i territori per attirare denaro e investimenti produttivi; la difficoltà di individuare istituzioni sovranazionali in grado di regolare in forme cooperative l'economia globale. Su queste basi si può allora proporre l'ipotesi che la possibilità degli attori locali di progettare e sviluppo relativamente autonomi gestire percorsi di non è annientata dalla Gde. Questa possibilità e le caratteristiche assunte dallo sviluppo locale continuano ad essere connesse alla persistenza nella società di interessi e punti di vista eterogenei e quindi a dipendere dagli esiti, di per sé non definitivi, del loro conflitto. Si assume quindi che la categoria del conflitto - inteso come contraddizione, attuale o potenziale - sia centrale per offrire una rappresentazione adeguata del mutamento sia a livello globale che a livello locale. 33
  • 34. Per comprendere come l’internazionalizzazione modifichi le basi della concorrenza, bisogna estendere il modello di analisi per includervi l’influenza che l’ambiente nazionale esercita sulla singola impresa. Per conseguire un vantaggio competitivo deve esserci una corrispondenza tra le risorse e competenze dell’impresa e i fattori critici di successo del settore. I settori internazionali differiscono da quelli nazionali nelle fonti del vantaggio competitivo. Se le imprese sono localizzate in paesi diversi, le loro potenzialità in termini di vantaggio competitivo dipendono non solo dalle risorse e competenze interne a loro disposizione, ma anche dalle condizioni dell’ambiente nazionale30. La globalizzazione dell’economia si basa sui processi di multi nazionalizzazione - transnazionalizzazione delle imprese. Si può definire l'impresa multinazionale come un insieme di società ognuna delle quali opera secondo le norme dell'ordinamento giuridico del paese in cui è localizzata, essendo partecipate e coordinate con tutte le altre da un'altra società (la società madre), localizzata in un paese terzo, alle cui norme deve attenersi. La definizione mette in evidenza la possibilità di una contrapposizione di interessi tra imprese multinazionali e paese ospite. Nel caso in cui il complesso delle norme del paese ospite limita o intralcia le attività, la società madre potrà trovare più conveniente investire in un altro paese (questa flessibilità è però limitata quando l'impresa operi nel settore delle materie prime ). La sfera d'azione della impresa multinazionale più che uno spazio fisico, è uno spazio tecnico-economico: attraverso l'internalizzazione delle transazioni di mercato (quando i mercati sono inesistenti o troppo rischiosi) essa assimila nel proprio spazio economico lo spazio geografico – istituzionale degli stati. L'internalizzazione, leggibile come risposta alla "rigidità" degli stati, crea un'economia "parallela" caratterizzata dai prezzi di trasferimento. 30 Grant R., ( 2004),“ L’analisi strategica per le decisioni aziendali”, Il Mulino, Bologna, pag. 461. 34
  • 35. Nel secondo dopoguerra si possono distinguere, quattro diverse generazioni di impresa multinazionale, relativamente alla strategia adottata: I) quelle che si basano su investimenti supply oriented, tesi ad acquisire soprattutto materie prime, gli Stati del "centro" e le imprese hanno un reciproco interesse nell'espansione all'estero (prevale fino alla fine degli anni '60); II) quelle spinte dalla concorrenza oligopolistica verso nuovi mercati, sostituendo le esportazioni con IDE aggressivi (market oriented), i flussi di investimento si concentrano nei paese industrializzati (in particolare Usa-Europa), mentre nei "Paesi in via di sviluppo" (di seguito, Pvs) si sviluppa una polarizzazione tra aree di nuova industrializzazione e aree più fortemente periferizzate; III) quelle che si sviluppano a seguito dell'internazionalizzazione delle attività industriali che si accompagna a quella dell'indotto, per cui si sviluppano imprese multinazionali (soprattutto statunitensi) che forniscono servizi alle imprese (gli IDE nel settore dei servizi passano dal 25,2% del 1975, al 39,9% del 1985), il fenomeno interessa pochissimo i Pvs, salvo i "paradisi fiscali"; IV) quelle per le quali lo spazio fisico "diventa ininfluente" agli effetti delle decisioni strategiche in materia di localizzazione industriale dei grandi gruppi e anche dei medi. Si tratta delle imprese multinazionali "runaway": obiettivo strategico è la compressione dei costi aziendali attraverso il decentramento segmenti del ciclo tecnico di produzione nei di paesi che presentano le migliori opportunità di costo dei fattori utilizzati nella produzione. Si creano spazi aziendali integrati, con una distribuzione geografica strategica per l'impresa (ma non per il paese ospite). L'impresa multinazionale si sgancia progressivamente dal paese d'origine e contribuisce alla continua trasformazione della divisione internazionale del lavoro puntando alla ricerca di vantaggi comparati. Benché la multinazionalità sia spesso appannaggio della grande impresa, sono numerosissime anche le imprese multinazionali di media - piccola 35
  • 36. dimensione (in molti paesi sono la maggioranza), anche se si muovono su uno spazio economico limitato. In genere si ha un’internazionalizzazione graduale, poco diversificata, verso paesi limitrofi (prolungamento del mercato domestico), che evita localizzazioni in paesi a rischio politico (sono quasi assenti nei Pvs), e che tende a ridurre il rischio di investimento tramite joint-ventures. Il ruolo dell'impresa multinazionale ha registrato mutamenti sostanziali assumendo rilievo strategico nel riequilibrio di divari economici. Questa funzione di redistribuzione di risorse e opportunità tra i diversi paesi sarebbe assolta dalle multinazionali in differenti campi. Esse creano occupazione: impiegano oggi all'estero (e quindi anche nei Pvs) un numero di addetti superiore a quello occupato nei paesi d'origine. Attivano la crescita economica dei Pvs: non tanto attraverso gli IDE market-oriented quanto con quelli trade-creating per mezzo dei quali si razionalizza la produzione nel paese di origine spostando settori labour intensive (attraverso multinazionali runaway) in paesi a basso costo di manodopera, dove quindi si crea lavoro e sviluppo industriale. Crescono le esportazioni dei Pvs, anche quelli ad alta intensità di ricerca e di tecnologia. Al movimento internazionale delle merci si sta lentamente sostituendo un movimento internazionale dei fattori produttivi (capitale, forza lavoro, materie prime). Consideriamo il concetto proposto da Porter 31 di "catena del valore", attraverso il quale si può suddividere l'impresa nelle diverse attività che essa svolge quando progetta, produce, distribuisce e vende i suoi prodotti. Nella strategia internazionale la catena del valore ha due dimensioni: a) la localizzazione delle attività della catena; b) il coordinamento delle attività dislocate nei diversi paesi. Nell'impresa transnazionale la configurazione delle attività (risorse, responsabilità, decisioni) risulta diffusa, non solo per sfruttare meglio i differenziali nazionali, ma anche per offrire risposte migliori alle 31 Porter M.E., (1985), “ Competitive advantage: creating and sustaining superior performance”, NewYork, Free Press, ( trad. it.: “ Il vantaggio competitivo”, Milano, Comunità, 1986). 36
  • 37. domande specifiche dei mercati locali; in questa configurazione diffusa vi è la tendenza alla specializzazione delle risorse e delle capacità, e prevalgono le interdipendenze reciproche e l'interazione cooperativa tra le parti del sistema. La cooperazione inter-firm può essere rappresentata come una nuova modalità competitiva per affrontare la complessità. Una competizione globale più aperta fa diventare, secondo Porter, la base domestica non meno, ma più importante, mentre secondo Reich invece si avrebbe il risultato opposto: progressiva perdita di importanza della nazionalità delle aziende. Grandinetti e Rullani32 sostengono che una risposta adeguata alle tesi di Reich deve spostare l'analisi sul piano delle conoscenze e sul rapporto dialettico tra le sfere cognitive del locale e del globale 33. Allo stesso modo rifiutano la "tesi estrema" di Levitt, secondo il quale l'impresa globale può estendere a livelli prima impensabili la standardizzazione, le economie di scala e la produzioni di massa, data la progressiva omogeneizzazione del mercato e l'imporsi del consumatore globale. La varietà non viene ridotta e l'intensità della concorrenza favorisce le politiche di differenziazione degli out – put delle imprese. Un modello che sembra convincere i due Autori è quello proposto da Bartlett e Ghoshal34. La crescente complessità impone alle imprese di adottare un modello organizzativo transnazionale; l'impresa transnazionale sotto il profilo organizzativo si configura nella forma di una rete integrata; le filiali all'estero sono entità specializzate e interdipendenti, entro una logica sistemica "evoluta", sotto i due profili 32 Grandinetti R. – Rullani E. (1996) “Impresa transnazionale ed economia globale”, NIS Editore, Roma, pag . 114 – 149. 33 Barrucci P., (1998), “Economia globale e sviluppo locale. Per una dialettica della modernità avanzata”, Pisa, Felici. 34 Ghoshal S. – Bartlett C.A., (1998), “Innovation processes in multinational corporations”, in M.L. Tushman, W.L. Moore (eds.), “Readings in the management of innovation”, Ballinger Publishing Company, Cambridge (MA), pag. 499 – 518. 37
  • 38. del coordinamento e dell'apprendimento. La capacità di apprendere in modo diffuso e di trasferire conoscenze diventa una leva competitiva sempre più importante per le imprese che operano nei settori globali. La specializzazione implica la differenziazione dei ruoli e delle responsabilità delle consociate, recuperando sia i benefici della divisione internazionale del lavoro, sia una superiore flessibilità nell'operare in diversi mercati-paese comunque globalmente interdipendenti. Secondo Bartlett e Ghoshal la differenziazione interna e l'integrazione non gerarchica delle parti sono le fondamentali risposte strategiche e organizzative dell'impresa multinazionale alla continua sfida della complessità/globalità35. In definitiva il modello di Bartlett e Ghoshal riconosce che è la varietà dei paesi il dato da organizzare, attraverso il coordinamento di consociate autonome che possono attingere a tale varietà e alimentare con questa le competenze, le strategie e le fasi di sviluppo nei mercati esteri dell'impresa multinazionale. Il dibattito attuale, secondo Grandinetti e Rullani, sembra polarizzarsi su due posizioni: a) quella dell'organizzazione multi - domestica, che riconosce autonomia alle filiali o alle consociate su una base di tipo territoriale (con un'autonomia strategica delle unità nazionali o continentali); b) quella dell'impresa globale (secondo la lettura di Levitt) che identifica centri globali di responsabilità per funzione, i quali hanno autorità sulle attività delle imprese ovunque localizzate. Rispetto a questa polarizzazione la soluzione "transnazionale" di Bartlett e Ghoshal rappresenterebbe il superamento della rappresentazione dicotomica locale-globale, prendendo così le distanze sia dal modello che valorizza in modo unidimensionale le autonomie locali, sia da un modello riduttivamente"globale". Fondamentale, secondo i due Autori, diventa il riferimento alle economie di scala a livello di conoscenza. La scelta di concentrare le conoscenze in 35 Grandinetti R. – Rullani E. (1996) “Impresa transnazionale ed economia globale”, NIS Editore, Roma, pag. 115 – 136. 38
  • 39. un unico punto significa legare le innovazioni possibili al sapere contestuale di un singolo paese. Mentre va sottolineato che la conoscenza contestuale prodotta nei diversi paesi è una risorsa, sia come arricchimento delle conoscenze già codificate, sia per la ricontestualizzazione e l'utilizzazione del sapere codificato nei diversi paesi. L'autonomia locale può allora entrare in gioco in due modi: a) diventando una specificazione interna della posizione globale, ossia di reti che sono unificate globalmente per competenza distintiva, ma articolate in una varietà di soluzioni che utilizzano il sapere contestuale delle consociate. Il criterio globale risponde alla logica della rete dove i nodi centrali possono risiedere nelle consociate e non necessariamente nella casa-madre; b) le consociate sono collegate in una rete come un insieme di "business unit autonome", le quali costruiscono le loro linee di divisione del lavoro con altre consociate estere, ma anche con imprese indipendenti. A queste relazionale business unit è affidata la funzione comunicativa e con tutto il contesto nazionale di riferimento. In questo modo, il modello organizzativo transnazionale, superando la dicotomia centralizzazione/decentramento, opera innanzitutto all' interno dell'organizzazione una distribuzione selettiva del processo decisionale, e quindi dei luoghi in cui si gestisce il coordinamento, tramite sistemi formali e informali. Quando la densità delle relazioni di scambio nell'ambito dell'insieme organizzativo locale della consociata è alta, ad essa deriva un potere nei confronti della casa- madre alla quale risulta difficile rispondere in base al principio gerarchico. D'altra parte, un'elevata densità nel network esterno corrisponde tipicamente a un elevato livello di interazioni tra le consociate della multinazionale. In sintesi Grandinetti e Rullani sostengono che le reti globali rappresentano un modo di organizzare il sistema cognitivo della 39
  • 40. produzione internazionale, un integratore specifico (diverso dai mercati e dalle gerarchie) su cui può reggersi la divisione del lavoro cognitivo su scala internazionale. In particolare, nell'internazionalizzazione tipica dell'epoca post– fordista, la divisione del lavoro si appoggia a reti trans– contestuali, trasferendo così la conoscenza tra i tanti mondi locali che partecipano all'economia globale36. Da una recente analisi di alcuni gruppi multinazionali europei emergerebbe un quadro in qualche misura coerente con l'approccio dei due Autori: non sarebbe individuabile un unico modello di internazionalizzazione; si hanno invece soluzioni organizzative differenziate, all'interno delle quali variano i compiti affidati alle consociate. Queste avrebbero maggiore autonomia nella gestione delle risorse umane e nello stesso tempo assumerebbero comportamenti più omogenei sulla base dell'accelerata internazionalizzazione del management. L'omogeneità aumenta nelle effettive modalità di funzionamento delle organizzazioni, in quanto la spinta competitiva alla maggiore efficienza rivaluta il ruolo delle economie di scala e la capacità di ottimizzare su scala globale la divisione del lavoro. Aumenta l'importanza delle divisioni verticali e quindi della capacità di gestire e valorizzare le differenze in un'ottica globale. Da ciò deriverebbe la necessità per l'impresa di sviluppare un management con un forte radicamento locale, ovvero una struttura tipicamente etnocentrica al fine di connettere più culture regionali e creare la rete di rapporti sui quali costruire i vantaggi competitivi derivanti dal processo di internazionalizzazione. Ciononostante i due Autori (così come nella interpretazione della globalizzazione), anche in processo di riferimento alla specifica analisi del trans – nazionalizzazione, sembrano prospettare una troppo facile e pacifica convergenza tra le morfologie e le strategie 36 Grandinetti R. – Rullani E., op. cit., pag. 147 – 149. 40
  • 41. transnazionali, da una parte, e le caratteristiche e le possibilità di autodirezione dei contesti locali, dall'altra. In questo modo, nonostante l'enfasi sulla varietà,vengono di fatto sottovalutate le differenze sia tra i processi di trans – nazionalizzazione, sia tra i contesti locali, i quali presentano in realtà differenti concentrazioni di capacità e di risorse con le quali poter affrontare gli attori e i vari processi di sviluppo internazionale. Un altro limite ricorrente della proposta è riscontrabile nel modo con cui è tematizzato il ruolo della conoscenza. La conoscenza e le informazioni che in un determinato contesto sono valutate come "rilevanti" rappresentano indubbiamente nell'attuale fase dello sviluppo capitalistico un bene fondamentale. Certamente questo bene trova nelle "reti" trans – nazionali un canale di circolazione preferenziale. Ma che nell'economia trans – nazionale la conoscenza rappresenterebbe il meccanismo di integrazione più adeguato (rispetto alla gerarchia e al mercato) è un'affermazione difficilmente sostenibile. Grandinetti e Rullani sostanzialmente suggeriscono la tesi secondo la quale la conoscenza è un "integratore" al pari della fiducia, della reciprocità, delle relazioni tipo clan. Al contrario la conoscenza, proprio in quanto bene prezioso, è trattata come una merce, oppure circola incorporata nelle merci (forzalavoro compresa). In quanto merce è scambiata sul mercato con denaro e il suo prezzo dipende dal suo livello di standardizzazione/innovatività e da altri fattori (ad esempio i rapporti di forza tra i contraenti). Ovviamente all'interno della impresa transnazionale la conoscenza, oltre a poter assumere la forma di merce scambiata nel mercato interno tra filiali e tra queste e la casa-madre, è un fattore di produzione che, al pari degli altri fattori di produzione, viene collocato nei modi più adeguati per massimizzare le performance dell'impresa stessa. Il controllo della conoscenza è un terreno di conflitti assai aspri sia nella dialettica locale/globale (nella relazione tra impresa transnazionale e contesto locale ), sia nei rapporti di produzione. Nella dialettica 41
  • 42. locale/globale è verosimile che le forze globali dispongano di maggiori risorse rispetto ai soggetti locali, per cui per le prime sarà più facile tradurre le "conoscenze contestuali" (frutto dell'esperienza) in conoscenze astratte e formalizzate, viceversa i secondi incontreranno maggiori difficoltà, pur avendo acquistato una determinata merceconoscenza, a tradurre il suo contenuto astratto nello specifico contesto di utilizzazione. Non a caso le imprese trans – nazionali riescono nel commercio di tecnologie - a imporre ai contraenti più deboli l'acquisto di interi pacchetti di conoscenza, in quanto all'utente manca spesso il know-how potenzialità di necessario o di base per un singolo segmento sfruttare a pieno le di conoscenza. Nell'ambito dei rapporti di produzione il capitalista e i suoi agenti hanno bisogno, per legittimare il loro potere sociale, di mantenere il più alto controllo possibile del processo lavorativo, di conseguenza alla forza – lavoro verranno "cedute" esclusivamente le conoscenze e le informazioni necessarie per garantire determinati risultati produttivi (e questo vale sia nella "vecchia" organizzazione taylorista, sia nella "nuova" organizzazione toyotista), viceversa attraverso le più "moderne" e "sofisticate" tecniche di gestione delle risorse umane (paternalismo, coercizione, ricatto, ecc.) la direzione di impresa cercherà di ottenere gratuitamente le conoscenze e le informazioni che vengono costantemente prodotte e fatte circolare sulle linee di produzione dalla forza-lavoro. In un processo di internazionalizzazione è di assoluto rilievo per l’impresa individuare e scegliere i paesi verso cui orientare la propria attività. Le due variabili fondamentali sono il grado di attrattività di un paese che deve ospitare i flussi commerciali o gli IDE e il grado di accessibilità dello stesso. Per quanto riguarda l’analisi della attrattività, questa va valutata rispetto alle dimensioni del paese, alle caratteristiche della domanda ed al grado di accettazione del prodotto. L’analisi si basa su una serie di screening successivi in modo da individuare un gruppo di 42
  • 43. paesi potenziali verso cui estendere l’attività internazionale dell’impresa. Con il primo screening si individua infatti un primo gruppo di paesi per i quali ancora non sia possibile esprimere un giudizio negativo, quindi individuare quelli in ordine ai quali non sia da escludersi l’interesse per l’impresa(paesi accettabili). Con il secondo screening si cerca di individuare il mercato potenziale in ciascuno dei paesi presi in considerazione e quindi un terzo e ultimo screening teso ad individuare quei paesi in cui si prospetta una maggiore coerenza tra la domanda primaria e la specifica offerta aziendale. Tutto il processo di selezione di basa sull’analisi di un insieme di variabili macro-ambientali: fisico – geografiche, demografiche, economiche, tecnologiche. Circa le variabili demografiche bisogna considerare l’entità numerica della popolazione, la densità abitativa, la dispersione geografica e la tendenza allo spostamento. Una popolazione molto numerosa non è detto che sia attraente, se pensiamo ad un paese molto popoloso ma caratterizzato da una crescita economica marginale logicamente non sarà reputato come un’area interessante sulla quale poter investire. Le variabili economiche da considerare riguardano il prodotto interno loro, la disponibilità di fonti energetiche, il potere di acquisto della popolazione, la distribuzione del reddito e la propensione al consumo. Dopo aver delineato le determinanti che rendono un paese più o meno attrattivo, bisogna verificare il grado di accessibilità ed eventualmente correlarlo al grado di attrattività dello stesso. L’accessibilità dipende da due ordini di fattori: quelli relativi alle barriere artificiali che le imprese devono affrontare qualora vogliano avviare un processo di internazionalizzazione e poi quelli relativi all’ambiente competitivo tipici del paese verso il quale orientare la propria offerta commerciale. L’ambiente competitivo comprende l’analisi della concorrenza reale e potenziale ( considerando le loro risorse a disposizione, la strategia 43
  • 44. perseguita, i loro obiettivi), le caratteristiche della domanda e le variabili del marketing mix da adottare ( variabili relative alle caratteristiche dei canali distributivi, alle politiche di comunicazione, al pricing). Per quanto riguarda le barriere artificiali, queste solitamente sono distinte in tariffarie e non tariffarie 37. Quelle tariffarie indicano l’imposizione di una tariffa specifica il cui pagamento è obbligatorio da parte delle imprese che vogliono introdurre le loro merci in altri paesi che non fanno parte dell’unione doganale. Ciò implica logicamente un’aggravio dei costi per l’impresa che diventa anche meno competitiva rispetto alla produzione delle imprese locali. La barriera tariffaria per eccellenza è il dazio doganale che consiste in una imposta indiretta sui beni che circolano da uno Stato ad un altro e viene riscossa nel momento in cui una merce fa ingresso nel territorio doganale dello Stato. Nonostante l’OMC abbia cercato di abbassare e di armonizzare i dazi doganali per rendere più efficiente il sistema economico internazionale, i prelievi daziari rimangono ancora piuttosto diffusi riducendo il vantaggio competitivo di costo di cui un impresa potrebbe disporre. Per evitare che il costo del dazio si rifletta sul prezzo della merce al consumo, le imprese sono costrette ad accollarsene l’onere riducendo i propri margini. I dazi a scopo fiscale hanno l’intento di conseguire un’entrata tributaria colpendo i consumi delle merci provenienti dall’estero, mentre i dazi a scopo protettivo intendono impedire od ostacolare l’ingresso di alcuni prodotti stranieri. Per quanto riguarda il criterio di calcolo del dazio si distinguono i dazi ad valorem, ad pesum e misti. I dazi ad valorem sono prelievi proporzionali, con aliquota percentuale, al valore imponibile della merce importata, mentre per quelli ad pesum l’aliquota è fissa per ogni unità di 37 Valdani E. – Bertoli G., op cit. pag. 143 – 144. 44
  • 45. bene importato a prescindere dal prezzo. I dazi misti integrano i due sistemi su riportati. Altro strumento tariffario sono i diritti integrativi di confine: un insieme di tributi imposti dalle autorità doganali che riproducono gli stessi meccanismi di funzionamento del dazio; tra questi elenchiamo l’IVA, i diritti di monopolio, tasse di varia natura, diritti di magazzinaggio e facchinaggio, le tasse di imbarco e di sbarco, le tasse di ispezione della merce. Passando ad analizzare le barriere di carattere non tariffario iniziamo a discorrere sul contingentamento delle importazioni: consiste in un provvedimento delle autorità competenti che mira a stabilire una limitazione quantitativa all’approvvigionamento estero di determinate merci. La conseguenza di un simile limite alle importazioni è quella di generare incrementi dei prezzi delle merci al consumo. Altro tipo di barriera sono gli embarghi e i divieti di esportazione che vanno oltre le ragioni di carattere economico, spesso infatti vi sono motivi di carattere politico come per esempio la garanzia della sicurezza nazionale lì dove ad esempio alcune merci potrebbero essere applicate in campo militare. Una tipica barriera non tariffaria è costituita dalle regole tecniche e standard di prodotto. Per commercializzare un prodotto agricolo o industriale, infatti, non è sufficiente pagare un dazio doganale ma occorre che il prodotto nazionale o importato sia sicuro. Per determinare la sicurezza di un prodotto, molti paesi hanno sviluppato nel corso degli anni delle regole tecniche che indicano le caratteristiche che i prodotti devono possedere o i modi di produzione che devono essere seguiti. Accade così che un’impresa che voglia internazionalizzarsi debba seguire una pluralità di prescrizioni normative in materia di caratteristiche tecniche di base che devono essere assicurate nei prodotti collocati all’estero. 45
  • 46. Oltre alle regole tecniche ci possono essere altri requisiti di carattere non obbligatorio il cui rispetto è necessario al fine di beneficiare di un trattamento commerciale in qualche modo più favorevole. Grazie all’azione condotta soprattutto dall’ISO (International Standard Organization), si è creato un processo di armonizzazione delle regole e degli standard tecnici relativi ad una pluralità di settori merceologici38. Altro tipo di barriera non tariffaria è costituita dai calendari di importazione che stabiliscono determinati periodi dell’anno in cui può essere liberamente effettuata l’introduzione di nuovi prodotti all’interno dello Stato, mentre viene bloccata in altri periodi. Tendenzialmente l’accesso delle merci è reso possibile nei periodi della bassa stagione agricola, cioè proprio nel momento in cui la produzione stagionale interna ha già trovato assorbimento sul mercato nazionale. Ultimo tipo di barriera non tariffaria è data dalle misure di carattere valutario e finanziario, tra tali misure ricordiamo: le restrizioni valutarie consistono in un controllo statale sui cambi delle valute in modo da incidere sul costo dei beni importati; autorizzazioni governative per acquisire valuta estera; soppressione o temporanea sospensione della convertibilità. Altri strumenti affini sono i cambi valutari multipli che pongono implicitamente un limite all’ingresso delle merci straniere poiché l’autorità monetaria nazionale discrimina i cambi di acquisto e di vendita delle valute. La discriminazione dei cambi riferita all’importazione può consentire l’attuazione di una politica economica tendente a rincarare le merci estere non considerate di prima necessità ed a rendere convenienti quelle giudicate di elevato grado di utilità per l’economia nazionale39. Sulla base dell’analisi della attrattività di un paese e della sua accessibilità, le imprese che vogliono internazionalizzare la propria attività dovranno stimare il numero di paesi verso i quali orientarsi, la 38 Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 157 – 158. 39 Valdani E. – Bertoli G., op. cit. pag. 163. 46
  • 47. tempistica dello sviluppo internazionale e la posizione competitiva acquisibile. 1.5 Analisi dei rischi nel commercio internazionale Negli ultimi decenni il commercio internazionale è cresciuto a un ritmo doppio di quello della crescita del PIL globale, il flusso internazionale di capitali finanziari e investimenti diretti esteri è più che raddoppiato nell’ultimo decennio ( in rapporto al PIL mondiale), la ricerca di economie di scala e di diversificazione ha indotto le imprese ad investire capitali e tecnologie all’estero, ad acquisire know – how dall’estero, ad approvvigionarsi di beni e servizi dovunque sia più utile e conveniente40. Dal lato delle imprese che si internazionalizzano, si tratta sempre di decisioni complesse, accompagnate da un processo di trasformazione aziendale fondamentale e spesso irreversibile e va sottolineato che le attività economiche internazionali sono soggette a tutti i rischi che caratterizzano ogni business. Per identificare le categorie di rischio è opportuno partire dalle fonti, esaminandole sotto il profilo delle differenze che si presentano tra i paesi coinvolti. Si tratta di differenze di natura geografico – climatica, culturale, politico – legislativa41. Per gli stati le cui imprese affrontano processi di internazionalizzazione, le implicazioni possono essere in termini di competizione a livello di paese o di area regionale nell’attrazione di investimenti internazionali, in termini di permeabilità delle economie nazionali ai fenomeni di instabilità finanziaria ed economica e quindi in termini di politiche protezionistiche a livello di mercati – regione. 40 Pagliacci M., (2010),“Rischi finanziari nelle operazioni commerciali”, Franco Angeli, Milano, pag 84. 41 Pagliacci M., op cit. pag 85. 41 47
  • 48. Un problema importante, che una impresa che si internazionalizza deve affrontare, è quello relativo alla gestione della diversità. La diversità è connessa a tutta una serie di rischi: - Rischio paese: identifica il rischio del mancato o negativo esito dell’operazione d’affari a causa di eventi politici, sociali , economici, finanziari del paese ove la controparte opera. - Rischio di cambio: è generato dalla volatilità delle monete di riferimento, in relazione al valore della propria moneta. - Rischio variabilità delle condizioni di domanda/offerta: si manifesta quando le condizioni inizialmente previste subiscono un cambiamento significativo per ragioni politico-normative, per una crisi economica o per l’entrata di nuovi prodotti o concorrenti. - Rischio di incremento dei costi e/o variabilità dei prezzi: tali eventi sono particolarmente problematici quando si manifestano in presenza o a causa di controparti pubbliche, quando gli spazi di trattativa e di rinegoziazione dei contratti sono ridotti o esclusi. - Rischio legale: si manifesta anche in relazione alla difficile o controversa interpretazione delle normative locali, ma soprattutto quando si incorre in liti giudiziarie con soggetti locali42. Un particolare tipo di rischio è quello fisico nelle fasi di trasporto, magazzinaggio e nella gestione complessiva della compravendita. I trasferimenti espongono le merci a tutta una serie di rischi che possono compromettere il buon esito dell’operazione, determinando danni all’integrità della merce. Per quanto avanzati possano essere i vettori utilizzati e perfezionate le tecniche di imballaggio, il trasferimento di una merce difficilmente potrà evitare il rischio che l’originaria integrità o altri termini della consegna vengano meno. Da un lato ci sono tutti i rischi relativi ad eventi naturali o fortuiti non controllabili dall’uomo, dall’altro lato ci sono i cosiddetti “atti umani” che comprendono gli atti incolpevoli ( imprevedibili e che provocano 42 Pagliacci M.. op. cit., pag. 86. 48
  • 49. incidenti ai mezzi di trasporto); atti colpevoli i quali per fatto colposo provocano incidenti ai mezzi dei vettori o perdite, avarie e ritardi alle merci; atti dolosi, come furti, manomissioni o danneggiamenti internazionali. Il rischio fisico può essere ricondotto anche alla combinazione degli elementi sopra considerati43. Si procede ora ad una descrizione delle principali metodologie che la dottrina e la pratica hanno elaborato in questa materia. Particolare rilevanza assume il rischio politico, il quale si riconnette a possibili provvedimenti adottati dalle pubbliche autorità del paese estero, in grado di compromettere lo sviluppo delle attività dell’impresa nel mercato di riferimento. I provvedimenti possono essere adottati, oltre che per motivazioni politiche, per motivazioni di carattere economico, come per esempio quando un paese si trova ad affrontare una situazione di recessione o di iperinflazione. Root considera il rischio politico suddiviso in quattro classi: rischi di instabilità, rischi sul controllo della proprietà dell’investimento, rischi operativi, rischi di trasferimento. I rischi di instabilità riguardano l’eventuale insorgere di conflitti nel paese estero, la eventuale instabilità del governo oppure l’avvio di ostilità verso altri paesi. Invece i rischi relativi al controllo della proprietà riguardano quelle situazioni in cui i beni di una impresa potrebbero essere oggetto di provvedimenti restrittivi ( espropriazione, requisizione, collettivizzazione), oppure delle rinegoziazioni contrattuali con ridefinizione di norme e provvedimenti. I rischi operativi derivano dalle conseguenze negative indotte da normative su regimi fiscali più stringenti o sui limiti imposti al personale proveniente dal paese di origine dell’impresa, oppure normative su vincoli all’import – export di materiali, controlli pubblici sui mezzi. 43 43 Caroli M. (2008),“Economia e gestione delle imprese internazionali”, McGraw-Hill, Milano, pag 232- 232. 49