Quel 27 gennaio mio papà mi ha liberata dalle zavorre della nostalgia; mi ha permesso di accettare la mia identità composta da due anime, da due culture, da due patrie: non potrei consistere senza una delle due.
Storia di un reduce dai campi di sterminio nazisti, fra i molti che racchiude, è questo forse il messaggio conclusivo del libro memoria-romanzo di Centonze. Quello che condensa i caratteri del suo animo esuberante e mette in luce il legame profondo con il padre. Legame che non è banale attaccamento al genitore preferito, ma elogio della paternità – il senso acuto della responsabilità sopravvissuto in uomo pur così ferito e segnato da una esperienza atroce - e della maternità. Perché Cosetta (colei che scrive in prima persona) l’ha preso veramente per mano, come quei bambini che si sono persi in un contesto non più familiare, e che il sentimento materno spinge a raccogliere per “riportare a casa”. Rapporto unico ed esemplare sul quale fiorisce come sentimento maturo il perdono di Lui ai suoi aguzzini e la sapiente - sperimentata sulla sua carne - fraternità di Lei.
4. D
urante i giorni successivi la signora del
limoncello, pensando di essersi spinta
troppo con i discorsi di quella notte, ripristinò le
distanze nei miei confronti; come d’altra parte
non mi capitò mai di sentire commenti sullo
svolgimento della festa.
Vivevamo come in una palla di neve: al centro
della boccia di vetro non vi erano i monumenti
delle grandi città, ma la nostra casa e la bottega
di donna Rirì.
Poteva darsi che, a nostra insaputa,
ci
trovassimo su una bancarella di souvenir e
forse un turista l’avrebbe acquistata e ci
avrebbe portato con sé : forse in Argentina?
Qualunque fosse il luogo prima o poi la boccia
si sarebbe infranta e noi saremmo finiti piedi
per aria liberi.
Avremmo deciso di restare insieme o ciascuno
sarebbe fuggito per la propria strada?
“Perché sorridi e parli da sola?
Chiese Prisca.
“Niente, niente. Ripensavo a certi versi di
Porfirio. ”
“Ah il regalo di donna Rirì! Che matta! Però è
una buona persona.”
Mi ricomponevo e pensavo che non eravamo
finiti in una bolla di vetro e che quella era
proprio la vita e che la festa di battesimo, con la
sua sgradevole conclusione, insisteva su di
noi.
A sera, con la luna che si sedeva sul mio
140
5. sommier, giocavo con le ombre delle mie mani
contro la parete e mi sembrava di aver dato
forma al profilo di Giorgio.
Mi stringevo al cuscino sognando che egli mi
dormisse accanto.
Ma risentivo le sue parole cattive:
"Con quali soldi mi farai fare questo viaggio?"
E tu che insistevi ad invitare lui e tutti i presenti
a seguirti in Germania.
Si era trattato proprio di una sparata che non
avresti mai potuto mettere in atto.
Almeno ti fossi limitato ad invitare solo Giorgio
e me, che avevo già visto molto nella
scacchiera.
Vedevo le zie dirti di no mentre tu le imploravi di
prestarti i soldi.
Colpa del sonno: tu non saresti mai arrivato a
quella mortificazione!
Scotevo la testa e Giorgio abbandonava il mio
letto.
Attribuivo lo stesso imbarazzo a tutti gli invitati
della festa di battesimo.
Infatti quando capitava di rivederli mi sembrava
che i saluti fossero frettolosi o, addirittura, che
mamma ci facesse scantonare.
So che tu non hai mai immaginato quello che
mi passava nell'animo: eri completamente
preso dal tuo personale puntiglio e dal
risentimento per la grave offesa subita e ti
stordivi con la ricerca della formulazione del
sistema perfetto.
141
6. Prisca ti trattava con grande riguardo cucinando
i tuoi piatti preferiti e mettendo una cura
speciale nel farti la piega a pantaloni e camicie
che sembravi un figurino.
Se aveva della rabbia per la situazione in cui ci
avevi cacciato lo manifestava soltanto nello
sbattere il ferro sui panni e rivoltando sopra
sotto la nostra casetta con grandi pulizie.
Pensavo che al suo silenzio e a tutte queste
attenzioni tu avresti preferito una spiegazione
aperta.
Avresti preferito- immaginavo- che lei ti dicesse:
"Hai sbagliato ad urlare così, ma ti capisco.
Potevi lasciar correre, vista la circostanza, ma
quel Giorgio è proprio un ignorante
presuntuoso."
Oppure le due parole corrispondenti ad una
dichiarazione d'amore:
"Ti credo."
Ignoro se mamma ti abbia mai detto parole
simili quando io non c'ero, ma il tuo fare un po'
sostenuto nei suoi confronti mi faceva intendere
che no.
Finì la primavera e venne l'estate.
Ritornammo al mare, questa volta assieme a
Miranda
che,
trattenuta
da
mamma,
sgambettava nell'acqua.
C'era sempre qualche conoscente che ci
ospitava sotto il proprio ombrellone.
Tu dicevi che preferivi prendere il sole e
chiacchieravi con il bagnino.
142
7. A volte giocavi a pallone con ragazzi molto più
giovani o ti offrivi come arbitro in qualche loro
partita.
Soltanto quando venivi a prendere le borse non
potevi fare a meno di salutare i nostri ospiti.
Ti limitavi a parlare di calcio, mentre raccoglievi
le sporte o prendevi in braccio Miranda mezza
addormentata.
Anche se preferivo la spiaggia d’inverno, come
la avevo conosciuto quel giorno della gita con lo
chauffeur, il mare mi piaceva sempre molto.
Ma il tuo fare scontroso e amareggiato, che
sembrava rinnegare tutti e cercare volti
estranei, mi avvelenava sempre un po' la gita.
Una domenica, nell'attraversare la rotonda,
incrociammo Giorgio.
Ebbe la faccia tosta di farci festa: ti diede la
mano, baciò mia madre, vezzeggiò Miranda; a
me rivolse un “ciao” misero, ma soltanto mio.
Io indossavo il costume di lastex che mi faceva
sentire donna, ma Giorgio teneva per mano una
bella brunetta.
Quell'incontro ti rabbuiò e per tutta la sera
giocasti a pallone, da solo, nel cortile.
L’incontro con Giorgio aveva rimestato tutto il
risentimento e la rabbia nei confronti di chi non
credeva a quanto avevate patito e a quanti non
erano tornati.
Sognai di trovarmi di nuovo sola con te al mare
sotto il faro.
Ma il faro era crollato, sgretolandosi tutto, e tu
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8. mi chiedevi:
"Credi che non ci sia più niente al di là del
mare?"
Io mi svegliavo sudata e con il batticuore.
Ci pensò la vita, con i suoi imperativi, a
144
9. strapparci da quella pace raggelata.
Nell'arco di alcuni anni si consumò la diaspora
di noi quattro.
Anche se non si trattò propriamente di una
separazione, ma di un allontanarsi come di
aquiloni che, pur rimanendo ancorati a terra,
nell'aria guizzavano in direzioni diverse.
Mamma e Miranda da un lato e tu da un altro: il
mio aquilone dondolava indeciso.
Le zie si rigeneravano al riflesso della
giovinezza mia e di Miranda: Miranda, da
pupattola coccolata, si era trasformava in una
bambina di speciale avvenenza; io in una
ragazza con le sue cose.
Condividevano e si addolcivano e non
pensavano all’inganno che si celava giacché,
mentre la vita, per tramite nostro, tornava a
sedurle, il nostro tempo incalzava il loro.
La prima fu zia Naida che ebbe un malessere
mentre era al suo telaio da filet.
Si mise a letto con una diagnosi un po' incerta,
poi complicanze di reni e di fegato se la
portarono via.
Mia mamma disse che era rimasta orfana per la
seconda volta perché zia Naida, che aveva
vent’anni più di lei, le aveva fatto da madre.
Il lutto fu rispettato secondo le regole anche se
tu osasti dire che le gramaglie erano fuori uso e
che il lutto si porta nel cuore e che quanto più si
onorano da morti, tanto più è chiaro che non li
si è amati da vivi.
145
10. Loro tre, però, furono compatte come
cornacchie e, di sera sul balcone della casa
delle zie sotto le stelle, ripetevano:
“De profundis clamavit…”
Tu, nella nostra casetta, da quello scapato che
eri, circuivi la Fortuna applicandoti al sistema
perfetto.
Io frequentavo la scuola media e studiavo il
latino e dalla sala in cui assieme a Miranda
giocavo senza parere e senza fare rumore per
rispetto alla zia, mi lasciavo cullare dai suoni
arcani di quella lingua.
Fino a quando, ahimè, mi accorsi che capivo il
significato delle parole che persero il fascinoso
mistero dell’incomprensibile e misero a nudo la
concretezza dell’assenza, del vuoto, della
perdita: mi volsi verso il telaio di zia Naida che
già era stato smontato e gli assi erano in un
canto.
Più volte la zia mi aveva proposto di insegnarmi
a lavorare a filet perché, diceva, le mani delle
ricamatrici, come quelle dei musicisti, vanno
esercitate il prima possibile.
Io avevo rifiutato ed ora non ricordavo il motivo
di quel diniego.
Era stato per lealtà verso di te?
Eppure nei silenzi e nelle labbra serrate di zia
Naida non c’era l’asprezza delle altre due, né
disapprovazione verso di te.
Era stato perché non mi giudicavo all’altezza?
In effetti il telaio stesso, sapiente di antiche
146
11. abilità, mi metteva soggezione.
I pizzi che le mani della zia facevano fiorire
sulla rete avevano una levità che induceva a
dimenticare come essi fossero frutto di
disciplina e precisione.
Mi sarebbe piaciuto esercitare la stessa tenacia
paziente fino a provare la vertigine della
creazione di altrettanta bellezza, ma sapevo
che per questo avrei dovuto distogliermi da te e
dalla mia testardaggine nel volerti felice.
Ed, ora, la morte irrisarcibile di zia Naida mi
obbligava ad accettare che quell’arte se n'era
andata assieme a lei e che nessuno della
famiglia poteva ereditarla.
Per la prima volta colsi il senso dell'unicità delle
persone e delle cose che passano e non
ritornano per una seconda volta.
Le zie incamerarono tutti i lavori di lei per il
corredo mio e di mia sorella e fui contenta che
almeno il suo spirito riposasse in quelle belle
tele che Naida aveva creato in attesa che le
bambine della famiglia si facessero donne e
prendessero il loro posto di spose.
Questo pensiero mi confortò ancora di più dopo
aver ascoltato il romanzo delle zie.
Durante la veglia funebre, infatti, ero stata
ospite di donna Rirì, mentre Miranda veniva
allogata presso parenti più giovani.
Con il trascorrere degli anni avevo smesso di
frequentare con regolarità la bottega.
Il gruppetto di compagniucci era traslocato
147
12. verso i nuovi condomini.
Gli studi richiedevano più tempo, e
mia
mamma aveva bisogno di me per accudire
Miranda.
E poi donna Rirì veniva spesso da noi come se
avesse perso interesse per il commercio.
Dunque tornai ad essere sua ospite per via di
quella occasione triste.
Sedevo nel tinello dove già era imbandita la
tavola: avevo lo stomaco serrato perché il
ricordo del corpo immobile di zia Naida quando
l’avevo salutata mi bacava la testa.
“Perché zia Naida è così pallida?”
Donna Rirì mi guardò con un’espressione di
pietà e disse:
“Ho preparato un bel piatto di fave.”
“I legumi non mi piacciono: a voi posso dirlo
come invece non posso fare con mia madre!”
“Eppure dovrai mangiarle per amore di Naida.”
“Sempre ricatti!”
Dissi io che con l’età avevo preso il coraggio di
farmi valere: almeno fuori dalla famiglia.
“Ha no!
Voi che frequentate le scuole, pensate di
sapere tutto: pensate che il mondo sia fresco di
giornata; che ciò che è scritto sia più vero di
ciò che non lo è e che pure circola nella testa
delle persone! “
Si calmò per scodellare.
“Per esempio, a scuola, ti hanno mai insegnato
che le fave sono il piatto dei morti?”
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13. Smisi di rimescolare la minestra: non facevo
commenti, ma l’espressione del mio viso
parlava per me.
“E’ così, ti dico!
Tanto è vero che se una casa è visitata da
un’anima in pena, è necessario e sufficiente
camminare verso l’uscita, in piena notte, senza
mai voltarsi e gettarsi alle spalle tre fave: una
per volta.
L’anima in pena si ferma a raccoglierle e così si
ritrova fuori dall’uscio per sempre.”
“Mi prendete in giro, donna Rirì?
Sì mi prendete in giro. Siete troppo intelligente
per credere alle superstizioni.”
“Ecco che vorresti farmi un complimento! Ma io
non ci casco: mangia le fave e vedrai come si
aprirà il tuo cervello non soltanto per capire
latino e matematica, ma per capire gli esseri
umani.”
Mi rivoltavo in bocca la prima cucchiaiata di
fave che, a mio dispetto, era densa e saporita.
La mia amica parlottava:
“E mi chiede per giunta perché Naida sia così
pallida!
Come posso prendere sul serio una ragazzetta
che ignora persino che i morti sono cadaveri!”
Io scoppiai a piangere: di paura per il pallore
dei morti, di dispiacere per non aver imparato il
filet, di sconforto per la lontananza dai miei
genitori proprio mentre mi misuravo con quella
prima perdita.
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14. E di dispetto perché ora capivo che la mia
amica mi aveva strapazzata con il proposito di
farmi piangere giacché sapeva quanto sarebbe
stato salutare.
Infatti mi lasciò piangere senza freno mentre
soffiava sulla minestra; quando le sembrò
opportuno, si alzò dalla sua sedia e venne ad
abbracciarmi sussurrando:
“Stai meglio, ora?”
Io facevo di sì contro il suo seno ed ero pronta
ad un’altra cascata di lacrime per la felicità di
avere un’amica così.
Fortuna che lei disse:
“Ha smesso di soffrire.”
Fui così delusa da quelle parole ovvie che il
pianto si bloccò e irritata ribattei:
“E’ quello che si dice sempre di tutti!
La zia non soffriva di nessun acciacco fino a
quando le ha preso male ed è morta senza
soffrire e aveva poco più di sessanta anni.”
“Ma che ne sai tu delle sofferenze e delle
sofferenze di una donna in particolare. Ti dico
io che Naida ha sofferto tanto per tutta la vita!”
Mangiammo la minestra di fave fino all’ultimo
brodo.
Allora donna Rirì cominciò a narrarmi il
romanzo delle zie.
“Zia Naida era bellissima!
Lei e tua madre erano le più belle delle quattro.
Io, che ho un paio di anni meno di lei, ricordo
che quando compì diciotto anni, il rione le fece
150
15. festa: era un vanto per tutti.
Chi, dall’altro capo della città, veniva nella
bottega dei miei genitori, finiva sempre con il
domandare sue notizie e si spingeva fin sotto
casa con la speranza di vederla.
I giovanotti più esaltati immaginavano di
dedicarle poemi; altri, più pratici, pagarono per
lei serenate.
Certamente se i vecchi fossero rimasti per
sempre vecchi e i giovani per sempre giovani
saremmo andati avanti così fino alla
conversione degli ebrei.
Ma i tuoi nonni, che erano stati sempre persone
piacevoli e ben allogate in questo quartiere,
vollero la torre di Babele.
Quindi si ricordarono l’uno di essere
caporeparto presso il dazio, l’altra proprietaria
di alcuni terreni fuori città.
Cominciarono a contare le pulci dei pretendenti
e, per cominciare, scartarono i figli degli
artigiani a quel tempo tanto numerosi nel rione.
Naida non esprimeva le sue preferenze
nemmeno a me che ero sua intima.
Soltanto quando si intestardì a mettersi al telaio
con le labbra strette capii che aveva represso
qualche inclinazione.
Per chi non lo seppi mai con certezza.
Le mire dei suoi genitori si andavano chiarendo;
la loro loggia dava sulla stesa corte su cui si
affacciava un palazzotto gentilizio: baroni di cui
non vale la pena che ti faccia il nome.
151
16. Si trattava di un blasone decaduto: le rendite se
le erano mangiate gli avvocati per una causa,
una di quelle dispute su un oggetto da
ereditare: un puntiglio, insomma!
Il barone e sua moglie erano quasi
all’indigenza, ma avevano il titolo ed un figlio.
Certamente corsero discorsi tra le due famiglie
e Naida si trovò fidanzata con il figlio del
barone: Francesco.
Erano una bella coppia ed il rione – se pur con
qualche mugugno- si sentì meno offeso
dall’essere stato respinto.
Tutti capivamo che alla bellezza di Naida
spettava un blasone.
Anche tua zia dovette pensarla così perché
trascurava il telaio.”
Donna Rirì tacque e capivo che godeva a
frequentare quei fantasmi quindi ascoltavo i
suoi silenzi come fossero parole.
“Sono quelle situazioni in cui ogni cosa sembra
andare al suo posto infischiandosene di dove il
caso ha sbatacchiato l’uno o l’altra: il titolo di lui
era un riconoscimento al rango che la bellezza
dava a lei.
Negli incontri a cui presenziava, assieme alle
altre due sorelle- tua madre non era ancora
nata- qualche amica intima come me,
vedevamo che gli sguardi di entrambi si
appannavano, i volti si accaldavano, le mani
divenivano irrequiete.
Capivamo, senza bisogno di studi, che si
152
17. struggevano di passione.
Anche noi spettatrici rischiavamo di esserne
travolte.
Fortuna che d’estate tua nonna faceva passare
acqua e anice o acqua e limone, e così i sensi
di tutti si acquietavano…”
Donna Rirì iniziò a sparecchiare ed io le diedi
una mano.
Lei rigovernava ed io portavo i resti del cibo ai
gatti che miagolavano per strada.
La bottegaia ricoprì il tavolo del tinello con la
tovaglia di damasco.
Io rimisi nel centro il vaso di Boemia.
“C’era troppa armonia!” tentennava il capo e
parlava come se fosse da sola.
Poi si ricordò della mia presenza:
“C’era troppa armonia- ripetè- perché qualcuno
non ci soffiasse sopra invidia.
Francesco si ammalò.
Ricordo il primo colpo di tosse… il primo che gli
sfuggì durante una visita alla fidanzata.
Credemmo che la limonata gli fosse andata di
traverso.
Invece mancò la visita successiva e la
baronessa, da una loggia all’altra, parlò di un
forte raffreddore.
Per fortuna era una polmonite!
Dico per fortuna perché in quegli anni si era
scoperta la penicillina che ne salvò di malati!”
“Allora guarì? Francesco, il figlio del barone,
guarì?”
153
18. “Ma che! Non te l’ho detto prima? La scienza
vale fin quando il destino glielo permette.
Ma quando il destino non vuole non c’è scienza
che tenga.
In quel caso: o che il male fosse troppo
radicato, o che i medici non sapessero ancora
dosare la penicillina non ci fu la guarigione.
Francesco morì.
Nel rione passò di tutto: dalla disperazione a
qualche soddisfazione subito frenata -perché
siamo tutti sotto il cielo e Dio non voglia…
siamo madri anche noi!L’armonia si era infranta come uno specchio
forbito e lucido fino ad un secondo prima.”
“Povera zia!”
Forse era da quel gran dolore e non dalla morte
che veniva il pallore del suo cadavere.
“Povera, sì. E poveri baroni che avevano
perduto il loto erede.
Quando andavano in cimitero sembravano
pupazzi a cui qualcuno aveva dato un po’ di
corda.
Povero Francesco.”
“Povero!” Feci eco io rabbrividendo al pensiero
che la morte non rispetti giovinezza e passioni.
“E non avendo più a chi lasciare il palazzo se
non i parenti con cui erano in lite, decisero di
affittarne una parte.
Non si può negare che la disgrazia migliorò le
loro condizioni economiche.
La baronessa si comportò da vera signora: fece
154
19. visita ai tuoi nonni e chiese di incontrare Naida
da sola.
No so cosa si dissero: fatto sta che la
baronessa donò a Naida lo zaffiro di famiglia
che Francesco avrebbe dovuto regalarle il
giorno del fidanzamento ufficiale.
Noi amiche, che eravamo accorse per
confortarla, trovammo Naida che ricamava con
foga ed i movimenti facevano baluginare la
gemma sulla sua mano.
Le quattro parole di conforto ci morirono in
bocca di fronte a lei, alla sua bellezza privata
del titolo, alla sua condizione indefinibile: né
fidanzata, né vedova.
L’ho sentita con queste orecchie tenere testa a
tua nonna: Naida voleva prendere il lutto, ma i
suoi genitori non lo permisero.
“L’anello sì perché provava che i due giovani si
erano parlati per un lungo periodo ed intesi.
Il lutto no! Altrimenti si sarebbe potuto supporre
che tra loro ci fosse stato qualcosa di carnale.
Naida si rimise al ricamo e al filet ed accettò
l’ordinazione di un intero corredo!
Credo che si sentisse tutt’uno con la sposa di
cui filava le trine.
La sua abilità divenne proverbiale e ci furono
ordinazioni di altri corredi.
I tuoi nonni non sapevano come prenderla: se
l’arte diventa merce persino l’artista diventa
volgare, ma d’altra parte se questo serviva a
togliere dalla mente di Naida quella fissazione
155
20. del lutto occorreva dargliela vinta.
Estrella, che era nata con il bernoccolo degli
affari, pensava lei a piazzare i corredi. Renata
orlava.
Tutti, nel rione, sentivamo quell’aria pesante:
Naida che tesseva e ricamava come una
forsennata corredi di altre spose come se
fossero il suo che doveva ultimare con urgenza.
Il rione si sarebbe abituato ai due genitori in
lutto con i loro andirivieni dal camposanto: sono
disgrazie che capitano.
Ma Naida ferma come un’apparizione al telaio
nello scintillio dello zaffiro incrinava quel dolore
legittimo con uno sberluccichio di follia!
Anche i tuoi nonni sentirono che era
inopportuno restare qui con il palazzo di
Francesco di fronte ad impedire a tua zia di
dimenticare.
Vendettero i terreni di tua nonna al paese e
comprarono la grande casa dove da allora
hanno vissuto le tue zie.
Fu così che nacque tua mamma: ricordalo,
Cosetta, quando una donna giovane cambia
casa è facile che rimanga incinta.
E pensare che poi tua mamma in questo rione
c’è ritornata sposando Palmiro.”
“Sarà per questo che mio padre non va a genio
alle zie?”
Donna Rirì non rispose e si mise a ridere:
“Vedi che cominci a ragionare con la tua testa?
Man mano vai comprendendo quello che non è
156
21. scritto su nessun libro.”
“Per questo zia Naida è rimasta da sposare?”
“Giudicherai tu alla fine: bella come era ebbe
subito altre proposte e si fidanzò.”
“E Francesco?”
“Cosa vuoi che gliene importasse a Francesco:
i morti stanno con i morti. Per cacciarli via
ricordati delle fave!”
“E l’anello, e i suoceri baroni?”
“Insomma fammi dire, prima che la memoria si
confonda.
“Un giovane d’avvocato la chiese in moglie.
Giovane perché sbrigava pratiche per il titolare
dello studio, e perché non aveva conseguito la
laurea, ma già avanti con gli anni.
Tanto fece e disse che Naida nascose lo zaffiro
e accettò una fedina di rubini.
I tuoi nonni erano sorpresi da quella fortuna di
avere un genero che potevano chiamare
“l’avvocato”.
E, soprattutto, la ragazza di nuovo innamorata
non parlava più di gramaglie.
Per lo meno, da come le brillavano gli occhi, ho
creduto che fosse innamorata.
Le brillavano persino quando il moroso le proibì
di ricamare per conto di altri.
Doveva essere soltanto un passatempo
signorile, niente di mercenario.
Lei rideva in silenzio di quegli ordini che erano
prova dell’amore ardente e disinteressato del
moroso e si sottometteva all’autorità di lui.
157
22. Erano una bella coppia.”
Concesse donna Rirì, ma c’era perplessità
mentre lo ripeteva.
“Ba’! Chi può conoscere quello che passa nella
mente degli altri?”
“E poi?”
La bottegaia si riprese:
“E poi? Scoppiò la guerra: non quella di tuo
padre; una guerra in Spagna e l’avvocato che
aveva le sue convinzione partì volontario.”
Tacemmo fino a quando decisi di rubare a
donna Rirì il ruolo di cantastorie:
“Quindi arrivò una comunicazione, una busta
gialla come le lettere di mio padre che diceva
chiaro e tondo che l’avvocato era morto.”
“Una comunicazione dalla croce rossa.”
“E siccome ne arrivavano ogni giorno di notizie
così, la faccenda non fece l’effetto che aveva
sortito la morte di Francesco.”
“Sì e no. Non in se stessa, ma perché era il
secondo
moroso
che
Naida
perdeva
tragicamente.“
“Che fine fece la fedina di rubini?”
“Andò a fare compagnia allo zaffiro, credo.
Per i tuoi nonni fu un colpo peggiore del primo
anche perché si andava creando intorno a
Naida una diceria malevola.
Era sempre bella, anche se di una bellezza
matura, ma so di giovani che non hanno osato
farsi avanti per timore di incappare in un
maleficio.”
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23. Tuo nonno era a pena andato in pensione dal
dazio quando morì a causa di quella brutta
fama che come una zecca si era attaccata alla
figlia.
Così restarono le cinque donne a barcamenarsi
con la pensione di reversibilità.
Ma ti ho detto che Estrella aveva il bernoccolo
degli affari e già lavorava come modista; si sa
che un negozio è come un porto di mare e lei
raccontava di sua sorella maggiore e della sua
sfortuna.
Ma aggiungeva che quella sfortuna era legata
ad un errore di tempi: Naida aveva cominciato a
lavorare al suo corredo prima ancora che le
venissero le sue cose: troppo presto, dunque!
La malasorte aveva avuto il tempo di farci il
nido.
Ma ora che quella era insediata lì, gli altri
corredi ricamati da Naida ne sarebbero stati
preservati.
La leggenda spacciata da Estrella piacque, la
gente cominciò a dimenticare e così tua zia si
ingolfò nei ricami e nel filet.
E che guadagni! Sarebbero bastati quelli per
permettere alla famiglia una vita agiata.
Renata l’aiutava, ma non aveva la passione di
apprendere, né il gusto e si limitava ad orlare
lenzuola.
Prima che tua nonna morisse cominciò a
frequentare la casa un parente, Alfonso, cugino
in primo grado.
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24. Aveva lasciato il paese ed era venuto a vivere
in città.
Un uomo per casa, si sa, dava sicurezza alle
cinque donne e Alfonso diventò assiduo nelle
visite e nel portare le primizie della sua
proprietà.
Scherzava con Renata, ma osservava l’altra al
telaio.
E più osservava Naida, meno scherzava con
Renata.
Tua nonna capì che era ancora Naida ad
attirare in casa un moscone.
E intanto anche Prisca si era fatta signorinella e
i mosconi le giravano intorno.
La povera donna fu travolta da quel turbinio e,
insomma, decise di morire.
Estrella venne da me: forse persino lei non se
la sentiva di affrontare altre speranze e
delusioni; forse tornare nel rione in cui tutto era
iniziato le dava coraggio; forse mi voleva
partecipe o complice.
Insomma mi mise a parte del suo piano:
-Dirò al cugino Alfonso che senza la presenza
di nostra madre, le sue visite ci compromettono.
O smette di venire o sposa una delle due. Io
per me sono contenta senza l’uomo.
Il negozio di soddisfazioni e di buon tempo me
ne offre anche troppi!
Sto bene schietta! Tu, Rirì mi puoi capire:
siamo della stessa pasta.
Non ti sembra ben fatto?
160
25. Tocca a me che sono un po’ l’uomo di casa:
Renata è troppo buona e Naida tropo…
troppo…Si morse le labbra e se ne andò senza che io
avessi detto né sì, né no.
Tornò dopo una settimana con il viso scuro:
-L’avresti immaginato?
Alfonso dice che ama Naida non soltanto per la
bellezza, ma anche per la sua arte ed i suoi
silenzi.
Alfonso vuole Naida.
Pensa tu: da dove le avrà prese un paesano
come lui certe espressioni? Che faccio?
Che dici Rirì?“Le risposi che quindi non c’erano problemi!”
-Ma ti pare giusto? Ancora Naida, sempre
Naida e sì che i suoi anni comincia ad averli!
Dovrò ammettere l’esistenza di poteri occulti?
Io che me ne ridevo! Io che so fare girare il
soldo!
Questo Alfonso mi ha spiattellato che insieme
hanno eluso la sorveglianza di mamma per
andarsene in giro, da soli, a prendere il gelato e
ai giardini pubblici e, quindi sa di essere
ricambiato.
Ti pare decente?“Io le risposi che erano troppo avanti con gli
anni perché qualcuno si scandalizzasse nel
vederli insieme: l’avranno
certamente
scambiati per due sposi non più giovanissimi.
Estrella, però, non mi ascoltava:
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26. -In fondo viene dal paese e non sa tutto quello
che è accaduto per causa di Naida. E’ un
dovere metterlo al corrente. Non pensi?“Parlando, parlando le si era disegnato in testa
un piano.
Raccontò ad Alfonso per filo e per segno e con
qualche aggiunta fantasiosa le vicende tragiche
dei precedenti fidanzamenti.
Mise in piazza la finezza di Renata, le sue
qualità domestiche; insomma seppe fare il
gioco delle tre carte e Alfonso si trovò fidanzato
a Renata.
Credo che a Naida il cuore le fu trapassato
dalle sette spade dell’Addolorata.
Non soltanto perdeva l’innamorato, ma doveva
vederselo sotto gli occhi ogni giorno a braccetto
con sua sorella.”
“Povera zia Naida!
Avrei voluto sapere tutta questa faccenda
prima: sarei stata più gentile con lei e avrei
accettato di imparare a ricamare.”
“Credo che furono tutte quelle sofferenze e
misteri che saturarono il mondo al punto che
dovette scoppiare la seconda guerra mondiale.
Intanto, forse per via della stretta parentela, non
vennero figli e Renata incolpava il malocchio di
Naida.
Fino a quando Alfonso si stufò e se ne andò
anche lui all’altro mondo.”
“Fu allora che zia Naida chiuse le labbra così
forte e divenne taciturna?”
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27. Donna Rirì non rispondeva a tono e continuava:
“Certo è che quando tua madre si fidanzò con
tuo padre, e poi lui dovette andare in guerra,
avrà temuto che tutto si ripetesse tale e quale.
Ma niente si ripete tale e quale perché ciascuno
ha la sua stella.”
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