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Indice



Introduzione                                                             3
1 Conservazione della natura, biodiversità, conflitti ambientali         5
1.1     La biodiversità tra impatti antropici e paradigmi scientifici    5
1.2     Modelli di conservazione della biodiversità: strategie,
        centri di biodiversità ed aree protette                          15
1.3     Foreste umide tropicali                                          24
1.4     Biodiversità: un approccio ecosistemico                          29
1.5     Territorio, conflitti ambientali ed aree protette                36
2 Inquadramento geografico, ecosistemico e territoriale                  46
2.1     Ecuador: geografia, biodiversità ed ecosistemi                   46
2.2     Ecuador: società, comunità indigene, territorio                  53
2.2.1   Aree Protette e territori indigeni                               59
2.3     Area di studio                                                   60
2.3.1   Regione Amazzonica Ecuadoriana: ecosistemi                       60
2.3.2   La Riserva della Biosfera Yasuní:
        biodiversità e gestione dell’area protetta                       66
2.3.3   La produzione petrolifera: impatti socio-ambientali              72
2.3.5   Vie di comunicazione terrestri all’interno dell’area di studio   79
2.3.6   Uso del territorio                                               82
2.3.7   Attori e poste in gioco                                          85
2.3.8   Definizione area di studio tramite analisi G.I.S.                93
3 Materiali e metodi                                                     97
3.1     Indagine bibliografica e workshops sul campo                     97
3.2     Attività di campo                                                98
3.2.1   Raccolta punti GPS                                               99
3.2.2   Interviste e raccolta dati da informatori privilegiati           100
3.2.3   Problematiche di lavoro                                          103



                                                                             1
3.3     Sistemi Informativi Territoriali                                 105
3.3.1   Cartografia tematica                                             108
3.3.1   Immagini satellitari                                             111
4 Risultati                                                              117
4.1     Introduzione                                                     117
4.2     Area di studio                                                   118
4.3     Input cartografici                                               121
4.4     Carta tematica degli ecosistemi della RAE: input cartografico    121
4.5     Sistemi idrografici della regione amazzonica ecuadoriana         124
4.6     Comunità indigene, colonos e centri urbani: input cartografico   128
4.7     Studio dei sistemi forestali amazzonici ed impatto antropico     131
4.8     Ground truth, punti GPS e grafo stradale                         144
4.9     Via di comunicazione stradale Occidental Petroleum:
        analisi quantitativa                                             145
4.10    Via Auca e bacino idrografico Curaray:
        analisi quantitativa e pattern di territorializzazione           150
4.11    Riserva della Biosfera Yasuní (RBY) e produzione petrolifera:
        analisi geografica con approccio transcalare                     160
4.12    Installazioni per l’estrazione petrolifera e Riserva
        della Biosfera Yasuní: carta di densità                          165
4.13    Analisi comparativa ed overlay tra carta di densità
        delle installazioni petrolifere e Zona intervenida               168
4.14 Risultati delle interviste ad informatori privilegiati              171
5 Discussione e conclusioni                                              173
Bibliografia                                                             184
Allegati                                                                 194
Ringraziamenti                                                           198




2
Sic alid ex alio numquam desistet oriri
                                            Vitaque mancipio nulli datur, omnibus usu.
                                                           (Lucrezio, De rerum natura)
Introduzione
Il lavoro di questa tesi nasce dall’esigenza personale di affrontare il tema della
conservazione della natura nella sua complessità cercando di superare le barriere che
separano l’uomo dall’ambiente per entrare nel vivo del problema.
La ricerca è stata condotta in una delle venticinque regioni definite da Myers (2000)
“centri di biodiversità” situata nella parte occidentale della foresta tropicale
amazzonica in un’area caratterizzata da un’elevata diversità biologica e dalla
presenza di popolazioni indigene: La Riserva della Biosfera Yasuní.
La scelta di tale area è legata sia alla volontà di consolidare le conoscenze
naturalistiche in una delle regioni più biologicamente sensibili del pianeta, sia al
desiderio di entrare in contatto con le comunità indigene che vi abitano per
comprendere le problematiche che attraversano questa porzione di foresta
amazzonica.
L’area di studio, oltre ad essere stata istituita come Parco Nazionale IUCN (cat. II,
IUCN, 1982), è inserita come area protetta all’interno dei programmi per la
conservazione e lo sviluppo sostenibile dell’UNESCO (MAB, 1989, Man and
Biosphere Program), costituendo per la comunità internazionale uno dei modelli piu’
avanzati di compatibilità tra la tutela della biodiversità ad ogni livello organizzativo e
attività umane sostenibili.
Tuttavia, negli ultimi decenni, all’interno dell’area si sono sviluppate attività
antropiche a carattere industriale legate prevalentemente alla produzione petrolifera
ed all’estrazione di legname per l’esportazione, influenzando sia i programmi
nazionali ed internazionali per la conservazione della biodiversità, che le attività
tradizionali e la vita stessa delle popolazioni indigene (Narvaez, 2004).
Le attività per l’estrazione e la produzione petrolifera sono divise in aree lottizzate
che si sovrappongono geograficamente alla Riserva della Biosfera ed ai territori
indigeni, producendo impatti sugli ecosistemi e sulle comunità locali che si
manifestano nel cosiddetto conflitto ambientale (De Marchi, 2004).
Cercando di mantenere un approccio ecosistemico sono state sviluppate sia attività di
campo che analisi quantitave di natura geografica, per approfondire le problematiche


                                                                                        3
socio-ambientali e verificare la compatibilità tra gli attuali modelli di conservazione e
le attività industriali presenti nell’area.
Lo scopo della tesi è stato quello di quantificare i cambiamenti della foresta umida
tropicale per ciascuna formazione vegetale sostituita da attività antropiche,
approfondire le dinamiche di interazione uomo-ambiente nell’area di studio e
verificare la sostenibilità socio-ambientale tra i modelli di gestione delle aree protette
e la produzione petrolifera.
Dopo aver sviluppato attività di campo volte ad acquisire dati geografici, rilievi GPS
ed informazioni raccolte tramite interviste non strutturate, sono state condotte, tramite
l’uso di sistemi G.I.S. (Geographical Information Systems), analisi quantitative e
qualitative sulle relazioni spaziali tra le attività antropiche, gli ecosistemi, la Riserva
della Biosfera Yasuní ed i territori indigeni. In particolare le analisi quantitative
hanno preso in esame l’impatto antropico sulla copertura vegetale, lo stato di
avanzamento delle vie di comunicazione terrestri all’interno della foresta primaria, la
densità delle installazioni petrolifere ed i pattern territoriali sviluppati dalle attività
produttive per l’estrazione petrolifera lungo un’asse stradale e dalle comunità
indigene Wuaorani e Quichua nell’area di influenza della Riserva della Biosfera
Yasuní.
L’esperienza sul campo e le analisi quantitative prodotte hanno permesso di
comprendere come i diversi modi di percepire la natura e di tradurla in risorse da
sfruttare possano portare a dimensioni di conflittualità ambientale tra i diversi attori
in gioco nel territorio.




4
1    Conservazione            della      natura,       biodiversità,         conflitti
ambientali


1.1 La biodiversità tra impatti antropici e paradigmi scientifici
Affrontare oggi il tema della conservazione della natura e delle sue risorse, nella sua
complessità, si rivela quasi sempre impresa ardua e spinosa, soprattutto se le analisi
vengono spinte in profondità e se si tratta l’argomento insieme alle molteplici
implicazioni che esso comporta.
Quando si parla di conservazione, specialmente nell’ambito delle scienze naturali,
spesso ci si riferisce all’idea ampia di preservare la natura, nel senso di recuperare
specie botaniche o zoologiche dai processi di estinzione, oppure di proteggere un’area
d’interesse naturalistico per riportarla al suo stato originario. Ciò che principalmente
preoccupa gli addetti ai lavori della conservazione sono la frammentazione degli
habitat ed il cosiddetto effetto margine che, per le conseguenti minacce per le specie
ed le biocenosi, sono fenomeni sempre più studiati e rappresentati dai modelli della
biogeografia delle isole e vengono ricondotti, direttamente o indirettamente, ad
interventi antropici in termini di riduzione areale (Primack, 2004, pp. 132-139).
L’aumento dei tassi di riduzione della biodiversità e la degradazione degli habitat
sono indiscutibilmente riconosciuti come problemi attuali, legati prevalentemente alle
attività antropiche su scala locale e globale. Sovente però il dibattito interno alle
scienze naturali si torce intorno alla cosiddetta conservazione in situ o ex situ,
affrontando le problematiche all’interno del paradigma meramente conservazionista
legato alla perdita di una specie o alla perdita di un habitat. Anche se sono passati
oramai trent’anni dall’uscita del celebre libro di Myers (1979) dove l’immagine
dell’arca che affonda poneva per la prima volta al centro del dibattito i numeri e le
stime dei tassi d’estinzione, a volte sembra che l’approccio alla questione ambientale
in termini di riduzione di biodiversità debba essere confinato ai soli specialisti del
settore, preoccupati della potenziale estinzione di una specie per la perdita
dell’oggetto di ricerca o del valore naturalistico della stessa. Qui si annida inoltre il
problema sulle strategie della conservazione naturalistica intorno alla salvaguardia


                                                                                       5
delle specie; deve essa attuarsi in situ o ex situ? Nonostante l’importanza che
rivestono i musei e gli orti botanici, specialmente in termini di didattica e di ricerca
specifica ex situ, le scienze naturali, da qualche decennio a questa parte, si sono
trovate un po’ in difficoltà rispetto alla conservazione della natura in termini organici
e complessivi. Questo accade non solo per la galoppante importanza e “quotazione”
che l’approccio genetico-biochimico della biologia molecolare sta avendo all’interno
delle scienze naturali, ma anche perché quest’ultima, da un po’ di tempo a questa
parte, è passata nello spettroscopio della “Scienza Contemporanea”, frantumandosi in
molte discipline specifiche, relative alla natura sensu lato, “molecolarizzandosi” e
privandosi di una visione olistica che forse oggi dovrebbe avere la conservazione
della natura all’interno della cosiddetta questione ambientale (Cini, 1994).
Anche dalle lontane Galapagos, studiando i meccanismi di speciazione dei celebri
fringuelli che hanno aperto la strada alla teoria di Darwin, Peter Grant, biologo
evoluzionista, si pone il quesito: “What does it mean to be naturalist at the end of the
XX Century?” (Cosa significa essere naturalista alla fine del XX secolo?) (1999).
Forse lo stesso Grant, citando Gentry (1989, p. 127), si accorge, dalla prospettiva
della biologia evoluzionistica, che “lo straordinario tasso di speciazione delle piante
nel bosco umido tropicale del’Ecuador, è accompagnato da un altrettanto
straordinario ed elevato tasso di estinzione di locali endemismi dovuto alla
deforestazione. Non è solo l’eredità biologica dell’umanità che si impoverisce, ma
anche la nostra stessa eredità intellettuale che viene erosa quando questi unici e attivi
laboratori di speciazione scompaiono dalla faccia della terra. Inoltre quelli di noi che
sono interessati ai processi evolutivi hanno un incentivo aggiunto per preservare il
nostro pianeta dalla distruzione delle restanti foreste tropicali. Abbiamo bisogno delle
foreste tropicali se vogliamo veramente capire i processi di speciazione ed evoluzione
che hanno fatto incrementare la diversità della vita sulla terra.” (Grant, 1999). In
questo caso, sicuramente sentita nel profondo da parte di chi studia i processi
evolutivi e la biologia delle popolazioni, la perdita di biodiversità rappresenta un serio
problema da affrontare e da far emergere dalla specificità delle discipline scientifiche
delle scienze naturali. A volte però la generica perdita di diversità biologica legata
all’impatto delle attività antropiche sull’ambiente si infrange su due immagini


6
speculari ma asimmetriche: strumento per coloro che riconoscono il suo valore in
termini economici da un lato o giocattolo nel modo urbano e occidentale di guardare
alla complessità dei viventi dall’altro (De Marchi, 2002). Talora sono gli stessi
naturalisti e scienziati che proiettano sulla diversità biologica, in maniera
inconsapevolmente semplicistica e semplificata, questa seconda immagine.
Quest’ultimo approccio alla biodiversità ed alla sua degradazione può in qualche
modo ricollegarsi al paradigma che ha condizionato la scienza moderna, di
derivazione galileiana-newtoniana, che applica largamente il metodo riduzionistico,
isolando i singoli fenomeni ed interpretandoli come catene lineari causa-effetto
(Pignatti, Trezza, 2000 pp. 20-31). Si tratta dello stesso paradigma scientifico che ha
mantenuto separato l’uomo dall’ambiente e che ha considerato quest’ultimo come un
contenitore da cui è comodo sottrarre “risorse” e in cui scaricare rifiuti. Un paradigma
(o approccio) sistemico considera invece l’ambiente come un ecosistema: un sistema
auto-organizzante che accumula ordine sotto forma di materia organica (bio-massa) e
di specie viventi (biodiversità) (Pignatti, Trezza, 2000).
E’ infatti nella tipologia di relazioni che intercorrono tra comunità umane ed
ecosistemi che si traducono nelle varie forme d’uso delle risorse naturali che vanno
ricercati e riscoperti gli approcci per sviluppare modalità di conservazione della
natura organiche e complessive. Le relazioni tra comunità umane ed ecosistemi, che
insieme costituiscono un sistema bimodulare, sono di tipo verticale e senza dubbio
danno luogo a compromissioni di natura ambientale e diventano morfogenesi delle
reti trofiche (Vallega, 1995, pp. 71-77).
La biodiversità è invece da considerarsi quindi come diversità multiscalare
dell’organizzazione biologica (geni, popolazioni, specie ed ecosistemi) e può essere
considerata ad ogni scala geografica (locale, regionale e globale) e la sua
conservazione dovrebbe avere un approccio ecosistemico che si orienti all’interno di
questa concezione.
E’ dalla Convenzione sulla biodiversità di Rio de Janeiro all’interno dell’Earth
Summit (1992), che si delineano misure a carattere internazionale per la protezione
della diversità biologica ad ogni livello ed il suo uso sostenibile. E’ ormai acquisito
che le attività antropiche stanno fondamentalmente, e spesso in modo irreversibile,


                                                                                      7
mutando la diversità della vita sul pianeta, e la maggior parte di questi cambiamenti si
traduce in perdita di biodiversità (M.A., 2005), che da allora diventa sempre più res
publica, anche se con differenti interpretazioni ed approcci spesso discordanti.
Semplicemente usando una chiave di lettura ecologica si ritiene che qualsiasi
intervento umano su un elemento del sistema vivente ai diversi livelli di
organizzazione, data la struttura interattiva di questo, è destinato ad influenzare gli
elementi connessi dello stesso sistema, in modo tanto più incisivo quanto più forte è
l’intervento e quanto più numerose e strette sono le connessioni al livello di
organizzazione gerarchica pertinente e, eventualmente con altri, con esso collegati
(Buiatti, 2000).
Rifacendosi ai lavori commissionati dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU)
ad oltre 1300 scienziati per lo stato globale degli ecosistemi, (Global Ecosystem
Assessments, 2005), è comunque utile rilevare, solamente in riferimento alla perdita
di biodiversità in termini di estinzioni biologiche, che i dati e le proiezioni future non
sono tra i più rassicuranti.
Tra il 10% ed il 50% dei taxa studiati (mammiferi, uccelli, anfibi, conifere e cicadi)
sono    attualmente     sotto   minaccia   di   estinzione,    basandosi    sui    criteria
dell’International Union for Conservation of Nature (IUCN, 2001, in M.A., 2005).




8
Fig. 1.1 Tassi di estinzione delle specie in tre intervalli temporali: passato lontano
(documentazione fossile), passato recente (estinzioni registrate), futuro (basato su piu’
modelli). Fonte: Millennium Ecosystem Assessment, 2005

Premesso che la biodiversità ad ogni livello segue su scala planetaria un gradiente
latitudinale aumentando verso le fasce tropicali (Primack, 2004, pp. 38-40) e che di
conseguenza gli “ambienti” più ricchi si ritrovano nelle foreste pluviali, (WCMC,
1992) il cui bioma rappresenta più della metà delle specie esistenti al mondo con il
solo il 7% della superficie terrestre (Whitemore, 1990) costituendo la più grande
riserva della storia evolutiva del pianeta (M.A., p. 87), urge sottolineare come
attraverso lo studio di un ampio range di gruppi tassonomici la grandezza di
popolazione e la diversità biologica sono in declino (M.A., 2005).
Anche i centri di endemismo sono concentrati ai tropici; centri di endemismo relativi
ai taxa di uccelli, mammiferi ed anfibi tendono qui a sovrapporsi (IUCN 2004, Red
list od threatened Species. A Global Species Assments. IUCN, Gland, Switzerland).




                                                                                       9
Anche in termini di produttività, la quantità netta di carbonio fissata dalle piante
(KgC/m2) con la fotosintesi, principale fonte di energia della biosfera (M.A., Forest
and Woodland Systems, 2005), e di biomassa le foreste tropicali esprimono elevati
livelli comparati con le foreste di conifere in zone temperate e boreali.




Fig. 1.2 Comparazione della diversità tra gli otto regni biogeografici:
A) Ricchezza specifica; B) Endemismi (fonte: M.A., 2005)


Mentre nel passato le forti spinte di cambiamento e di modulazione della diversità
all’interno della biosfera sono state guidate da processi estrinseci alla vita stessa,
come i cambiamenti climatici, i movimenti tettonici, ed eventi extraterrestri nel caso
del Terziario, gli attuali trend di cambiamento sia sulla biodiversità che sui cicli
biogeochimici ed idrologici naturali (Primack, 2004) risultano da processi intrinseci
alla vita sulla Terra, e quasi esclusivamente legati alle attività antropiche: rapidi


10
cambiamenti climatici, cambio d’uso dei suoli, sovrasfruttamento delle risorse,
introduzione di specie alloctone invasive, agenti patogeni e inquinanti. Tali processi,
che si legano tra loro in relazioni complesse e che spesso agiscono in maniera
sinergica, sono considerati come fattori antropogenici che danno impulso e guidano i
cambiamenti sopraccitati; tali processi sono conosciuti come anthropogenic direct
drivers (M..A., 2005 cap. 4. Biodiversity, p. 96). Tra i più importanti impatti diretti e
pervasivi sulla biodiversità ricordiamo: la distruzione degli habitat (M.A., cap. 4), il
sovrasfruttamento delle risorse naturali, (M.A., 2005 cap. 4), l’introduzione di specie
alloctone invasive (alien species) Primack, 2004), agenti patogeni (M.A., cap. 4
Biodiversity, 2005) ed inquinanti ed infine, ma non irrilevante, i cambiamenti
climatici (M.A., cap. 9, 2005 ).
L’evoluzione di nuove specie e l’estinzione di altre sono in sé un processo naturale.
La diversità biologica, in termini di specie, che è attualmente presente rappresenta
appena il 2% di quelle che sono vissute sulla terra (Primack, 2004). Attraverso i
tempi biologici di evoluzione, il cui ordine di grandezza è di milioni di anni, c’è
sempre stato un netto eccesso di speciazione nei confronti dell’estinzione che ha
portato alla enorme diversità biologica sperimentata oggi sulla terra. Ciò che è
importante rilevare è che i processi di cambiamento che determinano la
degradazione/perdita di habitat, la riduzione della biodiversità ad ogni livello, ed i
cambiamenti climatici, condizionati direttamente dai sopraccitati anthropogenic
direct drivers, si svolgono su una scala temporale differente.
E’ infatti all’interno della scala dei tempi storici, quella che racchiude l’evoluzione
culturale, tecnologica e socio-economica dell’Homo sapiens, che i processi di
trasformazione della biosfera, dell’idrosfera e della atmosfera (e inevitabilmente della
geosfera) acquistano un ritmo ed una velocità assai rilevante; sono state le grandi
innovazioni tecnologiche ed il loro uso dettato ed imposto dai sistemi politico-
economici a diventare determinanti spartiacque all’interno della scala dei tempi
storici (Rifkin, 2000).
I tempi storici dell’uomo hanno attraversato le prime rivoluzioni tecnologiche del
neolitico, in cui si sono sviluppate le prime attività agricole stazionarie, l’allevamento
e l’accumulo di proprietà, fino alla grande rivoluzione tecnologica-produttiva della


                                                                                       11
dell’era industriale. I ritmi dei tempi storici e dei tempi biologici sono stati trasposti
su scale enormemente differenti: l’ordine di grandezza è di centinaia d’anni nel primo
caso, di milioni o miliardi nel secondo. Con i modelli di sviluppo e di produzione
dominanti e con l’attuale livello tecnologico impiegato, le capacità di modificare
ecosistemi, paesaggi e cicli biogeochimici sono notevolmente aumentate in funzione
del tempo e dello spazio. Il tempo sta quindi cambiando unità di misura nel rapporto
uomo-natura. La scala sottesa ai tempi storici dell’uomo è di tipo logaritmico,
aumenta in serie geometrica, con crescita esponenziale. La scala dell’evoluzione
biologica invece è la misura dei processi evolutivi ed è dell’ordine di grandezza di
milioni/miliardi di anni (Tiezzi, 2001). Quando si affrontano le problematiche relative
alla biodiversità, oltre alla sua dimensione multiscalare, il valore ecologico puramente
intrinseco si esprime anche attraverso la sua stessa storia, prodotto di una complessità
ed un’evoluzione incredibili di tre miliardi e mezzo di sperimentazioni di forme di
vita (Shiva, 2001).
Per meglio comprendere però da un’altra prospettiva, non escludente ma includente,
la questione della biodiversità è opportuno approcciarsi ad essa con gli strumenti
analitici propri della geografia della complessità (Turco, 1988).
Se da un lato anche il rapporto del Millenium Ecosystem Assessments ha preso in
esame e sviluppato numerose analisi quantitative degli impatti antropici sulla
biodiversità prevalentemente a livello di specie e/o habitat, l’insieme dei fattori che
determinano l’andamento dei processi causali sui sistemi ambientali è di più difficile
valutazione, specialmente se la scala è a livello di ecosistema o di meta-ecosistema.
(De Marchi, 2000).
Ecosistemi e società si evolvono nel tempo in relazioni reciproche che, interagendo
portano alla costruzione dei sistemi complessi territoriali. L’interazione nel tempo e
nello spazio tra società ed ambiente da luogo ad un sistema bi-modulare i cui
sottosistemi sono caratterizzati da una propria auto-organizzazione ed autonomia pur
mantenendo le capacità di interazione tra loro (Vallega, 1995).
I sistemi territoriali sono quindi prodotti dalle interazioni continue e reciproche tra
società umane ed ambiente e sono dipendenti da processi continui di produzione e
distruzione di biodiversità ad ogni livello organizzativo. L’ecosistema originario deve


12
ridurre i livelli di complessità naturale per poter consentire alla società di “erogare”
servizi e beni utili (M.A, Ecosystem Services, 2005) in maniera costante e per poter
riprodurre le azioni nel tempo. Tali operazioni si traducono in semplificazioni
dell’ecosistema: modificazioni delle caratteristiche fisiche del paesaggio per
consentire spostamenti, conversione in allevamenti o attività pastorizia, coltivazioni
di solo alcune piante selezionate (monocolture), attività produttive, insediamenti (De
Marchi, 2000). Queste attività sono sempre state sviluppate nel corso della storia
dell’uomo, ma con modulazioni notevoli in intensità ed estensione, specialmente a
partire dal secolo scorso. E’ proprio all’interno di questi interventi antropici che
vanno cercati i meccanismi ed i processi delle interfacce società-natura, che
influiscono sulla biodiversità e che direttamente o indirettamente costituiscono
impatti sui sistemi ambientali.
I processi che esercitano in qualche modo influenza sulla biodiversità possono essere
individuati in meccanismi diretti ed indiretti che, per la loro genericità e
standardizzazione possono essere utilizzati in diversi contesti territoriali. (De Marchi,
2000).
Sono state individuate sei famiglie di meccanismi diretti che agiscono sulla
biodiversità e sei famiglie di meccanismi indiretti;
                      Meccanismi diretti                       Meccanismi indiretti
                                                   Organizzazione sociale
         Sfruttamento delle popolazioni
         naturali                                  Crescita della popolazione

         Cambiamenti dell’agricoltura, della       Modelli di consumo
         selvicoltura, della pesca
                                                   Commercio globale
         Introduzione di organismi e
         patologie alloctone                       Sistemi economici e politiche
                                                   incapaci di valutare il reale valore
         Inquinamento del suolo, dell’acqua        dell’ambiente e delle risorse naturali
         e dell’atmosfera
                                                   Modelli iniqui di proprietà e gestione
                                                   dei flussi di benefici provenienti
         Cambiamenti climatici globali             dall’uso e dalla conservazione delle
                                                   risorse naturali

Tab. 1.1 De Marchi (2000)




                                                                                            13
Come si evidenzia dalla tabella i meccanismi indiretti descrivono le attività socio-
economiche, frutto delle strategie utilizzate dalle società nel relazionarsi con
l’ambiente; i meccanismi indiretti agiscono sui meccanismi indiretti.
E’ implicito che i meccanismi utilizzati sono stati generalizzati e che le dinamiche
uomo-ambiente dipendono dal tipo di relazione tra società ed ambiente. Anche se
molto spesso viene enfatizzata la crescita demografica come problema principale nei
processi di perdita di biodiversità, è opportuno evidenziare che nell’insieme delle
cause    i   meccanismi    legati    al     mercato    globale,     ai     sistemi   economici,
all’organizzazione sociale, alla ineguale distribuzione dei benefici delle risorse, ai
modelli di consumo, sono fortemente responsabili nel determinare l’intensità e
l’estensione dei processi che influiscono sulla perdita di biodiversità (De Marchi,
2000).
I meccanismi indiretti sono strettamente collegati con le dinamiche di cambio della
copertura ed uso del suolo (land cover/ land use). Questi due dinamiche appartengo a
due modi distinti di percepire e descrivere le dinamiche di cambiamento della
morfologia del suolo: land cover è spesso usato per lo stato fisico del suolo, spesso in
termini di copertura vegetale o in analisi geomorfologiche (solitamente impiegata
nell’ambito delle scienze naturali); land use invece rappresenta l’uso del suolo anche
in termini qualitativi (impiegata in geografia, antropologia, pianificazione territoriale,
economia). L’intreccio analitico dei due approcci, contemporaneamente consente una
rappresentazione    più   completa        delle   dinamiche   che        interfacciano   sistema
sociale/sistema ambientale (De Marchi, 2000).
Quando si affrontano le problematiche relative alla biodiversità quindi è utile
effettuare le analisi all’interno di un modello concettuale ecosistemico che collega il
livelli della diversità dei viventi, le funzioni degli ecosistemi e le dinamiche land
use/land cover (De Marchi, 2000).




14
1.2 Modelli di conservazione della biodiversità:
strategie, centri di biodiversità ed aree protette.

La biologia della conservazione ha mantenuto per molto tempo un approccio di tipo
classico per salvaguardare la biodiversità, soprattutto a livello di specie e di
popolazione, esprimendo una prospettiva romantica e forse un po’ naive nel
preservare il maggior numero di specie nella maggior area possibile. Tale pensiero
però poco si concilia con l’uso delle risorse naturali, le popolazioni locali e con i
sistemi economici e produttivi odierni locali e globali.
A causa di tali evidenze gli stessi biologi della popolazione hanno convalidato il
concetto di Shaffer (1981) di minima popolazione vitale (MPV) definito come la “la
più piccola popolazione isolata avente il 99% di probabilità di persistere per 1000
anni nonostante gli effetti prevedibili di eventi demografici, ambientali e genetici
casuali e le catastrofi naturali”. Dopo aver definito il MPV, all’interno del quale
vengono condotte stime quantitative sul numero di specie indispensabile per non
evolvere in processi di estinzione (dimensione della popolazione, tipo di habitat,
cambiamenti ambientali), è stata introdotta “la minima area dinamica” (MAD), ossia
l’unità areale minima per garantire la minima popolazione vitale (Menges, 1991, in
Primack 2000). In questa definizione, oltre all’orientamento alla conservazione
impostato unicamente a livello di specie, traspare anche l’impronta concettuale di tipo
deterministico-riduzionista, che considera l’ambiente da proteggere come un sistema
isolato e descrive i fattori demografici ed ambientali determinabili in un meccanismo
lineare di probabilità (Cini, 1999).
Tali concetti e studi per preservare la biodiversità a livello di specie si esprimono in
strategie di conservazione del tipo in situ che permettono cioè di tutelare le specie e le
popolazioni all’interno del loro stesso habitat. Indubbiamente per gli obiettivi propri e
circoscritti della biologia della conservazione a livello di specie/popolazioni, è stata la
strategia più accolta, in quanto le specie sarebbero in grado in continuare i processi
evolutivi di adattamento all’interno del loro habitat selvatico.
L’altra strategia di conservazione contemplata e praticata dai biologi è la cosiddetta
conservazione ex situ, ossia portare le specie fuori dall’ecosistema nel quale vivevano


                                                                                        15
e si erano evolute per coltivarle/allevarle in condizioni artificiali: zoo, acquari, orti
botanici, banche del seme sono gli esempi più noti. (inserire la validità come
strumenti didattici )Se da un lato, ai fini limitati della biologia della conservazione e,
nei casi estremi in cui le specie sono seriamente minacciate e versano in processi
irreversibili di estinzione, la conservazione ex situ è una strategia forse comprensibile,
dall’altro questa modalità è sovente al centro di critiche e dibattiti per le numerose
implicazioni di carattere socio-economico che essa comporta.
Risvolti delicati e complessi dal punto di vista socio-economico sono le banche del
germoplasma, dove vengono conservati e gestiti i patrimoni genetici di piante (non
solo minacciate), provenienti dalla biodiversità locale selvatica di ogni regione del
pianeta (specialmente dai PVS tropicali dove si concentra la maggior diversità
biologica) e dai cultivar selezionati dalle popolazioni rurali. Tale argomento che
implica doverose riflessioni sui diritti di proprietà, sull’accesso e sulla gestione delle
risorse fitogenetiche all’interno delle banche del germoplasma verrà approfondito nel
paragrafo successivo.
Rispetto alla conservazione ex situ è lo stesso Primack (1998) che, dalla sua
prospettiva di biologo della conservazione, riconosce seri limiti biologici, genetici ed
etologici intrinseci alla strategia appena menzionata: per non incorrere in derive
genetiche e fenomeni di inbreeding le specie ex situ dovrebbero essere assai
numerose (alcune centinaia); le specie conservate al di fuori dal loro ecosistema
possono costituire solo una parte del pool genico della popolazione poiché prelevate
solo in una certa area geografica; le popolazioni conservate negli zoo per molte
generazioni possono adattarsi geneticamente alle condizioni artificiali; le specie
zoologiche in cattività possono modificare la loro etologia e, qualora rilasciate in
natura, avere difficoltà nel procacciarsi cibo, poiché in cattività non è stato mai
appreso (Primack, 2004, pp. 246-260).
Su scala globale la World Conservation Monitoring Center (WCMC), Birdlife
International e la Conservation International hanno individuato le aree prioritarie per
conservazione della biodiversità a livello di specie e le maggiormente compromesse
sotto il profilo della degradazione degli habitat. Tali zone sono state chiamate centri
caldi per la biodiversità, ossia biodiversity hotspot (Myers et al., 2000).


16
I principi fondamentali per stabilire i biodiversity hotspot sono legati a due criteri: il
tasso di endemismo e la perdita di habitat. Non avendo disponibilità di dati su un
ampio range tassonomico, per quanto riguarda il tasso di endemismo, sono state prese
in considerazione le piante vascolari, che devono rappresentare almeno lo 0,5% delle
specie finora note; per quanto concerne la perdita di habitat gli hotspots devono aver
perso almeno il 70% delle formazioni vegetali originarie (Myers et al., 2000).
Su scala globale quindi sono stati al momento rilevati venticinque hotspots che
soddisfano questi requisiti e che coprono l’1,4% della superficie delle terre emerse.
L’insieme dei venticinque hotspots costituisce il 44% delle piante vascolari sul totale
di quelle conosciute, il 28% delle specie di uccelli, il 30% delle specie di mammiferi,
il 38% delle specie di rettili il 54% delle specie di anfibi (Myers et al., 2000).
E’ importante segnalare come su venticinque hotspots 12 siano situati negli ambienti
di foresta umida tropicale, tra cui l’area del mediterraneo e le Ande tropicali per
l’elevato tasso di piante endemiche (13.000 specie pari al 4,3% e 20.000 specie, pari
al 6,7% della flora mondiale) sono state classificati come hyper-hotspots, ossia
hotspots speciali (Primack, 2004 p. 311).
All’interno della tassonomia conservazionista sono state classificate inoltre tre zone
di foresta umida tropicale che non avendo perso il 70% della vegetazione originale
non possono rientrare nella categoria biodiversity hotspots, pur contenendo oltre il
15% delle specie vegetali mondiali; tali zone vengono denominate major wilderness
areas, ossia grandi aree selvatiche incontaminate (Myers et al., 2000).
Un’altra interessante classificazione che le organizzazioni conservazioniste hanno
adottato è quella relativa ai Paesi dove è concentrata la maggior biodiversità a livello
di specie: i Paesi Megadiversi (Megadiversity Countries). Sono stati definiti 17 Paesi
Megadiversi di cui cinque all’interno della foresta pluviale del bacino amazzonico
(Primack, 2004, p. 313).
Le discriminanti per la definizione di questi centri di biodiversità sono rispetto alla
biodiversità a livello di specie e non di ecosistema. (Myers et al., 2000).




                                                                                       17
Fig. 1.3 Distribuizione dei Centri di Biodiversità (Biodiversity Hotspots) su scala globale.
Fonte: Conservation International (2004)

Per valutare lo stato di conservazione l’IUCN, attraverso metodi quantitativi, ha
elaborato un sistema di classificazione in base allo stato di rischio a cui le specie sono
esposte e generando le note categorie in cui racchiuderle. Sulla base di queste
divisioni, attraverso il censimento delle specie minacciate, il WCMC ha
successivamente redatto a livello mondiale le note liste rosse e le liste blu, ripartite
per aree geografico-politiche e suddivise per gruppi tassonomici.
La minaccia di estinzione delle specie sollevata dall’IUCN e altre società scientifiche
nonchè l’emergere dei problemi ambientali legati alla riduzione di biodiversità
specifica hanno dato impulso, nella seconda metà del secolo scorso, alla proposta di
trattati ed accordi che sono stati sottoscritti a livello nazionale ed internazionale. A
livello internazionale la prima ad essere approvata è la Convenzione di Washington,
compilata nel 1973 dall’United Nation Environment Programme (UNEP), conosciuta
come CITES (Convention on International Trade in Endangered Species of Wild
Fauna and Flora), che regolamenta esclusivamente il commercio transnazionale di
specie animali e vegetali sotto minaccia d’estinzione, e la convenzione di Bonn
(1979), riguardante le specie migratrici appartenenti alla fauna selvatica.



18
A livello comunitario, per citare qualche esempio rilevante, è stata sottoscritta la
Direttiva Uccelli 79/409/CEE e la Direttiva habitat 92/43/CEE.
Questo tipo di approccio alla conservazione, oltre che ad essere riduttivo e poco
efficace, rivela i suoi limiti e le sue contraddizioni proprio per la difficoltà nel
separare concettualmente le specie dagli ecosistemi (Pignatti, Trezza, 2000). Per
questo parte delle organizzazioni conservazioniste hanno ritenuto necessario spostare
l’attenzione sulla biodiversità nella sua dimensione multiscalare ed attuare strategie
per la conservazione a livello di comunità/ecosistemi (Reid, 1992 in Primack, 2000).
E’ attraverso un diverso approccio alla tutela della biodiversità che emergono nuovi
accordi internazionali per la conservazione, innalzando la protezione da livello di
specie ad habitat.
Il primo accordo sulla protezione degli habitat è la Convenzione di RAMSAR (1971)
che tutela le zone umide (wetlands), aree di notevole importanza ecologica per gli
uccelli migratori; nel 2002 la Convenzione di Ramsar veniva sottoscritta da 133 paesi
su 194.
Nel 1979 viene stipulata la Convenzione di Berna per la conservazione della Vita
Selvatica e dell’Ambiente Naturale in Europa, ratificata nel 2002 da 45 Paesi europei
ed africani, nonché dalla Comunità europea.
Nello stesso periodo UNESCO, IUCN e Consiglio Internazionale per i Monumenti e i
Siti, promuovono la Convenzione sulla Protezione del Patrimonio Culturale e
Naturale mondiale, mettendo in relazione il patrimonio biologico ed ecologico a
quello culturale. Esempi nostrani di siti dichiarati “Patrimonio dell’Umanità” sono
l’Orto Botanico di Padova o l’arcipelago delle isole Eolie.
Gli strumenti impiegati per mettere in campo la conservazione, sia essa a livello di
specie o di habitat, si sono tradotte frequentemente nella delimitazione di parchi,
riserve ed aree naturali protette. Così dalla realizzazione delle prime riserve in Africa
agli inizi del XX secolo, create dai coloni inglesi per garantirsi la selvaggina nelle
battute di caccia, al boom nella seconda metà del secolo scorso, dei parchi nazionali,
pur con differenti propositi ed utilizzi, le aree naturali protette si sono rapidamente
diffuse su scala mondiale (Adams, Hutton, 2007, pp. 152-156).



                                                                                      19
Il modello senz’altro più rappresentativo nell’ambito della conservazione, per tutto il
secolo scorso, è stato il primo parco nazionale ufficialmente istituito negli Stati Uniti
nel 1872: the Yellowstone National Park. Il modello di tale parco si muove
concettualmente intorno all’idea di delimitare un’area naturale “selvaggia” e
originaria (the pristine nature) che deve essere distinta e fisicamente separata
dall’ambiente esterno, comprese le attività umane. Da questo modello di
conservazione traspare il paradigma del pensiero scientifico illuminista, dalla cui
l’enfatizzazione della separazione tra uomo ed ambiente si sono sviluppati i concetti
di riserve, parchi ed aree protette. In questo modello concettuale l’idea suprema ed
estrema di parco naturale è quella della “protezione integrale”, evitando qualunque
interferenza o rumore di fondo di carattere antropico (Adams and Hutton, 2007).
A partire dall’istituzione ufficiale del primo parco nazionale si sono rapidamente
diffusi numerosi parchi nazionali su scala globale, facendo diventare il Yellowstone
National Park un typus ed un modello dominante per la creazione di aree naturali
protette ispirate alla pristine nature.
Proprio in seguito alla rapida ed enorme diffusione di parchi nazionali, riserve ed aree
protette worldwide ed al loro diverso utilizzo e finalità l’IUCN, tramite la
Commissione Internazionale sui Parchi Nazionali ed Aree Protette (CNPPA), ha
ritenuto opportuno riorganizzare e ridefinire il sistema di classificazione, pubblicando
nel 1978 il primo rapporto su “Categorie, Obiettivi e Criteri”.
Dopo una serie di revisioni ed aggiornamenti (Perth, 1990; Caracas 1992) l’IUCN ha
ritenuto opportuno far chiarezza ridefinendo ed aggiornando (standardizzando) le
categorie relative alle aree protette pubblicando le linee guida come orientamento per
le politiche internazionali e nazionali sull’istituzione di aree protette (IUCN, 1994).
Le categorie contenute nel sistema di classificazione corrente dell’IUCN si
sviluppano su una serie progressiva di aree protette (dalla categoria I alla VI) in base
al grado di protezione e di inclusività delle attività antropiche (IUCN, 1994). Mentre
le categorie I e II rispecchiano il classico modello di parco nazionale, (da strict
protected reserve/wilderness area a national park) le suddivisioni di ordine superiore
modulano progressivamente il flusso di prodotti e servizi di ecosistema, fino all’uso



20
sostenibile degli ecosistemi naturali (dalla categoria III, monumenti naturali, alla
categoria VI, aree protette con gestione sostenibile delle risorse) (IUCN, 1994).
Le indicazioni contenute nelle linee guida dell’IUCN sull’istituzione e la
categorizzazione delle aree protette rimangono, tuttavia, dei semplici suggerimenti e
consigli rispetto alle politiche ambientali che vengono sviluppate da ciascun Paese in
base anche a questioni squisitamente politiche e socio-economiche. Basti pensare che,
secondo uno studio condotto dall’IUCN (1994), in Sudamerica l’84% delle aree
protette non corrisponde alle categorie sopraccitate.
E’ all’interno della categoria VI definita dal CNPPA dell’IUCN che sono state
inserite le Riserve del Programma per l’Uomo e la Biosfera dell’UNESCO (Man and
Biosphere Program, MAB). Tale programma è stato lanciato in via sperimentale agli
inizi del 1970 e si è rivelato, almeno sulla carta, uno dei più avanzati tra i modelli di
aree protette, delineando così un nuovo approccio alla conservazione della natura. Il
programma MAB infatti è “finalizzato ad integrare le attività umane, la protezione
dell’ambiente naturale, la ricerca scientifica e l’ecoturismo nella stessa area” (Batisse,
1997 in Primack, 2004), enfatizzando le relazioni reciproche tra uomo ed ambiente.
In questo modo i protocolli di ricerca MAB concettualizzano e traducono
nell’istituzione delle Riserve della Biosfera modelli di compatibilità tra protezione
degli ecosistemi minacciati e lo sviluppo sostenibile a beneficio delle popolazioni
locali, riconoscendo da un lato il ruolo dell’uomo nel modellare il paesaggio,
dall’altro l’esigenza di trovare le modalità con cui l’uomo possa usare le risorse
naturali in modo sostenibile senza degradare l’ambiente (Primack, 2004, pp. 397-
406).
Anche per quanto riguarda il modello concettuale di “area protetta” i piani MAB
esprimono elementi decisamente innovativi. La riserva non è concepita come una
“campana di vetro” che protegge gli ecosistemi isolandoli dall’ambiente circostante,
bensì come un sistema che interagisce con il mondo circostante integrando nella
gestione e nella pianificazione le esigenze e le culture delle popolazioni locali
(Campagna UNESCO, Parigi, 1981). L’area protetta passa quindi da sistema isolato a
sistema aperto, permettendo scambi di “materia ed energia” con l’ambiente esterno,
purché siano garantiti i meccanismi di sostenibilità ambientale e sociale.


                                                                                       21
Per strutturare questo modello di area protetta l’UNESCO ha stabilito dei criteri al
fine di effettuare zonazioni (zoning) a diversi gradi di influenza antropica (vedi fig.
5): un nucleo centrale (core area) a protezione integrale a causa dell’elevato grado di
sensibilità e di minaccia dell’ecosistema; una zona di rispetto (buffer zone) all’interno
della quale sono consentite attività tradizionali (orti tradizionali, raccolta di prodotti
forestali come frutti o piante medicinali) e attività di ricerca; un’area più esterna,
(transition area) all’interno della quale sono concesse alcune forme di sviluppo
sostenibile come progetti di agroecologia a piccola scala, uso di risorse a basso
impatto ambientale ed attività di ricerca sperimentale. Questa zonazione consente da
un lato di preservare alcuni paesaggi modellati dall’uomo e l’integrità degli
ecosistemi, dall’altro le zone cuscinetto possono aiutare ed facilitare la dispersione
degli animali ed il flusso genico tra il nucleo centrale e sistemi più esterni (Primack,
2004, p. 345).




Fig. 1.4 Modello di zonazione delle Riserve della Biosfera (da MAB France, modificato.)

Così come le categorie delle aree protette (IUCN, 1994) le Riserve della Biosfera
sottostanno a giurisdizione e sovranità nazionale e sono state inserite all’interno della
Rete Mondiale delle Riserve della Biosfera (World Network of Biosphere Reserve);



22
da quando è stato lanciato il Programma MAB a livello mondiale sono state istituite
531 Riserve della Biosfera in 105 paesi (UNESCO, MAB, 2008).
E’ opportuno inoltre sottolineare come questo modello avanzato di area protetta,
nonostante le indicazioni dell’UNESCO e le numerose realizzazioni a livello
mondiale, rimanga spesso un progetto virtuale che si scontra con le dinamiche
territoriali, con lo stato giuridico e con le condizioni polico-economiche dei Paesi nel
quale è realizzato. All’interno della Riserva della Biosfera Yasuní (UNESCO, 1989)
presa in esame come caso di studio, non si presenta alcuna caratterista dei Programmi
MAB (David Romo, 2006, comunicazione personale) e non esiste nessuna zonazione
al suo interno. L’unica zonazione presente è quella effettuata dal Ministero
dell’Energia che ha suddiviso la riserva in 12 aree per le attività estrattive legate
produzione petrolifera (vedi elaborazione GIS, fig. 2.6, pag 81).




Fig. 1.5 Distribuzione delle Riserve della Biosfera su scala planetaria. Fonte: UNESCO
– MAB




1.3 Foreste umide tropicali
Come si è accennato nel paragrafo precedente il gradiente di biodiversità è
latitudinale ed aumenta dai poli alle zone temperate fino ai tropici, per raggiungere
l'apice nella fascia equatoriale dove si concentra la massima diversità biologica.



                                                                                     23
E’ alle basse latitudini che si sono sviluppate le foreste tropicali (Tropical Moist
Rainforest) che da un lato sono refugia estremamente importanti per la biodiversità
terrestre dall’altro una tra le componenti fondamentali nei sistemi biogeochimici della
terra. Esse inoltre con le loro risorse naturali (fondamentalmente biodiversità e
prodotti forestali), provvedono al sostentamento ed alla riproduzione sociale di molte
popolazioni locali, tra le quali considerevoli quote di popolazioni indigene.
L’IUCN ha stimato che il 12,5% delle specie vegetali mondiali, il 44% degli uccelli,
il 57% degli anfibi, l’87% dei rettili ed il 75% dei mammiferi sono seriamente
minacciati dalla crescente degradazione degli ecosistemi forestali tropicali (IUCN
1996, 1997).
Myers definisce la regione biogeografica della foresta umida tropicale come “foreste
sempreverdi, o parzialmente sempreverdi, in aree che ricevono non meno di 100 mm
di precipitazione mensile con un regime pluviometrico uniforme nel corso dell’anno
ed una temperatura annuale media di 24° Celsius; le formazioni vegetali si estendono
solitamente in aree al di sotto dei 1400 metri di quota ed, in esempi di foresta matura,
è possibile distinguere diversi livelli di stratificazione” (Myers, 1980 in Perry, 1982).
Attualmente i processi di deforestazione e la degradazione delle foreste coinvolgono
l’8.5% dei rimanenti sistemi forestali naturali su scala globale, di cui circa la metà
sono in Sudamerica (M.A., p. 75).
Nel corso dei tempi storici le foreste, globalmente, hanno subito una imponente
riduzione e degradazione: negli ultimi tre secoli si sono ridotte approssimativamente
del 40% di cui 3/4 durante gli ultimi duecento anni (M.A., Drivers of Ecosystem
Change, 2005 p. 597).
L’insieme delle attività antropiche infatti sta determinando processi di alterazione
della superficie terrestre ad un tasso ed una scala che non hanno precedenti nella
storia dell’uomo, concorrendo in magnitudo solamente con le transizioni dei periodi
glaciali/interglaciali (NAS in Gutman et al., 2004); a tal proposito è molto
significativo il termine coniato da alcuni scienziati per definire l’attuale Era
geologica: l’Antropocene (Crutzen, 2005).
E’ da tenere presente inoltre che i sistemi forestali, globalmente, giocano un ruolo
fondamentale nel ciclo del carbonio e conseguentemente nell’accelerazione e


24
decelerazione dei cambiamenti climatici; secondo il terzo rapporto dell’International
Panel Climate Change (IPCC, in M.A., 2005) le proiezioni rispetto al riscaldamento
globale (global warming) prevedono un innalzamento della temperatura tra i 1.4°-
5.8° Celsius 2100, variazione molto più alta rispetto all’intervallo temporale 1990-
2001 (IPCC., 2001 in M.A., 2005).
Anche se va rilevato che in Europa e negli Stati Uniti il trend di disboscamento è
stato invertito in parte grazie alla consapevolezza ed alle politiche ambientali di
riforestazione, non si può dire lo stesso per quanto riguarda le foreste naturali
tropicali. Il disboscamento di foreste primarie ai tropici continua con un tasso annuale
di dieci milioni di ettari: un’area paragonabile alla Grecia, oppure tre volte il Belgio
(M.A., 2005, p. 587).
E’ infatti ampiamente confermato che da nessuna parte come ai tropici i processi di
deforestazione legati al cambiamento d’uso del suolo ed alla copertura vegetale hanno
dirette implicazioni nel bilancio globale del budget di carbonio sulla base di modelli
(Houghton et al., 2000 in M.A. 2005) e misure atmosferiche (Ciais et al., 1995, 1995,
in M.A. 2005).
Le attività legate al cambio di copertura vegetale ed uso del suolo (land cover e land
use) sono tra i principali processi antropogenici che, degradando e sostituendo le
formazioni vegetali originarie, determinano un elevato impatto ambientale nella
foresta amazzonica, la cui conversione in terreni agricoli ed aree urbanizzate crea un
disturbo ecologico a scala regionale e sovra regionale, anche a notevole distanza dalle
aree colpite (Walker, Solecki, 1999, in M.A., 2005).
Pertanto la deforestazione tropicale è collegata ad attività antropiche come
l’espansione della “frontiera” agricola che, richiedendo il cambio d’uso del suolo,
conduce alla sostituzione della copertura forestale. A quest’ultima sono da aggiungere
le attività estrattive quali lo sfruttamento del legname e l’estensione delle
infrastrutture produttive e di comunicazione terrestre (Gomez-Pompa, 1991, in M.A.,
2005) che sempre più stanno coinvolgendo le foreste primarie tropicali. Le
infrastrutture di comunicazione stradali che si propagano all’interno della foresta
tropicale costituiscono il primo input di deforestazione, contemporaneamente,
utilizzando l’asse stradale principale si attivano processi disboscamento ortogonale


                                                                                     25
dando luogo ad un doppio pettine. Lungo queste strade comincia la pratica
“modernizzante” della foresta tropicale, portandosi dietro, a seconda dei casi, le
attività produttive (De Marchi, 2004). Come verranno prese successivamente in
esame all’interno del caso di studio nel cap. 6, queste pratiche di costruzione del
territorio lungo un’asse stradale portante rispecchiano le cosiddette logiche di terra
(Bertoncin, 2004) e determinano un processo di territorializzazione per sostituzione
della foresta primaria lasciando spazio ad attività prevalentemente agricole ed
estrattive. I processi di colonizzazione agricolo-estrattiva lungo via principale
all’interno della foresta determinano l’apertura di processi ortogonali all’asse
portante, dando come risultante un pattern a “spina di pesce”.
Contrariamente al detto ecologico che “la diversità promuove stabilità” appare ormai
confermato che i sistemi forestali ad elevata complessità, come le foreste tropicali,
sono dinamicamente fragili e che può essere assai difficile rigenerarsi anche un
piccolo disturbo (May, 1975, in Perry, 1982).
Dal punto di vista ecologico e della sostenibilità è fondamentale mettere in luce che le
specie arboree tropicali sembrano essere adattate alla riproduzione solamente sotto le
condizioni dello stato primario. Queste caratteristiche e la bassa densità delle
differenti specie per ettaro hanno portato alcuni ricercatori a concludere che le foreste
tropicali sono essenzialmente risorse non rinnovabili (Gomez-Pompa, 1991).
Rispetto anche al caso di studio ed alle analisi sviluppate successivamente in questa
tesi è importante sottolineare come processi di cambiamento land use/land cover
presenti all’interno del bacino amazzonico abbiano un ruolo significante anche su
scala globale, andando ad influenzare l’idrologia, il clima ed i cicli biogeochimici
globali (Crutzen et al., in M.A., 2005).
Anche se la deforestazione delle foreste tropicali è legata genericamente alle attività
di cambio d’uso del suolo e di copertura vegetale è importante distinguere tra attività
locali di coltivazione transitorie (shifting cultivation), tra cui la pratica slash-and-
burn (taglia e brucia), e attività legate ai sistemi economici e produttivi globali. Tra
questi le attività con ruolo importante nella deforestazione tropicale, presenti anche
nell’area di studio successivamente presa in analisi, sono l’estrazione di legname ad
uso industriale (spesso da esportare a basso costo nei paesi occidentali ), la creazione


26
di piantagioni industriali e monocolture intensive (piantagioni di palma da cocco,
palma africana, cacao, albero della gomma, tek, etc.), grandi aree per gli allevamenti
bovini ed estrazione mineraria e petrolifera (Primack, 2004, pp. 122-123).
L’intensità e l’estensione areale delle attività estrattive ed agro-industriali sopracitate
sono direttamente collegate alle dinamiche economiche e produttive su scala locale
ma soprattutto globale.
E’ fondamentale ricordare inoltre che i sistemi forestali, specialmente nei Paesi in Via
di Sviluppo (PVS) delle zone tropicali, garantiscono con le loro risorse la
sopravvivenza di molte popolazioni a tal punto che solamente la raccolta di prodotti
forestali contribuisce al 50% del consumo alimentare (Cavedish, 2000, in Primack,
2004). E quindi opportuno evidenziare come i popoli indigeni che vivono all’interno
delle foreste tropicali abbiano ereditato un elevato patrimonio culturale di conoscenze
di natura ambientale e che la loro stessa sopravvivenza si basi sulla gestione di
numerose risorse biologiche utilizzate nell’ambito alimentare, medico e religioso.
Una forte degradazione dell’ecosistema forestale o una sua riduzione areale laddove
si sovrappongono territori indigeni hanno importanti ricadute sulla loro stessa vita e
riproduzione sociale. Tale impatto quindi, oltre ad essere di natura ambientale, ha
delle serie implicazioni sulle popolazioni locali che, utilizzando sistemi e conoscenze
tradizionali, hanno sviluppato un pacchetto di strategie diversificate, spesso
sostenibili, per sopravvivere (Shiva, 2001).




                                                                                        27
Fig. 1.6 Pattern di deforestazione. Nelle due immagini superiori il modello a spina di pesce, nelle
inferiori la sua evoluzione. Amazzonia peruviana. Fonte: Google Earth.




28
Fig. 1.7 Distribuzione dei sistemi forestali originali e rimanenti. (fonte: UNEP, 2004)




1.4 Biodiversità: un approccio ecosistemico
Il superamento del modello conservazionista classico e del suo approccio alla
biodiversità unicamente livello di specie comincerà ad avviarsi nei lavori sulla
“questione ambientale” all’interno del Summit della Terra di Rio de Janeiro
(UNCED, 1992). E’ qui infatti che, con la stesura della Convenzione sulla
Biodiversità (CBD), la diversità biologica comincia ad assumere importanza nella sua
multiscalarità (dai geni ai metaecosistemi) e nella sua complessità. Oltre alla
protezione della biodiversità a tutti i livelli, tra gli obiettivi principali della
Convenzione vengono inseriti anche “l’uso durevole dei suoi componenti e la
ripartizione giusta ed equa dei benefici derivanti dall’utilizzazione delle risorse
genetiche […]” (CBD, 1992). Sono proprio questi due obiettivi che, introducendo per
la prima volta l’importanza del concetto di sostenibilità della gestione della diversità
biologica e dell’equa ripartizione dei benefici derivati dalle risorse genetiche delle
specie selvatiche e domestiche, aprono il dibattito sulla complicata questione dei



                                                                                          29
diritti su tali risorse (De Marchi, 2002). Tale problema entra nel merito delle strategie
per la conservazione in situ ed ex situ.
La conservazione della diversità biologica ex situ, ad esempio, è uno degli aspetti più
controversi e dibattuti non solo in termini di tutela delle specie minacciate, ma anche
in termini di diritti di proprietà intellettuale. Il materiale genetico delle specie
vegetali, selvatiche o cultivar, viene conservato e gestito all’interno delle banche del
germoplasma sia per una “archiviazione” a scopi scientifici sia per incrementare la
variabilità genetica tramite incroci infraspecifici e l’impiego di tecnologie del DNA
ricombinante. Questi procedimenti sono indispensabili e assai preziosi per le industrie
farmaceutiche, agro-alimentari e biotecnologiche che operano sulla produzione e sul
mercato globale. I geni delle varietà locali o delle specie selvatiche forniscono
sostanzialmente il materiale genetico e chimico di base per tali industrie. Nel passato
le banche del germoplasma, coordinate dall’ente internazionale per l’agricoltura (il
Consultive Group in International Agricolture Research CGIAR) e localizzate
prevalentemente nei PVS, raccoglievano gratuitamente semi e tessuti vegetali e li
consegnavano ai centri di ricerca ed alle industrie. I benefici e gli enormi profitti
originati dalla commercializzazione dei prodotti derivati dalle risorse biologiche non
venivano ripartiti od indirizzati localmente.
Non è cosa di poco conto rilevare che circa il 96% della variabilità genetica
necessaria a soddisfare la produzione farmaceutica, agricola e biotecnologica su scala
globale provenga direttamente dai PVS delle fasce tropicali, laddove si concentra la
maggior parte della diversità biologica (Primack, 2004, pp. 246-262).
La Convenzione sulla Biodiversità discussa a Rio de Janeiro ha pertanto innescato un
acceso dibattito, specialmente tra i Paesi industrializzati ed i PVS che possiedono le
risorse biogenetiche, facendo emergere enormi difficoltà sulle misure da prendere
rispetto alla proprietà intellettuale sulle risorse biologiche (De Marchi, 2002 p.3). La
CBD è stata attualmente ratificata, non con poche riserve e complicazioni, da 170
Paesi; il Congresso degli Stati Uniti ha notevolmente tardato a sottoscriverla a causa
dei limiti che venivano imposti alla crescente industria biotecnologica all’interno del
paese (Primack, 2004, p. 407).



30
Nonostante la Convenzione sulla Diversità Biologica possa considerarsi uno
strumento per la tutela dei diritti sulle risorse biogenetiche le misure da adottare non
sono facilmente attuabili alle banche del germoplasma istituite perlopiù nei PVS.
Alcune ricerche infatti hanno dimostrato che circa il 65% del materiale genetico
raccolto nelle banche del seme e del germoplasma è privo delle certificazioni di base
sui dati e sulle loro caratteristiche (Croucible group, 1995 p. 29).
Un altro dei nodi che il CBD tramite l’organo decisionale (Conferenza delle Parti,
COP) e l’Organo Sussidiario di Consulenza Scientifica e Tecnologica (SBTT) sta
cercando di scogliere è quello relativo alla perdita di biodiversità intesa come
“riduzione qualitativa o quantitativa di componenti, a lungo termine o in maniera
permanente, ed il loro potenziale di fornire beni e servizi che possono essere misurati
a livello globale, regionale o nazionale” (COP VII/30, 2004).
E’ proprio il potenziale della biodiversità di fornire beni e servizi, ben sintetizzati
nell’insieme degli ecosystem services (Cap. Ecosystem Services, in MA 2005) che si
traduce nella capacità dell’ecosistema di soddisfare le esigenze delle società rurali e
delle comunità indigene dei PVS.
La stessa perdita di biodiversità, all’interno del rapporto Biodiversity across
Scenarios, viene considerata non solo come riduzione in servizi di ecosistema in
termini di misure di abbondanza di specie, ma anche come erosione delle risorse
genetiche da cui dipendono le stesse attività di sussistenza delle società rurali (M.A.,
2005, p. 403).
E’ stato stimato che la biodiversità locale riesce soddisfare i nove decimi del
fabbisogno di base per la sopravvivenza attraverso l’erogazione di ecosystem
services, di cui la metà non deriva direttamente da forme di agricoltura stabile o
itinerante, ma da biodiversità conservata in orti semiselvatici, lungo le zone ripariali
dei fiumi o all’interno della stessa foresta umida tropicale.
La biodiversità riesce quindi, localmente, a soddisfare le necessità basiche in termini
di cibo, medicine, piante aromatiche ed essere associata a valori culturali ed estetici
per le comunità rurali (Mooney, 1997). E’ con l’insieme delle conoscenze locali che
le società rurali e le comunità indigene riescono a gestire le risorse biologiche.



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L’insieme delle forme di gestione della biodiversità tramite modelli tradizionali che
integrano l’uso dei saperi locali e tecnologia a basso impatto ambientale garantiscono
alle società rurali di vivere al di sotto della capacità di carico degli ecosistemi locali, e
sono intrinsecamente ecologici (Shiva, 2001).
Questo insieme di strategie diversificate, sviluppate per garantire la produzione e
riproduzione sociale del territorio in ecosistemi locali a bassa capacità di carico come
quelli della foresta umida tropicale (De Marchi, 2004) configurano quelli che
Dasmann (1988) ha chiamato “Gente degli Ecosistemi”. Tale categoria viene
contrapposta a “Gente della Biosfera” che vive al di sopra delle capacità di carico
degli ecosistemi locali utilizzando “risorse provenienti da tutti gli ecosistemi della
terra attraverso elevati costi energetici e materiali” (De Marchi, 2004). Se da un lato
nella “Gente degli Ecosistemi” la produzione e riproduzione sociale del territorio è
basata su un controllo prevalentemente simbolico sulle risorse naturali, dall’altro
nella “Gente della Biosfera” viene usata una strategia complessiva basata sul
controllo materiale delle risorse, espansione dello spazio di raccolta ed alta possibilità
di sostituzione sia dei prodotti che dei luoghi (De Marchi, 2002, p. 3). E’ in questo
modo, ad esempio, che anche Paesi dichiarati “Megadiversi” come il Brasile
ottengono 2/3 delle calorie umane derivate da piante alimentari che provengono da
specie vegetali coltivate in altri continenti (Crucible group, 1995).
In questo contesto si inserisce il ruolo delle strategie della conservazione ex situ e
delle banche del germoplasma diventa ambiguo, in particolar modo per quelle
localizzate nei PVS.
Un caso significativo è quello del Centro per il Miglioramento del Mais e del
Frumento (International Maize and Wheat Improvement Centre, CIMMYT), situato
in Messico, che svolge attività di miglioramento della variabilità genetica di questi
cereali e la mette a disposizione delle industrie agroalimentari su scala globale. E’ in
questo modo che il 60% della varietà genetica del frumento per la produzione della
pasta italiana viene selezionata in Messico. E’ difficile quantificare globalmente quale
sia il contributo economico in germoplasma ed in conoscenze locali provenienti dai
contadini del Sud del Mondo per l’agricoltura dei Paesi industrializzati, ma alcuni
studi eseguiti proprio sul CIMMYT hanno stimato che l’ammontare complessivo solo


32
per le industrie agricole di USA, Australia, Nuova Zelanda ed Italia è di circa 1,5
miliardi di dollari. Lo stesso meccanismo si riproduce nel caso dell’Istituto
Internazionale per la Ricerca sul Riso (International Rice Research Institute, IRRI),
situato a Manila, dal quale provengono le varietà di riso coltivate in Italia (Mooney,
1997, p. 53) e i cui benefici non tornano agli agricoltori filippini che hanno effettuato
il lavoro di selezione unendo i saperi locali alla diversità biologica vegetale (De
Marchi, 2002). Anche se i dati provengono da studi condotti in passato e non sono
aggiornati, esprimono comunque valori di tendenza e, su tali tematiche, va preso atto
che non è facile reperire lavori recenti e pubblici.
Lo stesso dispositivo, dalla scala locale a quella globale, coinvolge i processi per la
produzione di farmaci a livello industriale. Almeno 7000 principi attivi appartenenti
alla farmacopea occidentale (dall’aspirina alle pillole contraccettive) sono ottenuti da
processi di chimica di sintesi da materiale vegetale ed il loro valore complessivo è
stato stimato tra i 35.000 ed i 47.000 milioni di dollari (Croucible Group, 1995;
UNEP 1992).
La medicina tradizionale indigena, che coniuga i saperi locali con l’utilizzo delle
risorse biologiche nell’ambito della salute, contribuisce a quasi tre quarti della
produzione di farmaci a base vegetale disponibili oggi sul mercato (Rifkin, 1998).
Numerosi sono i casi documentati, tra cui si riportano: il caso della pianta chiamata
dagli indigeni della regione amazzonica ecuadoriana “Sangre de Drago” (Croton sp.,
Euphorbiaceae), utilizzata nella medicina tradizionale e passata attraverso il canale
“The healing forest” (una organizzazione no-profit per la conservazione della
biodiversità   e   dei   saperi   indigeni)   alla     compagnia   statunitense   Shaman
Pharmaceuticals“ e trasformata in “semilavorato industriale” per l’industria
farmaceutica (Mooney 1997, p. 152; De Marchi, 2002) che nonostante gli accordi di
“reciprocità” ha pagato con poche migliaia di dollari lo scambio; il caso del Barbasco
(Clibadium silvestre, Asteraceae), una pianta ben conosciuta dalle popolazioni
indigene amazzoniche ed usata nella medicina tradizionale ed in agricoltura, che
l’impresa Foundation for Etnobiology ha brevettato e venduto alle compagnie
farmaceutiche Zeneca e Glaxo; il caso dell’Ayahuasca (Banisteriopsis caapi,
Malpighiaceae) usata nella medicina tradizionale e nelle ritualità shamanico-indigene


                                                                                      33
ecuadoriane, brevettata dall’International Plant Medicine Corporation (IPMC) e
utilizzata come farmaco sperimentale nelle terapie psichiatriche; il celeberrimo caso
del chinino, un principio attivo usato come farmaco nella prevenzione e nella cura
della malaria, derivato da piante arboree ed arbustive tropicali del genere Cinchona
(Raven, 1997, p. 574); il caso del curaro (chondrodendron tomentosum ) che, raccolto
lungo le sponde del fiume Curaray (Amazzonia ecuadoriana) ed usato dalle
popolazioni Wuaorani come veleno per stordire le prede, è diventato oggi un
importante anestetico chirurgico e distensivo muscolare.
Il ruolo quindi di biologi, antropologi, chimici e farmacisti, diventa talvolta delicato
ed esula dalle competenze disciplinari specifiche allorché i finanziamenti per la
ricerca provengono dalle grandi imprese che sponsorizzano spedizioni in tutto
l’emisfero meridionale, in cerca di caratteristiche genetiche che potrebbero avere un
valore commerciale. L’insieme delle attività che derivano da “bioprospezioni”
finalizzate a scopi commerciali è quello che Rifkin chiama “pirateria biologica”
(Rifkin, 1998).




Fig. 1.8 Preparazione dell’estratto di Ayauasca ( Banisteriopsi caapi), a cura di uno
shamano Wuaorani, Ecuador.




34
Il modo in cui i prodotti chimici del metabolismo secondario di molte specie vegetali
(un meraviglioso esempio di coevoluzione biochimica delle piante con i loro
predatori) si combina con le conoscenze locali delle popolazioni indigene trasforma la
risorsa biogenetica in “semilavorato industriale” (Raven, 1997, p.573; De Marchi,
2002).
Tuttavia è doveroso segnalare che esistono rari esempi di conservazione e gestione
partecipativa delle risorse biogenetiche ex situ, come la banca del seme indiana
Nadvanja, che sono istituite per il beneficio delle comunità locali e la conservazione
della biodiversità (Shiva, 2001, p. 56).
Sarà solo successivamente, nel quinto incontro a Montreal del SBTTA della CBD
(2000), che si assumerà formalmente l’approccio ecosistemico come metodologia
generale per la realizzazione della Convenzione sulla Diversità Biologica
riconoscendo che “le società umane, con la loro diversità culturale sono una
componente integrale del sistema” (SBSTTA, Montreal 2000).
Questo è stato un cambiamento di paradigma molto importante anche per la
conservazione della natura, determinando il passaggio dall’approccio alla biodiversità
a livello di specie all’approccio ecosistemico.
Tra i punti cardine emersi nell’incontro del SBTT di Montreal viebe ribadito che le
comunità locali sono responsabili della biodiversità nel loro intorno e devono essere
direttamente coinvolte nei processi decisionali riguardo l’uso delle risorse naturali e
devono prendere parte nella ripartizione dei benefici che ne conseguono.
Anche il concetto di sostenibilità è stato rivisitato articolandolo su tre livelli:
ambientale, economico e socio-culturale. Affinché la gestione di una risorsa naturale
sia durevole, la sostenibilità deve essere mantenuta in tutti e tre gli ambiti. E’
opportuno segnalare inoltre come, ai fini di una gestione sostenibile della
biodiversità, vadano tenute in considerazione tutte le informazioni rilevanti,
includendo le conoscenze scientifiche, le conoscenze indigene e tradizionali,
l’innovazione e le pratiche ( SBSTTA, Montreal, 2000, De Marchi, 2002)
Il tema della biodiversità e della sua conservazione quindi è difficilmente affrontabile
con un approccio a livello di specie o con atteggiamento riduzionistico, ma richiede
una visione sistemica del ruolo della diversità biologica anche per le sue dinamiche


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multiattoriali (De Marchi, 2002). La biodiversità infatti, oltre che ad inquadrarsi in
una dimensione multiscalare, è da collocarsi all’interno delle dinamiche multiattoriali,
dove soggetti portatori di interessi, con differenti logiche d’agire utilizzano strategie
diverse per effettuare un controllo, simbolico o materiale, sulla diversità biologica.
(Bertoncin 2004, De Marchi, 2002).




1.5 Territorio, conflitti ambientali ed aree protette
Come già è stato accennato nel precedente paragrafo, all’interno del processo aperto a
Rio de Janeiro della CBD (1992) la visione meccanicistica della natura viene
superata: da semplice ambiente esterno, distaccato, giunge ad essere considerata un
sistema complesso che “comprende i processi essenziali, le funzioni e le interazioni
tra organismi e il loro ambiente e tra ecosistemi, includendo le società umane come
componente integrante degli ecosistemi” (SBSTTA, 2000). All’interno di questo
sistema complesso bimodulare è possibile riconoscere un modulo fisico, formato
dalle componenti biotiche ed abiotiche, ed un modulo umano, costituito dai sistemi
sociali e dalla loro organizzazione, che si interfacciano e si influenzano
reciprocamente, creando un sistema bimodulare società-natura (Vallega 1990; 1995).
Tale interfaccia società-ambiente configura le interazioni e le diverse forme di utilizzo
delle risorse, ben rappresentate degli ecosystem services, servizi indispensabili per la
riproduzione della vita delle comunità umane. Questo “punto di cerniera” tra modulo
fisico e modulo umano diventa lo spazio nel quale si strutturano i sistemi territoriali che,
dotati di propria auto-organizzazione ed autonomia, costituiscono un sistema interagente
(De Marchi, 2002). Il territorio quindi è considerato come sistema complesso che
interfaccia società e natura mantenendo le caratteristiche proprie di sistema: multi
stabilità, resilienza, emergenza, auto-organizzazione ed omeostasi (Turco, 1988; Faggi,
1991).
E’ nel quadro della geografia umana, spazio di saldatura tra le discipline delle scienze
naturali e delle scienze sociali, e nell’approccio ecosistemico che si trovano gli strumenti




36
analitici utili ad affrontare, nella complessità, la diversità biologica, la sua conservazione
e la sua gestione.
Conservazione e gestione della biodiversità determinano l’inserimento di
quest’ultima in dinamiche di carattere territoriale facendola diventare “posta in
gioco” per soggetti che hanno interessi e valori diversi e che attuano strategie
differenti nel rapportarsi alle risorse naturali.
Le strategie adottate nel binomio conservazione-gestione della biodiversità, per le
differenti razionalità sociali connesse, possono comportare dinamiche conflittuali o
cooperative tra i vari soggetti chiamati in causa. La biodiversità, per il suo valore
multiscalare, da semplice bene naturalistico da tutelare e proteggere si può evolvere
in “posta in gioco” contesa tra diversi soggetti. Questo è reso evidente, ad esempio,
quando la si è paragonata a “semilavorato” per l’industria agro-alimentare e
biotecnologica, diventando materia vivente oggetto di controversie, da collocarsi più
in un’arena di contesa ambientale che in un ambito circoscritto alla conservazione. E’
in questo modo che le comunità e le società rurali indiane, per tutelare i propri diritti
sulla biodiversità, organizzando le proprie banche del germoplasma (Nadvanja,
Shiva, 2001) tramite processi partecipativi e comunitari, producono una progettualità
alternativa a quella di altri soggetti (le industrie farmaceutiche, agroalimentari e
biotecnologiche), che si rende visibile attraverso la conflittualità ambientale. In
questo caso la posta in gioco non è solamente la biodiversità a livello di specie o di
geni, ma la sua associazione alle conoscenze locali che derivano da un altro modo di
percepire e usare la diversità biologica. Senza infatti i saperi sviluppati dalle
popolazioni indigene nel loro modo di percepire e rappresentare la biodiversità e
costruire il territorio, le risorse genetiche sarebbero un insieme di codici e proteine
sintetizzate non facilmente utilizzabili dall’industria farmaceutica, biotecnologica ed
agroalimentare (De Marchi, 2002).
In entrambe le rappresentazioni la biodiversità diventa risorsa da sfruttare solo
quando alla materia vivente viene attribuito un significato e le vengono associate
proprietà e caratteristiche: se accanto ad una attribuzione di significato conoscitivo si
associa una progettualità si rende palese lo “scontro” tra due logiche differenti, ossia
il sapere tradizionale ed il sapere scientifico. Turco (1988) usa una chiave di lettura


                                                                                           37
interessante e esemplificativa definendo “competenze” quelle del sistema tradizionale
e “conoscenze” quelle del sistema codificato dalla modernità . Le prime si originano
nella pratica, attraverso sperimentazioni, riscontri ed errori, le seconde attraverso
processi verificati tramite il metodo scientifico, che spesso si basano sull’acquisizione
delle competenze delle società rurali e dei saperi locali.
Le comunità indigene e le società rurali infatti mostrano quanto mai come esistano
percezioni diverse della natura e diversi modi di conoscerla e rappresentarla; se per
un verso la si può considerare come una sommatoria di componenti biotiche,
abiotiche e relazioni in uno spazio fisico dall’altro diventa una costruzione sociale
che l’uomo costruisce edifica in un processo di esplorazione e conoscenza; “l’uomo
non è spettatore, ma un attore, non sta fuori dal mondo, ma dentro. […] La natura
resta alla base di tutte le sue realizzazioni successive: è questo mondo
straordinariamente complesso che egli scruta e che plasma, per farne alfine il luogo
del suo abitare, una geografia, la sua dimora” (Faggi, Turco, 2001).
E’ quindi dallo status più o meno consapevole di uomo-abitante che l’attore sociale
diventa il fondamento di ogni processo di costruzione del territorio (Bertoncin, 2004)
e che, attraverso un valore che Hewitt chiama people’s geography si determinano i
possibili scenari di conflitto ambientale. Infatti, attraverso tendenze innate di
affettività dell’uomo verso il topos e il bios (alcuni autori la chiamano topofilia e
biofilia), la dimensione ambientale va oltre lo spazio geografico fisico-biologico,
portando all’espressione di una posizione di rifiuto delle trasformazioni delle qualità
naturali di un luogo, causate da un cambio d’uso delle risorse, dall’alterazione del
paesaggio o dall’occupazione di uno spazio (Faggi, Turco, 2001 pp. 12-18; Primack
2004, p.16).
Tale rifiuto, concretamente, si può manifestare contro la costruzione di
un’infrastruttura di trasporto, di un oleodotto, di un inceneritore o, paradossalmente,
nella realizzazione o gestione di un’area naturale protetta. In entrambi i casi vengono
sollevati i problemi di chi paga i costi e chi ne trae i benefici contrapponendo due o
più attori: un attore che trae i benefici della localizzazione, un altro che paga i costi
ambientali. In alcuni casi la dimensione può contrapporre una collettività più ampia,



38
come uno stato, ad una più circoscritta, come una comunità locale. La localizzazione
porta benefici alla prima mentre fa pagare i costi ambientali alla seconda.
Il conflitto ambientale, genericamente, ha come posta in gioco la natura, sensu lato, e
vede in competizione soggetti (gruppi, stati, imprese, comitati) che con strategie ed
interessi diversi, devono soddisfare le proprie esigenze e necessità accedendo alle
risorse naturali (Faggi, Turco, 2001 p. 11-75).
Persino le strategie impiegate nella conservazione della natura attraverso l’istituzione
di parchi ed aree protette possono portare a dimensioni di conflittualità ambientale. Il
rifiuto si esplica non tanto per l’avversità ai programmi di conservazione, quanto per
l’esclusione delle comunità locali dai processi decisionali, di pianificazione e gestione
dell’area protetta. L’istituzione e la realizzazione di un’area protetta, solitamente,
passa attraverso l’individuazione del valore ambientale da proteggere (specie, habitat
o ecosistema), sua perimetrazione fisica, e l’attuazione attraverso i processi giuridico-
istituzionali del caso.
La problematicità spesso consiste nella mancanza di processi preliminari, ma
fondamentali, di partecipazione e condivisione, che permettano alle richieste tecnico-
scientifiche, giuridiche, politiche ed economiche di intrecciarsi con il consenso e
l’appoggio delle comunità locali (Faggi, Turco, pp. 13-14).
E’ utile ricordare come anche sulla base dei concetti di pristine nature o wilderness
area, dominanti del pensiero conservazionista del secolo scorso, sia stato adottato il
Yellostone National Park come modello di parco nazionale da esportare, con l’unico
obiettivo della conservazione e valorizzazione della “natura selvaggia” da preservare
ed escludendo di fatto le società rurali dalle modalità di gestione dell’area protetta se
non persino dallo stesso spazio fisico nel quale vivevano (Holmes, 2007).
Le società rurali, che spesso conoscono e vivono il loro status di uomo abitante
affermando i valori della people’s geography, vengono quindi escluse dalla gestione
ambientale dell’area protetta (talvolta anche manu militari o con dislocamenti forzati
dalle aree protette), vedendosi negato l’accesso alle indispensabili risorse naturali.
Questo processo di netta demarcazione e separazione degli spazi per la conservazione
delle wilderness areas e per le attività umane, conduce inevitabilmente al fatto che le
comunità non riescono ad accedere a quegli ecosystem services che per molto tempo


                                                                                      39
hanno permesso loro di produrre e riprodurre loro stesse e il territorio con cui
interagivano. Le popolazioni indigene, in molti casi dei PVS, venivano attaccate
militarmente o giuridicamente per essere espulse dall’area come viene riportato nei
casi di studio di questo tipo in Africa: il Nechesar National Park e l’Omo National
Park (Etiopia, 2004) la cui realizzazione ha comportato l’allontanamento fisico di
500 persone e le ha costrette a re-insediarsi al di fuori di esso(Adams, Hutton, 2007).
Nello studio di caso preso in esame in questa tesi, l’istituzione nel 1979 del Parco
Naturale Yasuní (IUCN, 1982) e il successivo innalzamento a livello di Riserva della
Biosfera (1989) nella pianificazione e gestione dei programmi MAB (UNESCO,
MAB, 2004), hanno comportato la ridefinizione dei territori indigeni Wuaorani e
Quichua e la loro riubicazione delle comunità attraverso l’uso di elicotteri e
dislocamenti forzati. Tali dinamiche per la realizzazione della Riserva della Biosfera
Yasuní hanno innescato i primi segnali di rifiuto da parte degli attori locali indigeni
verso la perimetrazione dell’area protetta (Vallejo, 2003 p. 40).
In questi casi le aree naturali protette pongono importanti questioni da affrontare con
un approccio sistemico: quali siano le comunità da escludere, tramite quale autorità,
quali siano i benefici e verso chi siano indirizzati, e soprattutto a quali costi (Faggi,
Turco, 2001).
Le modalità di realizzazione delle aree protette, con le loro logiche territoriali e
multiattoriali, diventano percorsi che portano a possibili scenari di conflitto
ambientale. Tali conflitti, oltre a coinvolgere due o più attori territoriali ed avere una
o più “poste in gioco” legate alla natura, possono esprimersi in quelle che sono
chiamate arene di contesa ambientale.
Le arene di contesa sono degli spazi concettuali dove gli attori si esprimono e
difendono i propri interessi, determinando le occasioni del conflitto e le modalità
principali attraverso cui questo si sviluppa (Faggi, Turco, 2001).
La genesi dei conflitti ambientali passa spesso attraverso le arene di contesa
ambientale che sono in rapporto alle controversie ideologiche, scientifiche,
giuridiche, economiche, politiche.
Il conflitto ambientale sottende quindi un problema legato alla locazione fisica che
traduce una dinamica sociale generata da una geografia, ossia da una modalità di


40
agire territoriale “che proietta sulla collettività, locale o più ampia, effetti più o meno
profondi o duraturi.” (Faggi, Turco, 2001).
A volte queste due tipologie di rifiuto alle trasformazioni territoriali, siano esse per la
costruzione di infrastrutture o per la realizzazione di aree protette, si combinano
dando luogo ad una vasta gamma di percorsi possibili e scenari di conflitto
ambientale.
I conflitti ambientali presi in esame si contestualizzano nella Regione Amazzonica
Ecuadoriana (RAE) e gravitano dentro ed intorno la Riserva della Biosfera Yasuní
istituita nel 1989 (UNESCO, MAB, 2004). L'Ecuador, dichiarato Paese Megadiverso
(WCMC, UNEP, 2004) e incluso nell’area definita biodiversity hotspot nelle Ande
tropicali (Primack, 2004), ha attualmente in corso ventidue conflitti ambientali
documentati (Centro di Documentazione dei Conflitti Ambientali, CDCA, 2009)
rivelandosi, per le poste messe in gioco, per gli attori e per il ruolo che ricopre a
livello internazionale nella conservazione della biodiversità, un paese ad alta criticità
ambientale e sociale (Fontaine, 2003). Le poste in gioco all’interno della RAE
possono essere per semplicità differenziate ma esse si intrecciano e si sovrappongono
nella complessità delle dinamiche territoriali, determinando una genesi del conflitto
ambientale articolata e complessa, con percorsi plurali e di diplomazia multipla (De
Marchi, p.108). Le poste in gioco dei conflitti ambientali sviluppati all’interno della
RAE sono messe in relazione alle seguenti risorse naturali: le risorse forestali, le
risorse genetiche, le risorse idriche, le risorse minerarie, e le risorse idrocarburiche
(Fontaine, 2004).
Lo sviluppo delle attività petrolifere cominciato agli inizi del 1960 (Varea et al.,
1997) con la costruzione della prima via di comunicazione terrestre (la Shell road,
1962) che collegava la RAE alle Ande e il contemporaneo sviluppo della
colonizzazione agricola della RAE (legge di Riforma Agraria e Colonizzazione,
1967) promosso dallo stato ecuadoriano, hanno dato inizio a processi di
territorializzazione per sostituzione, basati principalmente su attività industriali
estrattive quali il legname ed il petrolio (Vallejo, 2003). L’espansione della frontiera
petrolifera nell’Amazzonia ecuadoriana ed il degrado ambientale da essa provocato,
documentato in numerosi studi nei PVS (Turco, 1997; OTCA, 2004; Narvaez 1996;


                                                                                        41
De Marchi 2004), costituisce, con l’avanzamento delle grandi infrastrutture di
comunicazione, uno dei direct drivers nei processi di degradazione degli ecosistemi
forestali tropicali e nelle dinamiche di cambiamento in rapporto alle modalità land
use/land cover (Forest and Woodlands System, M.A. 2005, p. 607), alimentando
l’ampliamento e l’intensificazione delle attività agricole e dell’estrazione di legname
ad uso commerciale su piccola e grande scala (Narvaez, 2000). Gli indirect drivers
(Forest and Woodlands Systems, M.A. 2005, p. 609) nei processi di degradazione e
conversione delle formazioni forestali sono da riferirsi alle dinamiche dei sistemi
sociali e alle politiche agricole ed economiche che esercitano un elevato grado di
influenza sui direct drivers (si veda la tab. 1.0 pag. 9).
All’interno dello spazio amazzonico ecuadoriano concorrono quindi, in maniera
sinergica, diversi processi di territorializzazione condotti dai diversi attori
sintagmatici (Faggi, Turco, 2001), legati all’istituzione ed alla gestione della Riserva
della Biosfera Yasuní, all’espansione della frontiera agricola ed all’insieme delle
attività industriali per la produzione petrolifera (Narvaez, 1998).
La conflittualità ambientale messa in relazione all’area protetta risale all’ istituzione
del Parco Yasuní nel 1979 (IUCN, 1982) la cui delimitazione si è sostanzialmente
basata sull’individuazione di ampie wilderness areas (con copertura vegetale
“intoccata”) tramite voli aerei e fotointerpretazione, utilizzando un approccio al
territorio letteralmente desde arriba.(dall’alto) (Moran, 2005).
In realtà tali ampie wilderness areas di “foresta vergine” erano utilizzate ed
attivamente modificate da diverse comunità umane che abitano la pianura
amazzonica, in particolare gli indigeni Wuaorani, Quechua, Shuar, Cofan e contadini
provenienti da altre aree (i colonos) (Vallejo, 2003).
Le pratiche di territorializzazione sviluppate dalle comunità locali amazzoniche sono
però morbide e prevalentemente simboliche, mediate dal corpus di conoscenze e
competenze sviluppate nel rapporto con l’ambiente naturale (De Marchi, 2004, p.
140). Le attività delle comunità indigene amazzoniche, consistendo in agricoltura
itinerante, caccia, pesca e raccolta, risultavano di poca incidenza sulle dinamiche land
use/ land cover (Brownrigg, 1997), pertanto non facilmente visibili o individuabili
tramite immagini satellitari e fotografie aeree (Vallejo, 2003). La perimetrazione del


42
Parco Nazionale Yasuní (1979) e la successiva Riserva della Biosfera, processo
contemporaneo all’occupazione dello spazio amazzonico per lo sviluppo delle attività
agricole e petrolifere della RAE (Narvaez, 1996), ha contribuito alla rottura
dell’assetto territoriale e dell’integrità culturale delle popolazioni indigene portando,
nel 1989, alle prime condizioni conflittuali tra gli attori coinvolti nell’area: comunità
indigene, militari, compagnie petrolifere, missionari (Vallejo, 2003).
A seguito del boom delle attività petrolifere innescatosi con la scoperta di grandi
giacimenti a partire dal 1970 (Fontaine, 2006) e della crisi del modello agro-
esportatore ecuadoriano (Vallejo, 2003) si sviluppano sempre più le infrastrutture di
comunicazione terrestri e comincia a configurarsi il nuovo territorio amazzonico,
tramite processi di “modernizzazione” di quell’area geografica costituita al 96% da
foresta umida tropicale (Narvaez, 1996): installazioni ed industrie petrolifere,
oleodotti e polidotti, centri per il processamento del greggio (vedi fig. 4.12) ed attività
agricole commerciali e permanenti sviluppate su piccola e grande scala (Narvaez,
2000).
Il processo costruttivo di tale configurazione territoriale e l’occupazione dello spazio
geografico amazzonico, tramite l’assegnazione delle licenze d’uso del suolo per la
produzione petrolifera e la realizzazione del complesso infrastrutturale per
l’estrazione, trasporto e smaltimento del petrolio, ha avuto notevoli implicazioni sotto
il profilo ecologico e sociale che hanno fortemente contribuito allo sviluppo del
conflitto che, con periodi di latenza e di visibilità, è al giorno d’oggi ancora in
evoluzione (Narvaez 2000; Vallejo, 2003; Fontaine, 2004).
Gli impatti ambientali della produzione petrolifera nell’Amazzonia ecuadoriana sono
principalmente legati alle deforestazione di circa il 30% delle formazioni forestali
tropicali ed alla loro frammentazione (Gomez, 1991), all’inquinamento della rete
idrografica e delle falde acquifere (Narvaez, 1996, p. 12; International Water
Tribunal, 1994, in De Marchi, 2004), all’erosione del suolo ed alla perdita di
biodiversità (Haller et al., 2007; Narvaez 2000).
Inoltre la colonizzazione della regione amazzonica, ed il suo processo unilaterale di
integrazione fisica e territoriale alla modernità ecuadoriana ha comportato anche
impatti a livello sociale (Santos 1991, in Narvaez, 1996). L’espansione delle attività


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produttive agricole e petrolifere e la costruzione di grandi infrastrutture di
comunicazione hanno dato impulso alla canalizzazione dei flussi migratori all’interno
della RAE ed alle conseguenti nuove pratiche di territorializzazione nello spazio
amazzonico (Narvaez, 1996).
Se da un lato gli stessi impatti ambientali, soprattutto gli effetti sulle risorse idriche e
biologiche, hanno influenzato qualitativamente e quantitativamente gli ecosystem
services disponibili alle comunità locali, dall’altro il processo di territorializzazione
attraverso la rete viaria utilizzata per le attività produttive ha comportato una
sovrapposizione tra le logiche d’agire differenti: quella delle popolazioni indigene
influenzata dalle logiche d’acqua e adattata al denso reticolo idrografico dei bacini
fluviali amazzonici, l’altra dei nuovi attori che costruiscono il territorio lungo le
infrastrutture di comunicazione terrestri. (Bertocin, 2004). Quest’ultimo agire
territoriale determina lo sviluppo di processi di territorializzazione per sostituzione,
nei quali le formazioni forestali originarie vengono sostituite attraverso la
parcellizzazione per l'agricoltura estensiva (prevalentemente monocolture di palma
africana), nuove forme di agricoltura stabile e l’occupazione dello spazio fisico
impiegato per le installazioni dell’industria petrolifera (De Marchi, 2004).
Per la sua sovrapposizione geografica e territoriale ai processi appena descritti la
Riserva della Biosfera Yasuní è, sia direttamente che indirettamente, coinvolta nelle
dinamiche del conflitto ambientale, trasformandola da area protetta a livello
internazionale in una delle poste in gioco nella complessità del conflitto.




44
Fig. 1.9 Dayuma, buffer zone della Riserva della Biosfera Yasuní. Importante fuoriuscita di
petrolio causata dalla rottura di un oleodotto situato in prossimità del corpo d’acqua. (attività di
campo del 12/04/2006;-coordinate geografiche 0.646° Sud e 76.855° Ovest; sistema di riferimento
WGS84)




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2 Inquadramento geografico, ecosistemico e territoriale

2.1 Ecuador: geografia, biodiversità ed ecosistemi

L’Ecuador è un piccolo stato del Sudamerica che si affaccia sull’oceano pacifico e la
cui superficie giace esattamente nell’intersezione tra l’equatore e la catena montuosa
delle Ande. I limiti politico-amministrativi sono compresi tra le coordinate
geografiche 1°21’06’’ Nord e 5°0’56’’ Sud e tra le longitudini 75°11’49’’ e 81°0'40’’
Est. La superficie attuale è di 256.370 Km2 per la regione continentale e di 371 km2
per la regione insulare che comprende l’arcipelago delle isole Galápagos, situate
nell’oceano pacifico a 965 Km dalla costa ecuadoriana (FAO, 2000; Istituto
Geografico Militar de Ecuador, 2006). A causa delle storiche dispute territoriali con
il confinante stato peruviano (dal 1941 al 1998), per il controllo dell’area amazzonica
e dei giacimenti petroliferi situati nel sottosuolo della regione, i limiti di stato sul
versante orientale sono stati ridefiniti nel 1998 con la cessione di 14.000 Km2 di
foresta umida tropicale al Perù, portando l’Ecuador all’attuale estensione geografica.
(MAE, 2008; Galeano, 1997).
Nonostante la sua posizione geografica lo collochi all’interno della fascia equatoriale
il clima dell’Ecuador varia enormemente da una regione all’altra a causa della
presenza della Cordigliera delle Ande e dell’influenza delle correnti oceaniche fredde
di Humboldt in estate e di quelle calde del Niño in inverno (McCoy, 2003, FAO,
2000).
I rilievi topografici dominanti sono costituiti dalla doppia catena montuosa delle
Ande, la Cordigliera Occidentale e la Cordigliera Orientale, che dividono l’Ecuador
continentale in tre regioni biogeografiche distinte, caratterizzate da sistemi ecologici e
sociali differenti (MAE, 2008, FAO, 2000):
- la regione pacifica, comunemente denominata La Costa
- la regione interandina compresa tra la cordigliera occidentale e quella orientale,
chiamata Sierra
- la regione amazzonica che, estendendosi per tutta l’area ad est della Cordigliera
della Ande, viene chiamata el Oriente.


46
Fig. 2.1 Ecuador: Immagine satellitare. (Fonte: NASA, World Wind) e quadro d’insieme
(elaborazione G.I.S.)




Fig. 2.2 Ecuador, le tre regioni biogeografiche: la Costa, la Sierra, l'Amazzonia. (Fonte: MAE,
2008)



                                                                                            47
La Costa rappresenta la porzione compresa tra l’Oceano Pacifico e la Cordigliera
delle Ande occidentali fino a 1.300 metri s.l.m., con una superficie relativamente
pianeggiante, ad eccezione di piccole catene montuose regione presenta un clima
caldo umido con precipitazioni annuali che oscillano tra i 355 mm nella parte
meridionale a 6.000 mm nella parte settentrionale. La temperatura media varia tra i
23° ed i 25° Celsius (MAE, 2008, FAO, 2000).
La Sierra include le aree situate tra i 1300 metri s.l.m. e le cime, o il limite dei
ghiacciai (da 3000 ad oltre 4000 metri s.l.m.), sia della Cordigliera occidentale che di
quella orientale delle Ande che corrono tra loro parallele in direzione nord-sud. La
regione ricopre una superficie di 64.760 Km2 e la precipitazione annuale media è di
circa 1.500 mm con temperature medie che oscillano tra i 12° ed i 20° Celsius e
variano notevolmente in funzione del gradiente altitudinale (MAE, 2008, FAO,
2000).
La Regione Amazzonica Ecuadoriana (RAE), o semplicemente Oriente, corrisponde
a tutta l’area compresa tra i 1.300 metri s.l.m. della Cordigliera Orientale delle Ande
fino al limite di stato con il Perù, costituendo la parte occidentale del bacino del Rio
delle Amazzoni, di cui rappresenta il 2%. Con la sua estensione di 131.130 Km2
l’Oriente amazzonico rappresenta quasi il 50% dell’intera superficie nazionale ed è
costituito prevalentemente da un denso bosco umido tropicale. A sua volta all’interno
della RAE si possono distinguere due subregioni corrispondenti all’alto Oriente, tra i
1300 ed i 600 metri s.l.m., con temperature medie di 20°C e precipitazioni di circa
4500 mm/anno, ed il basso Oriente che, con temperature medie che superano i 24°C e
precipitazioni di circa 3200 mm/anno, si estende per tutta la pianura alluvionale. In
entrambe le subregioni il clima è considerato caldo umido tropicale (MAE, 2008;
FAO, 2000).
La Cordigliera andina presenta ventidue cime montuose con altitudini superiori ai
4.200 metri s.l.m., di cui molte sono costituite da vulcani attivi o dormienti. Nell’area
compresa tra la Cordigliera Occidentale e quella Centrale si trova la celebre “strada
dei vulcani”, chiamata in questo modo nel XIX secolo dal naturalista Alexander von
Humboldt, lungo la quale si individuano più di dieci edifici vulcanici, tra cui il



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Pappalardo Tesis Yasuni

  • 1.
  • 2. Indice Introduzione 3 1 Conservazione della natura, biodiversità, conflitti ambientali 5 1.1 La biodiversità tra impatti antropici e paradigmi scientifici 5 1.2 Modelli di conservazione della biodiversità: strategie, centri di biodiversità ed aree protette 15 1.3 Foreste umide tropicali 24 1.4 Biodiversità: un approccio ecosistemico 29 1.5 Territorio, conflitti ambientali ed aree protette 36 2 Inquadramento geografico, ecosistemico e territoriale 46 2.1 Ecuador: geografia, biodiversità ed ecosistemi 46 2.2 Ecuador: società, comunità indigene, territorio 53 2.2.1 Aree Protette e territori indigeni 59 2.3 Area di studio 60 2.3.1 Regione Amazzonica Ecuadoriana: ecosistemi 60 2.3.2 La Riserva della Biosfera Yasuní: biodiversità e gestione dell’area protetta 66 2.3.3 La produzione petrolifera: impatti socio-ambientali 72 2.3.5 Vie di comunicazione terrestri all’interno dell’area di studio 79 2.3.6 Uso del territorio 82 2.3.7 Attori e poste in gioco 85 2.3.8 Definizione area di studio tramite analisi G.I.S. 93 3 Materiali e metodi 97 3.1 Indagine bibliografica e workshops sul campo 97 3.2 Attività di campo 98 3.2.1 Raccolta punti GPS 99 3.2.2 Interviste e raccolta dati da informatori privilegiati 100 3.2.3 Problematiche di lavoro 103 1
  • 3. 3.3 Sistemi Informativi Territoriali 105 3.3.1 Cartografia tematica 108 3.3.1 Immagini satellitari 111 4 Risultati 117 4.1 Introduzione 117 4.2 Area di studio 118 4.3 Input cartografici 121 4.4 Carta tematica degli ecosistemi della RAE: input cartografico 121 4.5 Sistemi idrografici della regione amazzonica ecuadoriana 124 4.6 Comunità indigene, colonos e centri urbani: input cartografico 128 4.7 Studio dei sistemi forestali amazzonici ed impatto antropico 131 4.8 Ground truth, punti GPS e grafo stradale 144 4.9 Via di comunicazione stradale Occidental Petroleum: analisi quantitativa 145 4.10 Via Auca e bacino idrografico Curaray: analisi quantitativa e pattern di territorializzazione 150 4.11 Riserva della Biosfera Yasuní (RBY) e produzione petrolifera: analisi geografica con approccio transcalare 160 4.12 Installazioni per l’estrazione petrolifera e Riserva della Biosfera Yasuní: carta di densità 165 4.13 Analisi comparativa ed overlay tra carta di densità delle installazioni petrolifere e Zona intervenida 168 4.14 Risultati delle interviste ad informatori privilegiati 171 5 Discussione e conclusioni 173 Bibliografia 184 Allegati 194 Ringraziamenti 198 2
  • 4. Sic alid ex alio numquam desistet oriri Vitaque mancipio nulli datur, omnibus usu. (Lucrezio, De rerum natura) Introduzione Il lavoro di questa tesi nasce dall’esigenza personale di affrontare il tema della conservazione della natura nella sua complessità cercando di superare le barriere che separano l’uomo dall’ambiente per entrare nel vivo del problema. La ricerca è stata condotta in una delle venticinque regioni definite da Myers (2000) “centri di biodiversità” situata nella parte occidentale della foresta tropicale amazzonica in un’area caratterizzata da un’elevata diversità biologica e dalla presenza di popolazioni indigene: La Riserva della Biosfera Yasuní. La scelta di tale area è legata sia alla volontà di consolidare le conoscenze naturalistiche in una delle regioni più biologicamente sensibili del pianeta, sia al desiderio di entrare in contatto con le comunità indigene che vi abitano per comprendere le problematiche che attraversano questa porzione di foresta amazzonica. L’area di studio, oltre ad essere stata istituita come Parco Nazionale IUCN (cat. II, IUCN, 1982), è inserita come area protetta all’interno dei programmi per la conservazione e lo sviluppo sostenibile dell’UNESCO (MAB, 1989, Man and Biosphere Program), costituendo per la comunità internazionale uno dei modelli piu’ avanzati di compatibilità tra la tutela della biodiversità ad ogni livello organizzativo e attività umane sostenibili. Tuttavia, negli ultimi decenni, all’interno dell’area si sono sviluppate attività antropiche a carattere industriale legate prevalentemente alla produzione petrolifera ed all’estrazione di legname per l’esportazione, influenzando sia i programmi nazionali ed internazionali per la conservazione della biodiversità, che le attività tradizionali e la vita stessa delle popolazioni indigene (Narvaez, 2004). Le attività per l’estrazione e la produzione petrolifera sono divise in aree lottizzate che si sovrappongono geograficamente alla Riserva della Biosfera ed ai territori indigeni, producendo impatti sugli ecosistemi e sulle comunità locali che si manifestano nel cosiddetto conflitto ambientale (De Marchi, 2004). Cercando di mantenere un approccio ecosistemico sono state sviluppate sia attività di campo che analisi quantitave di natura geografica, per approfondire le problematiche 3
  • 5. socio-ambientali e verificare la compatibilità tra gli attuali modelli di conservazione e le attività industriali presenti nell’area. Lo scopo della tesi è stato quello di quantificare i cambiamenti della foresta umida tropicale per ciascuna formazione vegetale sostituita da attività antropiche, approfondire le dinamiche di interazione uomo-ambiente nell’area di studio e verificare la sostenibilità socio-ambientale tra i modelli di gestione delle aree protette e la produzione petrolifera. Dopo aver sviluppato attività di campo volte ad acquisire dati geografici, rilievi GPS ed informazioni raccolte tramite interviste non strutturate, sono state condotte, tramite l’uso di sistemi G.I.S. (Geographical Information Systems), analisi quantitative e qualitative sulle relazioni spaziali tra le attività antropiche, gli ecosistemi, la Riserva della Biosfera Yasuní ed i territori indigeni. In particolare le analisi quantitative hanno preso in esame l’impatto antropico sulla copertura vegetale, lo stato di avanzamento delle vie di comunicazione terrestri all’interno della foresta primaria, la densità delle installazioni petrolifere ed i pattern territoriali sviluppati dalle attività produttive per l’estrazione petrolifera lungo un’asse stradale e dalle comunità indigene Wuaorani e Quichua nell’area di influenza della Riserva della Biosfera Yasuní. L’esperienza sul campo e le analisi quantitative prodotte hanno permesso di comprendere come i diversi modi di percepire la natura e di tradurla in risorse da sfruttare possano portare a dimensioni di conflittualità ambientale tra i diversi attori in gioco nel territorio. 4
  • 6. 1 Conservazione della natura, biodiversità, conflitti ambientali 1.1 La biodiversità tra impatti antropici e paradigmi scientifici Affrontare oggi il tema della conservazione della natura e delle sue risorse, nella sua complessità, si rivela quasi sempre impresa ardua e spinosa, soprattutto se le analisi vengono spinte in profondità e se si tratta l’argomento insieme alle molteplici implicazioni che esso comporta. Quando si parla di conservazione, specialmente nell’ambito delle scienze naturali, spesso ci si riferisce all’idea ampia di preservare la natura, nel senso di recuperare specie botaniche o zoologiche dai processi di estinzione, oppure di proteggere un’area d’interesse naturalistico per riportarla al suo stato originario. Ciò che principalmente preoccupa gli addetti ai lavori della conservazione sono la frammentazione degli habitat ed il cosiddetto effetto margine che, per le conseguenti minacce per le specie ed le biocenosi, sono fenomeni sempre più studiati e rappresentati dai modelli della biogeografia delle isole e vengono ricondotti, direttamente o indirettamente, ad interventi antropici in termini di riduzione areale (Primack, 2004, pp. 132-139). L’aumento dei tassi di riduzione della biodiversità e la degradazione degli habitat sono indiscutibilmente riconosciuti come problemi attuali, legati prevalentemente alle attività antropiche su scala locale e globale. Sovente però il dibattito interno alle scienze naturali si torce intorno alla cosiddetta conservazione in situ o ex situ, affrontando le problematiche all’interno del paradigma meramente conservazionista legato alla perdita di una specie o alla perdita di un habitat. Anche se sono passati oramai trent’anni dall’uscita del celebre libro di Myers (1979) dove l’immagine dell’arca che affonda poneva per la prima volta al centro del dibattito i numeri e le stime dei tassi d’estinzione, a volte sembra che l’approccio alla questione ambientale in termini di riduzione di biodiversità debba essere confinato ai soli specialisti del settore, preoccupati della potenziale estinzione di una specie per la perdita dell’oggetto di ricerca o del valore naturalistico della stessa. Qui si annida inoltre il problema sulle strategie della conservazione naturalistica intorno alla salvaguardia 5
  • 7. delle specie; deve essa attuarsi in situ o ex situ? Nonostante l’importanza che rivestono i musei e gli orti botanici, specialmente in termini di didattica e di ricerca specifica ex situ, le scienze naturali, da qualche decennio a questa parte, si sono trovate un po’ in difficoltà rispetto alla conservazione della natura in termini organici e complessivi. Questo accade non solo per la galoppante importanza e “quotazione” che l’approccio genetico-biochimico della biologia molecolare sta avendo all’interno delle scienze naturali, ma anche perché quest’ultima, da un po’ di tempo a questa parte, è passata nello spettroscopio della “Scienza Contemporanea”, frantumandosi in molte discipline specifiche, relative alla natura sensu lato, “molecolarizzandosi” e privandosi di una visione olistica che forse oggi dovrebbe avere la conservazione della natura all’interno della cosiddetta questione ambientale (Cini, 1994). Anche dalle lontane Galapagos, studiando i meccanismi di speciazione dei celebri fringuelli che hanno aperto la strada alla teoria di Darwin, Peter Grant, biologo evoluzionista, si pone il quesito: “What does it mean to be naturalist at the end of the XX Century?” (Cosa significa essere naturalista alla fine del XX secolo?) (1999). Forse lo stesso Grant, citando Gentry (1989, p. 127), si accorge, dalla prospettiva della biologia evoluzionistica, che “lo straordinario tasso di speciazione delle piante nel bosco umido tropicale del’Ecuador, è accompagnato da un altrettanto straordinario ed elevato tasso di estinzione di locali endemismi dovuto alla deforestazione. Non è solo l’eredità biologica dell’umanità che si impoverisce, ma anche la nostra stessa eredità intellettuale che viene erosa quando questi unici e attivi laboratori di speciazione scompaiono dalla faccia della terra. Inoltre quelli di noi che sono interessati ai processi evolutivi hanno un incentivo aggiunto per preservare il nostro pianeta dalla distruzione delle restanti foreste tropicali. Abbiamo bisogno delle foreste tropicali se vogliamo veramente capire i processi di speciazione ed evoluzione che hanno fatto incrementare la diversità della vita sulla terra.” (Grant, 1999). In questo caso, sicuramente sentita nel profondo da parte di chi studia i processi evolutivi e la biologia delle popolazioni, la perdita di biodiversità rappresenta un serio problema da affrontare e da far emergere dalla specificità delle discipline scientifiche delle scienze naturali. A volte però la generica perdita di diversità biologica legata all’impatto delle attività antropiche sull’ambiente si infrange su due immagini 6
  • 8. speculari ma asimmetriche: strumento per coloro che riconoscono il suo valore in termini economici da un lato o giocattolo nel modo urbano e occidentale di guardare alla complessità dei viventi dall’altro (De Marchi, 2002). Talora sono gli stessi naturalisti e scienziati che proiettano sulla diversità biologica, in maniera inconsapevolmente semplicistica e semplificata, questa seconda immagine. Quest’ultimo approccio alla biodiversità ed alla sua degradazione può in qualche modo ricollegarsi al paradigma che ha condizionato la scienza moderna, di derivazione galileiana-newtoniana, che applica largamente il metodo riduzionistico, isolando i singoli fenomeni ed interpretandoli come catene lineari causa-effetto (Pignatti, Trezza, 2000 pp. 20-31). Si tratta dello stesso paradigma scientifico che ha mantenuto separato l’uomo dall’ambiente e che ha considerato quest’ultimo come un contenitore da cui è comodo sottrarre “risorse” e in cui scaricare rifiuti. Un paradigma (o approccio) sistemico considera invece l’ambiente come un ecosistema: un sistema auto-organizzante che accumula ordine sotto forma di materia organica (bio-massa) e di specie viventi (biodiversità) (Pignatti, Trezza, 2000). E’ infatti nella tipologia di relazioni che intercorrono tra comunità umane ed ecosistemi che si traducono nelle varie forme d’uso delle risorse naturali che vanno ricercati e riscoperti gli approcci per sviluppare modalità di conservazione della natura organiche e complessive. Le relazioni tra comunità umane ed ecosistemi, che insieme costituiscono un sistema bimodulare, sono di tipo verticale e senza dubbio danno luogo a compromissioni di natura ambientale e diventano morfogenesi delle reti trofiche (Vallega, 1995, pp. 71-77). La biodiversità è invece da considerarsi quindi come diversità multiscalare dell’organizzazione biologica (geni, popolazioni, specie ed ecosistemi) e può essere considerata ad ogni scala geografica (locale, regionale e globale) e la sua conservazione dovrebbe avere un approccio ecosistemico che si orienti all’interno di questa concezione. E’ dalla Convenzione sulla biodiversità di Rio de Janeiro all’interno dell’Earth Summit (1992), che si delineano misure a carattere internazionale per la protezione della diversità biologica ad ogni livello ed il suo uso sostenibile. E’ ormai acquisito che le attività antropiche stanno fondamentalmente, e spesso in modo irreversibile, 7
  • 9. mutando la diversità della vita sul pianeta, e la maggior parte di questi cambiamenti si traduce in perdita di biodiversità (M.A., 2005), che da allora diventa sempre più res publica, anche se con differenti interpretazioni ed approcci spesso discordanti. Semplicemente usando una chiave di lettura ecologica si ritiene che qualsiasi intervento umano su un elemento del sistema vivente ai diversi livelli di organizzazione, data la struttura interattiva di questo, è destinato ad influenzare gli elementi connessi dello stesso sistema, in modo tanto più incisivo quanto più forte è l’intervento e quanto più numerose e strette sono le connessioni al livello di organizzazione gerarchica pertinente e, eventualmente con altri, con esso collegati (Buiatti, 2000). Rifacendosi ai lavori commissionati dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ad oltre 1300 scienziati per lo stato globale degli ecosistemi, (Global Ecosystem Assessments, 2005), è comunque utile rilevare, solamente in riferimento alla perdita di biodiversità in termini di estinzioni biologiche, che i dati e le proiezioni future non sono tra i più rassicuranti. Tra il 10% ed il 50% dei taxa studiati (mammiferi, uccelli, anfibi, conifere e cicadi) sono attualmente sotto minaccia di estinzione, basandosi sui criteria dell’International Union for Conservation of Nature (IUCN, 2001, in M.A., 2005). 8
  • 10. Fig. 1.1 Tassi di estinzione delle specie in tre intervalli temporali: passato lontano (documentazione fossile), passato recente (estinzioni registrate), futuro (basato su piu’ modelli). Fonte: Millennium Ecosystem Assessment, 2005 Premesso che la biodiversità ad ogni livello segue su scala planetaria un gradiente latitudinale aumentando verso le fasce tropicali (Primack, 2004, pp. 38-40) e che di conseguenza gli “ambienti” più ricchi si ritrovano nelle foreste pluviali, (WCMC, 1992) il cui bioma rappresenta più della metà delle specie esistenti al mondo con il solo il 7% della superficie terrestre (Whitemore, 1990) costituendo la più grande riserva della storia evolutiva del pianeta (M.A., p. 87), urge sottolineare come attraverso lo studio di un ampio range di gruppi tassonomici la grandezza di popolazione e la diversità biologica sono in declino (M.A., 2005). Anche i centri di endemismo sono concentrati ai tropici; centri di endemismo relativi ai taxa di uccelli, mammiferi ed anfibi tendono qui a sovrapporsi (IUCN 2004, Red list od threatened Species. A Global Species Assments. IUCN, Gland, Switzerland). 9
  • 11. Anche in termini di produttività, la quantità netta di carbonio fissata dalle piante (KgC/m2) con la fotosintesi, principale fonte di energia della biosfera (M.A., Forest and Woodland Systems, 2005), e di biomassa le foreste tropicali esprimono elevati livelli comparati con le foreste di conifere in zone temperate e boreali. Fig. 1.2 Comparazione della diversità tra gli otto regni biogeografici: A) Ricchezza specifica; B) Endemismi (fonte: M.A., 2005) Mentre nel passato le forti spinte di cambiamento e di modulazione della diversità all’interno della biosfera sono state guidate da processi estrinseci alla vita stessa, come i cambiamenti climatici, i movimenti tettonici, ed eventi extraterrestri nel caso del Terziario, gli attuali trend di cambiamento sia sulla biodiversità che sui cicli biogeochimici ed idrologici naturali (Primack, 2004) risultano da processi intrinseci alla vita sulla Terra, e quasi esclusivamente legati alle attività antropiche: rapidi 10
  • 12. cambiamenti climatici, cambio d’uso dei suoli, sovrasfruttamento delle risorse, introduzione di specie alloctone invasive, agenti patogeni e inquinanti. Tali processi, che si legano tra loro in relazioni complesse e che spesso agiscono in maniera sinergica, sono considerati come fattori antropogenici che danno impulso e guidano i cambiamenti sopraccitati; tali processi sono conosciuti come anthropogenic direct drivers (M..A., 2005 cap. 4. Biodiversity, p. 96). Tra i più importanti impatti diretti e pervasivi sulla biodiversità ricordiamo: la distruzione degli habitat (M.A., cap. 4), il sovrasfruttamento delle risorse naturali, (M.A., 2005 cap. 4), l’introduzione di specie alloctone invasive (alien species) Primack, 2004), agenti patogeni (M.A., cap. 4 Biodiversity, 2005) ed inquinanti ed infine, ma non irrilevante, i cambiamenti climatici (M.A., cap. 9, 2005 ). L’evoluzione di nuove specie e l’estinzione di altre sono in sé un processo naturale. La diversità biologica, in termini di specie, che è attualmente presente rappresenta appena il 2% di quelle che sono vissute sulla terra (Primack, 2004). Attraverso i tempi biologici di evoluzione, il cui ordine di grandezza è di milioni di anni, c’è sempre stato un netto eccesso di speciazione nei confronti dell’estinzione che ha portato alla enorme diversità biologica sperimentata oggi sulla terra. Ciò che è importante rilevare è che i processi di cambiamento che determinano la degradazione/perdita di habitat, la riduzione della biodiversità ad ogni livello, ed i cambiamenti climatici, condizionati direttamente dai sopraccitati anthropogenic direct drivers, si svolgono su una scala temporale differente. E’ infatti all’interno della scala dei tempi storici, quella che racchiude l’evoluzione culturale, tecnologica e socio-economica dell’Homo sapiens, che i processi di trasformazione della biosfera, dell’idrosfera e della atmosfera (e inevitabilmente della geosfera) acquistano un ritmo ed una velocità assai rilevante; sono state le grandi innovazioni tecnologiche ed il loro uso dettato ed imposto dai sistemi politico- economici a diventare determinanti spartiacque all’interno della scala dei tempi storici (Rifkin, 2000). I tempi storici dell’uomo hanno attraversato le prime rivoluzioni tecnologiche del neolitico, in cui si sono sviluppate le prime attività agricole stazionarie, l’allevamento e l’accumulo di proprietà, fino alla grande rivoluzione tecnologica-produttiva della 11
  • 13. dell’era industriale. I ritmi dei tempi storici e dei tempi biologici sono stati trasposti su scale enormemente differenti: l’ordine di grandezza è di centinaia d’anni nel primo caso, di milioni o miliardi nel secondo. Con i modelli di sviluppo e di produzione dominanti e con l’attuale livello tecnologico impiegato, le capacità di modificare ecosistemi, paesaggi e cicli biogeochimici sono notevolmente aumentate in funzione del tempo e dello spazio. Il tempo sta quindi cambiando unità di misura nel rapporto uomo-natura. La scala sottesa ai tempi storici dell’uomo è di tipo logaritmico, aumenta in serie geometrica, con crescita esponenziale. La scala dell’evoluzione biologica invece è la misura dei processi evolutivi ed è dell’ordine di grandezza di milioni/miliardi di anni (Tiezzi, 2001). Quando si affrontano le problematiche relative alla biodiversità, oltre alla sua dimensione multiscalare, il valore ecologico puramente intrinseco si esprime anche attraverso la sua stessa storia, prodotto di una complessità ed un’evoluzione incredibili di tre miliardi e mezzo di sperimentazioni di forme di vita (Shiva, 2001). Per meglio comprendere però da un’altra prospettiva, non escludente ma includente, la questione della biodiversità è opportuno approcciarsi ad essa con gli strumenti analitici propri della geografia della complessità (Turco, 1988). Se da un lato anche il rapporto del Millenium Ecosystem Assessments ha preso in esame e sviluppato numerose analisi quantitative degli impatti antropici sulla biodiversità prevalentemente a livello di specie e/o habitat, l’insieme dei fattori che determinano l’andamento dei processi causali sui sistemi ambientali è di più difficile valutazione, specialmente se la scala è a livello di ecosistema o di meta-ecosistema. (De Marchi, 2000). Ecosistemi e società si evolvono nel tempo in relazioni reciproche che, interagendo portano alla costruzione dei sistemi complessi territoriali. L’interazione nel tempo e nello spazio tra società ed ambiente da luogo ad un sistema bi-modulare i cui sottosistemi sono caratterizzati da una propria auto-organizzazione ed autonomia pur mantenendo le capacità di interazione tra loro (Vallega, 1995). I sistemi territoriali sono quindi prodotti dalle interazioni continue e reciproche tra società umane ed ambiente e sono dipendenti da processi continui di produzione e distruzione di biodiversità ad ogni livello organizzativo. L’ecosistema originario deve 12
  • 14. ridurre i livelli di complessità naturale per poter consentire alla società di “erogare” servizi e beni utili (M.A, Ecosystem Services, 2005) in maniera costante e per poter riprodurre le azioni nel tempo. Tali operazioni si traducono in semplificazioni dell’ecosistema: modificazioni delle caratteristiche fisiche del paesaggio per consentire spostamenti, conversione in allevamenti o attività pastorizia, coltivazioni di solo alcune piante selezionate (monocolture), attività produttive, insediamenti (De Marchi, 2000). Queste attività sono sempre state sviluppate nel corso della storia dell’uomo, ma con modulazioni notevoli in intensità ed estensione, specialmente a partire dal secolo scorso. E’ proprio all’interno di questi interventi antropici che vanno cercati i meccanismi ed i processi delle interfacce società-natura, che influiscono sulla biodiversità e che direttamente o indirettamente costituiscono impatti sui sistemi ambientali. I processi che esercitano in qualche modo influenza sulla biodiversità possono essere individuati in meccanismi diretti ed indiretti che, per la loro genericità e standardizzazione possono essere utilizzati in diversi contesti territoriali. (De Marchi, 2000). Sono state individuate sei famiglie di meccanismi diretti che agiscono sulla biodiversità e sei famiglie di meccanismi indiretti; Meccanismi diretti Meccanismi indiretti Organizzazione sociale Sfruttamento delle popolazioni naturali Crescita della popolazione Cambiamenti dell’agricoltura, della Modelli di consumo selvicoltura, della pesca Commercio globale Introduzione di organismi e patologie alloctone Sistemi economici e politiche incapaci di valutare il reale valore Inquinamento del suolo, dell’acqua dell’ambiente e delle risorse naturali e dell’atmosfera Modelli iniqui di proprietà e gestione dei flussi di benefici provenienti Cambiamenti climatici globali dall’uso e dalla conservazione delle risorse naturali Tab. 1.1 De Marchi (2000) 13
  • 15. Come si evidenzia dalla tabella i meccanismi indiretti descrivono le attività socio- economiche, frutto delle strategie utilizzate dalle società nel relazionarsi con l’ambiente; i meccanismi indiretti agiscono sui meccanismi indiretti. E’ implicito che i meccanismi utilizzati sono stati generalizzati e che le dinamiche uomo-ambiente dipendono dal tipo di relazione tra società ed ambiente. Anche se molto spesso viene enfatizzata la crescita demografica come problema principale nei processi di perdita di biodiversità, è opportuno evidenziare che nell’insieme delle cause i meccanismi legati al mercato globale, ai sistemi economici, all’organizzazione sociale, alla ineguale distribuzione dei benefici delle risorse, ai modelli di consumo, sono fortemente responsabili nel determinare l’intensità e l’estensione dei processi che influiscono sulla perdita di biodiversità (De Marchi, 2000). I meccanismi indiretti sono strettamente collegati con le dinamiche di cambio della copertura ed uso del suolo (land cover/ land use). Questi due dinamiche appartengo a due modi distinti di percepire e descrivere le dinamiche di cambiamento della morfologia del suolo: land cover è spesso usato per lo stato fisico del suolo, spesso in termini di copertura vegetale o in analisi geomorfologiche (solitamente impiegata nell’ambito delle scienze naturali); land use invece rappresenta l’uso del suolo anche in termini qualitativi (impiegata in geografia, antropologia, pianificazione territoriale, economia). L’intreccio analitico dei due approcci, contemporaneamente consente una rappresentazione più completa delle dinamiche che interfacciano sistema sociale/sistema ambientale (De Marchi, 2000). Quando si affrontano le problematiche relative alla biodiversità quindi è utile effettuare le analisi all’interno di un modello concettuale ecosistemico che collega il livelli della diversità dei viventi, le funzioni degli ecosistemi e le dinamiche land use/land cover (De Marchi, 2000). 14
  • 16. 1.2 Modelli di conservazione della biodiversità: strategie, centri di biodiversità ed aree protette. La biologia della conservazione ha mantenuto per molto tempo un approccio di tipo classico per salvaguardare la biodiversità, soprattutto a livello di specie e di popolazione, esprimendo una prospettiva romantica e forse un po’ naive nel preservare il maggior numero di specie nella maggior area possibile. Tale pensiero però poco si concilia con l’uso delle risorse naturali, le popolazioni locali e con i sistemi economici e produttivi odierni locali e globali. A causa di tali evidenze gli stessi biologi della popolazione hanno convalidato il concetto di Shaffer (1981) di minima popolazione vitale (MPV) definito come la “la più piccola popolazione isolata avente il 99% di probabilità di persistere per 1000 anni nonostante gli effetti prevedibili di eventi demografici, ambientali e genetici casuali e le catastrofi naturali”. Dopo aver definito il MPV, all’interno del quale vengono condotte stime quantitative sul numero di specie indispensabile per non evolvere in processi di estinzione (dimensione della popolazione, tipo di habitat, cambiamenti ambientali), è stata introdotta “la minima area dinamica” (MAD), ossia l’unità areale minima per garantire la minima popolazione vitale (Menges, 1991, in Primack 2000). In questa definizione, oltre all’orientamento alla conservazione impostato unicamente a livello di specie, traspare anche l’impronta concettuale di tipo deterministico-riduzionista, che considera l’ambiente da proteggere come un sistema isolato e descrive i fattori demografici ed ambientali determinabili in un meccanismo lineare di probabilità (Cini, 1999). Tali concetti e studi per preservare la biodiversità a livello di specie si esprimono in strategie di conservazione del tipo in situ che permettono cioè di tutelare le specie e le popolazioni all’interno del loro stesso habitat. Indubbiamente per gli obiettivi propri e circoscritti della biologia della conservazione a livello di specie/popolazioni, è stata la strategia più accolta, in quanto le specie sarebbero in grado in continuare i processi evolutivi di adattamento all’interno del loro habitat selvatico. L’altra strategia di conservazione contemplata e praticata dai biologi è la cosiddetta conservazione ex situ, ossia portare le specie fuori dall’ecosistema nel quale vivevano 15
  • 17. e si erano evolute per coltivarle/allevarle in condizioni artificiali: zoo, acquari, orti botanici, banche del seme sono gli esempi più noti. (inserire la validità come strumenti didattici )Se da un lato, ai fini limitati della biologia della conservazione e, nei casi estremi in cui le specie sono seriamente minacciate e versano in processi irreversibili di estinzione, la conservazione ex situ è una strategia forse comprensibile, dall’altro questa modalità è sovente al centro di critiche e dibattiti per le numerose implicazioni di carattere socio-economico che essa comporta. Risvolti delicati e complessi dal punto di vista socio-economico sono le banche del germoplasma, dove vengono conservati e gestiti i patrimoni genetici di piante (non solo minacciate), provenienti dalla biodiversità locale selvatica di ogni regione del pianeta (specialmente dai PVS tropicali dove si concentra la maggior diversità biologica) e dai cultivar selezionati dalle popolazioni rurali. Tale argomento che implica doverose riflessioni sui diritti di proprietà, sull’accesso e sulla gestione delle risorse fitogenetiche all’interno delle banche del germoplasma verrà approfondito nel paragrafo successivo. Rispetto alla conservazione ex situ è lo stesso Primack (1998) che, dalla sua prospettiva di biologo della conservazione, riconosce seri limiti biologici, genetici ed etologici intrinseci alla strategia appena menzionata: per non incorrere in derive genetiche e fenomeni di inbreeding le specie ex situ dovrebbero essere assai numerose (alcune centinaia); le specie conservate al di fuori dal loro ecosistema possono costituire solo una parte del pool genico della popolazione poiché prelevate solo in una certa area geografica; le popolazioni conservate negli zoo per molte generazioni possono adattarsi geneticamente alle condizioni artificiali; le specie zoologiche in cattività possono modificare la loro etologia e, qualora rilasciate in natura, avere difficoltà nel procacciarsi cibo, poiché in cattività non è stato mai appreso (Primack, 2004, pp. 246-260). Su scala globale la World Conservation Monitoring Center (WCMC), Birdlife International e la Conservation International hanno individuato le aree prioritarie per conservazione della biodiversità a livello di specie e le maggiormente compromesse sotto il profilo della degradazione degli habitat. Tali zone sono state chiamate centri caldi per la biodiversità, ossia biodiversity hotspot (Myers et al., 2000). 16
  • 18. I principi fondamentali per stabilire i biodiversity hotspot sono legati a due criteri: il tasso di endemismo e la perdita di habitat. Non avendo disponibilità di dati su un ampio range tassonomico, per quanto riguarda il tasso di endemismo, sono state prese in considerazione le piante vascolari, che devono rappresentare almeno lo 0,5% delle specie finora note; per quanto concerne la perdita di habitat gli hotspots devono aver perso almeno il 70% delle formazioni vegetali originarie (Myers et al., 2000). Su scala globale quindi sono stati al momento rilevati venticinque hotspots che soddisfano questi requisiti e che coprono l’1,4% della superficie delle terre emerse. L’insieme dei venticinque hotspots costituisce il 44% delle piante vascolari sul totale di quelle conosciute, il 28% delle specie di uccelli, il 30% delle specie di mammiferi, il 38% delle specie di rettili il 54% delle specie di anfibi (Myers et al., 2000). E’ importante segnalare come su venticinque hotspots 12 siano situati negli ambienti di foresta umida tropicale, tra cui l’area del mediterraneo e le Ande tropicali per l’elevato tasso di piante endemiche (13.000 specie pari al 4,3% e 20.000 specie, pari al 6,7% della flora mondiale) sono state classificati come hyper-hotspots, ossia hotspots speciali (Primack, 2004 p. 311). All’interno della tassonomia conservazionista sono state classificate inoltre tre zone di foresta umida tropicale che non avendo perso il 70% della vegetazione originale non possono rientrare nella categoria biodiversity hotspots, pur contenendo oltre il 15% delle specie vegetali mondiali; tali zone vengono denominate major wilderness areas, ossia grandi aree selvatiche incontaminate (Myers et al., 2000). Un’altra interessante classificazione che le organizzazioni conservazioniste hanno adottato è quella relativa ai Paesi dove è concentrata la maggior biodiversità a livello di specie: i Paesi Megadiversi (Megadiversity Countries). Sono stati definiti 17 Paesi Megadiversi di cui cinque all’interno della foresta pluviale del bacino amazzonico (Primack, 2004, p. 313). Le discriminanti per la definizione di questi centri di biodiversità sono rispetto alla biodiversità a livello di specie e non di ecosistema. (Myers et al., 2000). 17
  • 19. Fig. 1.3 Distribuizione dei Centri di Biodiversità (Biodiversity Hotspots) su scala globale. Fonte: Conservation International (2004) Per valutare lo stato di conservazione l’IUCN, attraverso metodi quantitativi, ha elaborato un sistema di classificazione in base allo stato di rischio a cui le specie sono esposte e generando le note categorie in cui racchiuderle. Sulla base di queste divisioni, attraverso il censimento delle specie minacciate, il WCMC ha successivamente redatto a livello mondiale le note liste rosse e le liste blu, ripartite per aree geografico-politiche e suddivise per gruppi tassonomici. La minaccia di estinzione delle specie sollevata dall’IUCN e altre società scientifiche nonchè l’emergere dei problemi ambientali legati alla riduzione di biodiversità specifica hanno dato impulso, nella seconda metà del secolo scorso, alla proposta di trattati ed accordi che sono stati sottoscritti a livello nazionale ed internazionale. A livello internazionale la prima ad essere approvata è la Convenzione di Washington, compilata nel 1973 dall’United Nation Environment Programme (UNEP), conosciuta come CITES (Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora), che regolamenta esclusivamente il commercio transnazionale di specie animali e vegetali sotto minaccia d’estinzione, e la convenzione di Bonn (1979), riguardante le specie migratrici appartenenti alla fauna selvatica. 18
  • 20. A livello comunitario, per citare qualche esempio rilevante, è stata sottoscritta la Direttiva Uccelli 79/409/CEE e la Direttiva habitat 92/43/CEE. Questo tipo di approccio alla conservazione, oltre che ad essere riduttivo e poco efficace, rivela i suoi limiti e le sue contraddizioni proprio per la difficoltà nel separare concettualmente le specie dagli ecosistemi (Pignatti, Trezza, 2000). Per questo parte delle organizzazioni conservazioniste hanno ritenuto necessario spostare l’attenzione sulla biodiversità nella sua dimensione multiscalare ed attuare strategie per la conservazione a livello di comunità/ecosistemi (Reid, 1992 in Primack, 2000). E’ attraverso un diverso approccio alla tutela della biodiversità che emergono nuovi accordi internazionali per la conservazione, innalzando la protezione da livello di specie ad habitat. Il primo accordo sulla protezione degli habitat è la Convenzione di RAMSAR (1971) che tutela le zone umide (wetlands), aree di notevole importanza ecologica per gli uccelli migratori; nel 2002 la Convenzione di Ramsar veniva sottoscritta da 133 paesi su 194. Nel 1979 viene stipulata la Convenzione di Berna per la conservazione della Vita Selvatica e dell’Ambiente Naturale in Europa, ratificata nel 2002 da 45 Paesi europei ed africani, nonché dalla Comunità europea. Nello stesso periodo UNESCO, IUCN e Consiglio Internazionale per i Monumenti e i Siti, promuovono la Convenzione sulla Protezione del Patrimonio Culturale e Naturale mondiale, mettendo in relazione il patrimonio biologico ed ecologico a quello culturale. Esempi nostrani di siti dichiarati “Patrimonio dell’Umanità” sono l’Orto Botanico di Padova o l’arcipelago delle isole Eolie. Gli strumenti impiegati per mettere in campo la conservazione, sia essa a livello di specie o di habitat, si sono tradotte frequentemente nella delimitazione di parchi, riserve ed aree naturali protette. Così dalla realizzazione delle prime riserve in Africa agli inizi del XX secolo, create dai coloni inglesi per garantirsi la selvaggina nelle battute di caccia, al boom nella seconda metà del secolo scorso, dei parchi nazionali, pur con differenti propositi ed utilizzi, le aree naturali protette si sono rapidamente diffuse su scala mondiale (Adams, Hutton, 2007, pp. 152-156). 19
  • 21. Il modello senz’altro più rappresentativo nell’ambito della conservazione, per tutto il secolo scorso, è stato il primo parco nazionale ufficialmente istituito negli Stati Uniti nel 1872: the Yellowstone National Park. Il modello di tale parco si muove concettualmente intorno all’idea di delimitare un’area naturale “selvaggia” e originaria (the pristine nature) che deve essere distinta e fisicamente separata dall’ambiente esterno, comprese le attività umane. Da questo modello di conservazione traspare il paradigma del pensiero scientifico illuminista, dalla cui l’enfatizzazione della separazione tra uomo ed ambiente si sono sviluppati i concetti di riserve, parchi ed aree protette. In questo modello concettuale l’idea suprema ed estrema di parco naturale è quella della “protezione integrale”, evitando qualunque interferenza o rumore di fondo di carattere antropico (Adams and Hutton, 2007). A partire dall’istituzione ufficiale del primo parco nazionale si sono rapidamente diffusi numerosi parchi nazionali su scala globale, facendo diventare il Yellowstone National Park un typus ed un modello dominante per la creazione di aree naturali protette ispirate alla pristine nature. Proprio in seguito alla rapida ed enorme diffusione di parchi nazionali, riserve ed aree protette worldwide ed al loro diverso utilizzo e finalità l’IUCN, tramite la Commissione Internazionale sui Parchi Nazionali ed Aree Protette (CNPPA), ha ritenuto opportuno riorganizzare e ridefinire il sistema di classificazione, pubblicando nel 1978 il primo rapporto su “Categorie, Obiettivi e Criteri”. Dopo una serie di revisioni ed aggiornamenti (Perth, 1990; Caracas 1992) l’IUCN ha ritenuto opportuno far chiarezza ridefinendo ed aggiornando (standardizzando) le categorie relative alle aree protette pubblicando le linee guida come orientamento per le politiche internazionali e nazionali sull’istituzione di aree protette (IUCN, 1994). Le categorie contenute nel sistema di classificazione corrente dell’IUCN si sviluppano su una serie progressiva di aree protette (dalla categoria I alla VI) in base al grado di protezione e di inclusività delle attività antropiche (IUCN, 1994). Mentre le categorie I e II rispecchiano il classico modello di parco nazionale, (da strict protected reserve/wilderness area a national park) le suddivisioni di ordine superiore modulano progressivamente il flusso di prodotti e servizi di ecosistema, fino all’uso 20
  • 22. sostenibile degli ecosistemi naturali (dalla categoria III, monumenti naturali, alla categoria VI, aree protette con gestione sostenibile delle risorse) (IUCN, 1994). Le indicazioni contenute nelle linee guida dell’IUCN sull’istituzione e la categorizzazione delle aree protette rimangono, tuttavia, dei semplici suggerimenti e consigli rispetto alle politiche ambientali che vengono sviluppate da ciascun Paese in base anche a questioni squisitamente politiche e socio-economiche. Basti pensare che, secondo uno studio condotto dall’IUCN (1994), in Sudamerica l’84% delle aree protette non corrisponde alle categorie sopraccitate. E’ all’interno della categoria VI definita dal CNPPA dell’IUCN che sono state inserite le Riserve del Programma per l’Uomo e la Biosfera dell’UNESCO (Man and Biosphere Program, MAB). Tale programma è stato lanciato in via sperimentale agli inizi del 1970 e si è rivelato, almeno sulla carta, uno dei più avanzati tra i modelli di aree protette, delineando così un nuovo approccio alla conservazione della natura. Il programma MAB infatti è “finalizzato ad integrare le attività umane, la protezione dell’ambiente naturale, la ricerca scientifica e l’ecoturismo nella stessa area” (Batisse, 1997 in Primack, 2004), enfatizzando le relazioni reciproche tra uomo ed ambiente. In questo modo i protocolli di ricerca MAB concettualizzano e traducono nell’istituzione delle Riserve della Biosfera modelli di compatibilità tra protezione degli ecosistemi minacciati e lo sviluppo sostenibile a beneficio delle popolazioni locali, riconoscendo da un lato il ruolo dell’uomo nel modellare il paesaggio, dall’altro l’esigenza di trovare le modalità con cui l’uomo possa usare le risorse naturali in modo sostenibile senza degradare l’ambiente (Primack, 2004, pp. 397- 406). Anche per quanto riguarda il modello concettuale di “area protetta” i piani MAB esprimono elementi decisamente innovativi. La riserva non è concepita come una “campana di vetro” che protegge gli ecosistemi isolandoli dall’ambiente circostante, bensì come un sistema che interagisce con il mondo circostante integrando nella gestione e nella pianificazione le esigenze e le culture delle popolazioni locali (Campagna UNESCO, Parigi, 1981). L’area protetta passa quindi da sistema isolato a sistema aperto, permettendo scambi di “materia ed energia” con l’ambiente esterno, purché siano garantiti i meccanismi di sostenibilità ambientale e sociale. 21
  • 23. Per strutturare questo modello di area protetta l’UNESCO ha stabilito dei criteri al fine di effettuare zonazioni (zoning) a diversi gradi di influenza antropica (vedi fig. 5): un nucleo centrale (core area) a protezione integrale a causa dell’elevato grado di sensibilità e di minaccia dell’ecosistema; una zona di rispetto (buffer zone) all’interno della quale sono consentite attività tradizionali (orti tradizionali, raccolta di prodotti forestali come frutti o piante medicinali) e attività di ricerca; un’area più esterna, (transition area) all’interno della quale sono concesse alcune forme di sviluppo sostenibile come progetti di agroecologia a piccola scala, uso di risorse a basso impatto ambientale ed attività di ricerca sperimentale. Questa zonazione consente da un lato di preservare alcuni paesaggi modellati dall’uomo e l’integrità degli ecosistemi, dall’altro le zone cuscinetto possono aiutare ed facilitare la dispersione degli animali ed il flusso genico tra il nucleo centrale e sistemi più esterni (Primack, 2004, p. 345). Fig. 1.4 Modello di zonazione delle Riserve della Biosfera (da MAB France, modificato.) Così come le categorie delle aree protette (IUCN, 1994) le Riserve della Biosfera sottostanno a giurisdizione e sovranità nazionale e sono state inserite all’interno della Rete Mondiale delle Riserve della Biosfera (World Network of Biosphere Reserve); 22
  • 24. da quando è stato lanciato il Programma MAB a livello mondiale sono state istituite 531 Riserve della Biosfera in 105 paesi (UNESCO, MAB, 2008). E’ opportuno inoltre sottolineare come questo modello avanzato di area protetta, nonostante le indicazioni dell’UNESCO e le numerose realizzazioni a livello mondiale, rimanga spesso un progetto virtuale che si scontra con le dinamiche territoriali, con lo stato giuridico e con le condizioni polico-economiche dei Paesi nel quale è realizzato. All’interno della Riserva della Biosfera Yasuní (UNESCO, 1989) presa in esame come caso di studio, non si presenta alcuna caratterista dei Programmi MAB (David Romo, 2006, comunicazione personale) e non esiste nessuna zonazione al suo interno. L’unica zonazione presente è quella effettuata dal Ministero dell’Energia che ha suddiviso la riserva in 12 aree per le attività estrattive legate produzione petrolifera (vedi elaborazione GIS, fig. 2.6, pag 81). Fig. 1.5 Distribuzione delle Riserve della Biosfera su scala planetaria. Fonte: UNESCO – MAB 1.3 Foreste umide tropicali Come si è accennato nel paragrafo precedente il gradiente di biodiversità è latitudinale ed aumenta dai poli alle zone temperate fino ai tropici, per raggiungere l'apice nella fascia equatoriale dove si concentra la massima diversità biologica. 23
  • 25. E’ alle basse latitudini che si sono sviluppate le foreste tropicali (Tropical Moist Rainforest) che da un lato sono refugia estremamente importanti per la biodiversità terrestre dall’altro una tra le componenti fondamentali nei sistemi biogeochimici della terra. Esse inoltre con le loro risorse naturali (fondamentalmente biodiversità e prodotti forestali), provvedono al sostentamento ed alla riproduzione sociale di molte popolazioni locali, tra le quali considerevoli quote di popolazioni indigene. L’IUCN ha stimato che il 12,5% delle specie vegetali mondiali, il 44% degli uccelli, il 57% degli anfibi, l’87% dei rettili ed il 75% dei mammiferi sono seriamente minacciati dalla crescente degradazione degli ecosistemi forestali tropicali (IUCN 1996, 1997). Myers definisce la regione biogeografica della foresta umida tropicale come “foreste sempreverdi, o parzialmente sempreverdi, in aree che ricevono non meno di 100 mm di precipitazione mensile con un regime pluviometrico uniforme nel corso dell’anno ed una temperatura annuale media di 24° Celsius; le formazioni vegetali si estendono solitamente in aree al di sotto dei 1400 metri di quota ed, in esempi di foresta matura, è possibile distinguere diversi livelli di stratificazione” (Myers, 1980 in Perry, 1982). Attualmente i processi di deforestazione e la degradazione delle foreste coinvolgono l’8.5% dei rimanenti sistemi forestali naturali su scala globale, di cui circa la metà sono in Sudamerica (M.A., p. 75). Nel corso dei tempi storici le foreste, globalmente, hanno subito una imponente riduzione e degradazione: negli ultimi tre secoli si sono ridotte approssimativamente del 40% di cui 3/4 durante gli ultimi duecento anni (M.A., Drivers of Ecosystem Change, 2005 p. 597). L’insieme delle attività antropiche infatti sta determinando processi di alterazione della superficie terrestre ad un tasso ed una scala che non hanno precedenti nella storia dell’uomo, concorrendo in magnitudo solamente con le transizioni dei periodi glaciali/interglaciali (NAS in Gutman et al., 2004); a tal proposito è molto significativo il termine coniato da alcuni scienziati per definire l’attuale Era geologica: l’Antropocene (Crutzen, 2005). E’ da tenere presente inoltre che i sistemi forestali, globalmente, giocano un ruolo fondamentale nel ciclo del carbonio e conseguentemente nell’accelerazione e 24
  • 26. decelerazione dei cambiamenti climatici; secondo il terzo rapporto dell’International Panel Climate Change (IPCC, in M.A., 2005) le proiezioni rispetto al riscaldamento globale (global warming) prevedono un innalzamento della temperatura tra i 1.4°- 5.8° Celsius 2100, variazione molto più alta rispetto all’intervallo temporale 1990- 2001 (IPCC., 2001 in M.A., 2005). Anche se va rilevato che in Europa e negli Stati Uniti il trend di disboscamento è stato invertito in parte grazie alla consapevolezza ed alle politiche ambientali di riforestazione, non si può dire lo stesso per quanto riguarda le foreste naturali tropicali. Il disboscamento di foreste primarie ai tropici continua con un tasso annuale di dieci milioni di ettari: un’area paragonabile alla Grecia, oppure tre volte il Belgio (M.A., 2005, p. 587). E’ infatti ampiamente confermato che da nessuna parte come ai tropici i processi di deforestazione legati al cambiamento d’uso del suolo ed alla copertura vegetale hanno dirette implicazioni nel bilancio globale del budget di carbonio sulla base di modelli (Houghton et al., 2000 in M.A. 2005) e misure atmosferiche (Ciais et al., 1995, 1995, in M.A. 2005). Le attività legate al cambio di copertura vegetale ed uso del suolo (land cover e land use) sono tra i principali processi antropogenici che, degradando e sostituendo le formazioni vegetali originarie, determinano un elevato impatto ambientale nella foresta amazzonica, la cui conversione in terreni agricoli ed aree urbanizzate crea un disturbo ecologico a scala regionale e sovra regionale, anche a notevole distanza dalle aree colpite (Walker, Solecki, 1999, in M.A., 2005). Pertanto la deforestazione tropicale è collegata ad attività antropiche come l’espansione della “frontiera” agricola che, richiedendo il cambio d’uso del suolo, conduce alla sostituzione della copertura forestale. A quest’ultima sono da aggiungere le attività estrattive quali lo sfruttamento del legname e l’estensione delle infrastrutture produttive e di comunicazione terrestre (Gomez-Pompa, 1991, in M.A., 2005) che sempre più stanno coinvolgendo le foreste primarie tropicali. Le infrastrutture di comunicazione stradali che si propagano all’interno della foresta tropicale costituiscono il primo input di deforestazione, contemporaneamente, utilizzando l’asse stradale principale si attivano processi disboscamento ortogonale 25
  • 27. dando luogo ad un doppio pettine. Lungo queste strade comincia la pratica “modernizzante” della foresta tropicale, portandosi dietro, a seconda dei casi, le attività produttive (De Marchi, 2004). Come verranno prese successivamente in esame all’interno del caso di studio nel cap. 6, queste pratiche di costruzione del territorio lungo un’asse stradale portante rispecchiano le cosiddette logiche di terra (Bertoncin, 2004) e determinano un processo di territorializzazione per sostituzione della foresta primaria lasciando spazio ad attività prevalentemente agricole ed estrattive. I processi di colonizzazione agricolo-estrattiva lungo via principale all’interno della foresta determinano l’apertura di processi ortogonali all’asse portante, dando come risultante un pattern a “spina di pesce”. Contrariamente al detto ecologico che “la diversità promuove stabilità” appare ormai confermato che i sistemi forestali ad elevata complessità, come le foreste tropicali, sono dinamicamente fragili e che può essere assai difficile rigenerarsi anche un piccolo disturbo (May, 1975, in Perry, 1982). Dal punto di vista ecologico e della sostenibilità è fondamentale mettere in luce che le specie arboree tropicali sembrano essere adattate alla riproduzione solamente sotto le condizioni dello stato primario. Queste caratteristiche e la bassa densità delle differenti specie per ettaro hanno portato alcuni ricercatori a concludere che le foreste tropicali sono essenzialmente risorse non rinnovabili (Gomez-Pompa, 1991). Rispetto anche al caso di studio ed alle analisi sviluppate successivamente in questa tesi è importante sottolineare come processi di cambiamento land use/land cover presenti all’interno del bacino amazzonico abbiano un ruolo significante anche su scala globale, andando ad influenzare l’idrologia, il clima ed i cicli biogeochimici globali (Crutzen et al., in M.A., 2005). Anche se la deforestazione delle foreste tropicali è legata genericamente alle attività di cambio d’uso del suolo e di copertura vegetale è importante distinguere tra attività locali di coltivazione transitorie (shifting cultivation), tra cui la pratica slash-and- burn (taglia e brucia), e attività legate ai sistemi economici e produttivi globali. Tra questi le attività con ruolo importante nella deforestazione tropicale, presenti anche nell’area di studio successivamente presa in analisi, sono l’estrazione di legname ad uso industriale (spesso da esportare a basso costo nei paesi occidentali ), la creazione 26
  • 28. di piantagioni industriali e monocolture intensive (piantagioni di palma da cocco, palma africana, cacao, albero della gomma, tek, etc.), grandi aree per gli allevamenti bovini ed estrazione mineraria e petrolifera (Primack, 2004, pp. 122-123). L’intensità e l’estensione areale delle attività estrattive ed agro-industriali sopracitate sono direttamente collegate alle dinamiche economiche e produttive su scala locale ma soprattutto globale. E’ fondamentale ricordare inoltre che i sistemi forestali, specialmente nei Paesi in Via di Sviluppo (PVS) delle zone tropicali, garantiscono con le loro risorse la sopravvivenza di molte popolazioni a tal punto che solamente la raccolta di prodotti forestali contribuisce al 50% del consumo alimentare (Cavedish, 2000, in Primack, 2004). E quindi opportuno evidenziare come i popoli indigeni che vivono all’interno delle foreste tropicali abbiano ereditato un elevato patrimonio culturale di conoscenze di natura ambientale e che la loro stessa sopravvivenza si basi sulla gestione di numerose risorse biologiche utilizzate nell’ambito alimentare, medico e religioso. Una forte degradazione dell’ecosistema forestale o una sua riduzione areale laddove si sovrappongono territori indigeni hanno importanti ricadute sulla loro stessa vita e riproduzione sociale. Tale impatto quindi, oltre ad essere di natura ambientale, ha delle serie implicazioni sulle popolazioni locali che, utilizzando sistemi e conoscenze tradizionali, hanno sviluppato un pacchetto di strategie diversificate, spesso sostenibili, per sopravvivere (Shiva, 2001). 27
  • 29. Fig. 1.6 Pattern di deforestazione. Nelle due immagini superiori il modello a spina di pesce, nelle inferiori la sua evoluzione. Amazzonia peruviana. Fonte: Google Earth. 28
  • 30. Fig. 1.7 Distribuzione dei sistemi forestali originali e rimanenti. (fonte: UNEP, 2004) 1.4 Biodiversità: un approccio ecosistemico Il superamento del modello conservazionista classico e del suo approccio alla biodiversità unicamente livello di specie comincerà ad avviarsi nei lavori sulla “questione ambientale” all’interno del Summit della Terra di Rio de Janeiro (UNCED, 1992). E’ qui infatti che, con la stesura della Convenzione sulla Biodiversità (CBD), la diversità biologica comincia ad assumere importanza nella sua multiscalarità (dai geni ai metaecosistemi) e nella sua complessità. Oltre alla protezione della biodiversità a tutti i livelli, tra gli obiettivi principali della Convenzione vengono inseriti anche “l’uso durevole dei suoi componenti e la ripartizione giusta ed equa dei benefici derivanti dall’utilizzazione delle risorse genetiche […]” (CBD, 1992). Sono proprio questi due obiettivi che, introducendo per la prima volta l’importanza del concetto di sostenibilità della gestione della diversità biologica e dell’equa ripartizione dei benefici derivati dalle risorse genetiche delle specie selvatiche e domestiche, aprono il dibattito sulla complicata questione dei 29
  • 31. diritti su tali risorse (De Marchi, 2002). Tale problema entra nel merito delle strategie per la conservazione in situ ed ex situ. La conservazione della diversità biologica ex situ, ad esempio, è uno degli aspetti più controversi e dibattuti non solo in termini di tutela delle specie minacciate, ma anche in termini di diritti di proprietà intellettuale. Il materiale genetico delle specie vegetali, selvatiche o cultivar, viene conservato e gestito all’interno delle banche del germoplasma sia per una “archiviazione” a scopi scientifici sia per incrementare la variabilità genetica tramite incroci infraspecifici e l’impiego di tecnologie del DNA ricombinante. Questi procedimenti sono indispensabili e assai preziosi per le industrie farmaceutiche, agro-alimentari e biotecnologiche che operano sulla produzione e sul mercato globale. I geni delle varietà locali o delle specie selvatiche forniscono sostanzialmente il materiale genetico e chimico di base per tali industrie. Nel passato le banche del germoplasma, coordinate dall’ente internazionale per l’agricoltura (il Consultive Group in International Agricolture Research CGIAR) e localizzate prevalentemente nei PVS, raccoglievano gratuitamente semi e tessuti vegetali e li consegnavano ai centri di ricerca ed alle industrie. I benefici e gli enormi profitti originati dalla commercializzazione dei prodotti derivati dalle risorse biologiche non venivano ripartiti od indirizzati localmente. Non è cosa di poco conto rilevare che circa il 96% della variabilità genetica necessaria a soddisfare la produzione farmaceutica, agricola e biotecnologica su scala globale provenga direttamente dai PVS delle fasce tropicali, laddove si concentra la maggior parte della diversità biologica (Primack, 2004, pp. 246-262). La Convenzione sulla Biodiversità discussa a Rio de Janeiro ha pertanto innescato un acceso dibattito, specialmente tra i Paesi industrializzati ed i PVS che possiedono le risorse biogenetiche, facendo emergere enormi difficoltà sulle misure da prendere rispetto alla proprietà intellettuale sulle risorse biologiche (De Marchi, 2002 p.3). La CBD è stata attualmente ratificata, non con poche riserve e complicazioni, da 170 Paesi; il Congresso degli Stati Uniti ha notevolmente tardato a sottoscriverla a causa dei limiti che venivano imposti alla crescente industria biotecnologica all’interno del paese (Primack, 2004, p. 407). 30
  • 32. Nonostante la Convenzione sulla Diversità Biologica possa considerarsi uno strumento per la tutela dei diritti sulle risorse biogenetiche le misure da adottare non sono facilmente attuabili alle banche del germoplasma istituite perlopiù nei PVS. Alcune ricerche infatti hanno dimostrato che circa il 65% del materiale genetico raccolto nelle banche del seme e del germoplasma è privo delle certificazioni di base sui dati e sulle loro caratteristiche (Croucible group, 1995 p. 29). Un altro dei nodi che il CBD tramite l’organo decisionale (Conferenza delle Parti, COP) e l’Organo Sussidiario di Consulenza Scientifica e Tecnologica (SBTT) sta cercando di scogliere è quello relativo alla perdita di biodiversità intesa come “riduzione qualitativa o quantitativa di componenti, a lungo termine o in maniera permanente, ed il loro potenziale di fornire beni e servizi che possono essere misurati a livello globale, regionale o nazionale” (COP VII/30, 2004). E’ proprio il potenziale della biodiversità di fornire beni e servizi, ben sintetizzati nell’insieme degli ecosystem services (Cap. Ecosystem Services, in MA 2005) che si traduce nella capacità dell’ecosistema di soddisfare le esigenze delle società rurali e delle comunità indigene dei PVS. La stessa perdita di biodiversità, all’interno del rapporto Biodiversity across Scenarios, viene considerata non solo come riduzione in servizi di ecosistema in termini di misure di abbondanza di specie, ma anche come erosione delle risorse genetiche da cui dipendono le stesse attività di sussistenza delle società rurali (M.A., 2005, p. 403). E’ stato stimato che la biodiversità locale riesce soddisfare i nove decimi del fabbisogno di base per la sopravvivenza attraverso l’erogazione di ecosystem services, di cui la metà non deriva direttamente da forme di agricoltura stabile o itinerante, ma da biodiversità conservata in orti semiselvatici, lungo le zone ripariali dei fiumi o all’interno della stessa foresta umida tropicale. La biodiversità riesce quindi, localmente, a soddisfare le necessità basiche in termini di cibo, medicine, piante aromatiche ed essere associata a valori culturali ed estetici per le comunità rurali (Mooney, 1997). E’ con l’insieme delle conoscenze locali che le società rurali e le comunità indigene riescono a gestire le risorse biologiche. 31
  • 33. L’insieme delle forme di gestione della biodiversità tramite modelli tradizionali che integrano l’uso dei saperi locali e tecnologia a basso impatto ambientale garantiscono alle società rurali di vivere al di sotto della capacità di carico degli ecosistemi locali, e sono intrinsecamente ecologici (Shiva, 2001). Questo insieme di strategie diversificate, sviluppate per garantire la produzione e riproduzione sociale del territorio in ecosistemi locali a bassa capacità di carico come quelli della foresta umida tropicale (De Marchi, 2004) configurano quelli che Dasmann (1988) ha chiamato “Gente degli Ecosistemi”. Tale categoria viene contrapposta a “Gente della Biosfera” che vive al di sopra delle capacità di carico degli ecosistemi locali utilizzando “risorse provenienti da tutti gli ecosistemi della terra attraverso elevati costi energetici e materiali” (De Marchi, 2004). Se da un lato nella “Gente degli Ecosistemi” la produzione e riproduzione sociale del territorio è basata su un controllo prevalentemente simbolico sulle risorse naturali, dall’altro nella “Gente della Biosfera” viene usata una strategia complessiva basata sul controllo materiale delle risorse, espansione dello spazio di raccolta ed alta possibilità di sostituzione sia dei prodotti che dei luoghi (De Marchi, 2002, p. 3). E’ in questo modo, ad esempio, che anche Paesi dichiarati “Megadiversi” come il Brasile ottengono 2/3 delle calorie umane derivate da piante alimentari che provengono da specie vegetali coltivate in altri continenti (Crucible group, 1995). In questo contesto si inserisce il ruolo delle strategie della conservazione ex situ e delle banche del germoplasma diventa ambiguo, in particolar modo per quelle localizzate nei PVS. Un caso significativo è quello del Centro per il Miglioramento del Mais e del Frumento (International Maize and Wheat Improvement Centre, CIMMYT), situato in Messico, che svolge attività di miglioramento della variabilità genetica di questi cereali e la mette a disposizione delle industrie agroalimentari su scala globale. E’ in questo modo che il 60% della varietà genetica del frumento per la produzione della pasta italiana viene selezionata in Messico. E’ difficile quantificare globalmente quale sia il contributo economico in germoplasma ed in conoscenze locali provenienti dai contadini del Sud del Mondo per l’agricoltura dei Paesi industrializzati, ma alcuni studi eseguiti proprio sul CIMMYT hanno stimato che l’ammontare complessivo solo 32
  • 34. per le industrie agricole di USA, Australia, Nuova Zelanda ed Italia è di circa 1,5 miliardi di dollari. Lo stesso meccanismo si riproduce nel caso dell’Istituto Internazionale per la Ricerca sul Riso (International Rice Research Institute, IRRI), situato a Manila, dal quale provengono le varietà di riso coltivate in Italia (Mooney, 1997, p. 53) e i cui benefici non tornano agli agricoltori filippini che hanno effettuato il lavoro di selezione unendo i saperi locali alla diversità biologica vegetale (De Marchi, 2002). Anche se i dati provengono da studi condotti in passato e non sono aggiornati, esprimono comunque valori di tendenza e, su tali tematiche, va preso atto che non è facile reperire lavori recenti e pubblici. Lo stesso dispositivo, dalla scala locale a quella globale, coinvolge i processi per la produzione di farmaci a livello industriale. Almeno 7000 principi attivi appartenenti alla farmacopea occidentale (dall’aspirina alle pillole contraccettive) sono ottenuti da processi di chimica di sintesi da materiale vegetale ed il loro valore complessivo è stato stimato tra i 35.000 ed i 47.000 milioni di dollari (Croucible Group, 1995; UNEP 1992). La medicina tradizionale indigena, che coniuga i saperi locali con l’utilizzo delle risorse biologiche nell’ambito della salute, contribuisce a quasi tre quarti della produzione di farmaci a base vegetale disponibili oggi sul mercato (Rifkin, 1998). Numerosi sono i casi documentati, tra cui si riportano: il caso della pianta chiamata dagli indigeni della regione amazzonica ecuadoriana “Sangre de Drago” (Croton sp., Euphorbiaceae), utilizzata nella medicina tradizionale e passata attraverso il canale “The healing forest” (una organizzazione no-profit per la conservazione della biodiversità e dei saperi indigeni) alla compagnia statunitense Shaman Pharmaceuticals“ e trasformata in “semilavorato industriale” per l’industria farmaceutica (Mooney 1997, p. 152; De Marchi, 2002) che nonostante gli accordi di “reciprocità” ha pagato con poche migliaia di dollari lo scambio; il caso del Barbasco (Clibadium silvestre, Asteraceae), una pianta ben conosciuta dalle popolazioni indigene amazzoniche ed usata nella medicina tradizionale ed in agricoltura, che l’impresa Foundation for Etnobiology ha brevettato e venduto alle compagnie farmaceutiche Zeneca e Glaxo; il caso dell’Ayahuasca (Banisteriopsis caapi, Malpighiaceae) usata nella medicina tradizionale e nelle ritualità shamanico-indigene 33
  • 35. ecuadoriane, brevettata dall’International Plant Medicine Corporation (IPMC) e utilizzata come farmaco sperimentale nelle terapie psichiatriche; il celeberrimo caso del chinino, un principio attivo usato come farmaco nella prevenzione e nella cura della malaria, derivato da piante arboree ed arbustive tropicali del genere Cinchona (Raven, 1997, p. 574); il caso del curaro (chondrodendron tomentosum ) che, raccolto lungo le sponde del fiume Curaray (Amazzonia ecuadoriana) ed usato dalle popolazioni Wuaorani come veleno per stordire le prede, è diventato oggi un importante anestetico chirurgico e distensivo muscolare. Il ruolo quindi di biologi, antropologi, chimici e farmacisti, diventa talvolta delicato ed esula dalle competenze disciplinari specifiche allorché i finanziamenti per la ricerca provengono dalle grandi imprese che sponsorizzano spedizioni in tutto l’emisfero meridionale, in cerca di caratteristiche genetiche che potrebbero avere un valore commerciale. L’insieme delle attività che derivano da “bioprospezioni” finalizzate a scopi commerciali è quello che Rifkin chiama “pirateria biologica” (Rifkin, 1998). Fig. 1.8 Preparazione dell’estratto di Ayauasca ( Banisteriopsi caapi), a cura di uno shamano Wuaorani, Ecuador. 34
  • 36. Il modo in cui i prodotti chimici del metabolismo secondario di molte specie vegetali (un meraviglioso esempio di coevoluzione biochimica delle piante con i loro predatori) si combina con le conoscenze locali delle popolazioni indigene trasforma la risorsa biogenetica in “semilavorato industriale” (Raven, 1997, p.573; De Marchi, 2002). Tuttavia è doveroso segnalare che esistono rari esempi di conservazione e gestione partecipativa delle risorse biogenetiche ex situ, come la banca del seme indiana Nadvanja, che sono istituite per il beneficio delle comunità locali e la conservazione della biodiversità (Shiva, 2001, p. 56). Sarà solo successivamente, nel quinto incontro a Montreal del SBTTA della CBD (2000), che si assumerà formalmente l’approccio ecosistemico come metodologia generale per la realizzazione della Convenzione sulla Diversità Biologica riconoscendo che “le società umane, con la loro diversità culturale sono una componente integrale del sistema” (SBSTTA, Montreal 2000). Questo è stato un cambiamento di paradigma molto importante anche per la conservazione della natura, determinando il passaggio dall’approccio alla biodiversità a livello di specie all’approccio ecosistemico. Tra i punti cardine emersi nell’incontro del SBTT di Montreal viebe ribadito che le comunità locali sono responsabili della biodiversità nel loro intorno e devono essere direttamente coinvolte nei processi decisionali riguardo l’uso delle risorse naturali e devono prendere parte nella ripartizione dei benefici che ne conseguono. Anche il concetto di sostenibilità è stato rivisitato articolandolo su tre livelli: ambientale, economico e socio-culturale. Affinché la gestione di una risorsa naturale sia durevole, la sostenibilità deve essere mantenuta in tutti e tre gli ambiti. E’ opportuno segnalare inoltre come, ai fini di una gestione sostenibile della biodiversità, vadano tenute in considerazione tutte le informazioni rilevanti, includendo le conoscenze scientifiche, le conoscenze indigene e tradizionali, l’innovazione e le pratiche ( SBSTTA, Montreal, 2000, De Marchi, 2002) Il tema della biodiversità e della sua conservazione quindi è difficilmente affrontabile con un approccio a livello di specie o con atteggiamento riduzionistico, ma richiede una visione sistemica del ruolo della diversità biologica anche per le sue dinamiche 35
  • 37. multiattoriali (De Marchi, 2002). La biodiversità infatti, oltre che ad inquadrarsi in una dimensione multiscalare, è da collocarsi all’interno delle dinamiche multiattoriali, dove soggetti portatori di interessi, con differenti logiche d’agire utilizzano strategie diverse per effettuare un controllo, simbolico o materiale, sulla diversità biologica. (Bertoncin 2004, De Marchi, 2002). 1.5 Territorio, conflitti ambientali ed aree protette Come già è stato accennato nel precedente paragrafo, all’interno del processo aperto a Rio de Janeiro della CBD (1992) la visione meccanicistica della natura viene superata: da semplice ambiente esterno, distaccato, giunge ad essere considerata un sistema complesso che “comprende i processi essenziali, le funzioni e le interazioni tra organismi e il loro ambiente e tra ecosistemi, includendo le società umane come componente integrante degli ecosistemi” (SBSTTA, 2000). All’interno di questo sistema complesso bimodulare è possibile riconoscere un modulo fisico, formato dalle componenti biotiche ed abiotiche, ed un modulo umano, costituito dai sistemi sociali e dalla loro organizzazione, che si interfacciano e si influenzano reciprocamente, creando un sistema bimodulare società-natura (Vallega 1990; 1995). Tale interfaccia società-ambiente configura le interazioni e le diverse forme di utilizzo delle risorse, ben rappresentate degli ecosystem services, servizi indispensabili per la riproduzione della vita delle comunità umane. Questo “punto di cerniera” tra modulo fisico e modulo umano diventa lo spazio nel quale si strutturano i sistemi territoriali che, dotati di propria auto-organizzazione ed autonomia, costituiscono un sistema interagente (De Marchi, 2002). Il territorio quindi è considerato come sistema complesso che interfaccia società e natura mantenendo le caratteristiche proprie di sistema: multi stabilità, resilienza, emergenza, auto-organizzazione ed omeostasi (Turco, 1988; Faggi, 1991). E’ nel quadro della geografia umana, spazio di saldatura tra le discipline delle scienze naturali e delle scienze sociali, e nell’approccio ecosistemico che si trovano gli strumenti 36
  • 38. analitici utili ad affrontare, nella complessità, la diversità biologica, la sua conservazione e la sua gestione. Conservazione e gestione della biodiversità determinano l’inserimento di quest’ultima in dinamiche di carattere territoriale facendola diventare “posta in gioco” per soggetti che hanno interessi e valori diversi e che attuano strategie differenti nel rapportarsi alle risorse naturali. Le strategie adottate nel binomio conservazione-gestione della biodiversità, per le differenti razionalità sociali connesse, possono comportare dinamiche conflittuali o cooperative tra i vari soggetti chiamati in causa. La biodiversità, per il suo valore multiscalare, da semplice bene naturalistico da tutelare e proteggere si può evolvere in “posta in gioco” contesa tra diversi soggetti. Questo è reso evidente, ad esempio, quando la si è paragonata a “semilavorato” per l’industria agro-alimentare e biotecnologica, diventando materia vivente oggetto di controversie, da collocarsi più in un’arena di contesa ambientale che in un ambito circoscritto alla conservazione. E’ in questo modo che le comunità e le società rurali indiane, per tutelare i propri diritti sulla biodiversità, organizzando le proprie banche del germoplasma (Nadvanja, Shiva, 2001) tramite processi partecipativi e comunitari, producono una progettualità alternativa a quella di altri soggetti (le industrie farmaceutiche, agroalimentari e biotecnologiche), che si rende visibile attraverso la conflittualità ambientale. In questo caso la posta in gioco non è solamente la biodiversità a livello di specie o di geni, ma la sua associazione alle conoscenze locali che derivano da un altro modo di percepire e usare la diversità biologica. Senza infatti i saperi sviluppati dalle popolazioni indigene nel loro modo di percepire e rappresentare la biodiversità e costruire il territorio, le risorse genetiche sarebbero un insieme di codici e proteine sintetizzate non facilmente utilizzabili dall’industria farmaceutica, biotecnologica ed agroalimentare (De Marchi, 2002). In entrambe le rappresentazioni la biodiversità diventa risorsa da sfruttare solo quando alla materia vivente viene attribuito un significato e le vengono associate proprietà e caratteristiche: se accanto ad una attribuzione di significato conoscitivo si associa una progettualità si rende palese lo “scontro” tra due logiche differenti, ossia il sapere tradizionale ed il sapere scientifico. Turco (1988) usa una chiave di lettura 37
  • 39. interessante e esemplificativa definendo “competenze” quelle del sistema tradizionale e “conoscenze” quelle del sistema codificato dalla modernità . Le prime si originano nella pratica, attraverso sperimentazioni, riscontri ed errori, le seconde attraverso processi verificati tramite il metodo scientifico, che spesso si basano sull’acquisizione delle competenze delle società rurali e dei saperi locali. Le comunità indigene e le società rurali infatti mostrano quanto mai come esistano percezioni diverse della natura e diversi modi di conoscerla e rappresentarla; se per un verso la si può considerare come una sommatoria di componenti biotiche, abiotiche e relazioni in uno spazio fisico dall’altro diventa una costruzione sociale che l’uomo costruisce edifica in un processo di esplorazione e conoscenza; “l’uomo non è spettatore, ma un attore, non sta fuori dal mondo, ma dentro. […] La natura resta alla base di tutte le sue realizzazioni successive: è questo mondo straordinariamente complesso che egli scruta e che plasma, per farne alfine il luogo del suo abitare, una geografia, la sua dimora” (Faggi, Turco, 2001). E’ quindi dallo status più o meno consapevole di uomo-abitante che l’attore sociale diventa il fondamento di ogni processo di costruzione del territorio (Bertoncin, 2004) e che, attraverso un valore che Hewitt chiama people’s geography si determinano i possibili scenari di conflitto ambientale. Infatti, attraverso tendenze innate di affettività dell’uomo verso il topos e il bios (alcuni autori la chiamano topofilia e biofilia), la dimensione ambientale va oltre lo spazio geografico fisico-biologico, portando all’espressione di una posizione di rifiuto delle trasformazioni delle qualità naturali di un luogo, causate da un cambio d’uso delle risorse, dall’alterazione del paesaggio o dall’occupazione di uno spazio (Faggi, Turco, 2001 pp. 12-18; Primack 2004, p.16). Tale rifiuto, concretamente, si può manifestare contro la costruzione di un’infrastruttura di trasporto, di un oleodotto, di un inceneritore o, paradossalmente, nella realizzazione o gestione di un’area naturale protetta. In entrambi i casi vengono sollevati i problemi di chi paga i costi e chi ne trae i benefici contrapponendo due o più attori: un attore che trae i benefici della localizzazione, un altro che paga i costi ambientali. In alcuni casi la dimensione può contrapporre una collettività più ampia, 38
  • 40. come uno stato, ad una più circoscritta, come una comunità locale. La localizzazione porta benefici alla prima mentre fa pagare i costi ambientali alla seconda. Il conflitto ambientale, genericamente, ha come posta in gioco la natura, sensu lato, e vede in competizione soggetti (gruppi, stati, imprese, comitati) che con strategie ed interessi diversi, devono soddisfare le proprie esigenze e necessità accedendo alle risorse naturali (Faggi, Turco, 2001 p. 11-75). Persino le strategie impiegate nella conservazione della natura attraverso l’istituzione di parchi ed aree protette possono portare a dimensioni di conflittualità ambientale. Il rifiuto si esplica non tanto per l’avversità ai programmi di conservazione, quanto per l’esclusione delle comunità locali dai processi decisionali, di pianificazione e gestione dell’area protetta. L’istituzione e la realizzazione di un’area protetta, solitamente, passa attraverso l’individuazione del valore ambientale da proteggere (specie, habitat o ecosistema), sua perimetrazione fisica, e l’attuazione attraverso i processi giuridico- istituzionali del caso. La problematicità spesso consiste nella mancanza di processi preliminari, ma fondamentali, di partecipazione e condivisione, che permettano alle richieste tecnico- scientifiche, giuridiche, politiche ed economiche di intrecciarsi con il consenso e l’appoggio delle comunità locali (Faggi, Turco, pp. 13-14). E’ utile ricordare come anche sulla base dei concetti di pristine nature o wilderness area, dominanti del pensiero conservazionista del secolo scorso, sia stato adottato il Yellostone National Park come modello di parco nazionale da esportare, con l’unico obiettivo della conservazione e valorizzazione della “natura selvaggia” da preservare ed escludendo di fatto le società rurali dalle modalità di gestione dell’area protetta se non persino dallo stesso spazio fisico nel quale vivevano (Holmes, 2007). Le società rurali, che spesso conoscono e vivono il loro status di uomo abitante affermando i valori della people’s geography, vengono quindi escluse dalla gestione ambientale dell’area protetta (talvolta anche manu militari o con dislocamenti forzati dalle aree protette), vedendosi negato l’accesso alle indispensabili risorse naturali. Questo processo di netta demarcazione e separazione degli spazi per la conservazione delle wilderness areas e per le attività umane, conduce inevitabilmente al fatto che le comunità non riescono ad accedere a quegli ecosystem services che per molto tempo 39
  • 41. hanno permesso loro di produrre e riprodurre loro stesse e il territorio con cui interagivano. Le popolazioni indigene, in molti casi dei PVS, venivano attaccate militarmente o giuridicamente per essere espulse dall’area come viene riportato nei casi di studio di questo tipo in Africa: il Nechesar National Park e l’Omo National Park (Etiopia, 2004) la cui realizzazione ha comportato l’allontanamento fisico di 500 persone e le ha costrette a re-insediarsi al di fuori di esso(Adams, Hutton, 2007). Nello studio di caso preso in esame in questa tesi, l’istituzione nel 1979 del Parco Naturale Yasuní (IUCN, 1982) e il successivo innalzamento a livello di Riserva della Biosfera (1989) nella pianificazione e gestione dei programmi MAB (UNESCO, MAB, 2004), hanno comportato la ridefinizione dei territori indigeni Wuaorani e Quichua e la loro riubicazione delle comunità attraverso l’uso di elicotteri e dislocamenti forzati. Tali dinamiche per la realizzazione della Riserva della Biosfera Yasuní hanno innescato i primi segnali di rifiuto da parte degli attori locali indigeni verso la perimetrazione dell’area protetta (Vallejo, 2003 p. 40). In questi casi le aree naturali protette pongono importanti questioni da affrontare con un approccio sistemico: quali siano le comunità da escludere, tramite quale autorità, quali siano i benefici e verso chi siano indirizzati, e soprattutto a quali costi (Faggi, Turco, 2001). Le modalità di realizzazione delle aree protette, con le loro logiche territoriali e multiattoriali, diventano percorsi che portano a possibili scenari di conflitto ambientale. Tali conflitti, oltre a coinvolgere due o più attori territoriali ed avere una o più “poste in gioco” legate alla natura, possono esprimersi in quelle che sono chiamate arene di contesa ambientale. Le arene di contesa sono degli spazi concettuali dove gli attori si esprimono e difendono i propri interessi, determinando le occasioni del conflitto e le modalità principali attraverso cui questo si sviluppa (Faggi, Turco, 2001). La genesi dei conflitti ambientali passa spesso attraverso le arene di contesa ambientale che sono in rapporto alle controversie ideologiche, scientifiche, giuridiche, economiche, politiche. Il conflitto ambientale sottende quindi un problema legato alla locazione fisica che traduce una dinamica sociale generata da una geografia, ossia da una modalità di 40
  • 42. agire territoriale “che proietta sulla collettività, locale o più ampia, effetti più o meno profondi o duraturi.” (Faggi, Turco, 2001). A volte queste due tipologie di rifiuto alle trasformazioni territoriali, siano esse per la costruzione di infrastrutture o per la realizzazione di aree protette, si combinano dando luogo ad una vasta gamma di percorsi possibili e scenari di conflitto ambientale. I conflitti ambientali presi in esame si contestualizzano nella Regione Amazzonica Ecuadoriana (RAE) e gravitano dentro ed intorno la Riserva della Biosfera Yasuní istituita nel 1989 (UNESCO, MAB, 2004). L'Ecuador, dichiarato Paese Megadiverso (WCMC, UNEP, 2004) e incluso nell’area definita biodiversity hotspot nelle Ande tropicali (Primack, 2004), ha attualmente in corso ventidue conflitti ambientali documentati (Centro di Documentazione dei Conflitti Ambientali, CDCA, 2009) rivelandosi, per le poste messe in gioco, per gli attori e per il ruolo che ricopre a livello internazionale nella conservazione della biodiversità, un paese ad alta criticità ambientale e sociale (Fontaine, 2003). Le poste in gioco all’interno della RAE possono essere per semplicità differenziate ma esse si intrecciano e si sovrappongono nella complessità delle dinamiche territoriali, determinando una genesi del conflitto ambientale articolata e complessa, con percorsi plurali e di diplomazia multipla (De Marchi, p.108). Le poste in gioco dei conflitti ambientali sviluppati all’interno della RAE sono messe in relazione alle seguenti risorse naturali: le risorse forestali, le risorse genetiche, le risorse idriche, le risorse minerarie, e le risorse idrocarburiche (Fontaine, 2004). Lo sviluppo delle attività petrolifere cominciato agli inizi del 1960 (Varea et al., 1997) con la costruzione della prima via di comunicazione terrestre (la Shell road, 1962) che collegava la RAE alle Ande e il contemporaneo sviluppo della colonizzazione agricola della RAE (legge di Riforma Agraria e Colonizzazione, 1967) promosso dallo stato ecuadoriano, hanno dato inizio a processi di territorializzazione per sostituzione, basati principalmente su attività industriali estrattive quali il legname ed il petrolio (Vallejo, 2003). L’espansione della frontiera petrolifera nell’Amazzonia ecuadoriana ed il degrado ambientale da essa provocato, documentato in numerosi studi nei PVS (Turco, 1997; OTCA, 2004; Narvaez 1996; 41
  • 43. De Marchi 2004), costituisce, con l’avanzamento delle grandi infrastrutture di comunicazione, uno dei direct drivers nei processi di degradazione degli ecosistemi forestali tropicali e nelle dinamiche di cambiamento in rapporto alle modalità land use/land cover (Forest and Woodlands System, M.A. 2005, p. 607), alimentando l’ampliamento e l’intensificazione delle attività agricole e dell’estrazione di legname ad uso commerciale su piccola e grande scala (Narvaez, 2000). Gli indirect drivers (Forest and Woodlands Systems, M.A. 2005, p. 609) nei processi di degradazione e conversione delle formazioni forestali sono da riferirsi alle dinamiche dei sistemi sociali e alle politiche agricole ed economiche che esercitano un elevato grado di influenza sui direct drivers (si veda la tab. 1.0 pag. 9). All’interno dello spazio amazzonico ecuadoriano concorrono quindi, in maniera sinergica, diversi processi di territorializzazione condotti dai diversi attori sintagmatici (Faggi, Turco, 2001), legati all’istituzione ed alla gestione della Riserva della Biosfera Yasuní, all’espansione della frontiera agricola ed all’insieme delle attività industriali per la produzione petrolifera (Narvaez, 1998). La conflittualità ambientale messa in relazione all’area protetta risale all’ istituzione del Parco Yasuní nel 1979 (IUCN, 1982) la cui delimitazione si è sostanzialmente basata sull’individuazione di ampie wilderness areas (con copertura vegetale “intoccata”) tramite voli aerei e fotointerpretazione, utilizzando un approccio al territorio letteralmente desde arriba.(dall’alto) (Moran, 2005). In realtà tali ampie wilderness areas di “foresta vergine” erano utilizzate ed attivamente modificate da diverse comunità umane che abitano la pianura amazzonica, in particolare gli indigeni Wuaorani, Quechua, Shuar, Cofan e contadini provenienti da altre aree (i colonos) (Vallejo, 2003). Le pratiche di territorializzazione sviluppate dalle comunità locali amazzoniche sono però morbide e prevalentemente simboliche, mediate dal corpus di conoscenze e competenze sviluppate nel rapporto con l’ambiente naturale (De Marchi, 2004, p. 140). Le attività delle comunità indigene amazzoniche, consistendo in agricoltura itinerante, caccia, pesca e raccolta, risultavano di poca incidenza sulle dinamiche land use/ land cover (Brownrigg, 1997), pertanto non facilmente visibili o individuabili tramite immagini satellitari e fotografie aeree (Vallejo, 2003). La perimetrazione del 42
  • 44. Parco Nazionale Yasuní (1979) e la successiva Riserva della Biosfera, processo contemporaneo all’occupazione dello spazio amazzonico per lo sviluppo delle attività agricole e petrolifere della RAE (Narvaez, 1996), ha contribuito alla rottura dell’assetto territoriale e dell’integrità culturale delle popolazioni indigene portando, nel 1989, alle prime condizioni conflittuali tra gli attori coinvolti nell’area: comunità indigene, militari, compagnie petrolifere, missionari (Vallejo, 2003). A seguito del boom delle attività petrolifere innescatosi con la scoperta di grandi giacimenti a partire dal 1970 (Fontaine, 2006) e della crisi del modello agro- esportatore ecuadoriano (Vallejo, 2003) si sviluppano sempre più le infrastrutture di comunicazione terrestri e comincia a configurarsi il nuovo territorio amazzonico, tramite processi di “modernizzazione” di quell’area geografica costituita al 96% da foresta umida tropicale (Narvaez, 1996): installazioni ed industrie petrolifere, oleodotti e polidotti, centri per il processamento del greggio (vedi fig. 4.12) ed attività agricole commerciali e permanenti sviluppate su piccola e grande scala (Narvaez, 2000). Il processo costruttivo di tale configurazione territoriale e l’occupazione dello spazio geografico amazzonico, tramite l’assegnazione delle licenze d’uso del suolo per la produzione petrolifera e la realizzazione del complesso infrastrutturale per l’estrazione, trasporto e smaltimento del petrolio, ha avuto notevoli implicazioni sotto il profilo ecologico e sociale che hanno fortemente contribuito allo sviluppo del conflitto che, con periodi di latenza e di visibilità, è al giorno d’oggi ancora in evoluzione (Narvaez 2000; Vallejo, 2003; Fontaine, 2004). Gli impatti ambientali della produzione petrolifera nell’Amazzonia ecuadoriana sono principalmente legati alle deforestazione di circa il 30% delle formazioni forestali tropicali ed alla loro frammentazione (Gomez, 1991), all’inquinamento della rete idrografica e delle falde acquifere (Narvaez, 1996, p. 12; International Water Tribunal, 1994, in De Marchi, 2004), all’erosione del suolo ed alla perdita di biodiversità (Haller et al., 2007; Narvaez 2000). Inoltre la colonizzazione della regione amazzonica, ed il suo processo unilaterale di integrazione fisica e territoriale alla modernità ecuadoriana ha comportato anche impatti a livello sociale (Santos 1991, in Narvaez, 1996). L’espansione delle attività 43
  • 45. produttive agricole e petrolifere e la costruzione di grandi infrastrutture di comunicazione hanno dato impulso alla canalizzazione dei flussi migratori all’interno della RAE ed alle conseguenti nuove pratiche di territorializzazione nello spazio amazzonico (Narvaez, 1996). Se da un lato gli stessi impatti ambientali, soprattutto gli effetti sulle risorse idriche e biologiche, hanno influenzato qualitativamente e quantitativamente gli ecosystem services disponibili alle comunità locali, dall’altro il processo di territorializzazione attraverso la rete viaria utilizzata per le attività produttive ha comportato una sovrapposizione tra le logiche d’agire differenti: quella delle popolazioni indigene influenzata dalle logiche d’acqua e adattata al denso reticolo idrografico dei bacini fluviali amazzonici, l’altra dei nuovi attori che costruiscono il territorio lungo le infrastrutture di comunicazione terrestri. (Bertocin, 2004). Quest’ultimo agire territoriale determina lo sviluppo di processi di territorializzazione per sostituzione, nei quali le formazioni forestali originarie vengono sostituite attraverso la parcellizzazione per l'agricoltura estensiva (prevalentemente monocolture di palma africana), nuove forme di agricoltura stabile e l’occupazione dello spazio fisico impiegato per le installazioni dell’industria petrolifera (De Marchi, 2004). Per la sua sovrapposizione geografica e territoriale ai processi appena descritti la Riserva della Biosfera Yasuní è, sia direttamente che indirettamente, coinvolta nelle dinamiche del conflitto ambientale, trasformandola da area protetta a livello internazionale in una delle poste in gioco nella complessità del conflitto. 44
  • 46. Fig. 1.9 Dayuma, buffer zone della Riserva della Biosfera Yasuní. Importante fuoriuscita di petrolio causata dalla rottura di un oleodotto situato in prossimità del corpo d’acqua. (attività di campo del 12/04/2006;-coordinate geografiche 0.646° Sud e 76.855° Ovest; sistema di riferimento WGS84) 45
  • 47. 2 Inquadramento geografico, ecosistemico e territoriale 2.1 Ecuador: geografia, biodiversità ed ecosistemi L’Ecuador è un piccolo stato del Sudamerica che si affaccia sull’oceano pacifico e la cui superficie giace esattamente nell’intersezione tra l’equatore e la catena montuosa delle Ande. I limiti politico-amministrativi sono compresi tra le coordinate geografiche 1°21’06’’ Nord e 5°0’56’’ Sud e tra le longitudini 75°11’49’’ e 81°0'40’’ Est. La superficie attuale è di 256.370 Km2 per la regione continentale e di 371 km2 per la regione insulare che comprende l’arcipelago delle isole Galápagos, situate nell’oceano pacifico a 965 Km dalla costa ecuadoriana (FAO, 2000; Istituto Geografico Militar de Ecuador, 2006). A causa delle storiche dispute territoriali con il confinante stato peruviano (dal 1941 al 1998), per il controllo dell’area amazzonica e dei giacimenti petroliferi situati nel sottosuolo della regione, i limiti di stato sul versante orientale sono stati ridefiniti nel 1998 con la cessione di 14.000 Km2 di foresta umida tropicale al Perù, portando l’Ecuador all’attuale estensione geografica. (MAE, 2008; Galeano, 1997). Nonostante la sua posizione geografica lo collochi all’interno della fascia equatoriale il clima dell’Ecuador varia enormemente da una regione all’altra a causa della presenza della Cordigliera delle Ande e dell’influenza delle correnti oceaniche fredde di Humboldt in estate e di quelle calde del Niño in inverno (McCoy, 2003, FAO, 2000). I rilievi topografici dominanti sono costituiti dalla doppia catena montuosa delle Ande, la Cordigliera Occidentale e la Cordigliera Orientale, che dividono l’Ecuador continentale in tre regioni biogeografiche distinte, caratterizzate da sistemi ecologici e sociali differenti (MAE, 2008, FAO, 2000): - la regione pacifica, comunemente denominata La Costa - la regione interandina compresa tra la cordigliera occidentale e quella orientale, chiamata Sierra - la regione amazzonica che, estendendosi per tutta l’area ad est della Cordigliera della Ande, viene chiamata el Oriente. 46
  • 48. Fig. 2.1 Ecuador: Immagine satellitare. (Fonte: NASA, World Wind) e quadro d’insieme (elaborazione G.I.S.) Fig. 2.2 Ecuador, le tre regioni biogeografiche: la Costa, la Sierra, l'Amazzonia. (Fonte: MAE, 2008) 47
  • 49. La Costa rappresenta la porzione compresa tra l’Oceano Pacifico e la Cordigliera delle Ande occidentali fino a 1.300 metri s.l.m., con una superficie relativamente pianeggiante, ad eccezione di piccole catene montuose regione presenta un clima caldo umido con precipitazioni annuali che oscillano tra i 355 mm nella parte meridionale a 6.000 mm nella parte settentrionale. La temperatura media varia tra i 23° ed i 25° Celsius (MAE, 2008, FAO, 2000). La Sierra include le aree situate tra i 1300 metri s.l.m. e le cime, o il limite dei ghiacciai (da 3000 ad oltre 4000 metri s.l.m.), sia della Cordigliera occidentale che di quella orientale delle Ande che corrono tra loro parallele in direzione nord-sud. La regione ricopre una superficie di 64.760 Km2 e la precipitazione annuale media è di circa 1.500 mm con temperature medie che oscillano tra i 12° ed i 20° Celsius e variano notevolmente in funzione del gradiente altitudinale (MAE, 2008, FAO, 2000). La Regione Amazzonica Ecuadoriana (RAE), o semplicemente Oriente, corrisponde a tutta l’area compresa tra i 1.300 metri s.l.m. della Cordigliera Orientale delle Ande fino al limite di stato con il Perù, costituendo la parte occidentale del bacino del Rio delle Amazzoni, di cui rappresenta il 2%. Con la sua estensione di 131.130 Km2 l’Oriente amazzonico rappresenta quasi il 50% dell’intera superficie nazionale ed è costituito prevalentemente da un denso bosco umido tropicale. A sua volta all’interno della RAE si possono distinguere due subregioni corrispondenti all’alto Oriente, tra i 1300 ed i 600 metri s.l.m., con temperature medie di 20°C e precipitazioni di circa 4500 mm/anno, ed il basso Oriente che, con temperature medie che superano i 24°C e precipitazioni di circa 3200 mm/anno, si estende per tutta la pianura alluvionale. In entrambe le subregioni il clima è considerato caldo umido tropicale (MAE, 2008; FAO, 2000). La Cordigliera andina presenta ventidue cime montuose con altitudini superiori ai 4.200 metri s.l.m., di cui molte sono costituite da vulcani attivi o dormienti. Nell’area compresa tra la Cordigliera Occidentale e quella Centrale si trova la celebre “strada dei vulcani”, chiamata in questo modo nel XIX secolo dal naturalista Alexander von Humboldt, lungo la quale si individuano più di dieci edifici vulcanici, tra cui il 48