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Narrazione e mappatura dei bisogni di salute

Notas do Editor

  1. Il gruppo di pazienti del caso di studio, sono tutti malati infiammatori cronici, che condividono analoghe vicissitudini di malattie: negli anni hanno sofferto di svariati e differenti sintomi e patologie, rispetto ai quali sono stati volta a volta curati dai diversi specialisti rispetto alla singola patologia d’organo. Questo ha comportato per tutti lunghi pellegrinaggi in giro, per vari specialisti, senza poter mai risolvere veramente i loro problemi. Molti di loro, in questo percorso, finiscono quasi sempre da neurologi o in reparti ospedalieri psichiatrici e – tratto comune alla maggior parte degli intervistati – vengono curati per depressione. Quando arrivano al Centro IMID hanno una diagnosi d tipo sistemico che riconduce le diverse patologie ad un’unica origine infiammatoria mediata da processi autoimmuni. Perché la scelta di questo caso? Perché i pazienti IMID costituiscono – a mio modo di vedere – un caso emblematico di quanto complesso e delicato sia l’equilibrio che lega il soggetto al suo contesto di vita. La relazione con l’ambiente non è ugualmente agevole per tutti gli individui: predisposizioni genetiche, ragioni psicologiche, fattori ambientali, sono in grado di influenzare la relazione del soggetto con se stesso, con gli altri e con il contesto, determinando il suo stato di salute. Le immunopatologie tirano in ballo tutto quanto abbiamo osservato in ordine al paradigma immunitario come metafora della condizione umana, di essere un’identità in relazione con l’alterità entro un determinato contesto. La metafora dell’immunità e del suo complesso funzionamento l’abbiamo perciò assunta come modello esplicativo della relazionalità io-mondo. I pazienti immunopatici sono l’esemplificazione immediata e diretta di ciò che accade quando questa relazionalità non funziona bene, quando essa è malata, è patologica; sono un interessante terreno di verifica dell’approccio sistemico-integrato ed ecologico e della sua necessità di essere posto a fondamento della pedagogia della salute; i malati immunopatici, con maggiore evidenza di altri, mettono tutte le professionalità della salute, in modo – secondo me – ineludibile, di fronte alla necessità di riabilitare il malato sulla malattia, di guardare all’ illness e non già solo ed esclusivamente al desease , di integrare i percorsi terapeutici meramente farmacologici con dimensioni più squisitamente pedagogiche, psicologiche, autobiografiche e sociali, in un modello veramente biopsicosociale.
  2. Approccio biografico-narrativo : consente uno sguardo d’insieme, capace di indagare l’oggetto di ricerca riuscendo a scandagliarne gli aspetti costitutivi e allo stesso tempo a ricomporlo sinteticamente in quanto ‘fatto’ insieme individuale e sociale, concreto e situazionato. Solo così è possibile cogliere le peculiarità delle istanze soggettive e allo stesso modo come esse si inscrivono nel contesto di vita, nel sistema di relazioni intersoggettive di ciascuno e più ampiamente culturali e sociali, proprie del contesto di riferimento dei soggetti interpellati.
  3. Il concetto di ‘senso comune’ è stato indagato da Serge Moscovici, il quale lo definisce come un sistema di credenze condivise, tipiche di una determinata cultura (filosofia popolare o ‘folk psychology’). Il senso comune esprime una forma di conoscenza particolare, grazie alla quale gli appartenenti ad una cultura sono in grado di far fronte alle situazioni quotidiane della vita sociale. La conoscenza che deriva dal senso comune e quella che scaturisce invece dal pensiero scientifico sono sicuramente differenti; tuttavia non sono affatto indipendenti l’una dall’altra. Infatti una teoria scientifica è destinata a far parte del senso comune attraverso processi di rielaborazione e ricostruzione che pongono in essere i gruppi sociali di quel dato contesto. Moscovici si è interessato dei dispositivi e delle condizioni attraverso cui il linguaggio scientifico si fa ‘dialetto comune’. La ‘teoria delle rappresentazioni sociali’ tenta di articolare il nesso tra fattori individuali e fattori sociali, nella costruzione di rappresentazioni che mediano costantemente le risposte comportamentali dei soggetti di fronte alle questioni quotidiane legate alla propria esistenza, comprese quelle di salute.
  4. Il concetto di ‘senso comune’ è stato indagato da Serge Moscovici, il quale lo definisce come un sistema di credenze condivise, tipiche di una determinata cultura (filosofia popolare o ‘folk psychology’). Il senso comune esprime una forma di conoscenza particolare, grazie alla quale gli appartenenti ad una cultura sono in grado di far fronte alle situazioni quotidiane della vita sociale. La conoscenza che deriva dal senso comune e quella che scaturisce invece dal pensiero scientifico sono sicuramente differenti; tuttavia non sono affatto indipendenti l’una dall’altra. Infatti una teoria scientifica è destinata a far parte del senso comune attraverso processi di rielaborazione e ricostruzione che pongono in essere i gruppi sociali di quel dato contesto. Moscovici si è interessato dei dispositivi e delle condizioni attraverso cui il linguaggio scientifico si fa ‘dialetto comune’. La ‘teoria delle rappresentazioni sociali’ tenta di articolare il nesso tra fattori individuali e fattori sociali, nella costruzione di rappresentazioni che mediano costantemente le risposte comportamentali dei soggetti di fronte alle questioni quotidiane legate alla propria esistenza, comprese quelle di salute.
  5. Il modello bio-medico è caratterizzato da un fondamentale dualismo per il quale la patologia viene scissa tra una realtà organica (che in inglese assume il termine specifico di desease ) e la parte riguardante la percezione soggettiva del malato (che in inglese viene indicata con il termine illness ). L’ illness non è pertinente, secondo il modello biomedico, per il quale piuttosto “la malattia è un evento fisico conoscibile in modo indipendente da prospettive e rappresentazioni, è un’entità che può essere presentata e analizzata in modo obiettivo. […] Le malattie hanno sede nel corpo fisico, sono biologiche e universali” [1] . Si tratta di una visione strettamente organica della malattia, di un’idea ‘hard’ di natura, dove l’osservazione diretta dei meccanismi biochimici diviene l’unica fonte di indagine, l’unica realtà rilevante a cui guardare, elemento concreto, chiaro e incontestabile, rispetto a cui le prassi discorsive dei pazienti, le loro manifestazioni comportamentali e tutto quanto accade nella relazione medico-paziente che esuli dall’oggettività del desease (ossia tutto ciò che è illness ) è superfluo o addirittura fuorviante. [1] F. Dovigo, Abitare la salute. Rappresentazioni e parole della cura , Franco Angeli, Milano 2004, p. 81.
  6. Necessaria ricentratura paradigmatica dell’organizzazione sanitaria da un modello ‘organization centered’, ossia del tipo ‘tecnico forte/utente debole’, in cui cioè il personale sanitario enfatizza il proprio ruolo all’interno di un sistema di significazione autoreferenziale e collusivamente chiuso su se stesso, mentre il paziente diviene il soggetto passivo destinatario ‘ultimo’ di prestazioni di cui deve farsi acritico ricettore, verso un modello organizzativo nuovo, ‘client oriented’, secondo una reale ‘logica del servizio’, in cui l’organizzazione si concepisce come sistema aperto, in dialogo con il contesto e con i destinatari dei suoi servizi, considerati co-attori del sistema stesso, attivi portatori di istanze da leggere ed interpretare. L’approccio sistemico-integrato ecologico è tale se coinvolge tutti i livelli, tutti i luoghi e tutti gli attori a vario titolo implicati nel fenomeno che si prende a riferimento: non ci sono ‘sacche’ entro cui possano valere altre logiche, altri criteri, magari alternativi o contrapposti, perché già quello è disfunzionale rispetto alla possibilità di una piena realizzazione di un modello di intervento coerente ed efficace.
  7. Disturbi : di questa dimensione fanno parte tutti quelli elementi della narrativa che danno conto della tipologia di disturbi così come li ha registrati e conosciuti il paziente, con i nomi da lui conosciuti (giusto o sbagliati che siano), nell’ordine e nei modi che egli decide di darli. È il suo racconto dei sintomi e non già il referto di una cartella Immagine malattia : questa dimensione accoglie quanto il paziente racconta al input da me fornito durante l’intervista di trovare una immagine embletica, particolarmente rappresentativa della sua condizione di malattia; Vissuto per dieta e cibo : dimensione riguardante tutti i vissuti, gli stati d’animo, i comportamenti, le convizioni e le credenze del paziente in ordine al significato assunto dal cibo, dopo aver avuto la diagnosi IMID e di conseguenza tutto ciò che egli collega alla dimensione della dieta restrittiva che deve mettere in atto a fini terapeutici; Star bene : è la dimensione che guarda a come il paziente si esprime in ordine a cosa sia per lui star bene, quale significato assume, cosa si aspetta rispetto alla sua condizione di salute; Relazioni sociali : come la narrativa di malattia si organizza intorno al problema delle interazioni del paziente con i suoi familiari, il gruppo di amici, i colleghi di lavoro; quale potenziale di impatto ha sul sistema delle relazioni del paziente la sua malattia e/o la terapia alimentare; Fiducia/Sfiducia : attorno a questa dimensione si vanno a coagulare gli episodi riferiti dal paziente che in qualche modo hanno avuto o hanno un peso rilevante nella possibilità di nutrire fiducia nel medico o in se stessi rispetto alla possibilità di affrontare positivamente il percorso di malattia, la terapia seguente e dunque di poter credere in un miglioramento; Cosa serve ai pazienti IMID : nell’intervista ogni paziente è stato invitato a suggerire, dal proprio punto di vista, di che cosa possano aver bisogno i pazienti IMID al fine di poter sostenere il loro percorso di malattia e cura.
  8. Riguardo alla dimensione “Disturbi” emerge chiaramente che le tipologie di sintomi sono piuttosto analoghe e ricorrenti ed anche la scansione temporale nell’arco esistenziale del paziente sono piuttosto raffrontabili e per gran parte sovrapponibili tra tutte le narrative raccolte. Fondamentalmente la comparsa dei sintomi è mediamente riscontrata nell’età adolescenziale, con un progressivo aggiungersi di disturbi via via crescenti e sempre più compromenttenti le normali e semplici azioni quotidiane, soprattutto tra i venti e i trent’anni. Si verifica poi quasi sempre un momento di ‘crisi’ che viene a configurarsi come punto di non ritorno, nel senso che da quel momento in poi la situazione precipita e degenera per il malato, che è perciò costretto ad attenzionare ancor più che in passato l’insieme dei suoi problemi per tentare di trovare una via di risoluzione. Altro connotato comune delle narrative di malattia sono i frequenti e disperanti pellegrinaggi che i malati compiono per reparti di ospedale e specialisti di varia natura, senza che il tutto possa avere qualche funzione risolutiva. Come vedremo parlando della dimensione ‘fiducia/sfiducia’ questo costituisce un fattore che incide negativamente proprio sul senso di fiducia del paziente. In tutti i racconti delle ‘odissee’ vissute per anni prima di approdare al Centro IMID emerge molto chiaramente che il momento in cui ciascuno di loro riceve la ‘diagnosi IMID’ rappresenta un vero e proprio momento di ‘rivelazione/insight’: essa assume infatti per il paziente una funzione di condensazione narrativa consentendogli una riorganizzazione della sua trama di racconto in ordine alla malattia e quindi una ridefinizione e rilettura della propria immagine/rappresentazione di malato.
  9. Le immagini evocate dai pazienti per rappresentare sinteticamente ed emblematicamente la loro malattia sembrano essere molto legate al disturbo principale di ciascun malato, ossia quello che assume un ruolo preminente nel sistema delle sintomatologie di cui ciascuno è affetto. Dominano figure che fanno riferimento alla malattia in termini di ‘vuoto’, ‘assenza di senso’, al ‘sentirsi annientato’, ‘annullato’, ‘sensazione di essere nulla’; e ancora in modo molto affine, alcuni associano immagini di vecchiaia, di ‘pianta secca’, ossia figure che hanno a che fare con l’esistere in una condizione di assenza di vitalità, di energia; in un caso si fa espressa associazione alla morte; in due casi vengono usate le immagini di: ‘tunnel grigio senza uscita’ e ‘pozzo nero senza fondo’; in altri due casi vengono evocate figure di animali che starebbero nel corpo e lo scaverebbero (si tratta di due pazienti che in generale hanno sofferto di dolori artitrici e disfunzioni intestinali); due pazienti parlano infine della malattia come ‘inferno’ e uno di essi ci si vede dentro accanto al diavolo sulle fiamme.
  10. Il vissuto di dieta e cibo è il perno delle narrative degli intervistati, ne è anche il nodo problematico, perché il passaggio alla terapia nutrizionale, dopo la diagnosi IMID, appare anch’esso caricarsi della valenza di un nuovo ‘punto-discrimine’ per la loro esistenza. È un fattore rilevante nel determinare la quotidianità del malato e la sua vita relazionale. Si evidenzia spesso una difficoltà, soprattutto di ordine emotivo, culturale e sociale nell’approcciare la dieta restrittiva legata alla difficoltà di risemantizzare il cibo, alla luce della diagnosi ricevuta e delle allergie e intolleranze riscontrate. Molti per paura di ritornare ad avere i sintomi provano repulsione per il cibo e quindi si attengono rigorosamente alla dieta, senza trasgressioni. Per altri invece non è facile sottrarsi alle tentazioni: riconoscono al cibo un valore importante, di soddisfazione, di socialità, di realizzazione; senza di esso comunque non sentono di vivere bene. Quella della dieta/cibo rappresenta una delle dimensioni più problematiche del fenomemo oggetto di studio, da cui è sicuramente necessario partire per andare poi ad allargare il raggio di azione di un possibile intervento pedagogico. Il nodo problematico sembra essere l’ambivalenza dei significati attorno al ‘cibo’, contemporaneamente ‘fonte di nutrimento’ e ‘fonte di intossicazione’. L’altra questione è che la terapia nutrizionale rende l’obiettivo di salute un vero e proprio compito per il soggetto: la sua salute dipende dalla sua partecipazione attiva e consapevole alla terapia, ed egli diviene il responsabile principali del successo della stessa e del suo mantenimento nel tempo.
  11. A queste problematiche è legata anche la dimensione dello ‘star bene’ che per i pazienti intervistati è influenzata dalla possibilità di poter o meno mangiare liberamente. In linea generale c’è la consapevolezza di non poter recuperare una condizione, diciamo così, originaria, ossia una condizione in cui si possa star bene e contemporaneamente mangiare tutto quello che si vuole. In quasi tutti vi è il senso della necessità della ricerca di un punto di equilibrio che riesca a tenere insieme tutte le varie istanze del soggetto, sia di salute che più in generale di realizzazione e soddisfazione personale, per non stare peggio, riuscire a tenere sottocontrollo i sintomi, regolare i processi infiammatori. Questa prospettiva appare, in quasi tutte le narrative, una meta da raggiungere, sempre in fieri, piuttosto che un risultato già conquistato. L’incidenza della terapia nutrizionale e dei sintomi nella vita, nel quotidiano più minuto e semplice, fa sì che nella determinazione del senso di ‘star bene’ contribuiscano molti contingenti fattori, che investono – evidentemente – non solo la condizione ‘organica’, ma anche e soprattutto la percezione e valutazione soggettiva da parte del paziente della qualità della propria vita. Ciò anche in virtù del fatto – come già si è detto – che la terapia nutrizionale impone gioco-forza ai pazienti una ristrutturazione dell’esistenza, in tutti i rapporti sociali più significativi che la costituiscono (familiari, amicali, lavorativi). La percezione di sé può uscirne alterata, ragion per cui si rende necessario un lavoro di risignificazione del proprio tempo, del proprio menage quotidiano e di se stessi, che non sempre i pazienti sono in grado di porre in essere.
  12. La dimensione ‘fiducia/sfiducia’ rappresenta un punto sensibile, perché va ad incidere notevolmente su qualunque percorso si voglia porre in essere con questi pazienti, a cominciare proprio dalla terapia nutrizionale. Ecco perché un primissimo intervento volto al rafforzamento del senso di fiducia personale e dell’autoefficacia sarebbbe assolutamente necessario proprio per poter avere qualche possibilità di successo in sede di attuazione della terapia, visto e considerato che essa presenta le problematicità che abbiamo fin qui evidenziato. Il file rouge che attraversa i racconti è l’enorme sfiducia nei confronti dei medici e la disapprovazione per il loro modo di relazionarsi: molti pazienti denuncia il disagio e la frustazione che ha ricavato costantemente dall’interazione con i medici, che è andato a sommarsi e ad appesantire la già difficile situazione di sofferenza e pessimismo legati alla malattia.
  13. l’ultima dimensione è una preziosa spia di ciò che i pazienti soggettivamente pensano sia loro necessario per star bene, seguire la terapia e vivere così la loro condizione nel modo migliore e più agevole possibile. Il dato più rilevante è che la maggior parte di loro usa termini come ‘ascolto’, ‘parola’, ‘confrontarsi’, ‘dialogo’, ‘informazione’ (un paziente ha detto ‘la parola aiuta’): ossia è molto chiaro il bisogno diffuso di parlare, raccontarsi, confrontarsi con chi condivide lo stesso problema, non sentirsi isoli, abbandonati, senza punti di riferimento. A conforto di questo posso aggiungere che durante lo svolgimento delle interviste ho sempre ricevuto dai pazienti molti ringraziamenti per ‘la bella chiaccherata’: mi hanno raccontato di essersi trovati bene, che la conversazione li aveva fatti stare bene e che avevano passato un bel momento; alcuni hanno espresso il desiderio di poter essere contattato ancora di avere altre occasioni di quel tipo.