Tesina a cura della dott.ssa Raffaella trentadue - Corso di formazione "valore nutrizionale e salutistico di prodotti agroalimentari” - Università degli studi di Bari luglio 2012
3. 5.1 Raccolta delle olive pag 77
5.2 Trasporto al frantoio e stoccaggio delle olive pag 79
5.3 Molitura e frangitura pag 82
5.4 Gramolazione della pasta delle olive pag 84
5.5 Estrazione dell’olio pag 85
5.6 Stoccaggio dell’olio prodotto pag 91
4. 1
1. ANALISI CHIMICA DEI COSTITUENTI MINORI DEGLI OLI EXTRAVERGINE DI OLIVA
1.1 Composizione chimica dell’olio extra‐vergine di oliva
L’olio extravergine di oliva è una delle principali fonti di grassi nella cosiddetta dieta mediterranea ed
ha una composizione chimica del tutto peculiare ed una qualità nutrizionale notevolmente superiore
rispetto agli altri oli ottenuti da semi. Si ottiene unicamente per estrazione meccanica e può essere
consumato direttamente senza alcun ulteriore trattamento fisico‐chimico di raffinazione e
rettificazione.
Come la maggior parte dei grassi vegetali, l’olio extravergine di oliva è costituito per il 98‐99% da una
miscela di gliceridi (esteri del glicerolo con acidi grassi) detta anche frazione saponificabile e, per il
rimanente 1‐2%, da un insieme di costituenti secondari che rappresentano la frazione di natura non
gliceridica cioè insaponificabile. Mentre i componenti della prima frazione sono pressocchè uguali in
tutti gli oli di oliva, quelli della seconda, subiscono variazioni qualititative e quantitative tali da
comportare una netta differenziazione (organolettica, nutrizionale, dietetica e merceologica).
I costituenti principali della frazione saponificabile sono i trigliceridi, solitamente in percentuale
superiore al 95%; in origine si trovano quasi esclusivamente nella polpa delle olive, sono fonte di
energia per l’organismo umano, infatti apportano acidi grassi essenziali cioè non riproducibili
dall’organismo, favoriscono l’assorbimento di vitamine liposolubili, hanno un’azione protettiva (quelli
insaturi) per l’azione verso i radicali liberi e il colesterolo nell’organismo; in piccola percentuale sono
presenti anche digliceridi, monogliceridi ed acidi grassi liberi.
Gli acidi grassi presenti nei gliceridi dell’olio extravergine di oliva sono in prevalenza monoinsaturi
(con un solo doppio legame lungo la catena alifatica) e, in minori concentrazioni, saturi (senza doppi
legami) e polinsaturi (con 2 o 3 doppi legami).
Gli acidi grassi più rappresentativi sono i saturi palmitico (C16:0) e stearico (C18:0); i monoinsaturi
palmitoleico (C16:1) ed oleico (C18:1) ed i polinsaturi linoleico (C18:2) e linolenico (C18:3). Questi ultimi
sono acidi grassi essenziali (AGE), rispettivamente precursori degli acidi grassi ω‐6 ed ω‐3, che devono
essere introdotti con l’alimentazione in quanto l’organismo umano non è in grado di sintetizzarli.
I composti minori dell’olio extravergine di oliva pur essendo presenti in modeste quantità
costituiscono un numeroso gruppo di sostanze chimiche (più di 230) che svolgono un ruolo
5. 2
importante sia dal punto di vista nutrizionale‐salutistico che organolettico; essi rappresentano anche
un prezioso riferimento analitico per il controllo di genuinità del prodotto.
I costituenti secondari dell’olio extravergine di oliva appartengono a diverse classi e possono essere
distinti in composti saponificabili (fosfolipidi, cere e sfingolipidi) ed insaponificabili (idrocarburi,
tocoferoli, alcoli alifatici superiori, steroli, metilsteroli, alcoli diterpenici e triterpenici, vitamine,
pigmenti ed ubichinoni) (Tabella 1).
Tabella 1. Costituenti minori presenti nell’olio extra‐vergine di oliva.
a) Composti saponificabili
Fosfolipidi Fosfatidilcolina, fosfatidiletanolammina.
Chimicamente sono dei derivati dell’acido glicerofosforico, presenti in quantità variabili ma
mai elevate.
Cere Miscele complesse di esteri di acidi grassi a lunga catena con alcoli superiori. Costituiscono il
rivestimento protettivo della drupa.
Sfingolipidi Ammidi di acidi grassi con basi a lunga catena.
b) Composti insaponificabili
Idrocarburi Costituiscono oltre il 50% della frazione insaponificabile nell’olio extra‐vergine di oliva.
Tra gli idrocarburi saturi il nonacosano è il predominante, tra gli insaturi il componente più
presente è lo squalene (precursore biosintetico di tutti gli steroli).
Tocoferoli α‐, β‐ e γ‐tocoferolo. Sono responsabili della stabilità ossidativa dell’olio.
Alcoli alifatici superiori Docosanolo, tetracosanolo, esacosanolo.
Si trovano prevalentemente esterificati con acidi grassi e formano le cere che ricoprono il
frutto.
Steroli β‐sitosterolo si oppone all’assorbimento intestinale del colesterolo.
Campesterolo, stigmasterolo, ∆ 5‐avenasterolo.
6. 3
Metilsteroli Obtusifoliolo, gramisterolo, citrostadienolo, isocitrostadienolo.
Presenti in quantità molto basse (circa 150 ppm).
Alcoli terpenici Alcoli diterpenici, triterpenici, dialcoli triterpenici.
Il cicloartenolo (alcool triterpenico) favorisce l’eliminazione del colesterolo in seguito
all’aumento della secrezione degli acidi biliari.
Eritrodiolo ed uvaolo (dialcoli triterpenici) provengono dalla buccia.
Vitamine Liposolubili (A, D, PP, H).
Pigmenti Carotenoidi (β‐carotene, luteina) responsabili delle tonalità gialle dell’olio.
Clorofille (clorofilla, feofitine) responsabili delle tonalità verdi.
Ubichinoni Coenzima Q10 presente in quantità variabili da 0 a 40 ppm.
Chimicamente costituiti da un nucleo 2,3‐dimetossi‐5‐metilbenzochinone con una catena
laterale (in posizione 6) formata da 6 a 10 unità isopreniche.
1.2 La componente antiossidante dell’olio extra‐vergine di oliva: i composti a struttura fenolica
Nella frazione insaponificabile dell’olio extravergine di oliva si ritrovano i cosiddetti antiossidanti
naturali rappresentati da caroteni, tocoferoli e sostanze fenoliche idrofiliche. Questi antiossidanti
sono le molecole maggiormente correlate con le proprietà salutistiche dell’olio extravergine di oliva,
però bisogna sottolineare che mentre i tocoferoli ed i carotenoidi si possono ritrovare anche in altri
grassi vegetali o animali, le sostanze fenoliche idrofiliche sono presenti esclusivamente nell’olio
vergine ed extravergine di oliva. Queste sostanze chimiche appartengono a diverse classi come alcoli
alifatici e terpenici, steroli, cere, idrocarburi, carotenoidi, pigmenti, vitamine, composti volatili e
sostanze fenoliche. I carotenoidi e le clorofille caratterizzano il colore dell’olio, le clorofilla
conferiscono all’olio il colore verde, mentre i carotenoidi sono responsabili del colore giallo.
Mediamente la quantità di sostanze fenoliche presenti nell’olio extravergine di oliva oscilla tra 60 e
400 mg/Kg. Questi composti sono quelli maggiormente correlati con le proprietà salutistiche dell’olio.
I composti fenolici dell’olio extravergine di oliva si originano durante il processo di estrazione
meccanica dell’olio (principalmente durante la frangitura e la gramolatura) a partire da alcuni
composti presenti nel frutto dell’oliva in seguito all’azione di enzimi idrolitici (β‐glucosidasi) a partire
7. 4
da glucosidi complessi presenti nel frutto dell’oliva tra i quali emergono l’oleuropeina e la
dimetiloleuropeina; questi composti glucosidici sono anche i responsabili del sapore amaro delle
olive.
La composizione qualitativa e quantitativa delle sostanze fenoliche dell’olio vergine ed extravergine di
oliva dipende da molteplici fattori quali cultivar, metodo di coltivazione, grado di maturazione della
drupa, tecnologia di estrazione utilizzata, nonché modalità di conservazione dell’olio.
I composti fenolici e polifenolici dell’olio extra‐vergine di oliva, detti anche biofenoli, sono stati
individuati più di 100 anni fa da un chimico italiano, Canzonieri (1906)(1); da allora, e soprattutto negli
ultimi 50 anni, le ricerche in questo campo sono aumentate ed hanno portato alla conoscenza delle
principali strutture chimiche dei composti che costituiscono tale frazione (2,3). Attualmente i biofenoli
dell’olio extravergine di oliva vengono distinti in cinque classi principali (Tabella 2).
Tra i composti a struttura più semplice si considerano i fenil‐alcoli (i cui rappresentanti peculiari sono
l’idrossitirosolo ed il tirosolo) ed i fenil‐acidi che derivano dall’acido benzoico e cinnamico; tra le
molecole a struttura più complessa vi sono i flavonoidi (luteolina ed apigenina), i secoiridoidi (in
particolare gli agliconi dell’oleuropeina e del ligstroside con le relative forme dialdeidiche) ed i lignani
(pinoresinolo e acetossipinoresinolo).
10. 7
0% al 40%. In alcuni casi prima di procedere con l’estrazione LLE viene aggiunto all’olio di oliva un
solvente lipofilico che può essere l’esano (nella maggior parte dei casi) o l’etere di petrolio o il
cloroformio; tale aggiunta viene effettuata al fine di migliorare la capacità di recupero delle sostanze
fenoliche.
Attualmente la maggior parte dei protocolli di LLE prevedono che l’aliquota di olio di oliva venga
disciolta in esano e poi venga aggiunta la soluzione metanolo/acqua. La miscela ottenuta viene agitata
su vortex per un minuto ed in seguito centrifugata a 3000 g per 5 minuti. Dopo la centrifugazione
viene recuperata la fase idroalcolica nella quale sono presenti le sostanze fenoliche (l’estrazione viene
ripetuta per 2 volte).
La frazione fenolica estratta viene concentrata sotto vuoto a 35 o
C mediante evaporatore rotante (es.
ROTAVAPOR); questa apparecchiatura viene utilizzata comunemente per allontanare i solventi da una
soluzione di un composto di interesse tramite evaporazione a bassa pressione.
L’estratto fenolico, dopo essere stato risospeso in una soluzione metanolo/acqua, viene filtrato (con
filtro da 0,45 µm) e conservato a ‐20 o
C.
L’estrazione delle sostanze fenoliche dalla matrice oleosa condotta su fase solida viene effettuata
utilizzando come fase adsorbente delle cartucce C18 (Octadecil‐silano) e come solvente di eluizione il
metanolo o l’acetonitrile.
Dal confronto tra i due metodi utilizzati per estrarre i composti fenolici dall’olio extra‐vergine di oliva
sono emersi risultati contrastanti. Infatti alcuni autori (Servili et al., 1999) (1) hanno dimostrato che
l’estrazione in fase liquida condotta con metanolo/acqua è molto più efficiente nel recupero dei
derivati dei secoiridoidi, mentre lo è molto meno per i fenoli semplici dell’olio extra‐vergine di oliva.
L’estrazione in fase solida presenta un comportamento opposto alla LLE. Tuttavia è stato osservato
che sostituendo il solvente di estrazione sia in fase liquida che solida con acetonitrile i risultati
cambiano nel senso che tra i due metodi non c’è alcuna differenza in termini di recupero delle
sostanze fenoliche presenti nella matrice oleosa.
1.4 Analisi spettrofotometrica della componente fenolica dell’olio di oliva
La concentrazione fenolica totale presente nell’olio extravergine di oliva può essere determinata
spettrofotometricamente con il metodo colorimetrico che prevede l’utilizzo del reattivo di Folin‐
11. 8
Ciocalteau sull’estratto fenolico ottenuto dall’olio di oliva. Questo metodo si basa sull’ossidazione
chimica dei composti fenolici da parte di una miscela ossidante costituita da acido fosfotungstico
(H3PW12O40) e fosfomolibdico (H3PMo12O40) che, riducendosi, forma una miscela di ossidi (W8O23 e
Mo12O40) colorata di azzurro che presenta un massimo assorbimento a 750 nm.
Prima della lettura allo spettrofotometro si costruisce una curva di calibrazione in funzione
dell’assorbanza a 750 nm di diverse soluzioni a concentrazioni crescenti di acido gallico.
Il valore di concentrazione dell’estratto fenolico dell’olio extravergine di oliva viene calcolato
mediante interpolazione dalla retta di calibrazione (Fig 1). Questo tipo di analisi è espresso mediante
dei coefficienti "K" che rappresentano l'assorbimento da parte dell'olio all'esposizione di luce
ultravioletta in particolari condizioni. Il coefficiente di estinzione molare alla lunghezza d'onda,
rispettivamente di 230 nm e di 270 nm, indica lo stato ossidativo dell'olio, poiché si possono formare
dieni e trieni coniugati durante l'ossidazione del prodotto. Tale metodica di analisi è in grado quindi
di stabilire la presenza di tagli ad oli extravergini, ed in primis stabilisce se si tratta di un olio di oliva
extravergine oppure di un qualsiasi altro olio di oliva. L'esame UV viene condotto sull'olio disciolto in
opportuno solvente (cicloesano o isoottano) nell'intervallo compreso tra 220 e 280 nm. Le lunghezze
d'onda più significative sono 232, 262, 268 e 274 nm. I valori di assorbimento vengono espressi come
assorbanza specifica o coefficiente di estinzione molare, intendendo con questa espressione
l'assorbanza ad una certa lunghezza d'onda di una soluzione all'1 % dell'olio in esame nel solvente
prescelto, osservata in una cella dello spessore di 1 cm.
Per quanto riguarda il solvente, il Metodo Ufficiale indica l'isoottano, mentre in passato era usato
generalmente il cicloesano.
Fig 1 : Analisi spettrofotometrica dell’olio extravergine di oliva
12. 9
Nell’analisi UV dell’olio si usa esprimere l'assorbanza specifica con la lettera K. Ad esempio K268 indica
l'assorbanza specifica dell'olio in esame alla lunghezza d'onda di 268 nm.
K268 = A (1 cm/1%(268 nm)) = A268/ C *b
dove A268 è il valore dell'assorbanza a 268 nm della soluzione dell'olio in esame, C la concentrazione
della soluzione espressa in g/100 ml e b lo spessore in cm della cella di quarzo nella quale viene
esaminata la soluzione dell'olio in esame.
1.5 Separazione e valutazione delle frazioni contenute nell’estratto fenolico dell’olio extravergine
di oliva
High Performance Liquid Chromatography (HPLC)
In letteratura sono riportati diversi metodi per la determinazione delle sostanze fenoliche presenti
nell’olio extravergine di oliva; le principali differenze tra i metodi proposti sono riconducibili a
differenti procedure per la separazione dei composti fenolici dalla matrice oleosa ed a diversi sistemi
di rivelazione per la valutazione qualitativa/quantitativa.
L’analisi della componete fenolica dell’olio extravergine di oliva viene effettuata essenzialmente
attraverso tecniche cromatografiche, di queste la più usata è la High Performance Liquid
Chromatography (HPLC) (Fig. 2) La cromatografia è un metodo chimico‐fisico di separazione che
sfrutta la tendenza delle varie sostanze a distribuirsi, secondo determinati rapporti tra due fasi
distinte e separate di cui una è mantenuta fissa e l’altra è mobile.
L’analisi HPLC consente la separazione dei singoli composti fenolici sulla base del diverso peso
molecolare e della differente polarità. I risultati quantitativi che si ottengono con questa tecnica non
sono direttamente confrontabili con quelli ottenuti mediante il metodo colorimetrico che fornisce
invece informazioni relative alla componente fenolica totale.
Il metodo strumentale dell’HPLC è il frutto dell’evoluzione tecnologica che la cromatografia su
colonna in fase liquida ha subito in tempi recenti e che ha trasformato la semplice colonna di vetro
contenente la fase fissa in apparecchi elettronici complessi.
In questa tecnica cromatografica i composti presenti in un solvente vengono separati sfruttando
l’equilibrio di affinità tra una fase stazionaria posta all’interno della colonna cromatografica ed una
13. 10
fase mobile che fluisce attraverso essa. La fase stazionaria è impaccata in una colonna chiusa con
materiali con granulometria molto fine (5‐10mm), in tal modo viene aumentata la superficie di
contatto tra fase mobile e fase stazionaria e l’impaccamento diventa più omogeneo. Utilizzando
queste colonne è necessario che la fase mobile venga fatta fluire ad alta pressione perché, attraverso
colonne con impaccamento a granulometria così fine, il flusso dell’eluente diventa molto lento. Con
l’impiego di pompe particolari, capaci di applicare pressioni di 50‐150 atm, si possono ottenere flussi
di alcuni ml/min, sufficienti ad ottenere l’eluizione in tempi brevi. Le fasi stazionarie utilizzate per la
separazione dei composti fenolici lavorano in fase inversa cioè sono meno polari delle fasi mobili. Le
sostanze più affini alla fase stazionaria rispetto alla fase mobile impiegano un tempo maggiore per
percorrere la colonna cromatografica (tempo di ritenzione) rispetto a quelle con bassa affinità per la
fase stazionaria ed alta per la fase mobile.
Fig 2: Schema generale di un apparecchio HPLC.
14. 11
Nell’HPLC il campione da analizzare viene caricato all’inizio della colonna cromatografica e viene
spinto attraverso la fase stazionaria dalla fase mobile applicando pressioni dell’ordine delle centinaia
di atmosfere mediante una pompa.
In un metodo di caricamento del campione si utilizza una microsiringa in grado di sostenere pressioni
elevate. Il campione viene iniettato attraverso un foro d’iniezione direttamente nella colonna o in uno
strato di materiale inerte immediatamente precedente la colonna. Questa operazione può essere
compiuta mentre il sistema è sotto alta pressione oppure si spegne la pompa prima dell’iniezione e
quando la pressione è scesa al valore di quella atmosferica si inietta il campione e si riaccende la
pompa. Quest’ultimo metodo viene chiamato iniezione a flusso interrotto.
Un altro metodo per introduzione del campione (il più usato in HPLC) è quello che utilizza un iniettore
a spirale costituito da un occhiello metallico inserito lungo il capillare che alimenta la colonna. In esso
viene introdotto il campione quindi, tramite una valvola, l’eluente viene incanalato nell’occhiello e
cosi il campione si trova ad essere spinto nella colonna dall’eluente stesso, senza che il flusso di
solvente si interrompa. La caratteristica principale del sistema di iniezione tramite loop è l’alta
riproducibilità dei volumi iniettati (Fig. 3)
Fig. 3: Sistema di iniezione con loop
La fase stazionaria e mobile in HPLC
Le colonne per HPLC sono di solito costruite in acciaio, ma esistono anche quelle in vetro borosilicato
che vengono impiegate soprattutto quando si lavora a pressioni non troppo elevate. Alle due
estremità delle colonne sono presenti dei setti perforati di acciaio inossidabile, o di teflon, che
15. 12
servono a trattenere il materiale in essa contenuto. I setti devono essere omogenei per consentire un
flusso uniforme di solvente.
La lunghezza delle colonne è di solito compresa tra 10 e 30 cm, ma è possibile disporre di colonne più
lunghe per particolari esigenze. Il diametro interno delle colonne è compreso tra 4 e 10 mm; quello
delle particelle del riempimento varia tra 3,5 e 10 µm. Esistono anche modelli di colonne, di recente
progettazione, più corte e sottili che permettono tempi di ridurre il tempo di analisi ed il consumo di
solvente.
Le colonne HPLC hanno una maggiore risoluzione dovuta all’impiego di fasi stazionarie suddivise
molto finemente allo scopo di aumentare la superficie di contatto tra fase mobile e fase stazionaria ed
avere un migliore impaccamento.
Per ottenere un’elevata efficienza nella separazione è necessario che le dimensioni delle particelle del
riempimento siano molto ridotte, per questo motivo è indispensabile applicare un’elevata pressione
se si vuole mantenere una ragionevole velocità di flusso dell’eluente e quindi un tempo di analisi
adeguato.
Le fasi stazionarie utilizzate per la separazione dei composti fenolici contenuti nell’olio extra‐vergine
di oliva lavorano in fase inversa (RP‐HPLC) ovvero sono meno polari della fase mobile.
Le fasi stazionarie inverse sono in genere formate da silice su cui sono legati dei gruppi non polari; tra
questi quelli più spesso legati alla superficie del supporto sono i gruppi organici: ‐CH3, ‐C8H17, ‐C18H37.
Di questi il gruppo a 18 atomi di carbonio (gruppo ottadecil) è il più frequente. I nomi comunemente
usati per questo tipo di fase stazionaria sono ODS e C18.
Con questo tipo di fase stazionaria non polare di solito l’eluizione viene condotta con fase mobile
polare, che è quasi sempre costituita da una miscela di un solvente polare e di uno non polare, in
modo da poterne variare la forza mediante la composizione (eluizione in gradiente di polarità). In
questo caso le sostanze polari presenti nel campione verranno eluite per prime dalla fase mobile.
I sistemi di rivelazione
La valutazione qualitativa e quantitativa delle separazioni cromatografiche si può ricavare
sottoponendo gli eluiti ad ulteriori misurazioni che possono essere eseguite in continuo. Queste si
possono ottenere facendo passare l’eluito attraverso un rivelatore strumentale che registra la
variazione di una determinata proprietà dell’eluito mentre questo lo attraversa.
16. 13
I rivelatori più ampiamente usati per l’HPLC si basano sulla misura dell’assorbimento della luce UV o
visibile da parte del campione da analizzare.
La variazione di una proprietà nel tempo può essere registrata su carta oppure immagazzinata in un
file di un computer; il grafico che si ottiene è formato da una serie di picchi e prende il nome di
cromatogramma.
L’analisi dei picchi cromatografici ci permette di individuare la presenza di uno specifico componente
(analisi qualitativa) e di quantificare le sostanze presenti nella miscela (analisi quantitativa). L’analisi
quantitativa può essere effettuata in base al fatto che il segnale prodotto dal rivelatore è, ad ogni
istante, proporzionale al flusso delle molecole eluite (cioè massa nell’unità di tempo, s = dm/dt); si
deduce che la quantità totale di sostanza eluita sarà data dall’integrale m = ∫s dt cioè dall’area della
curva sottesa al picco cromatografico.
Le tecniche HPLC adottate nella separazione e valutazione dei composti fenolici presenti nell’estratto
fenolico dell’olio extra‐vergine di oliva differiscono tra loro per il metodo di rivelazione applicato.
Il sistema di rivelazione più usato per l’identificazione delle sostanze fenoliche è quello ad
assorbimento a serie di diodi. Nel rivelatore a serie di diodi (DAD) la luce UV proveniente da una
lampada a deuterio passa attraverso una cella a flusso prima che venga scissa nelle sue componenti
attraverso un monocromatore a gradini. L’intensità della luce trasmessa ad ogni lunghezza d’onda
viene misurata simultaneamente attraverso un sistema di alcune centinaia di fotodiodi. Un computer
può processare, registrare e mostrare gli spettri di assorbimento in continuo durante l’analisi; inoltre
si possono registrare i cromatogrammi a ciascuna λ.
18. 15
Il principio di funzionamento del detector a fluorescenza è il seguente: la luce UV proveniente da una
lampada (filtrata alla opportuna λ) o da un laser passa attraverso la cella a flusso; quando un
campione fluorescente passa attraverso la cella, assorbe la radiazione, viene eccitato e quindi
emetterà la radiazione di fluorescenza ad una maggiore λ. L’intensità della luce emessa viene
misurata attraverso un fotomoltiplicatore posto a 90o
rispetto al fascio incidente.
L’utilizzo del rivelatore a fluorescenza si è dimostrato molto efficace per la valutazione dei composti
fenolici rispetto agli altri tipi di detectors (in particolare per i lignani) (Brenes et al. 2000) (4).
Fig. 5: Schema rappresentativo di un detector fluorimetrico.
Un altro tipo di rivelatore utilizzato per l’identificazione delle sostanze fenoliche presenti nell’olio
extra‐vergine di oliva è lo spettrometro di massa applicato all’HPLC (HPLC‐MS). Lo spettrometro di
massa misura il rapporto massa/carica (m/z) degli ioni che vengono prodotti dal campione.
Per ottenere uno spettro di massa le molecole, portate in fase gassosa, vengono ionizzate in una
sorgente di ionizzazione. Una delle sorgenti più comuni è quella ad impatto elettronico (EI) (Fig. 5)
nella quale le molecole vengono bombardate con un fascio di elettroni ad alta energia. Quando gli
elettroni ad alta energia interagiscono con una molecola, non solo si ha la sua ionizzazione, ma alcuni
legami si rompono e si formano cosi anche dei frammenti che sono comunque molto utili per
l’identificazione delle specie molecolari che entrano nello spettrometro di massa. Anche se nella
sorgente ionica vengono prodotti contemporaneamente sia ioni positivi che negativi, viene scelta solo
19. 16
una polarità e lo spettro consisterà o di soli ioni positivi o di soli ioni negativi. Le molecole non
ionizzate ed i frammenti neutri vengono allontanati dal sistema di pompaggio dello strumento. Gli
spettri di massa di ioni positivi sono quelli più comunemente misurati con la tecnica EI, dato che il
numero di ioni negativi generati è decisamente minore rispetto a quello degli ioni positivi. Questi
ultimi vengono guidati nell’analizzatore mantenendo la sorgente ionica ad un potenziale positivo
rispetto a quello dell’analizzatore e focalizzando il fascio ionico mediante opportuni potenziali
applicati ad un sistema di lenti situate tra la sorgente e l’analizzatore. Il ruolo dell’elettrodo repulsore,
al quale viene applicato un potenziale positivo, è quello di provocare l’espulsione degli ioni dalla
sorgente ionica. Gli ioni negativi e gli elettroni vengono attratti sull’elettrodo collettore degli elettroni
carico positivamente.
Fig. 5 Ionizzazione ad impatto elettronico.
Un’altra tecnica di ionizzazione largamente usata in HPLC (più soft rispetto all’impatto elettronico) è
l’Elettrospray Ionization (ESI) (Fig. 6) nella quale le frazioni in uscita dall’HPLC passano attraverso un
capillare a pressione atmosferica mantenuto ad alto voltaggio. L’alto voltaggio disperde il flusso del
liquido e lo trasforma in tante piccole goccioline altamente caricate e del diametro di alcuni µm.
L’evaporazione del solvente causa un’ulteriore riduzione del diametro delle gocce e quindi un
aumento della densità di carica. L’aumento delle cariche sulla superficie delle gocce induce una forza
repulsiva che culmina con una esplosione coulombiana, che riduce ulteriormente il diametro delle
gocce.
20. 17
Questo processo continua fino a che le gocce non sono abbastanza piccole da permettere allo ione
dell’analita il passaggio alla fase gassosa. Per facilitare la formazione delle gocce in uscita dal capillare
può essere aggiunto un flusso nebulizzato di azoto. In alcuni casi, per facilitare il processo di
evaporazione del solvente, all’ingresso del capillare viene applicato un flusso di azoto anidro.
Fig. 6: Elettrospray ionization
Il campione, ionizzato mediante esplosione coulombiana, viene posto nelle condizioni ottimali per
essere analizzato.
L’analizzatore di massa separa gli ioni sulla base dei loro valori m/z. I più comuni analizzatori sono il
filtro di massa a quadrupolo e la trappola ionica, dove avviene l’immagazzinamento degli ioni nello
spazio compreso tra l’elettrodo anulare e l’elettrodo di chiusura terminale.
Il campo elettrico oscillante espelle sequenzialmente gli ioni con valori m/z crescenti.
L’accoppiamento HPLC‐MS è stato tentato già molti anni fa (fine anni ’60) ma soltanto dalla metà
degli anni ’70 sono apparse le prime pubblicazioni scientifiche.
Le difficoltà di tutti i metodi HPLC‐MS derivano dal fatto che in HPLC si utilizzano solventi molto
diversi, in funzione del tipo di analisi (es. acqua, solventi organici, tamponi); inoltre i flussi di solvente
in HPLC sono molto più elevati rispetto a quelli richiesti per lo spettrometro di massa. Per accoppiare
22. 19
2. VALUTAZIONE BIOCHIMICA E BIOLOGICO MOLECOLARE DEL VALORE ANTIOSSIDANTE DEI
COSTITUENTI MINORI E DELL’IMPATTO SULLA BIOENERGETICA CELLULARE
I fenoli (tirosolo e idrossitirosolo) sono un gruppo diversificato di composti contenenti un anello
aromatico con uno più sostituenti ossidrilici. Il gruppo funzionale caratteristico dei composti fenolici è
un ossidrile (–OH) legato direttamente a un carbonio di un anello benzenico (Fig 1).Tale struttura
influenza le proprietà di questi composti poiché il gruppo ossidrilico attiva le reazioni di sostituzione
elettrofila nell’anello aromatico in quanto vi è la presenza di elettroni “mobili” o “disponibili”.
Le molecole con attività caratteristiche della struttura o‐diidrossi, sono caratterizzate da un elevata
attività antiossidante dovuta alla formazione di legami idrogeno intramolecolari durante la reazione
con i radicali liberi. La capacità di donatore idrogeno e l’inibizione dell’ossidazione cresce con
l’aumentare dei gruppi idrossido nei fenoli, conferendo alla presenza di un singolo gruppo idrossido
una limitata attività antiossidante, e tra i diversi composti è stata individuata una maggiore attività
antiossidante per quelli dotati di due ossidrili in posizione orto, in virtù di una maggiore capacità di
delocalizzazione della forma radicalica. Molte sostanze presenti in natura nei vegetali hanno la
capacità di reagire con i radicali liberi. Alcune di esse interrompono le reazioni a catena che portano
alla formazione di ulteriori radicali, impedendo così la propagazione del danno cellulare; altre
svolgono una funzione di scavenger dei ROS, ossidandosi a loro volta e richiedendo di essere
rigenerate per riacquistare la loro funzione.
Fig 1: composti chimici del tirosolo e idrossitirosolo
23. 20
A questi composti fenolici, sono stati attribuiti effetti rilevanti nella prevenzione primaria e secondaria
di alcuni importanti patologie cardiovascolari, oncologiche, invecchiamento precoce, degenerative del
sistema nervoso, e più recentemente anche nella spermatogenesi, tutte patologie legate alla presenza
eccessiva di “radicali liberi” e proossidanti non radicalici ed ai loro effetti degenerativi. La dieta
mediterranea è associata ad una più bassa incidenza di diverse tipologie tumorali (prostata, polmone,
laringe, ovaio, seno, colon) ma non solo, anche di malattie cardiovascolari e neurodegenerative,
invecchiamento precoce, tutte condizioni associate a stress ossidativo (Visioli et al 1998; Owen et al
2000; Hodge et al 2004; Fortes et al 2003; Bosetti et al 2002 a, b; Trichopoulou et al 1995; Stoneham
et al 2000).
Tra i differenti composti fenolici presenti nell’olio di oliva l’idrossitirosolo è quello maggiormente
studiato ed è stato dimostrato possedere proprietà antiaterogeniche.
L’aumento del consumo di polifenoli, si associa una riduzione del rischio di malattie cardiovascolari,
di tumori, di disordini neurodegenerativi, dell’aterosclerosi, suggerendo che gli effetti benefici siano
da attribuirsi, soprattutto, alla capacità dei polifenoli di combattere lo stress ossidativo che
caratterizza e accomuna queste patologie. Il loro potere antiossidante dipende dal numero di anelli
fenolici, dal numero e posizione di gruppi idrossilici e di doppi legami presenti nella molecola ed è
determinato in particolare dalla presenza di un anello‐B diidrossilato (gruppo catecolico), di
un’insaturazione in posizione 2,3 associata ad una funzione 4‐carbonilica nell’anello ‐C e di gruppi
funzionali capaci di chelare i metalli di transizione. Le proprietà antiossidanti sono state considerate
per molto tempo la principale funzione dei polifenoli, ma, alla luce di nuovi dati sperimentali, questo
sembra essere un modo troppo semplice e riduttivo di considerare la loro attività. Nei sistemi biologici
complessi, i polifenoli possono avere una serie di effetti non ascrivibili alla sola attività antiossidante.
Questa argomentazione è sostenuta per lo meno da due osservazioni. Innanzitutto essi vengono
metabolizzati in vivo originando spesso sostanze che perdono il potenziale antiossidante originale.
Inoltre le loro concentrazioni e quelle dei loro metaboliti, nel plasma o nei tessuti, sono molto basse
rispetto a quelle di altri antiossidanti, come l’acido ascorbico e l’α‐tocoferolo, rendendo improbabile
che i polifenoli possano competere con essi. Viceversa tali concentrazioni potrebbero consentire loro
di avere attività farmacologiche e di modulare varie funzioni cellulari. È stato infatti dimostrato che i
polifenoli sono in grado di modulare l’espressione e/o l’attività di enzimi come telomerasi,
ciclossigenasi, lipossigenasi, xantina ossidasi, metalloproteinasi, enzima di conversione
24. 21
dell’angiotensina, protein chinasi, di interagire con le vie di trasduzione del segnale, con i recettori
cellulari, con le vie apoptotiche caspasi‐dipendenti, con la regolazione del ciclo cellulare e con
l’induzione di enzimi detossificanti. Essi inoltre sono in grado di aumentare la produzione di
vasodilatatori, come l’ossido nitrico, influenzare la funzione delle piastrine e competere con il
glucosio nel trasporto attraverso la membrana. Effetti dei polifenoli sulle attività enzimatiche
correlate al glutatione, in particolare sulla glutatione perossidasi, sono stati dimostrati anche in studi
in vivo, sia in modelli animali che nell’uomo.
Le specie reattive dell’ossigeno (ROS) sono responsabili delle reazioni da stress ossidativo coinvolte in
tutte le forme patologiche prima elencate. Le principali fonti delle specie reattive dell’ossigeno
nell’organismo sono tutte le reazioni conseguenti alla catena respiratoria, alla fagocitosi, alla sintesi
delle prostaglandine, al sistema del citocromo P450; in tutte queste reazioni una piccola parte
dell’ossigeno sfugge alla normale utilizzazione portando così alla formazione di composti instabili ed
altamente reattivi. È noto che a livello cellulare circa il 5% del metabolismo dell’ossigeno si svolge
attraverso reazioni di riduzione implicanti il trasferimento di un solo elettrone e la formazione a
cascata di diverse forme radicaliche endogene (ROO
●
,
●
O
2
‐,
●
OH) ed esogene (NO
●
,
●
ONO‐
2
), che
principalmente si situano intorno alla struttura mitocondriale ma possono distribuirsi anche in vari
distretti cellulari (Davies 1993; Nohl et al 2005) in relazione alla loro polarità (neutra nel caso di
radicale ossidrilico, polare come anione superossido). Queste sostanze reagiscono con molecole
organiche creando così uno stato di “proossidazione” all’interno della cellula e soprattutto nei suoi
diversi compartimenti vitali: tra questi composti la struttura più reattiva è il radicale ossidrilico la cui
semivita è stata valutata in circa 10
‐9
sec. La conseguenza di tale fenomeno è che tali composti
funzionali divengono essi stessi dei radicali. Come già ricordato i substrati maggiormente interessati,
con effetti e conseguenze patologiche, sono proteine e lipidi ma anche amminoacidi, acidi nucleici e
nucleotidi. I prodotti di ossidazione delle sostanze lipidiche (idroperossidi ed aldeidi) interagiscono
con il DNA ed alcuni carboidrati. I danni provocati toccano diversi aspetti della funzionalità primaria e
secondaria cellulare (mutagenesi ed incremento del turnover, decremento delle attività enzimatiche,
danni alle membrane, alterazione delle LDL e delle lipoproteine in generale, alterazione dei recettori‐
trasmettitori ed infine riduzione della viscosità dei fluidi). Per far fronte ad un eccesso di produzione
di radicali liberi, l’organismo umano ha sviluppato sofisticati meccanismi allo scopo di mantenere
25. 22
l’omeostasi redox, aumentando l’eliminazione dei radicali o bloccandone la produzione. Essi
comprendono difese antiossidanti endogene, enzimatiche e non, alle quali si affiancano difese
esogene, per lo più rappresentate da antiossidanti assunti con la dieta (Benzie 1999; Yao et al 2004;
Porrini et al 2005). Tra questi ultimi, i polifenoli naturali sono stati largamente oggetto di studio, non
solo per le loro forti capacità antiossidanti ma anche, recentemente, per altre proprietà che
conferiscono loro la capacità di modulare diverse attività cellulari.
Il diverso potenziale antiossidante delle numerose molecole (poli)fenoliche dipende in parte dalla
stessa struttura molecolare, dalla loro interazione con altre strutture antiossidanti (effetto sinergico),
dalla partizione tra la fase acquosa e quella lipidica in sistemi complessi come il cibo, ma, più
direttamente, dalla presenza di gruppi metossilici (
●
OCH
3
), di due o più ossidrili in posizione vicinale
(incremento della stabilità dei radicali ossidrilici per formazione di legami idrogeno intramolecolari).
I polifenoli agiscono principalmente donando radicali idrogeni a radicali perossidi (ROO•) formatisi
durante lo step iniziale di ossidazione lipidica e successivamente formando un radicale stabile (A•)
attraverso la reazione:
ROO• + AH →ROOH + A• (Fig 2)
Le cellule rispondono allo stress ossidativo attivando la trascrizione di geni coinvolti nella risposta
antiossidante. L’espressione della maggior parte di questi geni è regolata dal fattore trascrizionale
Nrf2 (nuclear related factors 2). Nrf2 in condizioni basali è sequestrato nel citoplasma da Keap1
(Kelch‐like ECH‐associated protein 1), una proteina del citoscheletro che possiede alcuni residui di
cisteina con funzione di “sensori” (Itoh et al 1999). Lo stress ossidativo, modificando tali cisteine,
induce il distacco di Nrf2 che può così migrare nel nucleo (Dinkova‐Kostova et al 2002) e legarsi agli
elementi di risposta antiossidante o antioxidant responsive elements (ARE), sequenze geniche
localizzate nel sito del promotore di alcuni geni indotti da stress ossidativo e chimico. Nrf2 svolge un
ruolo critico nella regolazione dell’espressione dei geni che codificano per la famiglia delle GST (enzimi
di fase 2), per l’NAD(P)H chinone ossidoreduttasi (Kobayashi and Yamamoto 2005), per altri enzimi
della fase 2 (l’UDP glucoronil‐trasferasi 1A6 e l’aldeide reduttasi) e per proteine antiossidanti quali
l’emeossigenasi 1 (HO‐1), la superossido dismutasi, la catalasi, la glutatione perossidasi, la
tioredossina (Kobayashi and Yamamoto 2005). Inoltre Nrf2 controlla sia l’induzione che il livello basale
26. 23
dell’espressione di geni che codificano enzimi coinvolti nella biosintesi del glutatione (GSH), in
particolare del gene della γ‐glutamil cisterna sintasi (γ‐GCS) e del gene x‐CT che codifica per una
subunità del trasportatore proteico dimerico cistina/glutammato (Moll et al 2005).
In pazienti ad elevato rischio di malattie cardiovascolari il consumo di olio d'oliva è associato a più alti
livelli plasmatici di antiossidanti, riduzione della proteina C reattiva (hs‐CRP) e peso corporeo, fattori
di rischio per tali malattie (Razquin et al 2009). Il meccanismo con cui l'olio d'oliva aumenta l'attività
degli enzimi antiossidanti sembra essere mediata da un aumento dell'attività di Nrf2 (Travis and
Rachakonda 2011). Topi knock‐out per Nrf2 esposti a irradiazione toracica simile a quella di pazienti
con cancro, vivono 35 o più giorni in meno rispetto ai topi con una normale espressione genica di
Nrf2. Un recente studio su modelli animali ha osservato una correlazione tra il consumo a lungo
termine di olio d'oliva (4,5 mesi), aumento dei livelli di Nrf2 e dei prodotti genici ad esso associati GST,
γ‐GCS, NQO1 (Bayram et al 2012).
Quindi la qualità dell’olio extravergine di oliva è strettamente legata all’attività antiossidante svolta
dalle sostanze fenoliche idrofiliche in esso contenute. La produzione incontrollata dei radicali liberi
dell’ossigeno può provocare gravi danni all’organismo umano il quale, però si difende, in parte con gli
antiossidanti di natura congenita e assunti con l’alimentazione. Si comprende da ciò quanto
importante sia migliorare il patrimonio antiossidante, ma non potendo noi influire sulla componente
costituzionale, dovremmo cercare di incrementarne l’assunzione alimentare in modo da mantenere in
costante equilibrio la bilancia ossidativa. Per questa ragione negli ultimi anni i cibi ricchi di composti
antiossidanti, frutta, verdura e olio di oliva, hanno ricevuto particolare attenzione, in particolare un
ruolo molto importante è stato attribuito all’olio extravergine di oliva. L’olio extravergine di oliva è un
tipico componente della dieta mediterranea e ad esso sono state attribuite diverse proprietà
antitumorali. Gli studi condotti da Martin Moero et al., 1994; Trichopoulou et al., 1995 e La Vecchia et
al., 1995 dimostrano che l’aggiunta di olio di oliva nella dieta riduce il rischio di tumori al seno, il
risultato è stato poi confermato da studi condotti da altri autori Lipworth et al., 1997 e Kushi e
Giovannucci nel 2002. L’olio di oliva è risultato essere coinvolto anche nella prevenzione di altri tipi di
tumori che si originano negli organi più disparati come pancreas (Soler et al.,1998), cavità orale e
esofago (Bosetti et al., 2003), colon retto (Stoneham et al., 2000), prostata (Tzonou et al., 1999;
Hodge et al., 2004) e polmoni (Fortes et al., 2003). Studi condotti su modelli animali hanno dimostrato
che la somministrazione dell’olio di oliva è in grado anche di contrastare i danni provocati dalle
27. 24
radiazioni UV a carico dell’epidermide (Ichihashi et al., 2003), e risulta essere un fattore di
prevenzione per il cancro del colon nei ratti (Bartoli et al., 2000). L’effetto protettivo svolto dall’olio
nei confronti di queste gravi malattie viene attribuito alle sostanze fenoliche, in particolare
all’idrossitirosolo piuttosto che a agli acidi grassi insaturi in esso contenuto. L’azione protettiva svolta
dalle sostanze fenoliche contenute nell’olio sono molteplici. I composti fenolici sono responsabili della
riduzione della perossidazione dei fosfolipidi liposomiali (Aschbach et al., 1994), limitano la
perossidazione delle LDL (Grignaffini et al., 1994; Visioli et al., 1995), limitano l’aggregazione
piastrinica che conduce alla formazione delle placche aterosclerotiche, fenomeno che viene attivato
dalla liberazione del trombossano derivato dell’acido arachidonico per azione della ciclossigenasi, in
particolare il 3,4‐DHPEA inibisce l’enzima ciclossigenasi (azione aspirina simile), limitando così
l’aggregazione delle piastrine (Manna et al., 1999; Petroni et al., 1995). Inoltre i composti fenolici
impediscono l’ossidazione delle basi azotate del DNA causata dalla perossido nitrico (Dejana et al.,
1999), la produzione dei radicali liberi nella matrice fecale (Owen et al., 2000), coinvolti nei tumori
dell’intestino, inibiscono i processi infiammatori in modelli animali (Martinez‐Dominquez et al., 2001).
Recentemente studi in vitro hanno aperto, interessanti prospettive sul ruolo svolto dal 3,4‐DHPEA nei
confronti dell’inibizione della proliferazione cellulare incontrollata, infatti bloccano il ciclo cellulare in
fase G0/G1 inducendo l’apoptosi nelle cellule (HL 60) tumorali (Fabiani et al., 2002).
In questo senso numerosi studi sono stati condotti sulle proprietà antiossidanti delle sostanze
fenoliche presenti nel VOO, da questi studi è emerso che la concentrazione totale dei composti
fenolici, espressa come polifenoli totali, è strettamente correlata anche con lo shelf‐life dell’olio
stesso. Studi in vivo hanno indicato che la somministrazione di HT migliora il profilo lipidico nel
sangue di antiossidanti e riduce lo sviluppo delle lesioni aterosclerotiche in un modello animale di
aterosclerosi indotta (Granados‐Principal et al 2010). L’idrossitirosolo è anche molto efficace nel
proteggere l'aorta dallo stress ossidativo mediato dalla NO (Rietjens et al 2007); inibisce l’espressione
sulla superficie cellulare di molecole di adesione pro‐aterogeniche come le ICAM‐1, VCAM‐1 e E‐
selectina in cellule endoteliali umane da cordone ombelicale (Dell’Agli et al 2006). In cellule
endoteliali vascolari l’HT stimola efficientemente la proliferazione cellulare, promuove la riparazione
delle ferite, protegge le cellule dal danno indotto da ossidanti attraverso i pathways ERK1/2 e
PI3K/Akt che portano all’attivazione di Nrf2 ed induzione di HO‐1 (Zrelli et al 2011). In cellule THP‐1 il
28. 25
trattamento con idrossitirosolo riduce drasticamente la produzione di NO e la formazione di ROS
indotta da LPS inducendo un aumento dei livelli di GSH in cellula (Zhang et al 2009).
Assunto con la dieta, l’idrossitirosolo viene assorbito e in parte metabolizzato a livello epatico e
intestinale, in glucuronide coniugato e in HVA, alcol omovanillico; insieme ai suoi metaboliti si
distribuisce nei vari organi, concentrandosi preferenzialmente a livello renale prima di essere escreto.
In cellule renali (LLC‐PK1) l’idrossitirosolo e il suo metabolita HVA sono in grado di proteggere tali
cellule dal danno ossidativo indotto dal H2O2 inibendo la perossidazione lipidica e modulando i segnali
cellulari implicati nella risposta allo stress ossidativo. Il pretrattamento con idrossitirosolo protegge i
lipidi di membrana dall’azione ossidante del H2O2, viene preservata la concentrazione di colesterolo,
degli acidi grassi insaturi e dell’α‐tocoferolo e si produce una quantità significativamente minore di
prodotti di ossidazione. L’HVA mostra un’azione meno efficace dell’idrossitirosolo nel conservare
l’integrità della membrana, ma comunque significativa. Tra le varie proteine coinvolte nella risposta
allo stress ossidativo sono particolarmente importanti le MAPK (come ERK e JNK) e la proteina chinasi
B/Akt (Akt/PKB), i cui pathways regolano la sopravvivenza o la morte cellulare; l’H2O2 è capace di
attivare o disattivare queste proteine, interferendo con le vie di segnalazione che queste controllano.
I due fenoli proteggono la cellula dalla morte indotta dai radicali liberi e inibiscono il cambiamento di
fosforilazione indotto dal H2O2, per le proteine ERK1/2, JNK e Akt/PKB; anche in questo caso
l’idrossitirosolo ha un’attività maggiore dell’HVA. È molto probabile quindi che l’effetto protettivo
degli antiossidanti naturali, così come quello dell’idrossitirosolo e dell’HVA, in sistemi biologici più
complessi e in vivo, sia il risultato di diversi meccanismi d’azione che contrastano in modo diretto o
indiretto l’azione dell’agente ossidante. L’idrossitirosolo ha mostrato un’elevata azione protettiva,
l’HVA, benché meno attivo, ha mostrato comunque un’attività antiossidante significativa a
concentrazioni biologicamente rilevanti.
Wartela et al dimostrano una differente attività antiossidante di HT e TY in cellule di mammella. L’ HT
è un più efficiente scavenger di radicali liberi rispetto al tirosolo, ma entrambi non riescono a
influenzare la proliferazione cellulare, fasi del ciclo cellulare e apoptosi in cellule epiteliali mammarie
umane (MCF10A) o cellule tumorali di mammella (MDA‐MB‐231 e MCF7). L’HT riduce i livelli di ROS in
cellule MCF10A ma non in cellule MCF7 e MDA‐MB‐231 mentre concentrazioni molto elevate di
tirosolo sono necessarie per diminuire il livello di ROS in cellule MCF10A. L’HT, inoltre, previene i
danni ossidativi del DNA in tutte le linee cellulari di mammella. Pertanto l’idrossitirosolo potrebbe
29. 26
contribuire ad una minore incidenza di cancro al seno nelle popolazioni che consumano olio di oliva
vergine per la sua attività antiossidante e la sua protezione contro danno ossidativo al DNA in cellule
mammarie (Wartela et al 2011).
Fig 2: Ruolo dei polifenoli nei processi di perossidazione lipidica
L’HT, a lungo considerato soltanto un potente antiossidante, in realtà è in grado di agire come
nutriente a target mitocondriale fornendo un nuovo meccanismo di efficacia della dieta mediterranea
nel ridurre il rischio di diverse malattie tra cui malattie cardiovascolari, cancro, diabete e obesità. E’
noto che la malattia cardiovascolare è la complicanza più comune e più grave del diabete e
dell’obesità. Poiché la respirazione mitocondriale svolge un ruolo fondamentale nel metabolismo del
glucosio, una disfunzione mitocondriale è associata al diabete e obesità (Bendini et al 2007; Fito et al
2007; Wahle et al 2004). È stato osservato che l'espressione di fattori di regolazione per la biogenesi
mitocondriale sono ridotti nel tessuto adiposo dei soggetti diabetici ed obesi (Hammarstedt et al
2003; Semple et al 2004). Hao et al hanno dimostrato, in adipociti della linea 3T3‐L1, che il
trattamento con HT porta ad un miglioramento della funzione mitocondriale stimolando la biogenesi
mitocondriale. L’HT promuove l’espressione della proteina PPARGC1α, regolatore chiave della
biogenesi mitocondriale e dei suoi bersagli a valle, Nrf1 Nrf2 e il fattore di trascrizione mitocondriale
30. 27
(Tfam). Inoltre, l’HT incrementa il mtDNA; promuove l’espressione di proteine del complesso
mitocondriale I, II, III, IV e V, e numero e massa mitocondriale. L’HT up‐regola l'espressione di
proteine e di geni legati all’ossidazione degli acidi grassi nello specifico Pparα, Cpt1 e Pparγ,
adipogenesi e funzione mitocondriale, comprese le attività dei complessi mitocondriali I, II, III, IV e V,
consumo di ossigeno, e riduce il contenuto in acidi grassi liberi (FFA). HT attiva la fosforilazione della
proteina chinasi AMP dipendente (AMPK) e acetil‐CoA carbossilasi (ACC) (Hao et al 2010).
La Dieta mediterranea, con un elevato apporto di idrossitirosolo, può stimolare la funzione (aumento
dell’ossidazione di acidi grassi) e la biogenesi mitocondriale e, quindi, ridurre il rischio di obesità e
diabete, con un ridotto rischio di malattie cardiovascolari.
Sembra che la biogenesi mitocondriale e il sistema antiossidante di Fase II siano strettamente
connessi ed accoppiati perché PPARGC1α è stato dimostrato sopprimere i ROS e la
neurodegenerazione (St‐Pierre et al 2006). Pertanto, è possibile che HT, un potente antiossidante e
attivatore degli enzimi di Fase II, possa aumentare la biogenesi mitocondriale e migliorare la funzione
mitocondriale sopprimendo i ROS e stimolando il sistema di Fase II per rafforzare le difese
antiossidanti della cellula, oltre al suo effetto diretto sull’assemblaggio mitocondriale.
In cellule di epitelio pigmentato retinico umano (ARPE‐19) l’HT protegge dal danno ossidativo e
disfunzione mitocondriale indotta dall’acroleina (Liu et al 2007). Due sono le vie attivate dall’HY per
proteggere tali cellule dal danno ossidativo: 1) i sistemi antiossidanti endogeni, inclusi enzimi
detossificanti di fase II, antiossidanti mitocondriali e catalasi, 2) la biogenesi mitocondriale. L’HT
significativamente aumenta la traslocazione nucleare di Nrf2 promuovendo l’espressione e l’attività
degli enzimi di Fase II GCL, NQO1 e HO‐1 con conseguente miglioramento del sistema di difesa
antiossidante. Quindi conferisce un’ulteriore protezione antiossidante oltre alle sue attività diretta di
scavenger di radicali liberi. L’HT promuove la biogenesi mitocondriale: up‐regola AMPK e eNOS,
stimola l'espressione di PPARGC1α, il fattore chiave per la biogenesi mitocondriale, e l’espressione
proteica di Tfam, un fattore di trascrizione chiave coinvolto nella biogenesi mitocondriale e del gene
bersaglio PPARGC1α. Inoltre l’HT aumenta i livelli di proteina mitocondriale dei complessi I, II, III e V.
L’HT up‐regola l’espressione del gene UCP2, anch’esso gene bersaglio di PPARGC1α coinvolto nella
funzione mitocondriale (Zhu et al 2010). Oltre alla classica azione antiossidante sono state descritte
anche azioni proossidanti dei polifenoli, che possono, quindi, avere effetti opposti sui processi
31. 28
fisiologici cellulari di base. Infatti, se da un lato, come antiossidanti, possono migliorare la
sopravvivenza cellulare, dall’altro, come proossidanti, possono indurre apoptosi, necrosi o arresto
della proliferazione cellulare (Lambert et al 2005).
E' generalmente accettato che i composti fenolici dell'olio di oliva possano esercitare la loro attività di
prevenzione del cancro, agendo sia come composti anti‐iniziazione che anti‐promozione/progressione
(Hashim et al 2005). Uno dei possibili meccanismi anti‐promozione/progressione è rappresentato
dalla capacità di fenoli dell'olio di oliva di interferire con la proliferazione e l'apoptosi delle cellule
tumorali.
L'idrossitirosolo ortodifenolo (3,4‐diidrossifeniletanolo (3,4‐DHPEA)), è abbondantemente presente
nell’olio di oliva sia come composto libero che legato alla forma dialdeidica dell'acido elenolico legata
al 3,4‐DHPEA (3,4‐DHPEA‐EDA), e come isomero dell’oleuropeina aglicone (3,4‐DHPEA‐EA) (Servili and
Montedoro 2002).
Il 3,4‐DHPEA inibisce la proliferazione ed induce apoptosi in diverse linee cellulari tumorali (Bernini et
al 2011; Corona et al 2009; D’Angelo et al 2008; Fabiani et al 2002, Fabiani et al 2008; Hashim et al
2005). Tuttavia, i risultati ottenuti su cellule tumorali derivate da differenti organi sono in disaccordo.
In cellule di leucemia promielocitica (HL60) il trattamento con 100 µM di 3,4‐DHPEA inibisce la
crescita ed induce una massiccia apoptosi (Della Ragione et al 2000; Fabiani et al 2002).
In cellule HL‐60, il 3,4‐DHPEA altera la progressione del ciclo cellulare, inibendo la transizione di fase
G1‐S e modifica l'espressione di proteine regolatrici del ciclo cellulare, riducendo l’espressione della
chinasi ciclina‐dipendente 6 (CDK6) e aumentando l’espressione di inibitori delle CDK p21WAF1/Cip1
e
p27 Kip1
(Fabiani et al 2008). Al contrario, un comportamento diverso è stato riportato per cellule di
cancro al seno della linea MCF‐7 e SKBR3 che risultano resistenti al trattamento con 100 µM di 3,4 ‐
DHPEA (Menendez et al 2007) e richiedono alta concentrazione di fenolo (MCF‐7, 324 µM) per
osservare un effetto sull'apoptosi e proliferazione (Han et al 2009).
Altri autori riportano che cellule MCF‐7 sono resistenti all’azione pro‐apoptotica di 3,4‐DHPEA (400
µM), effetto legato all'assenza di caspasi‐3 in queste cellule (Guichard et al 2006). In netto contrasto
con i dati sopra riportati, è lo studio di Goulas et al in cui è stato dimostrato che le cellule MCF‐7 sono
molto sensibili all’attività antiproliferativa di 3,4‐DHPEA, dove il trattamento con 12,5 µM riduce del
50% la crescita cellulare (Goulas et al 2009).
32. 29
Inoltre, è stato recentemente dimostrato che 3,4‐DHPEA è in grado di inibire la proliferazione indotta
dall’estradiolo in cellule tumorali di seno MCF‐7 interferendo con l’attivazione di ERK 1/2 (Sirianni et
al 2010).
Risultati contrastanti sono stati ottenuti anche su cellule di cancro del colon HT‐29 che risultano
resistenti all’effetto antiproliferativo di 3,4‐DHPEA fino a concentrazione pari a 400 µM (Obied et al
2009), ma in altri studi è stato riportato essere sensibili all’effetto pro‐apoptotico a concentrazioni tra
200‐400 µM (Bernini et al 2011, Guichard et al 2006).
Inoltre, nella linea cellulare di tumore del colon Caco2, il trattamento con 3,4‐DHPEA (50‐100 µM)
provoca una riduzione della crescita cellulare sia per l'accumulo di cellule nella fase G2 del ciclo e
l'inibizione della fosforilazione di ERK1/2 (Corona et al 2009).
Infine, è stato riportato che cellule di melanoma umano M14 rispondono al trattamento con 3,4‐
DHPEA solo a concentrazioni superiori a 600‐800 µM (D’Angelo et al 2005).
In questo contesto, occorre notare che le dosi utilizzate in vitro per evidenziare gli effetti
antiproliferativi e proapoptotici dell’idrossitirosolo sono ben superiori a quelli ottenuti nel plasma di
individui che normalmente consumano olio d'oliva (Miro‐Casas et al 2003; Vissers et al 2004).
Recentemente è stato dimostrato che le proprietà anti‐proliferative e pro‐apoptotiche di questo
fenolo su cellule HL60 sono mediate da un’attività pro‐ossidante che consiste nella generazione di
perossido di idrogeno (H2O2) nel mezzo di coltura cellulare (Fabiani et al 2009). Il rilascio di H2O2 è
stato descritto anche per altri composti fenolici di origine vegetale sia quando testati come miscele
complesse, quali come quelli derivati da semi di uva (Cambon‐Roques et al 2002), mele (Lapidot et al
2002), tè e vino (Chai et al 2003), e se usati come composti purificati come l’acido gallico, quercetina
(Lee et al 2005), l'ascorbato (Wee et al 2003), e l’epigallocatechina gallato (Long et al 2007). È
possibile che gli effetti esercitati da 3,4‐DHPEA sulle diverse linee cellulari possano essere mediati
dalla sua capacità di rilasciare H2O2 nel mezzo di coltura, e quindi le diverse risposte osservate può
dipendere dalla capacità delle cellule di eliminare H2O2 e quindi dagli specifici enzimi quali catalasi e
glutatione perossidasi,
E’ ampiamente descritto in letteratura che l’iperglicemia porta ad una over‐produzione di radicali
liberi e ad una glicazione non enzimatica delle proteine, che hanno un effetto deleterio su differenti
organi. Oleuropeina e idrossitirosolo, hanno effetti ipoglicemici, ipolipidemici e antiossidanti in ratti
33. 30
diabetici. In tali ratti si osserva una diminuzione delle attività antiossidanti, in particolare nella SOD e
CAT e un innalzamento dei livelli di TBARS. La somministrazione di composti fenolici nei ratti diabetici
ripristina, in modo dose‐dipendente, i sistemi antiossidanti e porta ad un abbassamento significativo
dei livelli di TBARS; in accordo con altri lavori che hanno dimostrato che il trattamento con polifenoli
esercita un aumento dell’espressione di SOD e CAT a livello trascrizionale (Jemay et al 2009).
Recentemente è stato dimostrato che l’autofagia sembra essere coinvolta nella progressione
dell’atrofia muscolare, anche se il ruolo dell’autofagia nel muscolo scheletrico durante un esercizio
molto intenso rimane ancora non chiaro. Alcuni studi mostrano che l’inibizione dell’autofagia induce
atrofia muscolare e miopatia, d’altra parte l’eccessiva attivazione dell’autofagia aggrava la
degradazione del muscolo, che deriva dalla degenerazione di porzioni del citoplasma, di proteine e
organelli (Masiero et al 2009; 2010). Inoltre, è ormai ben accettato che il regolare esercizio aumenta il
contenuto mitocondriale nel muscolo scheletrico mediante l’attivazione del fattore di PGC1α, con un
aumento della capacità di tolleranza allo sforzo con una maggiore efficienza nel metabolismo
energetico aerobio (Hood et al 2009). Ancora, c’è una diretta correlazione tra l’aumento del consumo
di ossigeno durante l’esercizio e la produzione di radicali dell’ossigeno. Basse e fisiologiche
concentrazioni di ROS sono richieste per la normale produzione di energia nel muscolo scheletrico,
ma alti livelli di ROS (come ad esempio in seguito ad un esercizio eccessivo) promuovono disfunzioni
nel processo di contrazione, con conseguente debolezza muscolare e fatica (Power et al 2009).
Questo accumulo provoca uno stress ossidativo con una conseguente attivazione del processo di
autofagia nel muscolo, induzione nella fissione mitocondriale; risultato è che il mitocondrio ha un
ruolo fondamentale nella regolazione dell’autofagia nel muscolo scheletrico e nei processi che
portano ad atrofia muscolare (Romanello et al 2010).
L’esercizio eccessivo (EXE) attiva l’autofagia che contribuisce a processi di atrofia del muscolo. La
capacità di tolleranza allo sforzo eccessivo è significativamente aumentata in ratti con una dieta
supplementata con HT, ma questo sembra non essere vero per ratti sedentari. L’atrofia del muscolo
indotta dall’autofagia e la fissione mitocondriale vengono anch’esse bloccate dalla supplementazione
con HT; inoltre, nei ratti sottoposti a EXE, l’HT induce la fusione mitocondriale aumenta l’attività
funzionale del complesso I e II, diminuendo gli effetti dannosi dell’EXE. Pertanto l’HT può avere effetti
34. 31
benefici sulle performance fisiche e potrebbe avere, quindi, effetti rilevanti su varie patologie
correlate a disfunzioni mitocondriali (Feng et al 2011).
Studi epidemiologici hanno dimostrato che l’ alimentazione può costituire un importante fattore di
protezione ambientale nei confronti delle malattie cardiovascolari e neoplastiche. In particolare,
risulta importante la ricchezza nella dieta di prodotti vegetali, e quindi l’assunzione di quantità
rilevanti di frutta, verdura, olio come è, ad esempio, tipico della Dieta Mediterranea.
Studi scientifici degli ultimi dieci anni hanno chiarito che i polifenoli presenti nell’olio extravergine di
oliva, in primis l’idrossitirosolo, sono in grado di contrastare i radicali liberi attraverso due meccanismi
principali: in primo luogo riescono a stabilizzare direttamente le molecole radicaliche attraverso la
sottrazione di un elettrone; in secondo luogo attivano meccanismi intracellulari che promuovono
l’innalzamento dei livelli degli antiossidanti già fisiologicamente presenti nelle cellule. Un aspetto
nuovo della ricerca che sta emergendo dalle pubblicazioni degli ultimi anni è che i polifenoli agiscano
anche nella prevenzione del danno mitocondriale, apportando notevoli miglioramenti in termini di
vitalità dei mitocondri, resistenza a sostanze tossiche ed eventi lesivi. Da questi dati si evince come i
prodotti a base di polifenoli delle olive, oltre che contrastare l’azione dannosa dei radicali liberi,
possano anche riportare energia nel nostro organismo, favorendo la risoluzione di situazioni di
stanchezza intensa dovuta alla compromissione dell’equilibrio ossidativo e alla diminuzione
dell’efficienza dei meccanismi di creazione dell’energia.
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