L'archeologia italiana di fronte alla sfida dell'open data. Il MOD - MAPPA Open Data archive
1. «La ricerca scientifica sostenuta dal Governo
Federale catalizza gli avanzamenti innovativi
che guidano la nostra economia». Con questa
motivazione, nel 2012 Barack Obama ha diramato una Direttiva Federale che impone la pubblicazione in formato open, cioè liberamente
accessibile a tutti i cittadini, dei risultati delle ricerche scientifiche finanziate con denaro federale. In questo modo chi paga, cioè la
collettività, è messo a conoscenza delle ricerche
realizzate e di conseguenza è in grado di utilizzarne i risultati.
La convinzione che il “potenziale di ricerca”
di un paese incide in maniera determinante sulla
sua competitività, misurata come capacità di
produrre innovazione e quindi di rispondere in
maniera adeguata ai bisogni espressi dai cittadini, è ovviamente ben chiara anche alle
istituzioni europee, che fin dal 2009 hanno varato i progetti OpenAIRE e OpenAIREplus,
2. il primo dedicato all’open access (ovvero l'accesso senza restrizioni a monografie e articoli
pubblicati in riviste scientifiche), il secondo agli archivi open data (ovvero archivi di dati
liberamente accessibili a tutti). Entrambi i progetti erano finalizzati alla creazione d’infrastrutture digitali e meccanismi di sostegno per l’accesso aperto ai risultati dei progetti
scientifici finanziati dall'European Research Council (ERC). Da quei progetti sono scaturiti:
- DARIAH, l'infrastruttura digitale di ricerca per le Arti e le Lettere, che si propone di
valorizzare e sostenere la ricerca e l'insegnamento delle scienze umane e delle arti con
strumenti digitali scientificamente controllati,
- Europeana, la biblioteca digitale europea;
- Ariadne, un progetto tutt’ora in corso, che interessa da vicino gli archeologi perché,
come il filo della fanciulla cretese da cui prende il nome, mira a collegare e integrare le
infrastrutture di dati di ricerca archeologica già esistenti allo scopo di orientare gli studiosi nel loro lavoro e contribuire a creare, nel contempo, una nuova comunità di ricercatori capaci di sfruttare il contributo dell’Information Technology e ad incorporarlo nel
tradizionale bagaglio delle metodologie della ricerca archeologica.
La consapevolezza che un sistema della ricerca
efficiente, non frammentato e privo di duplicazioni genera benessere economico e coesione sociale si è dunque ampiamente radicata, tanto da
diventare uno degli obiettivi primari del nuovo,
grande programma quadro che nei prossimi cinque anni impegnerà i migliori ricercatori
di tutta Europa, in tutti i campi del sapere, compreso il Cultural Heritage: Horizon 2020,
che proprio in queste settimane viene “lanciato” presso tutte le istituzioni di ricerca europee e partirà nel prossimo anno. Tra le premesse di Horizon 2020 vi è infatti la convinzione che un approccio strategico all’innovazione e alla ricerca presuppone
l’ottimizzazione dell’impatto dei finanziamenti pubblici e che questo passa necessariamente attraverso una libera circolazione e un ampio utilizzo dei risultati della ricerca,
da parte sia degli stessi ricercatori, sia del sistema produttivo e, più in generale, della società tutta: in questo modo è possibile superare il paradosso secondo il quale – come
ha scritto John Wilbanks, direttore esecutivo del progetto Science Commons – «in un’epoca
in cui disponiamo delle tecnologie per consentire la fruizione dei dati scientifici a livello
globale e di sistemi di distribuzione delle informazioni che ci consentirebbero di ampliare la collaborazione e accelerare il ritmo e la profondità delle scoperte […] siamo
occupati a bloccare i dati e a prevenire l’uso di tecnologie avanzate che avrebbero un
forte impatto sulla diffusione della conoscenza».
3. L’accesso aperto, gratuito, senza restrizioni e in formato interoperabile a dati e informazioni frutto delle
attività di ricerca è inoltre essenziale per rinforzare la
relazione tra scienza e società, per rinsaldare la fiducia
collettiva nella ricerca e per massimizzare, anche in termini di consenso, il ritorno dell’investimento pubblico
in ricerca.
Non è possibile rinviare oltre una risposta soddisfacente alla richiesta di una libera
circolazione di ricercatori e idee che, con forza sempre crescente, proviene da una società in cui l’avvento, nel 1991, del world wide web ha prodotto una vera e propria rivoluzione dei modelli di trasferimento e disseminazione della conoscenza. Una rivoluzione
paragonabile a quella prodotta, nel 1455, dall’introduzione della stampa a caratteri mo-
bili, che peraltro ebbe anch’essa non pochi illustri avversari:
fra questi vi fu, ad esempio, Federico da Montefeltro, che
vent’anni più tardi (un lasso di tempo singolarmente analogo a quello che separa noi oggi dalla nascita del www) disprezzava a tal punto i libri stampati – perché meno belli e
pregiati dei codici miniati – da vietarne l'introduzione nella
biblioteca ducale di Urbino, giungendo addirittura al paradosso di far trascrivere a mano volumi già editi a stampa!
Ecco: cerchiamo di non cadere oggi nello stesso anacronismo di Federico da Montefeltro.
Se poi le ricerche interessano i Beni culturali – che sono
un patrimonio pubblico, come sancisce l’art. 9 della Costituzione italiana –, sono realizzate da studiosi alle dipendenze di Enti pubblici (Soprintendenze, Università, CNR), utilizzando strutture e strumenti pubblici e con finanziamenti pubblici – fondi MiBAC, fondi MIUR, fondi di Regioni, Enti locali, fondi europei
4. – la questione del libero accesso ai
risultati assume anche una dimensione etica: i fondi pubblici sono
alimentati dalle tasse della collettività, che ha il diritto di sapere come
vengono spesi i suoi soldi e con
quali risultati, anche in termini di
pubblica utilità.
In quanto stato dell’Unione europea, l’Italia ha partecipato ai progetti OpenAIRE e OpenAIREplus e
parteciperà in forze – si spera – a
Horizon 2020. Nei fatti, però, qual è in Italia la situazione del dibattito sul libero accesso
ai dati della ricerca?
Dopo l’approvazione, nell’ottobre 2012, del Decreto Legge n. 179, più noto come
Decreto Crescita 2.0, che prescrive una rapida diffusione di archivi aperti in tutta la pubblica amministrazione (compreso il settore dei Beni Culturali), la discussione sugli open
data si è fatta più viva anche nel nostro Paese. È di poche settimane fa il varo del Decreto
Legge n. 91/2013, il cosiddetto Decreto Valore Cultura, che all’art. 2 prevede un programma straordinario per lo «sviluppo delle attività di inventariazione, catalogazione e
digitalizzazione del patrimonio culturale, al fine di incrementare e facilitare l'accesso e
la fruizione da parte del pubblico (anche attraverso l'utilizzo di appositi portali e dispositivi mobili intelligenti). […] Lo svolgimento del programma s’inserisce nel quadro
delle indicazioni dell'agenda digitale europea […] attraverso azioni coordinate, dirette a
favorire lo sviluppo di domanda e offerta di servizi digitali innovativi, a incentivare cittadini e imprese all'utilizzo di servizi digitali e a promuovere la crescita di capacità elaborative adeguate a sostenere lo sviluppo di prodotti e servizi innovativi. […] I sistemi
di conoscenza digitali si adeguano agli standard dei dati aperti e accessibili, così come
definiti in base alla legge 9 gennaio 2004, n. 4, e al decreto legislativo 7 marzo 2005, n.
82, e successive modificazioni e conseguenti disposizioni attuative, nonché in base agli
atti dell'Unione Europea in materia di digitalizzazione e accessibilità in rete dei materiali
culturali e in materia di conservazione digitale».
Per quanto riguarda l’Università, fin dal 2006 la CRUI (la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) ha attivato una serie di politiche per l’apertura dei risultati delle
ricerche finanziate in ambito universitario, culminate con la possibilità per le Università
di pubblicare riviste elettroniche, libri, banche dati e tesi di dottorato ad accesso aperto.
Il MiBAC, da parte sua,
ha promosso recentemente la realizzazione
del portale CulturaItalia,
che intende essere un
5. punto di accesso per la fruizione in rete del
patrimonio culturale nazionale, rendendo
disponibili risorse e documenti provenienti
da archivi, musei, biblioteche, fondazioni,
regioni, enti locali e altri enti pubblici e privati: siamo però solo all’inizio e in ogni caso
il portale contiene schede riassuntive, estremamente sintetiche. Nel 2012, inoltre, il
MiBAC ha aderito al progetto Wiki Loves
Monuments, un concorso fotografico internazionale che coinvolge cittadini di tutto il
mondo nel documentare il proprio patrimonio culturale attraverso immagini che
poi vengono caricate su Wikimedia Commons: senza l’autorizzazione ufficiale del
MiBAC, infatti, in Italia nessuno avrebbe
potuto partecipare a quel concorso, giacché
gli articoli 107-109 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio vietano di fotografare i Beni
Culturali (se non per uso strettamente personale o per motivi di studio), a meno che
non si sia espressamente autorizzati dal Ministero stesso (ma basta dare un’occhiata a
siti come Google images o Flickr per rendersi conto dell’anacronismo di questa prescrizione!). In ogni caso, l’adesione del MiBAC al progetto Wiki Loves Monuments è stata incredibilmente limitata e circoscritta: il MiBAC ha infatti fornito una lista di siti e
monumenti “liberati”, cioè fotografabili, che definire ristretta è dire poco. In Sicilia, ad
esempio, questi siti e monumenti sono solo 211. Vi sono le cose più varie, dalla chiesa
di San Bartolomeo a Scicli (ma solo all’esterno), alle mura di Randazzo, alla targa bronzea a Giuseppe Garibaldi di Messina. Qui in provincia di Agrigento sono state autorizzate le fotografie di un solo sito, la Riserva naturale di Torre Salsa, nel comune di
Siculiana. Per quanto riguarda i Beni archeologici, vi sono soltanto il Parco Chiafura a
Scicli, il Parco archeologico di Kamarina e gli Ipogei di Contrada Celone nel Ragusano,
e infine l’Anfiteatro romano, Piano Barlaci, l’acquedotto Cornelio e il Museo Civico a
Termini Imerese. Un’occasione senz’altro
perduta non solo per gli studiosi, ma per
tutti i siciliani: basta pensare, ad esempio, al
fantastico traino turistico che, per il Ragusano, è stata la serie TV del commissario
Montalbano!
Infine non bisogna dimenticare i Fasti on
line, promossi dall’Associazione Internazionale di Archeologia Classica, con il loro database di scavi archeologici condotti dal 2000.
6. Tuttavia siamo solo agli inizi e il ritardo rispetto al resto d’Europa è ancora molto
marcato. Basta dare un’occhiata all’inglese ADS, Archaeological Data Service, realizzato fin
dal 1996 da un consorzio di dipartimenti universitari di Archeologia e dal Council for
British Archaeology, con il coordinamento dell’Università di York, che raccoglie e rende
liberamente disponibile on line la documentazione degli scavi condotti dagli archeologi
inglesi sia nelle isole britanniche, sia nel resto del mondo, Italia compresa: 1.100.000 record di metadati, oltre 20.000 documenti inediti di scavi, oltre 700 diversi archivi, per
7. non dire della guida per Good
Practices.
Eppure quello dell’archeologia è un settore in cui la necessità di aprire gli archivi si avverte
con particolare urgenza, anche
perché in questi anni si è avuto
un aumento del numero delle
indagini – dovuto in gran parte
al diffondersi delle pratiche di
archeologia preventiva – che ha
portato alla produzione di una
grande mole di dati, spesso in
formato digitale, che sono andati ad aggiungersi alle sterminate documentazioni di scavo in formato cartaceo prodotte negli ultimi 40 anni. Inoltre l’affermarsi dell’archeologo come nuova figura professionale (proprio in queste settimane è in discussione una proposta di legge avanzata
dai deputati Madia, Ghizzoni e Orfini, contenente «Modifiche al codice dei beni culturali
e del paesaggio, in materia di professioni dei Beni culturali», in cui sostanzialmente è
prevista l’istituzione di un registro nazionale dei professionisti dei Beni culturali, tra cui
ovviamente gli archeologi) sta determinando una sempre maggiore esigenza di reperire
informazioni in tempi brevi e da parte di un numero crescente di soggetti diversi.
A questa esigenza, tuttavia, non ha corrisposto finora una maggiore accessibilità dei
dati. Ma dove si conservano i dati archeologici?
- nella documentazione di scavo; si tratta dei cosiddetti “dati grezzi” (raw data), raccolti
in schede di Unità Stratigrafica e di quantificazione dei reperti, in tabelle di periodizzazione e diagrammi stratigrafici, in planimetrie, sezioni e rappresentazioni grafiche di
vario genere, fotografie e registrazioni video, GIS e banche-dati, e infine in quella che
è comunemente chiamata la “letteratura grigia”, ovvero relazioni preliminari e diari di
scavo;
- nelle pubblicazioni a stampa, in cui compaiono – com’è ovvio – soprattutto “dati interpretati” e solo pochi “dati grezzi”, quelli che l’autore ritiene significativi ai fini della
dimostrazione delle proprie ipotesi interpretative.
Alla fine di ogni campagna di scavo, tutta la documentazione di scavo dovrebbe
essere depositata dai ricercatori negli archivi delle Soprintendenze, dove dovrebbe poter
essere consultabile. Tuttavia l’esperienza insegna che non è sempre così, giacché in molti
casi i dati non sono resi noti, per non correre il rischio che vengano “scippati”, fino all’uscita delle pubblicazioni a stampa, che – quando escono – escono generalmente a distanza di anni, spesso di molti, troppi anni dalla conclusione dei lavori (anche più di
venti). Questa prassi, purtroppo assai diffusa trasversalmente, presso qualunque tipo di
ricercatore (docenti universitari, funzionari di Soprintendenza, liberi professionisti), si
8. fonda su un malinteso principio di “proprietà” intellettuale che, entro certi limiti, è
anche comprensibile, ma non certamente giustificabile, e che in ogni caso è cosa ben
diversa dalla “paternità” intellettuale, che invece va tutelata meglio di quanto non avvenga oggi. È evidente infatti che, chi ha fatto lo scavo o il survey deve poter godere di
un “diritto di prelazione” sulla pubblicazione del suo lavoro in forma integrale, un diritto
che però dev’essere limitato e definito nel tempo (un anno dalla fine dello scavo? due?
cinque?): tutti sappiamo che le pubblicazioni archeologiche richiedono tempi lunghi,
ma questo non deve impedire che i “dati grezzi” siano resi disponibili subito dopo la
chiusura o anche la momentanea sospensione dell’indagine, in modo che possano essere
utilizzati con finalità differenti o da prospettive diverse, ovviamente con tutte le opportune garanzie di tutela della paternità intellettuale che le leggi italiane e internazionali
oggi consentono. Ma la cosa ancor più grave è che, quando finalmente esce la pubblicazione a stampa, la documentazione di scavo viene in qualche modo percepita come
“superata” e talvolta non giunge neppure negli archivi delle Soprintendenze, con la conseguenza che la collettività viene privata per sempre di informazioni che scaturiscono
dall’osservazione diretta di quelle innumerevoli tracce di azioni umane o naturali che si
sono stratificate nel terreno durante i secoli e che vengono distrutte per sempre nel momento stesso in cui quel terreno viene rimosso con lo scavo archeologico. I dati contenuti in quei documenti rappresentano pertanto l'unico elemento di riproducibilità e di
ri-analisi del processo interpretativo: prendendo a prestito un’espressione del linguaggio
informatico, possiamo affermare che i “dati grezzi” sono il “codice sorgente” dell'archeologia e pertanto la loro paternità intellettuale va riconosciuta e tutelata, cosa che
oggi di fatto non avviene (il che in parte spiega la scarsa propensione dei ricercatori a
consegnarli e i loro timori di venirne espropriati).
Una qualunque ricognizione negli archivi delle Soprintendenze, peraltro accessibili
con sempre maggiori difficoltà per via dei drammatici tagli di fondi e personale che in
questi ultimi anni hanno colpito il MiBAC, rivela in compenso la presenza di documenti
d’interventi “minori”, per lo più indagini d’emergenza di limitata estensione (strette
trincee per il controllo di condutture sotterranee, carotaggi finalizzati all’analisi di un
terreno da edificare, piccoli scavi
per la posa in opera di pozzetti...),
che non giungono mai a essere pubblicati perché ritenuti poco significativi, in quanto restituiscono dati
frammentari e apparentemente inspiegabili, ma che possono ricevere
luce dal confronto con altri dati.
Frattanto il tempo passa e i dati
invecchiano, inutilizzati o sottoutilizzati, mentre noi continuiamo a
produrne quotidianamente di
9. nuovi, spesso con costi molto elevati – specie in
questi tempi di crisi –, il cui uso però continua a
essere limitato, nel migliore dei casi, a pochi o
pochissimi riutilizzi. E allora: ricicliamo i “dati
grezzi”, lasciamoli liberi per altre analisi su scale
differenti, per fornire risposte a domande diverse o in relazione ad altre indagini, o ancora
per riutilizzarli con obiettivi differenti (ad esempio di valorizzazione turistica), sempre però nel
pieno rispetto della paternità intellettuale di chi
quei dati ha prodotto. E quegli stessi dati, aggregati in maniera diversa, produrranno nuova conoscenza.
Nel caso dei dati archeologici, la questione
dell’accesso acquista una particolare importanza
non solo per il progresso della ricerca, ma anche
perché la rapida circolazione delle informazioni
e la trasparenza dei processi di analisi, interpretazione e ricostruzione storica ha una ricaduta
immediata sull’efficacia dell’attività di tutela del
patrimonio archeologico: come si può pensare
di concedere un’autorizzazione all’edificazione
o di redigere una VIArch (Valutazione di Interesse Archeologico) in assenza di dati aggiornati?
E, di conseguenza, ha una ricaduta immediata su un modello di pianificazione territoriale
rispettoso dei resti sepolti. Ma c’è di più. Far uscire le informazioni dal chiuso degli archivi tradizionali, dai laboratori di ricerca e dagli studi professionali, portare a conoscenza della comunità che cosa si conserva sotto i suoi piedi, coinvolgerla e renderla
partecipe dell’importanza di quei resti, aiutandola a riappropriarsi, in un certo senso, di
essi è strategico per far maturare nella coscienza collettiva la consapevolezza della necessità di preservare le tracce del passato per le generazioni future: e questa è la miglior
garanzia per la loro tutela.
A questo dibattito, il progetto MAPPA – Metodologie Applicate alla Predittività del potenziale Archeologico, finanziato della Regione Toscana e realizzato dall’Università di Pisa
con la collaborazione delle Soprintendenze per i Beni archeologici della Toscana e per
i Beni Architettonici, Paesaggistici, Artistici, Storici ed Etnoantropologici di Pisa e Livorno, e inoltre della Direzione Regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Toscana e del Comune di Pisa, ha offerto il proprio contributo in modo concreto,
elaborando il MOD - MAPPA Open Data (www.mappaproject.org/?page_id=454) il primo
archivio archeologico italiano open data, inserito nella lista dei repositories consigliati dal
“Journal of Open Archaeological Data” (http://openarchaeologydata.metajnl.com).
10. Nel MOD chiunque può pubblicare a proprio nome i dati dei propri scavi, in qualunque parte d’Italia essi si trovino. “Pubblicare” – ho detto – perché l’inserimento della
documentazione archeologica nel MOD è una pubblicazione a tutti gli effetti, il cui diritto d’autore è tutelato da un codice DOI (Digital Object Identifier: ad es.
10.4456/MAPPA.2013.21), che lega per sempre quei documenti al nome del loro autore
(o dei loro autori) ed è riconosciuto a livello internazionale, esattamente come i codici
ISBN (International Standard Book Numbers) delle monografie e ISSN (International Standard
Serial Numbers) dei periodici: una pubblicazione – però – in tempi velocissimi, a costo
zero e, essendo on line, con un potenziale di disseminazione che nessuna forma di pubblicazione cartacea potrà mai sperare di avere, specie in questi tempi di crisi, in cui biblioteche e studiosi riescono sempre meno a far fronte all’acquisto di nuovi volumi e
riviste.
L’uso dei dati pubblicati nel MOD è consentito sulla base di due licenze Creative Commons, le licenze che, in tutto il mondo, rendono possibile il riuso creativo di opere dell'ingegno altrui, nel pieno rispetto delle leggi esistenti nelle varie nazioni. La scelta della
licenza spetta all’autore dei documenti:
- il primo tipo, CC-BY, comporta esclusivamente l’obbligo, per
chi intende riusare quei dati, di citarne l’autore e la fonte, esattamente come si fa per qualsiasi articolo a stampa o monografia;
- il secondo tipo, CC-BY-SA (share alike), oltre all’obbligo di citazione, impone anche di rilasciare le informazioni che si elaborano, a partire da quei dati, nello stesso formato open con il
quale si sono ricevute, incrementando così un processo virtuoso che un po’ alla volta
porta alla condivisione di quantità sempre maggiori di dati, secondo il principio del file
11. sharing: “io ti do il mio lavoro in formato open e tu restituisci alla collettività il tuo nello
stesso formato”.
Del resto, se si parte dalla considerazione che la pratica archeografica – sia essa frutto
del lavoro di ricercatori afferenti a strutture pubbliche, come le Università e le Soprintendenze, o di professionisti – è sempre e comunque un’attività di ricerca, dal momento
che produce dati unici e irripetibili, e che ogni buona ricerca si conclude con la divulgazione dei dati, appare evidente come la divulgazione dei “dati grezzi” e della “letteratura grigia” debba essere considerata anch’essa una pubblicazione a tutti gli effetti,
salvaguardando sia le competenze che la capacità professionale e l’impegno, anche temporale, profuso da chi quei dati ha prodotto con il suo lavoro sul campo.
Il MOD è nato utilizzando come primo set i dati archeografici e archeologici relativi
a indagini effettuate nel comprensorio urbano di Pisa. L’obiettivo, tuttavia, non è stato
realizzare un modello verificato ed esportabile per la creazione di numerosi altri archivi,
magari scarsamente comunicanti tra loro, bensì quello di proporre il MOD stesso come
l’archivio italiano di dati archeologici grezzi, luogo virtuale e struttura digitale entro la
quale possano finalmente trovare spazio tutti quei dati fino ad oggi inaccessibili in rete,
come accade nell’ADS di York. Crediamo prioritario, infatti, non disperdere energie e
risorse nella creazione di mille archivi locali, ma mettere a disposizione della collettività
il lavoro già fatto.
A tale scopo, il MOD è stato strutturato in modo assai semplice. In esso tutti gli in-
12. terventi archeologici, di qualsiasi tipo o dimensione – dal grande scavo alla piccola trincea per la posa in opera di cavi – hanno la stessa visibilità. Ogni intervento è identificato
con il nome della località dov’è stato realizzato, la tipologia e l’anno di esecuzione. Una
scansione per macro periodi storici e tematiche archeologiche permette una prima sommaria classificazione dei dati, che aiuta ad orientare l’utente nella navigazione. Il campo
“ricerca avanzata” consente di affinare la consultazione aggiungendo, ai campi tematici
e cronologici, l’anno di intervento, le parole note all’interno del nome del file, il nome
dell’autore e il formato del file da ricercare.
Per ogni singolo intervento sono presenti:
- una pagina di introduzione, con una scheda sintetica di presentazione dell’indagine;
- una pagina dedicata alla “letteratura grigia” (relazioni), con l’indicazione della modalità
esatta di citazione dei documenti;
- una pagina contenente tutta la documentazione disponibile (dataset), suddivisa per tipologia (grafica, fotografica, compilativa).
In tutte le pagine rimangono costantemente visibili il codice DOI e il nome dell’autore (o degli autori), che sanciscono il riconoscimento della documentazione inserita
nel MOD come effettiva pubblicazione scientifica, e inoltre il contatto principale al quale
chiedere eventuali informazioni (solitamente l’autore), il nome dell’intervento e l’anno
di esecuzione.
Il MOD è stato predisposto per accogliere documenti in qualunque formato siano
stati redatti: dwg, pdf, jpg, csv, xml, xls e anche semplici scansioni di materiale cartaceo.
13.
14. È sufficiente? No: siamo consapevoli che
non tutti i formati sono open source o machine
readable e che pertanto non tutti i documenti
raggiungono gli standard definiti nel 2010
dalla Open Knowledge Foundation, secondo la
quale «un dato si definisce aperto se chiunque è in grado di utilizzarlo, riutilizzarlo e
redistribuirlo, al massimo con l’obbligo di
attribuzione e condivisione allo stesso
modo». Ma per l’archeologia italiana, oggi,
è urgente e necessario partire! Partire con
ciò che abbiamo, nei formati disponibili,
senza pretendere di “riscrivere” tutto; iniziare cioè a liberare dati e a far circolare informazioni. In altre parole, fare il primo e
fondamentale passo: cambiare la mentalità degli archeologi, che non sono abituati a
condividere apertamente i dati da loro prodotti – per timore di esserne scippati, ma
anche per paura di essere criticati – vincendo la loro diffidenza affinché possano scoprire
l’utilità e le immense possibilità che il file sharing può offrire. Ogni dato, infatti, ha un
proprio potenziale informativo, ma se si mettono
insieme tanti dati e li si
incrocia con altri dati, il
potenziale informativo
cresce in maniera esponenziale. Non solo: mettere a disposizione dei
ricercatori grandi quantità di dati, processabili
automaticamente, significa traghettare l’archeo-
15. logia nel campo dei Big Data e immaginare di arrivare ad analisi su larga scala effettuate,
come avviene in tutti gli altri campi della scienza, con metodi statistici e modelli matematici, che oggi in archeologia non possono essere impiegati proprio a causa del modo
frammentato in cui vengono disseminati i dati. Un esempio di quali risultati si possano
ottenere con queste metodologie di ricerca è costituito dalla Carta di potenziale archeologico
di Pisa e dalle ricostruzioni della città periodo per periodo, che sono state elaborate con
un algoritmo creato appositamente nell’ambito del Progetto MAPPA, tutte consultabili
in formato open sul sito www.mappaproject.org.
Il MOD è ovviamente uno strumento ancora ampiamente migliorabile e proprio il
suo utilizzo e gli input che verranno dagli utenti saranno di fondamentale importanza
per progettare gli sviluppi futuri: l’auspicio è infatti che il MOD, oltre ad essere un luogo
di pubblicazione di dati, diventi anche un luogo di riflessione comune, secondo il collaudato modello anglosassone che vede i fatti orientare le riflessioni e guidare le scelte,
e non viceversa.
Il MOD vuol essere dunque anche un potente incentivo a migliorare gli standard del nostro lavoro e a
migliorarci, mettendo a frutto quanto di meglio ci offre
la moderna tecnologia: e questo è il modo migliore per
combattere la crisi che ci colpisce, come scriveva quasi
un secolo fa, all’indomani della grande depressione del
1929, Albert Einstein (Il mondo come io lo vedo, 1931):
«Non possiamo pretendere che le cose cambino, se
continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più
grande benedizione per le persone e le nazioni, perché
la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia, come il giorno nasce dalla notte
buia. È nella crisi che sorgono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie.
Chi supera la crisi, supera se stesso senza essere ‘superato’. Chi attribuisce alla crisi i
propri fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi
che alle soluzioni. L’inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare
soluzioni e vie d’uscita.
Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è routine. Senza crisi non c’è merito.
È nella crisi che emerge il meglio di ognuno di noi, perché senza crisi tutti i venti sono
solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla e tacere nella crisi è esaltare il
conformismo.
Invece lavoriamo duro. E finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa,
che è la tragedia di non voler lottare per superarla».
M. Letizia Gualandi
Università di Pisa
Dipartimento di Civiltà e forme del sapere