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Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”
Facoltà di Economia
Corso di
Marketing agroalimentare

Gervasio Antonelli

Marketing dei prodotti agroalimentari tipici e di qualità
Dispense per gli studenti del corso di Marketing agroalimentare

Anno Accademico 2010-2011
Indice
1. Il concetto di prodotto agroalimentare tipico

p. 2

2. La tipicità come elemento di differenziazione dei prodotti
agroalimentari

p. 5

3. La regolamentazione dell’Unione Europea per le denominazioni

p. 16

di origine (Dop) e le indicazioni geografiche (Igp)

4. Le produzioni Dop e Igp in Italia

p. 18

5. L’organizzazione produttiva ed economica

p. 21

6. La specificità della domanda di prodotti tipici

p. 23

7. Dimensione dell’offerta e strategie di marketing

p. 25

8. Modelli competitivi e strategie di sviluppo dei prodotti tipici

P. 29

8.1. Tipologie di prodotto e struttura dell’offerta

P. 29

8.2. Modelli e strategie di sviluppo

p. 32

9. Prodotti tipici e sviluppo locale

p. 39

Riferimenti bibliografici

p. 41

Appendice
I prodotti tradizionali delle Marche (BUR Marche n. 100 del 5.10.2000)

p. 44

1
1. Il concetto di prodotto agroalimentare tipico

Il concetto di tipicità del prodotto agroalimentare è caratterizzato, in generale, da una
certa indeterminatezza derivante da uno scarso livello informativo sia dei consumatori
che degli stessi produttori di materie prime agricole e degli altri operatori della filiera. I
consumatori tendono ad associare il concetto di tipicità a valori più disparati (qualità del
prodotto, genuinità, origine geografica, lavorazione tradizionale, espressione di una
tradizione, cultura e storia di un territorio). I produttori spesso dimostrano di non avere
ben chiaro il concetto di tipicità e, soprattutto, come questa accezione possa essere
tradotta in strategie di marketing e di sviluppo dell’impresa (Nomisma, 2001). In realtà,
la tipicità costituisce, anche se solo allo stato potenziale, un importante strumento per la
differenziazione del prodotto basata sulla identificazione dell’immagine dello stesso con
le caratteristiche ambientali, storiche e culturali del territorio di provenienza. Va,
comunque, osservato che questa situazione si traduce in differenziazione effettiva solo se
percepita dal consumatore. In questa prospettiva il marketing ha un ruolo chiave per la
comunicazione al consumatore del valore della tipicità.
Per arrivare all’individuazione degli elementi che qualificano la tipicità dei prodotti
agroalimentari è necessario evidenziare, in primo luogo, che questa emerge dal legame
del prodotto con il territorio di origine sulla base della considerazione che alcune realtà
territoriali possiedono “saperi” consolidati nell’arco degli anni, oltre che risorse umane
e materiali che consentono di realizzare prodotti agroalimentari non massificati. In
questa impostazione, è implicito il fatto che il concetto di territorio di origine viene
assunto nella sua eccezione più ampia, e cioè non solo con riferimento alle variabili
strettamente ambientali (caratteristiche climatiche, podologiche, paesaggistiche, ecc.),
ma anche al know-how accumulato nel tempo circa le tecniche di produzione, nonché
le tradizioni storiche, culturali e istituzionali specifiche. In altri termini, per tipico si
intende tutto ciò che un determinato territorio, nell’accezione appena sopra richiamata,
veicola al prodotto rendendolo “unico” e non riproducibile con le stesse caratteristiche
in altri luoghi. Ciò fa sì che il concetto di tipico non possa essere attribuito
schematicamente a ciò che si produce in una certa area e, quindi, considerarlo semplice
sinonimo di locale. Infatti, per prodotto locale si intende tutto ciò che viene prodotto in

2
un determinato luogo, pur senza essere legato alla sua cultura e tradizione (Idda,
Benedetto, Furesi, 2004).
Il concetto di prodotto agroalimentare tipico esclude, quindi, la possibilità che lo stesso
prodotto possa essere rinvenuto con le stesse caratteristiche in altre aree. Infatti, il
significato del termine tipicità implica la definizione di un prodotto contraddistinto da
caratteri unici, ben specifici, identificabili e ripetibili nel tempo. Un prodotto, cioè, che
presenti alcune caratteristiche peculiari, che vanno dalla sua collocazione all’interno della
tradizione e della cultura locale, alla localizzazione geografica dell’area di produzione,
alla qualità della materia prima e alle tecniche di produzione.
Una possibile schematizzazione degli elementi che concorrono alla definizione della
tipicità è riportata in tabella 1. Nel caso riportato, gli elementi che definiscono la tipicità
riguardano le caratteristiche richieste agli input di produzione e alle tecniche di
lavorazione relative alle materie prime agricole da utilizzare, alla fase di trasformazione e
a quella di stagionatura e di conservazione.

Tab. 1. Elementi della tipicità agroalimentare

Input di produzione
Materie prime agricole

Tecniche

Razza, varietà, cultivar, tipo
di alimentazione

Trattamenti, lavorazioni, operazioni
colturali, modalità di raccolta

Salatura, tipo di caglio,
ingredienti

Parametri chimico-fisici di gestione,
tecnica di cottura, tecniche di
spremitura

Trasformazione

Stagionatura,
conservazione

Tempi di stagionatura, modalità di
conservazione

Fonte: Elaborazione su Nomisma (2001)

3
Ora, dal momento che il carattere distintivo dei prodotti agroalimentari tipici è dato dalle
diverse componenti materiali e immateriali che il territorio veicola nei prodotti stessi,
l’intrecciarsi di questi attributi con un diverso legame con il territorio di riferimento dà
luogo a diversi livelli di tipicità. La stessa normativa dell’Unione Europea sulle
denominazioni di origine (Regolamenti (CEE) n. 2081/92 e n. 2082/92) definisce livelli
crescenti di specificità rispettivamente per Stg (Specialità tradizionale garantita), IGP
(Indicazione geografica protetta)1 e Dop (Denominazione d’origine protetta)2. Ai prodotti
coperti dal marchio comunitario Dop o Igp si aggiungono, inoltre, quelli che, a vario
titolo, si propongono al consumatore come tipici, in quanto ad essi vengono associati
significati diversi che vanno dal generale attributo della qualità organolettica, all’origine
geografica delimitata, alla lavorazione tradizionale o artigianale, alla storia e alla cultura
locale (Nomisma, 2001).
La questione del livello di tipicità presenta anche aspetti di carattere economico che
investono le stesse opportunità di sviluppo del settore. Ci si riferisce alle capacità
competitive delle imprese e delle filiere, data la presenza di una generale correlazione
positiva tra vincoli previsti dalla normativa in materia e costi di produzione. Inoltre, il
rapporto fra produzione tipica e territorio dà luogo ad un sistema di interazioni e di
relazioni orizzontali e verticali (di filiera) complesse e articolate che investono sia aspetti
socio-economici che istituzionali. Infatti, in questi ultimi anni, il tema dei prodotti tipici
ha trovato ampio spazio nel dibattito più generale relativo allo sviluppo del settore
agroalimentare italiano. Il quadro analitico che emerge evidenzia le potenzialità di
sviluppo del sistema delle produzioni tipiche e lo stretto rapporto tra queste e lo sviluppo
agricolo e territoriale locale. Inoltre, dal momento che la tipicità costituisce un fattore di
differenziazione delle produzioni, questo sviluppo può essere realizzato, a differenza

1

Per Indicazione geografica protetta (Igp) si intende il nome di una regione, di un luogo determinato o, in
casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare originario di tale
regione, di tale luogo determinato di cui una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica
possa essere attribuita all’origine geografica e la cui trasformazione e/o elaborazione avvengono nell’area
geografica determinata.
2

Per Denominazione di origine protetta (Dop) si intende il nome di una regione, di un luogo determinato o,
in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare originario di tale
regione, di tale luogo determinato e la cui qualità o le caratteristiche siano dovute essenzialmente o
esclusivamente all’ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produzione,
trasformazione ed elaborazione avvengono nell’area geografica delimitata.
4
delle produzioni di tipo commodity per le quali la competizione si realizza in termini di
prezzo, attraverso strategie non-price competition.
Dal momento che ciò che qualifica i prodotti agroalimentari tipici è il legame tra prodotto
e territorio di origine nelle sue diverse componenti, le caratteristiche sulle quali far leva
per una differenziazione del prodotto, sia di carattere psicologico che sostanziale, sono
molteplici, anche se tutte riconducibili alle specificità del territorio di cui il prodotto porta
il nome e si realizza. In questa prospettiva, si va dai fattori più strettamente ambientali e
fisici (caratteristiche climatiche, podologiche, ecc.) che conferiscono attraverso la materia
prima agricola qualità chimico-fisica e organolettica al prodotto finale, alle tecniche di
produzione derivanti dalle tradizioni e dal patrimonio tecnologico e istituzionale
accumulato negli anni, sino alla qualità immateriale connessa con l’immagine e le
componenti storiche, culturali e paesaggistiche del territorio stesso. Questi fattori
contribuiscono alla differenziazione del prodotto e a conferire allo stesso caratteristiche
distintive, come risultato dell’interazione di tre componenti proprie del territorio che
entrano in gioco nella realizzazione del prodotto tipico: l’ambiente fisico e il paesaggio;
le risorse umane e la tecnologia; la cultura e le istituzioni (Berni, Begalli, 1998).
Ai fini della valorizzazione delle produzioni tipiche, oltre alle strategia di marketing
messe in atti dalle imprese o dai sistemi di imprese, acquistano un ruolo di primaria
importanza anche le politiche di regolamentazione della qualità e di tutela giuridica delle
produzioni tipiche, quali quelle attuate con i Regolamenti (CEE) n. 2081/92 e n. 2082/92,
istitutivi dei marchi Dop e Igp. La funzione di questi marchi è triplice: tutelare i prodotti
da abusi, imitazioni e usurpazioni; tutelare i consumatori, attraverso la garanzia di
un’informazione affidabile circa i prodotti che acquistano; tutelare le zone rurali, il cui
sistema socio-economico spesso dipende dallo sviluppo di produzioni agroalimentari di
qualità e tipiche (Giacomini, Mancini, Menozzi e Cernicchiaro, 2007).

2. La tipicità come elemento di differenziazione dei prodotti agroalimentari

Il concetto di differenziazione del prodotto si riferisce, in termini generali, alla
disponibilità di beni che presentano caratteristiche intrinseche differenti, ma
caratterizzati da forte somiglianza e da legami di forte sostituibilità. Tuttavia, al di là di
5
questa semplice definizione, il problema della differenziazione del prodotto si presenta
assai complesso in quanto investe sia le caratteristiche del prodotto sia il problema dei
segnali atti a far percepire al consumatore la differenza di un prodotto rispetto ad altri
della stessa categoria merceologica. Va sottolineato che ai fini delle strategie di
marketing è proprio quest’ultimo quello che conta maggiormente. Infatti, si può
osservare che, se il prodotto non è differenziato, la struttura di mercato in cui esso si
colloca è quella della concorrenza perfetta. In questa realtà di mercato, le imprese
agiscono in condizioni di price taker e il loro vantaggio competitivo si esprime
solamente nella capacità che hanno di offrire un prodotto a un prezzo inferiore a quello
dei concorrenti. Una situazione, questa, in cui, com’è noto, assumono importanza
fondamentale le dotazioni di risorse, la produttività e l’efficienza produttiva e, quindi, la
capacità, a parità di altre condizioni, di produrre a costi più bassi. Al contrario, la
possibilità di mettere in atto comportamenti di tipo price maker dipende sostanzialmente
dall’ampiezza del mercato, dal grado e dal tipo di differenziazione del prodotto che è
possibile attuare e dalla possibilità/capacità di formulare e mettere in atto appropriate e
efficaci politiche di marketing. In particolare, le realtà produttive agricole più deboli che
non hanno la possibilità di esprimere capacità competitive basate sui prezzi, hanno,
come alternativa, o quella di uscire dal mercato oppure quella di fare leva sulla qualità
come fattore di differenziazione del prodotto e posizionarsi all’interno di nicchie di
mercato che premiano questa strategia; nicchie che, tra l’altro, appaiono in rapida
espansione sia sul mercato interno che su quello internazionale grazie alla crescente
attenzione del consumatore moderno alle problematiche della qualità in un’accezione
che, oltre alle caratteristiche chimico-fisiche ed organolettiche del prodotto investe in
misura crescente aspetti immateriali e simbolici.
La differenziazione del prodotto agricolo e agroalimentare, tuttavia, non è sempre di
facile attuazione e dipende in larga misura dal tipo di produzione e dalla
possibilità/capacità dell’impresa (o di un sistema di imprese) di identificare il prodotto
con un marchio o con altri segni distintivi che possano essere riconosciuti dal
consumatore (per la definizione di marchio e di segni distintivi vedi il Prospetto 1).
In generale, va considerato che la possibilità di differenziare il prodotto è molto ridotta a
livello di azienda agricola, mentre aumenta nelle fasi più a valle della filiera, e cioè a
livello di

imprese di

trasformazione industriale o di

commercializzazione;
6
differenziazione che viene attuata attraverso lo sviluppo e la gestione di marche
industriali o, come nel caso delle imprese della distribuzione, di marche commerciali.
I prodotti tipici presentano, come abbiamo visto, alcune caratteristiche che si prestano a
una efficace differenziazione del prodotto anche nelle fasi più a monte della filiera,
utilizzando i segni distintivi del territorio; una differenziazione che, in altre parole, fa leva
su alcune caratteristiche peculiari che sono proprie del concetto di tipicità quali, ad
esempio, la collocazione del prodotto e delle tecniche produttive impiegate per la sua
realizzazione all’interno della tradizione e della cultura locale, la localizzazione
geografica dell’area di produzione, la qualità della materia prima impiegata e le tipicità
dei processi produttivi derivanti da una certa tradizione produttiva locale. Partendo dalle
implicazioni del legame o dei vincoli tra prodotto e territorio in termini di
differenziazione e di specificità, Nomisma (2001) ha sviluppato un approccio che
consente di analizzare sia la tipicità sia il rapporto tra prodotti tipici ed economia e
territorio. Questo approccio individua nella tipicità una componente della differenziazione
del prodotto che è presente, anche se con contenuto diverso, in una vasta gamma di
prodotti. In sostanza, i prodotti tipici costituiscono una categoria molto ampia e
complessa, che presenta elementi di differenziazione diversi secondo l’intensità o della
numerosità di vincoli associati al prodotto: la dimensione geografica del bacino di
approvvigionamento delle materie prime, la localizzazione degli impianti di
trasformazione, stagionatura e conservazione, il contenuto intrinseco delle materie prime,
le tecniche di gestione, ecc. In questo panorama trovano collocazione i prodotti con i
marchi di denominazione di origine istituiti dall’Unione Europea, per i quali, anche in
base ai Regolamenti istituitivi (Regolamenti (CEE) n. 2081/92 e n. 2082/92) si
riconoscono livelli crescenti di tipicità rispettivamente per Stg, Igp e Dop. A queste
categorie, si aggiungono i prodotti in attesa del completamento della procedura di
registrazione per la denominazione Dop o Igp e quelli che a vario titolo si propongono al
consumatore come tipici, quali i prodotti tradizionali, di fattoria, locali, dei parchi/aree
protette, ecc.
La tipicità rappresenta, quindi, una condizione per la differenziazione dei beni
agroalimentari; una condizione che esiste solo allo stato potenziale e che può essere
trasformata in differenziazione effettiva solo se attraverso appropriate ed efficaci
politiche di marketing il consumatore riesca a percepirne il valore. In sostanza, il
7
marketing ha la funzione di trasmettere i segnali di valore che, se riconosciuti e percepiti
favorevolmente dal consumatore, portano alla formazione di un premium price.
In questa prospettiva, il problema della differenziazione del prodotto, anche nella mente
del consumatore, richiede, in sostanza, che siano messe in atto politiche di marketing
volte a rimuovere situazioni di asimmetria informativa.
Si può osservare che situazioni di asimmetria informativa sono largamente presenti sui
mercati dei prodotti agroalimentari a causa della grande varietà di offerta di prodotti
apparentemente simili in quanto appartenenti alla stessa categoria merceologica e della
difficoltà per il consumatore di valutarne correttamente le differenze qualitative. Ciò è la
conseguenza della presenza di una molteplicità di requisiti del sistema prodottoproduttore non direttamente constatabili e valutabili dal consumatore (requisiti
nutrizionali e salutistici, l’efficacia dei sistemi di controllo del processo, l’origine, la
conformità igienica, l’applicazione di specifiche tecnologie, ecc.). In questo caso, a
svolgere la funzione di segnale di valore più efficace è, sostanzialmente, il prezzo e il
consumatore sceglierà il prodotto che a parità di beneficio percepito costi meno. Ciò
riduce la competitività delle imprese che offrono prodotti di più alta qualità, con la
conseguenza che sul mercato si rischia che rimangano soltanto prodotti di qualità
standard (in generale offerti dalle grandi imprese che seguono strategie di leadership di
costo) i cui prezzi riflettono i più bassi costi di produzione derivanti dallo sfruttamento
di alte economie di scala e dalle maggiori possibilità innovative. Le implicazioni della
presenza di asimmetria informativa possono essere analizzate con riferimento al
modello di Akerlof (1970).
Il modello di Akerlof suggerisce che in presenza di asimmetria informativa si ha una
riduzione sia della qualità media dei beni sia della dimensione del mercato. Una
situazione, questa, che può verificarsi in tutti quei mercati ove beni e servizi non sono
omogenei e la qualità dei prodotti offerti è nota solo al venditore, mentre l’acquirente
non ha possibilità di accedere alle informazioni necessarie, oppure per accedere alle
stesse è chiamato a sostenere un costo molto elevato o, comunque, superiore ai benefici
marginali a esso conseguenti. Il modello proposto da Akerlof ha per oggetto il mercato
delle auto usate (in americano, lemons), ma può essere esteso al caso dei prodotti
agroalimentari tipici e di più alta qualità quando il consumatore non ha tutte le
informazioni necessarie per valutare il prodotto. Il consumatore potrebbe anche decidere
8
di acquisire maggiori informazioni, ma queste richiedono un costo il cui ammontare
supera il beneficio aggiuntivo. Per cui, per la scelta si affiderà ai segnali di qualità più
direttamente accessibili e meno costosi, quali, ad esempio, il prezzo del prodotto.
Continuiamo, comunque, a seguire l’impostazione del modello di Akerlof, con
riferimento alle auto usate.
Poiché per definizione le auto usate sono indistinguibili, nel modello di Akerlof si
evidenzia come il prezzo che si stabilirà sul mercato in equilibrio, se un equilibrio esiste,
dovrà essere unico e rifletterà la qualità media delle auto scambiate. Il consumatore che
domanda di acquistare un’auto usata potrà, quindi, avere un’idea sulla sua qualità
osservando il prezzo; il prezzo è, quindi, l’unico strumento informativo. Tuttavia, se
questo riflette soltanto la qualità media, può avviarsi un meccanismo di selezione
avversa. In sostanza, se il prezzo non compensa i venditori delle auto di migliore
qualità, questi si ritireranno dal mercato e il prezzo si ridurrà. Questa riduzione, d’altra
parte, segnalerà agli acquirenti un peggioramento di qualità e il prezzo che questi sono
disposti a pagare diminuirà provocando un ulteriore abbassamento della qualità. Un
processo, questo, che potrà andare avanti fino a quando sul mercato non siano offerte
solo auto usate di peggiore qualità. Ovviamente, nel modello di Akerlof i proprietari
delle auto di migliore qualità hanno interesse a segnalare il buono stato delle loro auto,
ad esempio, attraverso certificati di garanzia. Più in generale, quello dei segnali è uno
dei mezzi con cui si cerca di superare i problemi delle selezione avversa.
Le implicazioni del modello di Akerlof possono essere viste con riferimento ai prodotti
agroalimentari, i quali, anche quando appartengono alla stessa categoria merceologica,
spesso non sono omogenei in termini qualitativi e il consumatore non dispone delle
informazioni per valutare il differenziale qualitativo tra loro esistente e sarà portato a
scegliere il prodotto che ha un prezzo più basso. Ne consegue che il prodotto di più
elevata qualità (e anche più costoso) o resterà invenduto oppure dovrà essere venduto ad
un prezzo uguale a quello dei prodotti standard. Il livello di questo prezzo, non è,
tuttavia, come abbiamo detto, sufficiente a compensare i produttori dei più alti costi di
produzione. Questo processo determinerà una riduzione dell’offerta dei prodotti di più
alta qualità, sino a portare, nel più lungo periodo, alla scomparsa sul mercato di questa
categoria di prodotti a vantaggio dei soli prodotti di qualità standard.

9
Il problema connesso con la presenza di asimmetria informativa può anche essere
schematizzato attraverso una rappresentazione grafica in cui sono riportati i costi di
produzione (medi e marginali) di due imprese che producono, ad esempio,
rispettivamente, olio extravergine di oliva di qualità standard e olio extravergine di oliva
di qualità più elevata e il prezzo di mercato dei prodotti standard e quello che sarebbe
necessario per remunerare i produttori che offrono prodotti di più alta qualità (premium
price) (figura 1). Per consentire ai produttori che offrono olio di oliva di più elevata
qualità di coprire i costi di produzione occorrerebbe, come si vede, che il prezzo fosse
superiore al prezzo di mercato dei prodotti standard e, cioè, almeno pari a P*.

Il

consumatore, anche se interessato ad acquistare un prodotto di più alta qualità, si
presume che acquisterà il prodotto più caro solo se sarà in grado di percepirne il
differenziale qualitativo. Altrimenti, il suo comportamento razionale lo porterà ad
acquistare il prodotto che ha un prezzo più basso. Pertanto, per il produttore di olio
extravergine di oliva di più elevata qualità il problema è quello di riuscire a “comunicare”
al consumatore le caratteristiche qualitative (organolettiche, nutrizionali e immateriali)
che differenziano il suo prodotto da quello standard. In sostanza, si tratta di mettere in
atto una strategia che consenta di differenziare il prodotto non solo sul piano sostanziale,
ma anche nella percezione del consumatore (vedi prospetto 2).

10
Figura 1. Prezzo di mercato, premium price e costi di produzione di due prodotti (ad
esempio, oli extravergine di oliva) non omogenei in termini qualitativi
OLIO EXTRA VERGINE DI OLIVA DI
PIÚ ALTA QUALITA’

OLIO EXTRA VERGINE DI OLIVA
DI QUALITA’ STANDARD

C

M

C

C

C

C

m

m

M

m

C

M

P

P*
P
(mercato)

Quantità
CM = Costo Medio
Cm = Costo Marginale
P = Prezzo del prodotto di qualità standard

Quantità

P* = Premium price

11
PROSPETTO 1
Marchi collettivi e segni distintivi come strumenti di differenziazione dell’offerta
agroalimentare e di comunicazione al consumatore

Il marchio
Il marchio rappresenta uno strumento per distinguere i prodotti e servizi sul mercato e
un mezzo di comunicazione con il consumatore. In tal senso il marchio diventa uno
strumento decisivo nella strategia commerciale dell’azienda, a tal punto da
rappresentare una parte consistente del suo stesso valore. Si possono individuare
differenti tipologie di marchio, in riferimento all’oggetto e al contenuto. In riferimento
alla titolarità e alle funzioni, una distinzione importante è tra marchio individuale e
marchio collettivo. Una distinzione, questa, molto importante ai fini delle
problematiche connesse con i prodotti tipici.

Marchio collettivo
Ai fini delle problematiche connesse con i prodotti tipici, un ruolo importante viene
assolto proprio dal marchio collettivo come strumento di comunicazione e di garanzia
(Albisinni, Carretta, 2003). Si tratta di un marchio richiesto da soggetti, individuali o
collettivi, che ha la funzione di garantire la natura, la qualità, l’origine di determinati
prodotti o servizi. Può essere utilizzato da più persone che si assoggettano
all’osservanza di determinati standard di qualità e ai relativi controlli stabiliti da un
regolamento. I marchi collettivi sono soggetti a una disciplina specifica, che si
differenzia da quella dei marchi individuali sia sotto il profilo dei soggetti cui è
consentita la titolarità, sia sotto quello dei presupposti ai quali è legato il
riconoscimento, sia, infine, quanto attiene alla disciplina applicativa e agli strumenti
utilizzati. Il tratto che caratterizza la disciplina del marchio collettivo e la distingue da
quello individuale è il fenomeno della dissociazione fra titolarità del segno distintivo e
suo uso, nel senso che il soggetto che richiede ed ottiene la registrazione non coincide
con l’utilizzatore del medesimo. In Italia, la legislazione sui marchi è stata oggetto di
revisione nel 1992 con il d.lgs. 480/1992 che recepisce la direttiva comunitaria
89/104/CEE. Questa normativa, a differenza di quella precedente che assegnava al
12
marchio collettivo la funzione tipica del marchio d’impresa (cioè di permettere
l’identificazione di prodotti e servizi provenienti dalle imprese utilizzatrici, senza alcun
profilo o con profili secondari di garanzia di qualità del prodotto), enfatizza il legame
tra il segno e la garanzia della sua conformità alle regole d’uso, circa la natura, qualità e
origine, che il titolare è tenuto a fornire.

La classificazione dei marchi collettivi nel settore agroalimentare
I marchi collettivi nel settore agroalimentare sono riconducibili a due tipologie
principali:
marchio collettivo geografico o territoriale, indicante la provenienza da determinate
aree geografiche (es. “Patata tipica di Siracusa” del Consorzio della Patata tipica di
Siracusa, Nettarine di Romagna Igp, marchi consortili strettamente legati ai
riconoscimenti comunitari Dop/Igp, ecc);
marchio collettivo di qualità, se il disciplinare attiene a caratteristiche del processo di
produzione o del prodotto in relazione all’impiego di determinate materie prime o loro
combinazioni.

Queste due tipologie di marchi collettivi possono essere, a loro volta, sotto classificate
sulla base di:
- i prodotti coperti dall’uso del marchio: il marchio è unisettoriale o di prodotto, se
interessa prodotti di un unico genere (AB Carni, Certa Naturale, Eletta, ecc.), mentre è
ad ombrello se coinvolge prodotti di genere diverso (ad esempio, marchi di qualità ad
ombrello che raggruppano diverse categorie di prodotti accomunati dalle tecniche di
produzione biologica, il marchio QC Qualità Controllata dell’Emilia Romagna, Qualità
certificata Veneto, ecc.);
- la titolarità: il marchio collettivo è pubblico se il titolare è un ente pubblico mentre è
privato quando il titolare è un soggetto privato, generalmente nella forma giuridica di
consorzio o di un’associazione.

I segni distintivi
Il termine marchio viene spesso utilizzato per definire le denominazioni di origine
13
protetta (Dop) e le indicazioni geografiche protette (Igp). In realtà, nel caso delle
produzioni Dop e Igp si deve parlare, più propriamente, di segni distintivi. Come i
marchi collettivi, anche i segni distintivi possono essere geografici o di qualità, a
seconda che il riferimento sia riconducibile all’area di provenienza o alle tecniche
produttive.
I segni distintivi, pur rispondendo in termini funzionali alla medesima esigenza di
differenziazione assolta dai marchi, presentano alcune importanti differenze sul piano
giuridico rispetto al marchio collettivo. In particolare, i segni distintivi costituiscono un
patrimonio collettivo indisponibile. Infatti, l’utilizzo dei segni distintivi geografici è
riservato solo a coloro che rientrano nella zona d’origine, laddove lo strumento
“marchio collettivo” non po’ riservare ai concessionari del marchio l’uso esclusivo del
riferimento geografico che può essere utilizzato anche da terzi, seppure affiancato da
altra denominazione, onde rispettare la riserva di legge. I segni distintivi geografici
sono le denominazioni di origine protetta (Dop) e le indicazioni geografiche protette
(Igp), mentre sono segni distintivi di qualità le attestazioni di conformità alle
disposizioni in materia di produzione biologica (Giacomini, Mancini, Menozzi e
Cernicchiaro, 20007, pp. 9-18)

PROSPETTO 2
Asimmetria informativa e mercato dell’olio extravergine di oliva di alta qualità
Uno dei problemi fondamentali che caratterizza il mercato dei prodotti agroalimentari è
costituito dalla difficoltà che incontra il consumatore a percepire la differenza
qualitativa dei diversi prodotti presenti sul mercato e, pertanto, di riuscire a orientarsi
nelle scelte utilizzando come criterio la qualità. Il caso che qui presentiamo è riferito,
specificatamente, all’olio extravergine di oliva, ma può essere facilmente generalizzato
ad altri prodotti agroalimentari, quando sul mercato si verifica una situazione in cui a
fianco a un’offerta standardizzata, si collocano prodotti tipici o altri prodotti cosiddetti
specialità Woods i cui prezzi sono anche molto più alti dei primi.
Il problema qui richiamato è riconducibile a quello più generale della presenza di
asimmetria informativa. Questo, nel settore dell’olio extravergine di oliva ma, in
generale, in tutti gli ambiti agroalimentari, si configura come una situazione in cui il
14
consumatore non possiede le informazioni necessarie per identificare e quantificare le
proprietà qualitative dei diversi prodotti che si offrono alla scelta. Egli potrebbe
decidere di approfondire la conoscenza svolgendo un’attività di ricerca di ulteriori
informazioni sulla qualità del prodotto, ma ciò richiede un determinato costo che il
consumatore sarà propenso a sostenere solo se comporterà un beneficio marginale
almeno uguale al costo aggiuntivo. In alternativa, il consumatore si affiderà ai segnali di
qualità più direttamente accessibili (e anche meno costosi) quali, ad esempio, il prezzo,
ma anche la notorietà della marca. Ne consegue che il prodotto che ha un più alto
prezzo, anche se di più elevata qualità, è destinato a restare invenduto oppure, per
trovare acquirenti, il produttore dovrà accettare un prezzo più basso, anche questo non è
sufficiente a coprire i costi di produzione.
Con riferimento al settore specifico dell’olio extravergine di oliva si nota, ad esempio,
che sugli scaffali dei supermercati, accanto a bottiglie di olio extravergine di oliva il cui
prezzo varia dai 3 ai 5 euro, si trovano anche bottiglie di olio extravergine di oliva i cui
prezzi sono nettamente superi. Si tratta di oli che sotto la stessa categoria (olio
extravergine di oliva), presentono caratteristiche qualitative specifiche che il
consumatore può valutare solo sulla base del prezzo, essendo gli altri requisiti della
qualità non direttamente (né facilmente) constatabili e valutabili. In sostanza, il prodotto
che ha prezzi più elevati, anche se è stato realizzato da una filiera interamente orientata
alla qualità, ossia determinata da processi produttivi che richiedono particolari
attenzioni alle condizioni pedoclimatiche del terreno, alla scelta delle varietà adottate, al
tipo di coltivazione, alle modalità di raccolta, alla tipologia di impianti di spremitura, al
tipo di lavorazione adottata, alle tecniche di conservazione e al confezionamento, ecc.,
rischia di restare invendute a causa della mancanza di segnali che consentano al
consumatore di percepire la differenza qualitativa rispetto al prodotto meno caro;
percezione che, tra l’altro, come abbiamo sottolineato, è necessaria per ottenere da parte
del consumatore la disponibilità a pagare un prezzo più elevato (premium price),
rispetto a quello dei prodotti concorrenti. Ovviamente, poiché i comportamenti
necessari per realizzare un prodotto di più elevata qualità comportano anche più alti
costi di produzione rispetto ai concorrenti che offrono prodotti di qualità standard,
l’acquisizione di un premium price è una condizione necessaria per disporre di
un’offerta che abbia requisiti di qualità più elevati.
15
3. La regolamentazione dell’Unione Europea per le denominazioni di origine (Dop)
e le indicazioni geografiche (Igp)

La produzione dei prodotti tipici presenta alcune caratteristiche specifiche che derivano
dalla struttura organizzativa della produzione e dai requisiti richiesti al processo
produttivo. Alla tipicità, infatti, si associano effetti e condizionamenti di natura tecnica,
organizzativa ed economica, previsti dalla normativa in materia e dal disciplinare di
produzione al quale i prodotti sono chiamati a conformarsi.
Per i prodotti a marchio di Denominazione di origine protetta (Dop) o di Indicazione
geografica protetta (Igp), ai sensi del Regolamento (CEE) n. 2081/92, è richiesta la
conformità ai requisiti fissati nel disciplinare depositato in sede comunitaria e
l’accertamento di tale conformità da parte di un organismo a ciò legalmente riconosciuto.
Il Regolamento (CEE) n. 2081/92 che concerne la protezione delle denominazioni
d’origine (Dop) e delle indicazioni geografiche (Igp) (successivamente abrogato dal
Regolamento (CE) n. 510/06), stabilisce, ai sensi dell’art. 2, che si intende per
denominazione di origine protetta (Dop) “il nome di una regione, di un luogo determinato
o in casi eccezionali di un Paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare:
- originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale Paese e
- la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente
all’ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali e umani e la cui produzione,
trasformazione ed elaborazione avvengano nell’area geografica delimitata”.
La normativa prevede che vi sia uno stretto legame tra il prodotto e l’area di origine.
Per indicazione geografica di origine (Igp) si intende “il nome di una regione, di un luogo
determinato o in casi eccezionali di un Paese che serve a designare un prodotto agricolo o
alimentare:
- originario di tale regione, di tale luogo determinato odi tale Paese e
- di cui una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica possa essere
attribuita alla regione geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione
avvengono nell’area geografica determinata”.

16
La differenza tra Igp e Dop consiste nel fatto che mentre per l’Igp è sufficiente che una
sola fase della produzione sia strettamente legata all’ambiente geografico (per quanto
debba comunque essere un prodotto originato nella regione di cui porta il nome e deve
avere una reputazione che possa essere attribuito alla sua origine geografica), la Dop si
applica a produzioni il cui intero ciclo produttivo, dalla produzione della materia prima al
prodotto finito, è localizzato all’interno di un’area geografica ben delimitata e non è
riproducibile al di fuori della stessa.
Un’altra caratteristica prevista dal Regolamento riguarda il disciplinare. L’articolo 4 del
Regolamento (CEE) 2091/92 prevede che “per beneficiare di una Dop o di una Igp, i
prodotti devono essere conformi ad un disciplinare”; cioè la denominazione o indicazione
deve sottostare ad una serie di requisiti previsti dal regolamento stesso. In particolare, è
richiesto che il disciplinare deve comprendere almeno i seguenti elementi:
a) il nome del prodotto agricolo o alimentare con la denominazione d’origine o
l’indicazione geografica;
b) la descrizione del prodotto mediante indicazione delle materie prime e delle principali
caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche e/o organolettiche;
c) la delimitazione della zona geografica;
d) gli elementi che comprovano che il prodotto agricolo o alimentare è originario della
zona geografica (Dop o Igp);
e) la descrizione del metodo di trasformazione, lavorazione, conservazione o
stagionatura;
f) gli elementi che comprovano i legami con l’ambiente geografico o con l’origine
geografica;
g) i riferimenti relativi alle strutture di controllo da parte di un organismo legalmente
autorizzato;
h) gli elementi specifici all’etichettatura connessi con la dicitura Dop o Igp o le diciture
tradizionali nazionali equivalenti;
i) le eventuali condizioni da rispettare in forza di disposizioni comunitarie e/o nazionali.
Inoltre, l’articolo 10, introduce un sistema di controllo e di verifica di conformità dei
prodotti Dop e Igp, realizzato da appositi organismi legalmente riconosciuti.
In sostanza, in base al Regolamento (CEE) n. 2081/92, il produttore ha il diritto di
contrassegnare con il marchio Dop (o Igp) il proprio prodotto, se questo presenta i
17
requisiti previsti dal disciplinare e se il possesso di tali requisiti è stato accertato
dall’organismo di controllo abilitato. Insieme al marchio Dop (o Igp), il produttore può
usare comunque anche il marchio aziendale, per differenziare il proprio prodotto rispetto
ad altri concorrenti con lo stesso marchio Dop (o Igp) e, in aggiunta, il logo comunitario
introdotto dal Regolamento (CEE) n. 1726/98.
I diversi produttori che offrono prodotti con lo stesso marchio Dop (o Igp) possono
riunirsi in un Consorzio e registrare, a nome dello stesso, un marchio collettivo di
proprietà del Consorzio medesimo. Come si vede, a disposizione dei produttori esiste una
vasta gamma di strumenti che possono essere utilizzati per veicolare al consumatore
finale i segnali del valore della tipicità, ma anche per differenziare il proprio prodotto da
altri aventi la stessa denominazione d’origine. Infatti, come viene fatto osservare
(Capelli, 2001), sul mercato possono trovarsi a convivere prodotti riuniti sotto la stessa
Dop (o Igp); alcuni di questi dispongono della sola Dop (o Igp), perché unicamente
certificati dall’organismo abilitato, mentre gli altri possono aggiungere alla Dop (o Igp)
anche il marchio del Consorzio di tutela. Quest’ultimo viene applicato sul prodotto che,
oltre ad avere i requisiti per fregiarsi della Dop (o Igp), rispetta anche le prescrizioni
imposte dal Consorzio. Ciò sta ad indicare che anche tra i prodotti aventi la stessa
denominazione d’origine può determinarsi una differenziazione sulla base dei segni del
valore trasmessi dai diversi marchi che si possono affiancare al marchio Dop (o Igp) e,
quindi, una concorrenza fra i diversi produttori. Una differenziazione che, tuttavia, può
determinare anche uno svantaggio per il consumatore finale chiamato a sostenere costi
aggiuntivi per sviluppare una più approfondita conoscenza degli elementi di specificità
del prodotto (De Rosa, Turri, 2000).

4. Le produzioni DOP e IGP in Italia

Secondo i dati Ismea (2006), ad aprile 2006 le denominazioni registrate nei paesi
dell’Unione Europea erano 709, di cui 413 rappresentate da Dop e 296 da Igp. A livello
di singoli paesi, l’Italia, con un totale di 155 denominazioni, rappresenta il paese leader,
per numero di denominazioni registrate, a livello europeo, seguito dalla Francia (147),

18
dalla Spagna (96) e dal Portogallo (93). Agli ultimi posti della graduatoria si collocano il
Belgio, la Danimarca, l’Irlanda e la Svezia, con poche unità di prodotti registrati.
L’analsi per comparto merceologico evidenzia che il numero maggiore di denominazioni
riguarda il settore degli ortofrutticoli e cereali (23,1% del totale) e quello dei formaggi
(21,9%). Alti comparti importanti sono quello delle carni fresche (14,1%), degli oli e
grassi (13,3%) e dei prodotti a base di carne (10,9%).
Per quanto riguarda specificatamente l’Italia, i 155 riconoscimenti sono rappresentati da
105 Dop e 50 Igp. In questo quadro, i prodotti ortofrutticoli sono i più rappresentati (47
riconoscimenti) e sono seguiti dagli oli di oliva (37), dai formaggi (31) e dai prodotti a
base di carne (28). A questi si aggiungono 3 prodotti della panetteria, pasticceria,
confetteria e biscotteria, 2 aceti balsamici, 2 zafferani, 2 carni fresche, un miele, la ricotta
romana e l’essenza di bergamotto.
Per quanto riguarda la localizzazione territoriale degli areali di produzione, l’Emilia
Romagna, con 25 denominazioni registrate, rappresenta la regione con il maggiore
numero di prodotti Dop e Igp. Seguono, nella classifica, il Veneto (21), la Lombardia e la
Toscana, rispettivamente a quota 20 e 19. Agli ultimi posti della graduatoria si collocano
regioni quali il Molise (4), il Friuli V.G. (4), la Basilicata (3) e la Liguria (2).
Nella regione Marche il comparto è rappresentato da 8 prodotti, di cui 4 con marchio Dop
e 4 registrati con marchio Igp. In particolare, le denominazioni registrate in ambito
regionale alla data odierna sono:
-

Vitellone bianco dell’Appennino Centrale (Igp) Reg. CE n. 134 del 20.01.98
(GUCE L. 15 del 21.01.98)

-

Casciotta d’Urbino (Dop) Reg. CE n. 1107 del 12.06.96 (GUCE L. 148 del
21.06.96)

-

Cartoceto (Dop) Reg. CE n. 1897 del 29.10.04 (GUCE L. 328 del 30.10.04)

-

Lenticchia di Castelluccio di Norcia (Igp) Reg. CE n. 1065 del 12.06.97 (GUCE
L. 156 del 13.03.97)

-

Oliva Ascolana del Piceno (Igp) Reg. CE n. 1855 del 14.11.05 (GUCE L. 297 del
15.11 05)

-

Mortadella Bologna (Igp) Reg. CE n. 1549 del 17.07.98 (GUCE L. 202 del
17.07.98)

19
-

Prosciutto di Carpegna (Dop) Reg. CE n. 1263 del 01.07.96 (GUCE L. 163 del
02.07.96)

-

Salamini italiani alla cacciatora (Dop) Reg. CE n. 1778 del 07.09.01 (GUCE L.
240 del 08.09.01)

L’analisi dell’Ismea fornisce un quadro molto dettagliato anche per quanto riguarda la
dimensione economica del comparto. A tale proposito si evidenzia che, nel corso del
2004, le produzioni Dop e Igp hanno totalizzato un valore alla produzione superiore a 4,4
miliardi di euro e un fatturato al consumo di circa 7,7 miliardi (Ismea, 2006, p. 44). Va,
comunque, osservato che sul piano della dimensione economica il settore si presenta
un’alta concentrazione sia a livello territoriale che a livello comparti produttivi. Infatti, si
può osservare che il 61,8% del fatturato è realizzato da produzioni localizzate nelle
regioni del Nord, il 30,0% nelle regioni del Centro e solo l’8,2% da produzioni delle Isole
e del Sud. Inoltre, l’analsi condotta dall’Ismea evidenza che ben l’88,1% del fatturato alla
produzione è riconducibile alle produzioni ottenute in 6 Regioni (Emilia Romagna,
Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Trentino Alto Adige e Sardegna). È anche il
caso di osservare che il 65% circa del valore alla produzione è realizzato da quattro
prodotti: i formaggi Parmigiano Reggiano e Grana Padano e i prosciutti di Parma e di
San Daniele.
Questi dati evidenziano che il settore è composto da alcune realtà di grande rilievo
produttivo ed economico e da una miriade di realtà che hanno bassissimi volumi di
offerta. Inoltre, risulta che spesso, ai riconoscimenti non si associano modifiche di rilievo
nelle forme organizzative e commerciali delle imprese e lo sviluppo, anche sul piano
organizzativo per la valorizzazione del prodotto e di marketing, dei Consorzi di tutela.
Ovviamente, anche da questo angolo visuale, la realtà si presenta molto variegata.
Tuttavia, fatte alcune importanti eccezioni, si assiste ancora da parte delle imprese e dei
Consorzi di tutela a una scarsa attenzione alle problematiche connesse al valore della
tipicità come strumento di differenziazione del prodotto e, quindi, alla necessità di
formulare adeguate e efficaci politiche di marketing.
Infine, va osservato, che prodotti a marchio Dop e Igp costituiscono solo una
componente, seppure la più importante, del paniere delle tipiche. Ai prodotti
contraddistinti con questi due marchi, si aggiungono le Specialità tradizionali garantite. I
prodotti registrati con questo marchio sono, a livello comunitario, 15. Si tratta, in
20
particolare di birre e prodotti della panetteria, pasticceria, confetteria e biscotteria. Per
quanto riguarda i paesi, il Belgio è quello che ha il maggior numero di registrazioni (5),
seguito dalla Finlandia e dalla Spagna, rispettivamente con 3 prodotti registrati.
Un ampio potenziale di riserva per i prodotti Dop e Igp è costituito dai prodotti cosiddetti
tradizionali che, in Italia, sono riportati negli elenchi predisposti a livello provinciale e
regionale secondo quanto stabilito dal Dl. n. 173 del 30 aprile 1998.
Nel quadro di questa normativa sono stati complessivamente riconosciuti 2.188 prodotti a
livello nazionale. Il contributo delle singole regioni al paniere nazionali costituito dai
prodotti tradizionali evidenzia il ruolo di primaria importanza della Toscana (con 302
prodotti, pari al 13,8% del totale nazionale), del Veneto (205 prodotti, pari al 9,4% del
totale nazionale) e della Lombardia (201 prodotti, pari al 9,2% del totale nazionale).
Tuttavia, assumono un ruolo di rilevo anche le Marche. Quest’ultima regione, con 93
prodotti (4,3% dell’intero paniere nazionale), si colloca al 10° posto nella graduatoria
nazionale. L’elenco dei prodotti tradizionali delle Marche è riportato in Appendice.
Le principali tipologie merceologiche rappresentate a livello nazionale sono, nell’ordine,
quelle dei prodotti vegetali (577 prodotti, pari al 26,4% del totale), dei prodotti da forno
(573 prodotti, pari al 26,2% del totale), delle carni fresche e preparate (444 prodotti, pari
al 20,3% del totale) e dei formaggi (377 prodotti, pari al 17,2%).

5. L’organizzazione produttiva ed economica

Il quadro economico e giuridico ora delineato trova riferimento operativo in un modello
organizzativo ed economico le cui peculiarità costituiscono una base importante e
significativa per mettere a punto una strategia di sviluppo e di valorizzazione delle
produzioni tipiche. Gli obiettivi di questa strategia trovano presupposto nelle maggiori
opportunità che si offrono a questi prodotti in termini di spazi e margini economici
derivanti dalla crescente dimensione del mercato e dal potenziale di bisogni latenti e/o
reali sul piano della qualità e della differenziazione del prodotto. In quest’ottica, si
avverte la necessità di una maggiore attenzione agli aspetti organizzativi del settore che
hanno più dirette implicazioni sulle possibilità di attuare strategie di marketing volte a
cogliere le potenzialità/opportunità derivanti, appunto, dall’evoluzione della domanda.
21
Un primo elemento che merita attenzione, in una logica di promozione e di
valorizzazione dei prodotti tipici, riguarda la particolarità del modello economico e
organizzativo della filiera. Questo si configura come un sistema di relazioni tra i diversi
soggetti protagonisti: le imprese agricole, le imprese di trasformazione, il Consorzio di
tutela, le imprese di distribuzione e il consumatore. Il modello ha un punto di riferimento
importante nel Consorzio di tutela che assolve, innanzitutto, al ruolo di garante della
conformità del prodotto finale ad alcune caratteristiche della tipicità che vengono
veicolate al cliente/consumatore attraverso l’immagine del marchio collettivo. Tuttavia,
oltre alla funzione di vigilanza e di tutela del marchio collettivo, il Consorzio svolge
normalmente anche funzioni di assistenza tecnica, di promozione e di valorizzazione del
prodotto.
Un siffatto modello organizzativo presenta indubbie potenzialità sul piano della
possibilità di mettere a punto e realizzare una strategia di sviluppo che abbia come
riferimento la domanda e, quindi, le aspettative reali e latenti dei consumatori. In
sostanza, si tratta di impostare appropriate politiche di marketing indirizzate,
innanzitutto, a elevare il livello di conoscenza e di informazione del consumatore, ma
anche a creare una percezione favorevole della qualità che permetta la formazione di un
premium price.
In altre parole, a differenza di un sistema aziendale di marketing, dove tutte le leve di
marketing-mix sono gestite unitariamente dalle singole imprese, nell’organizzazione
produttiva dei prodotti tipici queste si ripartiscono tra il Consorzio e le singole aziende
associate, secondo soluzioni che variano da caso a caso. Un assetto tipo di questa
ripartizione prevede che il Consorzio svolga le funzioni di tutela, vigilanza e promozione,
mentre le singole imprese manovrino le leve del prezzo e decidano sulla collocazione del
prodotto.
Ovviamente, il modo in cui si ripartiscono le funzioni concernenti la gestione delle leve
operative di marketing tra questi due attori non individua un modello unico e stabile nel
tempo. Le soluzioni che da questo punto di vista possono configurarsi sono diverse e le
loro modalità variano a seconda che il fulcro della gestione commerciale e di marketing
tenda a concentrarsi nel Consorzio di tutela o presso le singole imprese. Nel primo caso,
le imprese delegano quasi interamente il compito della gestione della funzione
commerciale e di marketing al Consorzio, concentrando le proprie risorse e competenze
22
sulla produzione e sul prodotto. Una situazione, questa, in cui il marchio collettivo svolge
un ruolo fondamentale nel rapporto con il cliente/consumatore, mentre le singole imprese
rinunciano ad avere una propria identità specifica e riconosciuta dal consumatore. Nel
secondo, le imprese sviluppano un proprio marchio aziendale, che affianca quello
collettivo, con l’obiettivo di differenziare la propria offerta da quella delle altre imprese
appartenenti allo stesso Consorzio. In questo caso, il marchio collettivo e il marchio
aziendale coesistono e si rapportano al consumatore con funzioni diverse: il primo,
principalmente, come garanzia di origine del prodotto; il secondo, come rispondenza del
prodotto agli standard qualitativi. Un comportamento che tende a caratterizzare non solo
le imprese di maggiori dimensioni, ma anche le imprese più piccole che nelle loro
strategie mirano a obiettivi di crescita.
Tuttavia, una condizione necessaria affinché l’impresa possa percorrere con successo
questa strada è che essa possieda capacità distributive, eventualmente associate a
iniziative di trade marketing. Infatti, lo sviluppo di un proprio marchio aziendale trova
ragione principalmente nell’esigenza dell’impresa di stabilire e/o di consolidare rapporti
commerciali con la grande distribuzione organizzata.

6. La specificità della domanda di prodotti tipici

Dal lato della domanda, il comparto delle produzioni tipiche si caratterizza,
principalmente, per una forte concentrazione territoriale dei consumi. Questa
concentrazione, che è legata a tradizioni radicate nei modelli di consumo locali, ha
implicazioni anche per quanto riguarda la percezione del valore intrinseco del prodotto da
parte del consumatore. Infatti, come si può osservare, è stato fatto osservare (Gandolfi,
1992), l’apprezzamento del valore di questi prodotti si riduce con l’aumentare della
distanza culturale tra la zona di origine e il mercato di sbocco finale. In sostanza, la
specificità, da elemento di forza sul mercato di origine, può diventare un elemento di
debolezza quando ci si allontana da questo con l’obiettivo di conquistare segmenti di
consumatori su nuovi mercati.
Peraltro, l’innovazione di prodotto non può costituire una leva della strategia
competitiva, a meno di incorrere nel rischio di de-ticipizzare l’offerta. In questa
23
situazione, un fattore critico di successo è costituito da interventi che privilegiano
l’adozione di tecnologie innovative che consentano lo sviluppo di innovazioni
incrementali volte a migliorare le prestazioni del prodotto in termini di “qualità bionutrizionale e organolettica” e lo sviluppo di strategie di marketing volte ad accrescere il
valore percepito dal consumatore attraverso politiche di comunicazione e di distribuzione
commerciale adeguatamente mirate.
La specificità dei prodotti tipici, se da un lato può essere vista come un punto di forza
anche per le piccole imprese, in quanto il forte legame del prodotto con il territorio
rappresenta un vantaggio competitivo anche nei confronti delle grandi imprese che
realizzano economie di scala, dall’altro questa condizione non sembra sufficiente per
consentire

all’impresa

di

competere

efficacemente

sul

mercato

nazionale

e

internazionale. La realizzazione di politiche di sviluppo del mercato, nell’accezione
proposta da Ansoff (1965), appare, quindi, una condizione necessaria per la
valorizzazione dei prodotti tipici, soprattutto quando ci si trova di fronte a produzioni ad
alto volume di offerta. Un obiettivo, tuttavia, non facile da perseguire, anche a causa
delle particolari caratteristiche di questi prodotti. In primo luogo vi è il fatto che i prodotti
tipici, a motivo dei loro elevati standard qualitativi, devono essere offerti a prezzi
relativamente più alti rispetto a prodotti che presentano caratteristiche d’uso comparabili.
Inoltre, la loro differenza qualitativa deriva, tra l’altro, dalle particolarità dell’ambiente di
produzione che li caratterizza non solo sul piano delle proprietà organolettiche, ma anche
su quello dei valori simbolici.
Ora, in assenza di efficaci politiche di comunicazione, questi fattori risultano
difficilmente percepibili da un consumatore estraneo alla realtà del territorio di origine.
Le difficoltà che incontrano i produttori nel comunicare l’immagine del prodotto quando
tentano di collocarlo su mercati diversi dalla ristretta area del mercato regionale sono
ampiamente note. Su questi mercati, la stessa immagine di qualità, che trova riscontro
nelle proprietà della tipicità, genuinità e sicurezza che caratterizzano questi prodotti, non
costituisce una condizione sufficiente per assicurare un vantaggio competitivo stabile e
duraturo, né un segnale di maggiore qualità e prestazioni del prodotto che possa essere
facilmente percepito dal consumatore. In altre parole, dal momento che la percezione
dell’immagine di questi prodotti varia fortemente a seconda della dimensione geografica

24
del mercato, il marketing è destinato ad assolvere a un ruolo di massima importanza per
la loro valorizzazione, in particolare quando si tenta di allargare l’area di consumo.
D’altra parte, questa strada appare obbligata per i prodotti ad alto volume di offerta se
non si vuole incorrere nel rischio che questi “cadano nell’instabilità e nella
sottovalutazione dei prezzi” (Cantarelli, 1999). Situazione, peraltro, già largamente
sperimentata da molti prodotti tipici del nostro paese a causa della scarsa organizzazione
e delle modesta capacità di condurre iniziative di marketing (Antonelli, 2000).

7. Dimensione dell’offerta e strategie di marketing

Il problema delle strategie di marketing è strettamente legato al volume di produzione.
In generale, quando il volume di produzione è basso, come nel caso della totalità dei
prodotti tipici delle Marche, ma anche della maggioranza dei prodotti tipici italiani, il
riferimento delle imprese è costituito in massima parte dal mercato locale. Questa
situazione può derivare dalla presenza di vincoli nelle possibilità innovative dei processi
produttivi e nella disponibilità di materie prime a livello locale che non consentono di
espandere il volume di produzione, anche in presenza di un potenziale aumento della
domanda. Inoltre, essa può derivare dal fatto che le imprese, in prevalenza di piccola e
piccolissima dimensione, non disponendo delle risorse e delle competenze necessarie per
affrontare nuovi mercati, mirano al mantenimento delle posizioni occupate, senza
obiettivi di crescita. In questi casi, l’offerta viene rivolta prevalentemente al
soddisfacimento di esigenze di consumo radicate nella cultura locale alle quali si
aggiungono quelle di nuovi segmenti di consumatori occasionali che si rapportano al
prodotto prevalentemente attraverso i valori e l’immagine del territorio (turisti e
visitatori, acquisti per corrispondenza o tramite Internet, ecc.).
A questa prima situazione si affianca quella in cui il volume di produzione complessivo
eccede la domanda espressa dal mercato locale e, pertanto, diventa necessario cercare

25
nuovi mercati di sbocco al fine di evitare prezzi instabili e decrescenti e, come
conseguenza inevitabile, una riduzione del livello dello standard qualitativo3.
Ora, come abbiamo già richiamato, in una logica di mercato più vasto viene
inevitabilmente a modificarsi anche la prospettiva della percezione del valore intrinseco
del prodotto: si riduce la componente legata alla specificità del territorio, mentre trova
maggiore spazio il concetto di qualità intesa come denominazione di origine, genuinità,
tradizione, proprietà nutrizionali e organolettiche.
Ovviamente, ciò dipende anche dalle caratteristiche del mercato al quale ci si rivolge. In
ogni caso, la possibilità/necessità di politiche di sviluppo del mercato richiede la capacità
di sviluppare efficaci azioni promozionali per comunicare i valori e l’immagine del
prodotto a segmenti di consumatori con esigenze che non possono essere adeguatamente
soddisfatte dai prodotti di massa.
Questa distinzione dei prodotti in base al volume di offerta lascia intendere che, quando
questo è basso, la produzione non incontra particolari difficoltà di sbocco sui mercati. In
questo caso i mercati sono, in genere, meno instabili e i prezzi più favorevoli (Cantarelli,
1999). Ciò non significa che per le imprese non esistano i problemi della costante verifica
del rapporto con il mercato, del posizionamento del prodotto, dell’evoluzione della
struttura dei consumi, dei comportamenti dei consumatori, dell’appropriatezza dei canali
distributivi utilizzati, della percezione della qualità e dell’efficacia delle politiche di
comunicazione. Anzi, tutto ciò appare una condizione necessaria per realizzare un
vantaggio competitivo stabile e duraturo. Tuttavia, l’identificazione dei prodotti tipici con
il territorio, da un punto di vista storico e geografico, ne determina la qualità e fa sì che
quest’ultima possa essere meglio percepita sia dal consumatore locale che dal visitatore
turistico. In sostanza, si tratta di una situazione in cui i prodotti tipici hanno la possibilità
di conseguire un premium price in quanto il consumatore è in grado di riconoscerli come
prodotti che possiedono livelli qualitativi più elevati.
Si può anche osservare che il legame tra prodotto tipico e territorio permette di realizzare
economie di scala nell’ambito delle politiche di marketing. Infatti, iniziative di
promozione del territorio, attraverso interventi di marketing territoriale, e di
valorizzazione dei prodotti tipici locali possono essere sviluppate, in modo parallelo, con
importanti effetti sinergici. Inoltre, molto spesso, le stesse azioni di marketing finalizzate
3

Va osservato che, ancora oggi, in molti casi questa tendenza viene contrastata attraverso la messa a punto di interventi
pubblici che prevedono il ritiro dell’offerta per mantenere alto il livello dei prezzi.

26
alla promozione dei prodotti tipici, vengono attuate con il concorso finanziario degli enti
locali attraverso la realizzazione di fiere, feste gastronomiche e altri tipi di manifestazioni
locali che incentivano anche lo sviluppo di flussi turistici. A queste iniziative si
affiancano le attività di promozione, condotte direttamente dalle imprese o dal Consorzio,
attraverso forme che non richiedono elevati investimenti finanziari quali la cartellonistica
stradale, la pubblicità presso i punti vendita, i messaggi sulla stampa locale, la diffusione
di cataloghi, ecc. Si può anche osservare che l’imprenditore ha una buona conoscenza del
mercato locale rispetto al quale è in grado di valutare con un relativo grado di precisione i
rischi e le potenzialità. In questo quadro, le relazioni con i clienti/consumatori assumono
in genere la forma di rapporti stabili e, più spesso, a carattere interpersonale.
Al contrario, quando il volume di offerta è elevato, lo sviluppo di strategie di espansione
del mercato, oltre i confini dell’ambito locale, espone i prodotti tipici a una crescente
pressione competitiva da parte dei prodotti di massa offerti dalle grandi imprese. In un
mercato più ampio, e, ancor più, sul mercato internazionale, i segnali della tipicità, legati
alla cultura, alla storia e alle caratteristiche dell’ambiente di un determinato territorio
arrivano molto sfumati. Inoltre, la posizione dei prodotti tipici, su questi mercati, è
indubbiamente più debole sul piano della concorrenza basata sui prezzi, ove le strategie
competitive delle grandi imprese, che realizzano economie di scala e che dispongono
delle risorse e delle competenze necessarie per attuare efficaci politiche di marketing,
riscuotono, senza dubbio, maggiori successi. Ciò non significa che non esistano, sul
mercato nazionale e internazionale, potenzialità da sviluppare.
Tuttavia, la realizzazione di questo potenziale, senza ricorrere a strategie competitive
basate sui prezzi, peraltro non congeniali alla piccola impresa, né, a maggior ragione, alle
produzioni

tipiche, a motivo

dei loro elevati

standard qualitativi, richiede

necessariamente ingenti investimenti per la gestione delle componenti di un marketing
mix che faccia leva, in particolare, sulle diverse componenti della politica di
comunicazione

(pubblicità,

promozione

delle

vendite,

pubbliche

relazioni,

sponsorizzazioni, comunicazione personale, ecc.). L’importanza che viene assegnata a
queste attività nelle strategie di esportazione dei prodotti agro-alimentari trova, tra l’altro,
riscontro in alcune esperienze internazionali. Un esempio che viene spesso richiamato in
tal senso è quello della Sopexa, la società di marketing e comunicazione che cura, a
livello internazionale, la promozione dei prodotti e delle marche alimentari francesi.
27
Anche se il settore dei prodotti tipici appare molto differenziato al suo interno, il fatto che
esso sia composto, in prevalenza, da realtà aziendali di piccola e piccolissima dimensione
fa sì che nel complesso risulti svantaggiato di fronte alla prospettiva di affrontare il
mercato estero e, molto spesso, anche il mercato nazionale. In realtà, c’è da osservare che
l’azione promozionale necessaria per operare su questi mercati non è sempre compatibile
con i vincoli organizzativi e finanziari di queste realtà produttive. Tra l’altro, in molti
casi, le imprese appaiono inadeguate non solo per far fronte ai problemi della
programmazione e della gestione delle attività comunicazionali (specie pubblicitarie), ma
anche per corrispondere efficacemente a una serie di condizioni che sono spesso
indispensabili per operare su questi mercati. Ci riferiamo, in particolare, alla conoscenza
del mercato e delle preferenze dei consumatori, alla capacità di adattare la propria offerta
alle esigenze del cliente/consumatore (standardizzazione della qualità, packaging,
regolarità delle consegne, ecc.), alla possibilità di effettuare investimenti relazionali per
creare rapporti stabili e di lungo periodo con i clienti/consumatori esteri, alla possibilità
di assicurare una presenza continuativa sul mercato senza limitarsi, come spesso accade,
ad apparizioni saltuarie e occasionali determinate dalle condizioni dell’offerta. Un fattore
che in questa prospettiva condiziona di frequente l’azione delle piccole imprese risiede
nella difficoltà che spesso esse incontrano a far corrispondere la loro offerta con le
esigenze della grande distribuzione organizzata che, come è noto, si esprimono in termini
di qualità (pezzatura, confezionamento), quantità (lotti minimi) e logistica (modalità di
conferimento del prodotto, tempi, servizi, ecc.).
Per le piccole imprese, una possibile alternativa a un approccio al mercato basato su
politiche di penetrazione e di sviluppo, è quella costituita dalla subfornitura, sia nei
confronti di imprese di maggiori dimensioni, che possiedono un marchio già affermato e
che attuano efficaci politiche di marketing, che nei confronti della grande distribuzione,
per la fornitura di prodotti con marchio commerciale. La subfornitura presenta,
indubbiamente,

una

serie

di

vantaggi

quali

quello

di

ridurre

i

costi

di

commercializzazione e i rischi di mercato a breve termine, di confrontarsi con una
domanda sicura e tendenzialmente stabile, di concentrare le proprie risorse e competenze
sulla produzione e sul prodotto. Una opzione che, tuttavia, non è del tutto priva di rischi
per l’impresa. Tra questi, c’è quello che l’impresa perda un proprio rapporto interattivo

28
con il mercato e quello, costantemente presente, che essa possa essere sostituita da parte
del cliente industriale e/o distributore (Grandinetti, 1989).
Ora, anche se il marchio di denominazione di origine permette sicuramente alle imprese
di realizzare un vantaggio monopolistico, le argomentazioni esposte lasciano intendere
che, in assenza di efficaci politiche di marketing che consentano di trasmettere i segnali
di valore, i margini per la valorizzazione delle produzioni tipiche rimangono limitati. In
altri termini, il ruolo dei Consorzi appare indispensabile per accrescere e comunicare i
segnali di valore della tipicità. Infatti, se si escludono le poche imprese di maggiori
dimensioni, che dispongono delle risorse necessarie per sviluppare un’efficace politica di
marchio, la maggioranza di esse non presenta molte alternative rispetto alla possibilità di
entrare in rapporti di subfornitura. D’altra parte, anche ammesso che alcune imprese del
Consorzio siano in grado di sviluppare propri marchi aziendali, esiste il rischio che
questi, se non sono efficacemente gestiti e se la loro immagine non è costantemente
valorizzata attraverso la messa in atto di appropriate politiche di comunicazione, non
siano riconosciuti dal consumatore, in quanto i segnali di valore dei prodotti tipici
tendono a essere trasmessi soprattutto dal marchio collettivo. Quindi, una strada
difficilmente eludibile per un percorso di sviluppo e di valorizzazione dei prodotti tipici
appare condizionata dalla capacità dei Consorzi di proporsi, essi stessi, come protagonisti
nella gestione dell’immagine del marchio collettivo. In quest’ottica, per il Consorzio non
riveste importanza solo l’efficacia della proposta di marketing-mix, ma anche la sua
capacità di gestire un sistema di relazioni cooperative per dare forza ed efficacia alla
propria azione di marketing. Una prospettiva che oggi trova, tra l’altro, possibilità e
opportunità concrete nella crescente diffusione ed evoluzione delle nuove tecnologie
dell’informazione e presupposto nello sviluppo, anche teorico, di approcci che si
richiamano al marketing relazionale e che enfatizzano le problematiche connesse con la
gestione del sistema di relazioni esistenti tra i diversi attori protagonisti della filiera.

8. Modelli competitivi e strategie di sviluppo dei prodotti tipici

8.1. Tipologie di prodotto e struttura dell’offerta

29
La struttura dell’offerta dei prodotti tipici si caratterizza, come sopra sottolineato, per la
presenza di poche grandi imprese che operano a fianco di numerosissime piccole e
piccolissime imprese, spesso a conduzione familiare. Infatti, il paniere dei prodotti tipici
attualmente disponibili sul mercato presenta una forte concentrazione di natura bipolare:
da una parte un numero limitato di prodotti che rappresentano un’alta quota della Plv
agricola, alto volume di offerta, ampia dimensione geografica dei mercati di sbocco e
possibilità di esportazione, dall’altra una percentuale molto alta di prodotti che, al
contrario, attivano una quota assai limitata della Plv agricola, bassi volumi di offerta e
mercati di vendita prevalentemente locali.

Figura 2. La mappa strategica dei prodotti tipici

A






B

Accesso a Materie prime
(bacino approvvigionamento ampio)


Mortadella Bologna
Grana Padano
Gorgonzola
Pecorino Romano
Vitellone Bianco
dell’Appennino
Centrale






C

Prodotti
alimentari
locali

Area
trasformazione
ampia

Bresaola della
Valtellina
Speck dell’Alto
Adige
Prosciutto di Parma
Parmigiano Reggiano
Prosciutto di
Carpegna

D

Area
trasformazione
ristretta

Giacimento delle nicchie:





Casciotta d’Urbino
Lenticchie di
Castelluccio di
Norcia
Olio Cartoceto
Olive Ascolane del
Piceno

Limitazione Materie prime
(bacino approvvigionamento ristretto)

Fonte: Adattato da Nomisma (2001).
30
A definire la tipologia di prodotto e i modelli di filiera concorrono anche i diversi livelli
della tipicità, così come precedentemente definiti. In questo ambito, assumendo come
base il modello proposto da Nomisma (2001), che identifica i gruppi strategici di
prodotto in base all’ampiezza dell’area di approvvigionamento delle materie prime e
all’area geografica per la trasformazione, è possibile definire una mappa strategica che
include anche i prodotti tipici delle Marche (figura 2).
Come si vede in figura 2, un primo gruppo (A) identifica i prodotti che associano a
un’ampia area di approvvigionamento delle materie prime un’ampia area geografica per
la localizzazione delle imprese di trasformazione. Ad esempio, appartengono a questo
primo gruppo prodotti tipici quali il Grana Padano, il Pecorino Romano, il Gorgonzola, la
Mortadella Bologna e il Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale. Queste realtà sono
caratterizzate da elevati volumi di offerta e da elevate dimensioni di scala. Un secondo
gruppo (B) identifica i prodotti che associano a un ampio bacino di approvvigionamento
delle materie prime una forte delimitazione dell’area di trasformazione. La presenza di
bacini ampi di approvvigionamento consente di far conseguire dimensioni di scala
elevate. Un terzo gruppo (C) è quello dei prodotti agro-alimentari locali, caratterizzato da
delimitazioni geografiche intermedie, provinciali o parti di queste, sia per quanto
riguarda l’area di approvvigionamento delle materie prime che la trasformazione. La
dimensione del mercato geografico di sbocco è prevalentemente costituita dal mercato
locale e regionale e le possibilità di economie di scala si riducono notevolmente a causa
dei vincoli posti dal bacino di approvvigionamento. In questa categoria rientrano gran
parte dei prodotti tipici caseari e della salumeria. Un quarto gruppo (D), denominato
“giacimento delle nicchie”, identifica quei prodotti le cui caratteristiche, legate
all’ambiente, appaiono nettamente distintive in quanto espressione di una chiara
delimitazione dell’area di provenienza delle materie prime e della localizzazione della
trasformazione. Si tratta di prodotti normalmente a basso volume di offerta, i quali
possono presentare situazioni in cui la domanda ecceda la capacità produttiva derivante
dalla disponibilità di materia prima. Ciò determina dimensioni di scala molto ridotte che,
tradotte in termini di valore della produzione, possono andare da poche decine di milioni
di lire a qualche miliardo di lire. In quest’ultima tipologia trovano collocazione, salvo
rare eccezioni, tutti i prodotti con denominazione d’origine Dop e Igp delle Marche.
31
I diversi gruppi determinano problematiche ed esigenze molto diverse per quanto
riguarda le filiere e le imprese. Se consideriamo i primi due gruppi, le rispettive imprese
presentano chiaramente una più vasta gamma di possibilità di percorsi da attuare nelle
loro strategie, anche in termini di crescita, facendo affidamento sulle opportunità offerte
dall’ampliamento della dimensione economica e geografica del mercato. Queste stesse
possibilità appaiono notevolmente ridotte per le imprese e le filiere che si collocano
nell’ambito degli altri due gruppi strategici, a causa delle limitate capacità produttive del
bacino di approvvigionamento delle materie prime.
In realtà, queste possibili opzioni trovano forti limitazioni anche nei vincoli imposti dalla
dimensione delle imprese. Per le imprese di piccole dimensioni, le strategie possibili
vengono definite dalla presenza di molteplici vincoli. Questi comprendono gli assetti
specifici organizzativi, ma anche la disponibilità delle risorse finanziarie e umane. Questi
vincoli comportano un percorso evolutivo che spesso segue linee definite dalla
tradizione,

dalle

competenze

specifiche

dell’imprenditore

e

dai

processi

di

apprendimento.
Tuttavia, non si può negare la presenza di una visione strategica, propria
dell’imprenditore, che porta a definire, anche per queste realtà, prospettive di sviluppo
dell’impresa. In quest’ottica, sembra utile prospettare, anche per le imprese che operano
nella filiera dei prodotti tipici, strategie che tengano conto della loro tipologia, in
particolare sotto l’aspetto dimensionale e delle specifiche tipologie di prodotto e di
filiera. In sostanza, si può riscontrare un rapporto tra peculiarità economica dei modelli di
tipicità e strategie di crescita e consolidamento.

8.2. Modelli e strategie di sviluppo

I comportamenti delle imprese delle diverse tipologie di prodotto rappresentate in figura
2, possono essere studiati facendo riferimento ad alcuni degli schemi proposti dalla
letteratura economico-aziendale.
In questo quadro, un primo ambito di riferimento per imprese di prodotti tipici chiamate a
sviluppare una strategia competitiva che nel lungo periodo sia sostenibile è costituito
dallo schema di analisi di Porter (1985). Com’è noto, l’autore individua le fonti del
vantaggio competitivo in due fattori: il valore creato; i costi di produzione. Tuttavia,
32
questi fattori, per costituire capacità distintive delle imprese devono essere riconosciuti
(percepiti) dal mercato e dalla clientela. La strategia competitiva comporta, altresì, che
l’impresa definisca la natura e l’ampiezza del mercato (ambito competitivo).
Le strategie competitive di base illustrano le diverse opzioni combinando l’ambito di
mercato (ampio/circoscritto) con le fonti del vantaggio competitivo (tabella 1). In termini
ultraschematici, una strategia di differenziazione implica che l’impresa sia in grado di
offrire un valore che i consumatori percepiscono superiore a quello dei concorrenti,
sostenendo un extra costo inferiore a quello che avrebbero dovuto sostenere questi ultimi;
la leadership di costo è una strategia che mira a realizzare un’offerta con costi inferiori ai
concorrenti a parità di valore. Si può osservare, che mentre una strategia di leadership di
costo si configura come un prerogativa esclusiva delle grandi imprese agroalimentari in
grado di realizzare economia di scala, la strategia di differenziazione appare realizzabile
anche dalle piccole imprese, nella misura in cui riescono a differenziare la propria offerta
sulla base della qualità. Queste ultime, tuttavia, sembrano in grado di esprimere meglio le
proprie capacità distintive operando soprattutto su un mercato più circoscritto, inteso
anche in termini di dimensione geografica (focalizzazione e differenziazione).
I diversi gruppi di prodotti tipici individuati nella figura 2 possono trovare collocazione
nelle diverse opzioni strategiche qui richiamate a seconda delle dimensioni di scala e
delle dimensioni geografiche dei mercati di sbocco. In particolare, le imprese del gruppo
(D), in maggioranza di piccole e medie dimensioni e senza prospettiva di crescita
dimensionale, appaiono in condizioni di ottenere un vantaggio competitivo solo se
riescono a individuare una nicchia di mercato circoscritta e su questa valorizzare la
propria produzione. Ciò richiede che la strategia deve, comunque, essere associata
all’offerta di un beneficio superiore per il consumatore e percepito come tale dallo stesso.
Una prospettiva che appare possibile sulla base della valorizzazione della qualità
chimico-fisica e organolettica del prodotto e sulla qualità simbolica legata alle specificità
socio-culturali e ambientali del territorio di origine.

33
Tab.1. Le strategie competitive di base di Porter

Vantaggi competitivi
Più bassi costi

Target ampio

Differenziazione

Leadership di costo

Differenziazione

Focalizzazione e costi

Focalizzazione e

Ambito
competitivo

Target
circoscritto

differenziazione
Fonte: Porter (1985)
Un secondo ambito di analisi, utile per individuare i percorsi di sviluppo delle imprese e
delle filiere dei prodotti tipici, è quello illustrato da Ansoff (1965) utilizzando una
matrice prodotto-mercato.
In questo caso, la matrice delle strategie di sviluppo individua quattro possibili percorsi
risultanti dalla combinazione di scelte che riguardano il mercato, classificato in base alle
dimensioni attuali, ovvero a quella allargata a nuovi mercati, i prodotti, distinguendo
quelli già presenti sul mercato, con i quali l’impresa qualifica la propria offerta, da quelli
che possono caratterizzare l’offerta in termini innovativi. La tabella 2 sintetizza le quattro
possibili opzioni. L’impresa, mantenendo inalterato il proprio portafoglio prodotti, può
optare per un allargamento della sua presenza sul mercato attuale (penetrazione del
mercato) oppure per la conquista di nuovi mercati (sviluppo del mercato). In alternativa,
sviluppando nuovi prodotti, può o rafforzare la propria presenza sul mercato nel quale già
opera (sviluppo del prodotto), oppure agire su nuovi mercati (diversificazione).

34
Tab.2. Le strategie generiche di sviluppo

Prodotti

Attuali

Nuovi

Attuali

Penetrazione del mercato

Sviluppo del prodotto

Nuovi

Sviluppo del mercato

Diversificazione

Mercati

Fonte: Ansoff (1965)
Per quanto riguarda, in particolare, i prodotti con denominazione d’origine Dop e Igp, in
quanto legati a un disciplinare di produzione sostanzialmente stabile nel tempo, le
possibili opzioni sono quelle indicate nella colonna di sinistra rappresentate
rispettivamente dalle strategie denominate penetrazione del mercato e sviluppo del
mercato. In presenza di un ambiente competitivo dinamico, l’opzione più realistica,
almeno nel lungo periodo, appare, tuttavia, quella dello sviluppo del mercato. Questa
strategia, che comporta un cambiamento anche della base competitiva, con l’investimento
delle risorse per sviluppare le necessarie iniziative di marketing, si presenta, tuttavia,
valida in particolare per le realtà caratterizzate da un alto volume di offerta.
Un terzo e ultimo ambito d’analisi, utile ai fini del dibattito sulle opzioni strategiche delle
filiere e delle imprese agro-alimentari che producono prodotti tipici, è quello
rappresentato dagli approcci che si richiamano alle strategie di sviluppo qualitativo3.
Questo approccio si presenta particolarmente interessante per uno sviluppo dell’analisi
delle produzioni tipiche in tutte quelle situazioni in cui la “non crescita” rappresenta una
scelta volontaria dell’imprenditore. Infatti, in particolare per i gruppi strategici di cui
sopra ai punti (C) e (D), i vincoli alla crescita derivano, non solo da scelte
dell’imprenditore o da mancanza di risorse interne, ma anche da vincoli derivanti dalla
delimitazione geografica del bacino di offerta di materie prime che non consente
3

Per un’analisi, vedi Marchini (1998)

35
l’attivazione di strategie di sviluppo delle imprese oltre i limiti della capacità produttiva
disponibile all’interno dello stesso.
La figura 3 consente di focalizzare l’attenzione sulle strategie di sviluppo qualitativo.
Come viene evidenziato nella figura, queste strategie enfatizzano, da una parte,
l’importanza dell’innovazione sia tecnologica che organizzativa, richiamando, a tale
scopo, il ruolo esercitato dallo sviluppo di relazioni cooperative con altre imprese,
dall’altra, il ruolo delle azioni volte a sviluppare caratteristiche di unicità e di più alta
qualità del prodotto. Nel quadro dei prodotti tipici, tale approccio suggerisce come
possibile soluzione, anche quella di garantire la sopravvivenza dell’impresa. Ciò richiede,
comunque, un nuovo atteggiamento culturale come condizione necessaria per accettare
un potenziale cambiamento in un qualsiasi aspetto del governo dell’impresa, in luogo
dell’esigenza espressa da altri approcci che enfatizzano l’importanza strategica degli
investimenti di capitale.

36
Figure 3. Le strategie di sviluppo qualitativo

Strategie

Rafforzamento

Innovazione

Tecnologica

Relazioni
cooperative
con altre
imprese

Alleanze strategiche o accordi di
collaborazione

Specializzazione

Sviluppo di caratteristiche di unicità e di
più alta qualità

Fonte: Elaborazione su Marchini (1998).

Altrettanto importante è il fattore costo. Come è stato fatto osservare (Nomisma, 2001), i
costi di produzione aumentano con il numero dei vincoli che concorrono a determinare il
livello di tipicità. In particolare, si può evidenziare una relazione positiva tra la qualità e
il numero dei vincoli esterni stabiliti dal disciplinare di produzione (utilizzo di tecniche di
lotta integrata, vincoli nella densità di impianto delle colture, divieto di impiego di
determinati mangimi o mezzi tecnici, obbligo di effettuare le operazioni di raccolta e di
selezione delle materie prime manualmente, età minima richiesta per la macellazione dei
suini, impiego di sistemi tradizionali di lavorazione, vincoli concernenti l’ubicazione
degli impianti, prescrizione di metodi specifici di produzione, conservazione o
stagionatura, ecc.) e il costo di produzione.
37
Le possibili soluzioni sono, ovviamente, particolarmente complesse e non si prestano a
facili schematizzazioni. Infatti, le strategie necessarie investono sia problematiche
connesse con le imprese e le filiere che quelle relative al territorio inteso come sistema di
relazioni economiche, sociali e istituzionali. Da questo punto di vista, una soluzione da
ricercare nel quadro delle implicazioni dell’analisi relative alle strategie di sviluppo
qualitativo è sicuramente quella che fa leva sulla ricerca di accordi cooperativi (network
di imprese, alleanze strategiche, sistemi di relazioni orizzontali e verticali, ecc.). Una
soluzione, questa, che, anche se necessaria, non appare comunque sufficiente, soprattutto
se si tiene conto del fatto che i prodotti tipici esprimono un sistema locale di produzione
che travalica gli aspetti più prettamente agricoli e alimentari, per abbracciare anche
ambiti socio-economici, istituzionali, culturali e ambientali. In altri termini, lo sviluppo
del settore dei prodotti tipici implica la messa in atto di un sistema di relazioni coordinate
e sinergiche che hanno come riferimento, oltre alle imprese produttrici, le diverse
componenti del sistema territoriale.
In tale contesto, assumono un rilievo particolare i diversi interventi mirati all’attuazione
di appropriate politiche di marketing orientate al consumatore che abbiano come soggetti
protagonisti le imprese, i Consorzi di tutela e le istituzioni. Iniziative tese a creare e/o
accrescere un valore differenziale del prodotto che il consumatore sia in grado di
percepire e di riconoscere all’interno del quadro più generale dell’offerta. In altri termini,
indipendentemente dalla strategia di sviluppo attuata, anche per le imprese del settore dei
prodotti tipici, appare ineludibile la necessità di ricercare un continuo rapporto di
interfaccia con il mercato e, quindi, di confrontarsi con le attese dei consumatori. In
questa prospettiva, la competitività delle imprese e dei sistemi territoriali appare sempre
più definita dalla capacità di valorizzare il potenziale di domanda latente, trasformandola,
attraverso appropriate strategie di marketing, in domanda reale e in comportamenti
d’acquisto coerenti. Inoltre, questa strategia richiede anche la gestione di relazioni interne
al Consorzio e al sistema territoriale che siano in grado di accrescere il valore per il
consumatore. Un siffatto network, nel caso specifico dei prodotti tipici presenta ancora
numerosi elementi di debolezza a causa della scarsa attenzione alle problematiche
connesse con le strategie di filiera e di sistema e, soprattutto, della bassa propensione dei
diversi attori dei sistemi agroalimentari e territoriali a sviluppare strategie unitarie e
cooperative.
38
9. Prodotti tipici e sviluppo locale

Un ultimo cenno, quando si prendono in esame le problematiche economiche dei prodotti
tipici, merita essere fatto riguardo alla problematica del ruolo che queste produzioni
possono assolvere per lo sviluppo del territorio. Questa tematica è stata introdotta dal
documento dell’Unione Europea su “Il futuro del mondo rurale”, del 29 luglio 1988. Il
documento in questione assegnava all’agricoltura ruoli diversi a seconda della diversa
realtà territoriale. In particolare, esso evidenziava come nelle realtà agricole deboli,
l’iniziativa comunitaria doveva puntare allo sviluppo non solo del settore agricolo, ma a
quello dell'intero mondo rurale. Questa posizione ha trovato conferma nel documento
conclusivo della Conferenza tenuta nel novembre del 1996 a Cork (in Irlanda), dove gli
Stati membri dell’Unione Europea hanno deciso di fare dello sviluppo rurale il “secondo
pilastro” della Politica Agricola Comunitaria (PAC). Secondo questa impostazione, le
problematiche connesse con lo sviluppo del settore agroalimentare vengono ricondotte
all’interno di un unico processo di sviluppo del territorio basato sulla dimensione
qualitativa. In questo processo, l’agricoltura è chiamata a garantire non solo la semplice
produzione alimentare, ma anche una serie di servizi dai quali derivano esternalità
positive in favore dell’intera collettività. In sostanza, l’agricoltura, in tali contesti, assume
un significato ben diverso da quello tradizionale, divenendo un’attività multifunzionale.
Questa impostazione ha trovato ulteriore sviluppo nel quadro delle proposte avanzate da
Agenda 2000 e un quadro applicativo nel Regolamento (CEE) n. 1257/99, recante
disposizioni per il Fondo europeo di orientamento e garanzia a sostegno dello sviluppo
rurale. In altre parole, la visione delle specifiche realtà territoriali, per le quali è possibile
definire un modello che assegni all’agricoltura un preciso ruolo a garanzia dello sviluppo
locale e del benessere di una determinata collettività, appare legata alle prospettive di
affermazione di un’agricoltura di qualità. Come è noto, si tratta di un’impostazione, che
riflette le esigenze di sviluppo di molte realtà dell’agricoltura italiana. Il modello di
sviluppo locale proposto ha, in questo caso, un elemento qualificante in un progetto
strategico di valorizzazione complessiva del territorio che fa leva sull’agricoltura di
qualità, sulle produzioni tipiche e biologiche, ma anche su quelle attività extra-agricole
più direttamente connesse con il territorio e le sue tradizioni, secondo una logica di

39
sviluppo endogeno. In questo quadro, si collocano anche le attività di altri settori, legate
comunque al ruolo economico dei prodotti tipici, quali il turismo e l’agriturismo.
Tutto ciò rappresenta una scelta strategica estremamente importante, in base alla quale è
possibile definire un preciso ruolo dell’agricoltura e, più in generale, dell’agroalimentare,
basato sulla mobilitazione di un patrimonio di relazioni e di risorse (umane, tecnologiche,
culturali, istituzionali, ambientali e paesaggistiche) di grande entità, nel quadro di un
processo di sviluppo complessivo che sappia conciliare gli obiettivi economici delle
imprese private con la salvaguardia e la gestione dell’ambiente e delle risorse rurali per il
benessere collettivo.

40
Riferimenti bibliografici

Albisinni F., Carretta E. (2003), La qualificazione commerciale dei prodotti attraverso
l’utilizzo di marchi collettivi, INDIS.

Ansoff H. i. (1965), Corporate Strategy, McGraw-Hill, New York.
Antonelli G. (1996), “Il mercato dei prodotti dell’agricoltura biologica: un’indagine in
un’ottica di marketing”, Economia Agro-alimentare, n.1.
Antonelli G. (2000), “Volumi di offerta e marketing. Il caso di prodotti agro-alimentari
tipici”, Economia Agro-alimentare, n. 2.
Akelorf G.A. (1970), “The Market for lemons: Quality Uncertainty and the Market
Mechanism”, Quarterly Journal of Economics, vol. 84 (3).

Arfini F., Mora C. ( a cura di) (1998), Typical and traditional products: rural effect and
agro-industrial problems, Parma.
Berni P., Begalli D. (1998), “Strategie di marketing per la valorizzazione degli oli di
oliva extravergine tipici”, Economia Agro-alimentare, n. 3.
Cantarelli F. (1999), “Cultura, mercato, marketing e denominazione d’origine”,
Economia Agro-alimentare, n. 3.
Cantarelli F. (1999), “La competitività dei prodotti tipici nell’Europa dell’euro”,
Economia Agro-alimentare, n. 2.
CAPELLI F. (2001), “La valorizzazione e la tutela giuridica dei prodotti agro-alimentari di
qualità (tipici e locali) come strumento per promuovere lo sviluppo economico delle aree
protette”, in Cantarelli F. (a cura di), Rapporto sullo stato dell’agro-alimentare in Italia
nel 1999, Fondazione Monte di Parma, Parma.
41
Casati D. (1999), “L’industria alimentare”, Cantarelli F. (a cura di), Rapporto sullo stato
dell’agro-alimentare in Italia nel 1998, Franco Angeli, Milano.
Casati D., Banterle A. (1999), “Le tipicità alimentari italiane nel terzo millennio: salumi
e formaggi”, Economia Agro-alimentare, n.2.
Gandolfi, V. (1992), La posizione delle piccole e medie imprese di fronte all’unificazione
del mercato europeo: Il caso della food valley italiana, Piccola Impresa/Small Business,
n. 1.

Giacomini C., Mancini M. C., Menozzi D. Cernicchiaro S. (2007), Lo sviluppo dei
marchi geografici collettivi e dei segni distintivi per tutelare e valorizzare i prodotti
freschissimi, FrancoAngeli, Milano.
Idda L., Benedetto G., Furesi R. (2004), “Il marketing territoriale per il settore
agroalimentare”, in G. Antonelli (a cura di), Marketing agroalimentare. Specificità e temi
di analisi, FrancoAngeli,
Ismea (2006), I prodotti DOP, IGP e STG. L’evoluzione della normativa, i dati
economici e le tendenze di mercato in alcuni paesi Ue, Ismea, Roma.

Marchini I. (1998), Il governo della piccola impresa - La gestione strategica, ASPI,
Genova.

Nomisma (2001), Prodotti tipici e sviluppo locale: il ruolo delle produzioni di qualità nel
futuro dell’agricoltura italiana: 8° rapporto Nomisma sull’agricoltura italiana, Il Sole
24 Ore, Milano.
Pilati L., Ricci G. (1991), “Concezioni di qualità del prodotto ed asimmetria informativa
lungo il sistema agro-alimentare”, Rivista di Economia Agraria, n. 3.

Porter M. E. (1985), Competitive Advantage, Macmillan, New York.
42
Regione Marche (2000), Bur n. 100 del 05/10/2000.

Steenkamp J.B.E.M. (1989), Product Quality, Assen/Maastricht (Netherlands), Van
Gorcum.

43
APPENDICE

I prodotti tradizionali delle Marche (BUR Marche n. 100 del 5.10.2000)
Bevande analcoliche, distillati e liquori
Sapa
Vino cotto - vì cotto - vì cuot
Visner - vino di visciole
Carni (e frattaglie) fresche e loro preparazione
Barbaglia
Budellino di agnello o capretto crudo
Cappone rustico o nostrale
Ciarimbolo - buzzico - ciambudeo
Ciauscolo – ciabuscolo - ciavuscolo
Cicoli - ciccioli - sgrisciuli
Coppa di testa - tortella
Gallo ruspante
Lonza - capocollo - scalmarita
Lonzino - capolombo
Mazzafegato - salsiccia matta
Miaccio - miaggio - migliaccio
Pancetta arrotolata
Porchetta
Prosciutto aromatizzato del Montefeltro
Prosciutto delle Marche
Salame di soprassato o sopressato
Salame lardellato
Salsiccia di fegato
Salsiccia
Spalletta
Tacchino bronzato rustico o nostrano galnacc – dindo
Formaggi
Cacio in forma di limone
Caciotta
Caprino
Casecc
Formaggio di fossa
Pecorino
Pecorino in botte
Raviggiolo
Ricotta
Slattato

44
Prodotti vegetali allo stato naturale o trasformati
Bacche di biancospino in sciroppo
Carciofo monteluponese o scarciofrno
Carciofo violetto precoce di Jesi
Cavolfiore “precoce di Jesi”
Cavolfiore “tardivo di Jesi”
Cicerchia
Cipolla di suasa
Composta di castagne
Cotognata
Farro “triticum dicoccum”
Germogli di pungitopo sollt’olio
Germogli di tamaro sott'olio
Germogli di vitalba sott'olio
Marmellata di more
Marrone del Montefeltro
Oliva tenera ascolana del piceno
Olive nere marinate
Orzo mondo tostato macinato
Tartufo bianco
Tartufo nero estivo o scorzone
Tartufo nero pregiato
Visciolata
Visciole e amarene di Cantiano
Visciole essiccate
Condimenti
Salsa di olive
Paste fresche e prodotti della panetteria, della biscotteria, della pasticceria e della
confetteria
Anicetti
Biscotti di mosto
Bostrengo
Calcione di Treia
Cavallucci
Chichiripieno o chichì
Ciambella frastaliata - ciammella strozzosa
Ciambelle all'anice o anicini
Ciambellone
Crescia – crescia brusca – spianata - cacciannanzi
Cresciolina
Crostata al torrone
Crostoli del Montefeltro
Fiocchetti – frappe
Fristingo - fristingu - frestinghe
Frittelle di polenta
Frustenga
45
Funghetto di offida
Lonza di fico - lonzino di fico - lonzetta di fico - salame di fico
Maccheroncini di campofilone - cappellini di campofilone
Maiorchino – marocchino
Miaccio – miaggio - migliaccio
Lonzino di fico
Pan nociato
Pane a lievitazione naturale
Pane di chiaserna
Pane di pasqua di Borgopace
Pizza con le noci
Pizza di pasqua o crescia di pasqua
Pizza o crescia di pasqua al formaggio
Screscia sotto la cenere - torta coi ovi serpe
Torrone di fichi - panetto di fichi
Torta di granoturco in graticola
Ungaracci

46

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Corso di mktg agroalimentare uni urbino

  • 1. Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” Facoltà di Economia Corso di Marketing agroalimentare Gervasio Antonelli Marketing dei prodotti agroalimentari tipici e di qualità Dispense per gli studenti del corso di Marketing agroalimentare Anno Accademico 2010-2011
  • 2. Indice 1. Il concetto di prodotto agroalimentare tipico p. 2 2. La tipicità come elemento di differenziazione dei prodotti agroalimentari p. 5 3. La regolamentazione dell’Unione Europea per le denominazioni p. 16 di origine (Dop) e le indicazioni geografiche (Igp) 4. Le produzioni Dop e Igp in Italia p. 18 5. L’organizzazione produttiva ed economica p. 21 6. La specificità della domanda di prodotti tipici p. 23 7. Dimensione dell’offerta e strategie di marketing p. 25 8. Modelli competitivi e strategie di sviluppo dei prodotti tipici P. 29 8.1. Tipologie di prodotto e struttura dell’offerta P. 29 8.2. Modelli e strategie di sviluppo p. 32 9. Prodotti tipici e sviluppo locale p. 39 Riferimenti bibliografici p. 41 Appendice I prodotti tradizionali delle Marche (BUR Marche n. 100 del 5.10.2000) p. 44 1
  • 3. 1. Il concetto di prodotto agroalimentare tipico Il concetto di tipicità del prodotto agroalimentare è caratterizzato, in generale, da una certa indeterminatezza derivante da uno scarso livello informativo sia dei consumatori che degli stessi produttori di materie prime agricole e degli altri operatori della filiera. I consumatori tendono ad associare il concetto di tipicità a valori più disparati (qualità del prodotto, genuinità, origine geografica, lavorazione tradizionale, espressione di una tradizione, cultura e storia di un territorio). I produttori spesso dimostrano di non avere ben chiaro il concetto di tipicità e, soprattutto, come questa accezione possa essere tradotta in strategie di marketing e di sviluppo dell’impresa (Nomisma, 2001). In realtà, la tipicità costituisce, anche se solo allo stato potenziale, un importante strumento per la differenziazione del prodotto basata sulla identificazione dell’immagine dello stesso con le caratteristiche ambientali, storiche e culturali del territorio di provenienza. Va, comunque, osservato che questa situazione si traduce in differenziazione effettiva solo se percepita dal consumatore. In questa prospettiva il marketing ha un ruolo chiave per la comunicazione al consumatore del valore della tipicità. Per arrivare all’individuazione degli elementi che qualificano la tipicità dei prodotti agroalimentari è necessario evidenziare, in primo luogo, che questa emerge dal legame del prodotto con il territorio di origine sulla base della considerazione che alcune realtà territoriali possiedono “saperi” consolidati nell’arco degli anni, oltre che risorse umane e materiali che consentono di realizzare prodotti agroalimentari non massificati. In questa impostazione, è implicito il fatto che il concetto di territorio di origine viene assunto nella sua eccezione più ampia, e cioè non solo con riferimento alle variabili strettamente ambientali (caratteristiche climatiche, podologiche, paesaggistiche, ecc.), ma anche al know-how accumulato nel tempo circa le tecniche di produzione, nonché le tradizioni storiche, culturali e istituzionali specifiche. In altri termini, per tipico si intende tutto ciò che un determinato territorio, nell’accezione appena sopra richiamata, veicola al prodotto rendendolo “unico” e non riproducibile con le stesse caratteristiche in altri luoghi. Ciò fa sì che il concetto di tipico non possa essere attribuito schematicamente a ciò che si produce in una certa area e, quindi, considerarlo semplice sinonimo di locale. Infatti, per prodotto locale si intende tutto ciò che viene prodotto in 2
  • 4. un determinato luogo, pur senza essere legato alla sua cultura e tradizione (Idda, Benedetto, Furesi, 2004). Il concetto di prodotto agroalimentare tipico esclude, quindi, la possibilità che lo stesso prodotto possa essere rinvenuto con le stesse caratteristiche in altre aree. Infatti, il significato del termine tipicità implica la definizione di un prodotto contraddistinto da caratteri unici, ben specifici, identificabili e ripetibili nel tempo. Un prodotto, cioè, che presenti alcune caratteristiche peculiari, che vanno dalla sua collocazione all’interno della tradizione e della cultura locale, alla localizzazione geografica dell’area di produzione, alla qualità della materia prima e alle tecniche di produzione. Una possibile schematizzazione degli elementi che concorrono alla definizione della tipicità è riportata in tabella 1. Nel caso riportato, gli elementi che definiscono la tipicità riguardano le caratteristiche richieste agli input di produzione e alle tecniche di lavorazione relative alle materie prime agricole da utilizzare, alla fase di trasformazione e a quella di stagionatura e di conservazione. Tab. 1. Elementi della tipicità agroalimentare Input di produzione Materie prime agricole Tecniche Razza, varietà, cultivar, tipo di alimentazione Trattamenti, lavorazioni, operazioni colturali, modalità di raccolta Salatura, tipo di caglio, ingredienti Parametri chimico-fisici di gestione, tecnica di cottura, tecniche di spremitura Trasformazione Stagionatura, conservazione Tempi di stagionatura, modalità di conservazione Fonte: Elaborazione su Nomisma (2001) 3
  • 5. Ora, dal momento che il carattere distintivo dei prodotti agroalimentari tipici è dato dalle diverse componenti materiali e immateriali che il territorio veicola nei prodotti stessi, l’intrecciarsi di questi attributi con un diverso legame con il territorio di riferimento dà luogo a diversi livelli di tipicità. La stessa normativa dell’Unione Europea sulle denominazioni di origine (Regolamenti (CEE) n. 2081/92 e n. 2082/92) definisce livelli crescenti di specificità rispettivamente per Stg (Specialità tradizionale garantita), IGP (Indicazione geografica protetta)1 e Dop (Denominazione d’origine protetta)2. Ai prodotti coperti dal marchio comunitario Dop o Igp si aggiungono, inoltre, quelli che, a vario titolo, si propongono al consumatore come tipici, in quanto ad essi vengono associati significati diversi che vanno dal generale attributo della qualità organolettica, all’origine geografica delimitata, alla lavorazione tradizionale o artigianale, alla storia e alla cultura locale (Nomisma, 2001). La questione del livello di tipicità presenta anche aspetti di carattere economico che investono le stesse opportunità di sviluppo del settore. Ci si riferisce alle capacità competitive delle imprese e delle filiere, data la presenza di una generale correlazione positiva tra vincoli previsti dalla normativa in materia e costi di produzione. Inoltre, il rapporto fra produzione tipica e territorio dà luogo ad un sistema di interazioni e di relazioni orizzontali e verticali (di filiera) complesse e articolate che investono sia aspetti socio-economici che istituzionali. Infatti, in questi ultimi anni, il tema dei prodotti tipici ha trovato ampio spazio nel dibattito più generale relativo allo sviluppo del settore agroalimentare italiano. Il quadro analitico che emerge evidenzia le potenzialità di sviluppo del sistema delle produzioni tipiche e lo stretto rapporto tra queste e lo sviluppo agricolo e territoriale locale. Inoltre, dal momento che la tipicità costituisce un fattore di differenziazione delle produzioni, questo sviluppo può essere realizzato, a differenza 1 Per Indicazione geografica protetta (Igp) si intende il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare originario di tale regione, di tale luogo determinato di cui una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica possa essere attribuita all’origine geografica e la cui trasformazione e/o elaborazione avvengono nell’area geografica determinata. 2 Per Denominazione di origine protetta (Dop) si intende il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare originario di tale regione, di tale luogo determinato e la cui qualità o le caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente all’ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengono nell’area geografica delimitata. 4
  • 6. delle produzioni di tipo commodity per le quali la competizione si realizza in termini di prezzo, attraverso strategie non-price competition. Dal momento che ciò che qualifica i prodotti agroalimentari tipici è il legame tra prodotto e territorio di origine nelle sue diverse componenti, le caratteristiche sulle quali far leva per una differenziazione del prodotto, sia di carattere psicologico che sostanziale, sono molteplici, anche se tutte riconducibili alle specificità del territorio di cui il prodotto porta il nome e si realizza. In questa prospettiva, si va dai fattori più strettamente ambientali e fisici (caratteristiche climatiche, podologiche, ecc.) che conferiscono attraverso la materia prima agricola qualità chimico-fisica e organolettica al prodotto finale, alle tecniche di produzione derivanti dalle tradizioni e dal patrimonio tecnologico e istituzionale accumulato negli anni, sino alla qualità immateriale connessa con l’immagine e le componenti storiche, culturali e paesaggistiche del territorio stesso. Questi fattori contribuiscono alla differenziazione del prodotto e a conferire allo stesso caratteristiche distintive, come risultato dell’interazione di tre componenti proprie del territorio che entrano in gioco nella realizzazione del prodotto tipico: l’ambiente fisico e il paesaggio; le risorse umane e la tecnologia; la cultura e le istituzioni (Berni, Begalli, 1998). Ai fini della valorizzazione delle produzioni tipiche, oltre alle strategia di marketing messe in atti dalle imprese o dai sistemi di imprese, acquistano un ruolo di primaria importanza anche le politiche di regolamentazione della qualità e di tutela giuridica delle produzioni tipiche, quali quelle attuate con i Regolamenti (CEE) n. 2081/92 e n. 2082/92, istitutivi dei marchi Dop e Igp. La funzione di questi marchi è triplice: tutelare i prodotti da abusi, imitazioni e usurpazioni; tutelare i consumatori, attraverso la garanzia di un’informazione affidabile circa i prodotti che acquistano; tutelare le zone rurali, il cui sistema socio-economico spesso dipende dallo sviluppo di produzioni agroalimentari di qualità e tipiche (Giacomini, Mancini, Menozzi e Cernicchiaro, 2007). 2. La tipicità come elemento di differenziazione dei prodotti agroalimentari Il concetto di differenziazione del prodotto si riferisce, in termini generali, alla disponibilità di beni che presentano caratteristiche intrinseche differenti, ma caratterizzati da forte somiglianza e da legami di forte sostituibilità. Tuttavia, al di là di 5
  • 7. questa semplice definizione, il problema della differenziazione del prodotto si presenta assai complesso in quanto investe sia le caratteristiche del prodotto sia il problema dei segnali atti a far percepire al consumatore la differenza di un prodotto rispetto ad altri della stessa categoria merceologica. Va sottolineato che ai fini delle strategie di marketing è proprio quest’ultimo quello che conta maggiormente. Infatti, si può osservare che, se il prodotto non è differenziato, la struttura di mercato in cui esso si colloca è quella della concorrenza perfetta. In questa realtà di mercato, le imprese agiscono in condizioni di price taker e il loro vantaggio competitivo si esprime solamente nella capacità che hanno di offrire un prodotto a un prezzo inferiore a quello dei concorrenti. Una situazione, questa, in cui, com’è noto, assumono importanza fondamentale le dotazioni di risorse, la produttività e l’efficienza produttiva e, quindi, la capacità, a parità di altre condizioni, di produrre a costi più bassi. Al contrario, la possibilità di mettere in atto comportamenti di tipo price maker dipende sostanzialmente dall’ampiezza del mercato, dal grado e dal tipo di differenziazione del prodotto che è possibile attuare e dalla possibilità/capacità di formulare e mettere in atto appropriate e efficaci politiche di marketing. In particolare, le realtà produttive agricole più deboli che non hanno la possibilità di esprimere capacità competitive basate sui prezzi, hanno, come alternativa, o quella di uscire dal mercato oppure quella di fare leva sulla qualità come fattore di differenziazione del prodotto e posizionarsi all’interno di nicchie di mercato che premiano questa strategia; nicchie che, tra l’altro, appaiono in rapida espansione sia sul mercato interno che su quello internazionale grazie alla crescente attenzione del consumatore moderno alle problematiche della qualità in un’accezione che, oltre alle caratteristiche chimico-fisiche ed organolettiche del prodotto investe in misura crescente aspetti immateriali e simbolici. La differenziazione del prodotto agricolo e agroalimentare, tuttavia, non è sempre di facile attuazione e dipende in larga misura dal tipo di produzione e dalla possibilità/capacità dell’impresa (o di un sistema di imprese) di identificare il prodotto con un marchio o con altri segni distintivi che possano essere riconosciuti dal consumatore (per la definizione di marchio e di segni distintivi vedi il Prospetto 1). In generale, va considerato che la possibilità di differenziare il prodotto è molto ridotta a livello di azienda agricola, mentre aumenta nelle fasi più a valle della filiera, e cioè a livello di imprese di trasformazione industriale o di commercializzazione; 6
  • 8. differenziazione che viene attuata attraverso lo sviluppo e la gestione di marche industriali o, come nel caso delle imprese della distribuzione, di marche commerciali. I prodotti tipici presentano, come abbiamo visto, alcune caratteristiche che si prestano a una efficace differenziazione del prodotto anche nelle fasi più a monte della filiera, utilizzando i segni distintivi del territorio; una differenziazione che, in altre parole, fa leva su alcune caratteristiche peculiari che sono proprie del concetto di tipicità quali, ad esempio, la collocazione del prodotto e delle tecniche produttive impiegate per la sua realizzazione all’interno della tradizione e della cultura locale, la localizzazione geografica dell’area di produzione, la qualità della materia prima impiegata e le tipicità dei processi produttivi derivanti da una certa tradizione produttiva locale. Partendo dalle implicazioni del legame o dei vincoli tra prodotto e territorio in termini di differenziazione e di specificità, Nomisma (2001) ha sviluppato un approccio che consente di analizzare sia la tipicità sia il rapporto tra prodotti tipici ed economia e territorio. Questo approccio individua nella tipicità una componente della differenziazione del prodotto che è presente, anche se con contenuto diverso, in una vasta gamma di prodotti. In sostanza, i prodotti tipici costituiscono una categoria molto ampia e complessa, che presenta elementi di differenziazione diversi secondo l’intensità o della numerosità di vincoli associati al prodotto: la dimensione geografica del bacino di approvvigionamento delle materie prime, la localizzazione degli impianti di trasformazione, stagionatura e conservazione, il contenuto intrinseco delle materie prime, le tecniche di gestione, ecc. In questo panorama trovano collocazione i prodotti con i marchi di denominazione di origine istituiti dall’Unione Europea, per i quali, anche in base ai Regolamenti istituitivi (Regolamenti (CEE) n. 2081/92 e n. 2082/92) si riconoscono livelli crescenti di tipicità rispettivamente per Stg, Igp e Dop. A queste categorie, si aggiungono i prodotti in attesa del completamento della procedura di registrazione per la denominazione Dop o Igp e quelli che a vario titolo si propongono al consumatore come tipici, quali i prodotti tradizionali, di fattoria, locali, dei parchi/aree protette, ecc. La tipicità rappresenta, quindi, una condizione per la differenziazione dei beni agroalimentari; una condizione che esiste solo allo stato potenziale e che può essere trasformata in differenziazione effettiva solo se attraverso appropriate ed efficaci politiche di marketing il consumatore riesca a percepirne il valore. In sostanza, il 7
  • 9. marketing ha la funzione di trasmettere i segnali di valore che, se riconosciuti e percepiti favorevolmente dal consumatore, portano alla formazione di un premium price. In questa prospettiva, il problema della differenziazione del prodotto, anche nella mente del consumatore, richiede, in sostanza, che siano messe in atto politiche di marketing volte a rimuovere situazioni di asimmetria informativa. Si può osservare che situazioni di asimmetria informativa sono largamente presenti sui mercati dei prodotti agroalimentari a causa della grande varietà di offerta di prodotti apparentemente simili in quanto appartenenti alla stessa categoria merceologica e della difficoltà per il consumatore di valutarne correttamente le differenze qualitative. Ciò è la conseguenza della presenza di una molteplicità di requisiti del sistema prodottoproduttore non direttamente constatabili e valutabili dal consumatore (requisiti nutrizionali e salutistici, l’efficacia dei sistemi di controllo del processo, l’origine, la conformità igienica, l’applicazione di specifiche tecnologie, ecc.). In questo caso, a svolgere la funzione di segnale di valore più efficace è, sostanzialmente, il prezzo e il consumatore sceglierà il prodotto che a parità di beneficio percepito costi meno. Ciò riduce la competitività delle imprese che offrono prodotti di più alta qualità, con la conseguenza che sul mercato si rischia che rimangano soltanto prodotti di qualità standard (in generale offerti dalle grandi imprese che seguono strategie di leadership di costo) i cui prezzi riflettono i più bassi costi di produzione derivanti dallo sfruttamento di alte economie di scala e dalle maggiori possibilità innovative. Le implicazioni della presenza di asimmetria informativa possono essere analizzate con riferimento al modello di Akerlof (1970). Il modello di Akerlof suggerisce che in presenza di asimmetria informativa si ha una riduzione sia della qualità media dei beni sia della dimensione del mercato. Una situazione, questa, che può verificarsi in tutti quei mercati ove beni e servizi non sono omogenei e la qualità dei prodotti offerti è nota solo al venditore, mentre l’acquirente non ha possibilità di accedere alle informazioni necessarie, oppure per accedere alle stesse è chiamato a sostenere un costo molto elevato o, comunque, superiore ai benefici marginali a esso conseguenti. Il modello proposto da Akerlof ha per oggetto il mercato delle auto usate (in americano, lemons), ma può essere esteso al caso dei prodotti agroalimentari tipici e di più alta qualità quando il consumatore non ha tutte le informazioni necessarie per valutare il prodotto. Il consumatore potrebbe anche decidere 8
  • 10. di acquisire maggiori informazioni, ma queste richiedono un costo il cui ammontare supera il beneficio aggiuntivo. Per cui, per la scelta si affiderà ai segnali di qualità più direttamente accessibili e meno costosi, quali, ad esempio, il prezzo del prodotto. Continuiamo, comunque, a seguire l’impostazione del modello di Akerlof, con riferimento alle auto usate. Poiché per definizione le auto usate sono indistinguibili, nel modello di Akerlof si evidenzia come il prezzo che si stabilirà sul mercato in equilibrio, se un equilibrio esiste, dovrà essere unico e rifletterà la qualità media delle auto scambiate. Il consumatore che domanda di acquistare un’auto usata potrà, quindi, avere un’idea sulla sua qualità osservando il prezzo; il prezzo è, quindi, l’unico strumento informativo. Tuttavia, se questo riflette soltanto la qualità media, può avviarsi un meccanismo di selezione avversa. In sostanza, se il prezzo non compensa i venditori delle auto di migliore qualità, questi si ritireranno dal mercato e il prezzo si ridurrà. Questa riduzione, d’altra parte, segnalerà agli acquirenti un peggioramento di qualità e il prezzo che questi sono disposti a pagare diminuirà provocando un ulteriore abbassamento della qualità. Un processo, questo, che potrà andare avanti fino a quando sul mercato non siano offerte solo auto usate di peggiore qualità. Ovviamente, nel modello di Akerlof i proprietari delle auto di migliore qualità hanno interesse a segnalare il buono stato delle loro auto, ad esempio, attraverso certificati di garanzia. Più in generale, quello dei segnali è uno dei mezzi con cui si cerca di superare i problemi delle selezione avversa. Le implicazioni del modello di Akerlof possono essere viste con riferimento ai prodotti agroalimentari, i quali, anche quando appartengono alla stessa categoria merceologica, spesso non sono omogenei in termini qualitativi e il consumatore non dispone delle informazioni per valutare il differenziale qualitativo tra loro esistente e sarà portato a scegliere il prodotto che ha un prezzo più basso. Ne consegue che il prodotto di più elevata qualità (e anche più costoso) o resterà invenduto oppure dovrà essere venduto ad un prezzo uguale a quello dei prodotti standard. Il livello di questo prezzo, non è, tuttavia, come abbiamo detto, sufficiente a compensare i produttori dei più alti costi di produzione. Questo processo determinerà una riduzione dell’offerta dei prodotti di più alta qualità, sino a portare, nel più lungo periodo, alla scomparsa sul mercato di questa categoria di prodotti a vantaggio dei soli prodotti di qualità standard. 9
  • 11. Il problema connesso con la presenza di asimmetria informativa può anche essere schematizzato attraverso una rappresentazione grafica in cui sono riportati i costi di produzione (medi e marginali) di due imprese che producono, ad esempio, rispettivamente, olio extravergine di oliva di qualità standard e olio extravergine di oliva di qualità più elevata e il prezzo di mercato dei prodotti standard e quello che sarebbe necessario per remunerare i produttori che offrono prodotti di più alta qualità (premium price) (figura 1). Per consentire ai produttori che offrono olio di oliva di più elevata qualità di coprire i costi di produzione occorrerebbe, come si vede, che il prezzo fosse superiore al prezzo di mercato dei prodotti standard e, cioè, almeno pari a P*. Il consumatore, anche se interessato ad acquistare un prodotto di più alta qualità, si presume che acquisterà il prodotto più caro solo se sarà in grado di percepirne il differenziale qualitativo. Altrimenti, il suo comportamento razionale lo porterà ad acquistare il prodotto che ha un prezzo più basso. Pertanto, per il produttore di olio extravergine di oliva di più elevata qualità il problema è quello di riuscire a “comunicare” al consumatore le caratteristiche qualitative (organolettiche, nutrizionali e immateriali) che differenziano il suo prodotto da quello standard. In sostanza, si tratta di mettere in atto una strategia che consenta di differenziare il prodotto non solo sul piano sostanziale, ma anche nella percezione del consumatore (vedi prospetto 2). 10
  • 12. Figura 1. Prezzo di mercato, premium price e costi di produzione di due prodotti (ad esempio, oli extravergine di oliva) non omogenei in termini qualitativi OLIO EXTRA VERGINE DI OLIVA DI PIÚ ALTA QUALITA’ OLIO EXTRA VERGINE DI OLIVA DI QUALITA’ STANDARD C M C C C C m m M m C M P P* P (mercato) Quantità CM = Costo Medio Cm = Costo Marginale P = Prezzo del prodotto di qualità standard Quantità P* = Premium price 11
  • 13. PROSPETTO 1 Marchi collettivi e segni distintivi come strumenti di differenziazione dell’offerta agroalimentare e di comunicazione al consumatore Il marchio Il marchio rappresenta uno strumento per distinguere i prodotti e servizi sul mercato e un mezzo di comunicazione con il consumatore. In tal senso il marchio diventa uno strumento decisivo nella strategia commerciale dell’azienda, a tal punto da rappresentare una parte consistente del suo stesso valore. Si possono individuare differenti tipologie di marchio, in riferimento all’oggetto e al contenuto. In riferimento alla titolarità e alle funzioni, una distinzione importante è tra marchio individuale e marchio collettivo. Una distinzione, questa, molto importante ai fini delle problematiche connesse con i prodotti tipici. Marchio collettivo Ai fini delle problematiche connesse con i prodotti tipici, un ruolo importante viene assolto proprio dal marchio collettivo come strumento di comunicazione e di garanzia (Albisinni, Carretta, 2003). Si tratta di un marchio richiesto da soggetti, individuali o collettivi, che ha la funzione di garantire la natura, la qualità, l’origine di determinati prodotti o servizi. Può essere utilizzato da più persone che si assoggettano all’osservanza di determinati standard di qualità e ai relativi controlli stabiliti da un regolamento. I marchi collettivi sono soggetti a una disciplina specifica, che si differenzia da quella dei marchi individuali sia sotto il profilo dei soggetti cui è consentita la titolarità, sia sotto quello dei presupposti ai quali è legato il riconoscimento, sia, infine, quanto attiene alla disciplina applicativa e agli strumenti utilizzati. Il tratto che caratterizza la disciplina del marchio collettivo e la distingue da quello individuale è il fenomeno della dissociazione fra titolarità del segno distintivo e suo uso, nel senso che il soggetto che richiede ed ottiene la registrazione non coincide con l’utilizzatore del medesimo. In Italia, la legislazione sui marchi è stata oggetto di revisione nel 1992 con il d.lgs. 480/1992 che recepisce la direttiva comunitaria 89/104/CEE. Questa normativa, a differenza di quella precedente che assegnava al 12
  • 14. marchio collettivo la funzione tipica del marchio d’impresa (cioè di permettere l’identificazione di prodotti e servizi provenienti dalle imprese utilizzatrici, senza alcun profilo o con profili secondari di garanzia di qualità del prodotto), enfatizza il legame tra il segno e la garanzia della sua conformità alle regole d’uso, circa la natura, qualità e origine, che il titolare è tenuto a fornire. La classificazione dei marchi collettivi nel settore agroalimentare I marchi collettivi nel settore agroalimentare sono riconducibili a due tipologie principali: marchio collettivo geografico o territoriale, indicante la provenienza da determinate aree geografiche (es. “Patata tipica di Siracusa” del Consorzio della Patata tipica di Siracusa, Nettarine di Romagna Igp, marchi consortili strettamente legati ai riconoscimenti comunitari Dop/Igp, ecc); marchio collettivo di qualità, se il disciplinare attiene a caratteristiche del processo di produzione o del prodotto in relazione all’impiego di determinate materie prime o loro combinazioni. Queste due tipologie di marchi collettivi possono essere, a loro volta, sotto classificate sulla base di: - i prodotti coperti dall’uso del marchio: il marchio è unisettoriale o di prodotto, se interessa prodotti di un unico genere (AB Carni, Certa Naturale, Eletta, ecc.), mentre è ad ombrello se coinvolge prodotti di genere diverso (ad esempio, marchi di qualità ad ombrello che raggruppano diverse categorie di prodotti accomunati dalle tecniche di produzione biologica, il marchio QC Qualità Controllata dell’Emilia Romagna, Qualità certificata Veneto, ecc.); - la titolarità: il marchio collettivo è pubblico se il titolare è un ente pubblico mentre è privato quando il titolare è un soggetto privato, generalmente nella forma giuridica di consorzio o di un’associazione. I segni distintivi Il termine marchio viene spesso utilizzato per definire le denominazioni di origine 13
  • 15. protetta (Dop) e le indicazioni geografiche protette (Igp). In realtà, nel caso delle produzioni Dop e Igp si deve parlare, più propriamente, di segni distintivi. Come i marchi collettivi, anche i segni distintivi possono essere geografici o di qualità, a seconda che il riferimento sia riconducibile all’area di provenienza o alle tecniche produttive. I segni distintivi, pur rispondendo in termini funzionali alla medesima esigenza di differenziazione assolta dai marchi, presentano alcune importanti differenze sul piano giuridico rispetto al marchio collettivo. In particolare, i segni distintivi costituiscono un patrimonio collettivo indisponibile. Infatti, l’utilizzo dei segni distintivi geografici è riservato solo a coloro che rientrano nella zona d’origine, laddove lo strumento “marchio collettivo” non po’ riservare ai concessionari del marchio l’uso esclusivo del riferimento geografico che può essere utilizzato anche da terzi, seppure affiancato da altra denominazione, onde rispettare la riserva di legge. I segni distintivi geografici sono le denominazioni di origine protetta (Dop) e le indicazioni geografiche protette (Igp), mentre sono segni distintivi di qualità le attestazioni di conformità alle disposizioni in materia di produzione biologica (Giacomini, Mancini, Menozzi e Cernicchiaro, 20007, pp. 9-18) PROSPETTO 2 Asimmetria informativa e mercato dell’olio extravergine di oliva di alta qualità Uno dei problemi fondamentali che caratterizza il mercato dei prodotti agroalimentari è costituito dalla difficoltà che incontra il consumatore a percepire la differenza qualitativa dei diversi prodotti presenti sul mercato e, pertanto, di riuscire a orientarsi nelle scelte utilizzando come criterio la qualità. Il caso che qui presentiamo è riferito, specificatamente, all’olio extravergine di oliva, ma può essere facilmente generalizzato ad altri prodotti agroalimentari, quando sul mercato si verifica una situazione in cui a fianco a un’offerta standardizzata, si collocano prodotti tipici o altri prodotti cosiddetti specialità Woods i cui prezzi sono anche molto più alti dei primi. Il problema qui richiamato è riconducibile a quello più generale della presenza di asimmetria informativa. Questo, nel settore dell’olio extravergine di oliva ma, in generale, in tutti gli ambiti agroalimentari, si configura come una situazione in cui il 14
  • 16. consumatore non possiede le informazioni necessarie per identificare e quantificare le proprietà qualitative dei diversi prodotti che si offrono alla scelta. Egli potrebbe decidere di approfondire la conoscenza svolgendo un’attività di ricerca di ulteriori informazioni sulla qualità del prodotto, ma ciò richiede un determinato costo che il consumatore sarà propenso a sostenere solo se comporterà un beneficio marginale almeno uguale al costo aggiuntivo. In alternativa, il consumatore si affiderà ai segnali di qualità più direttamente accessibili (e anche meno costosi) quali, ad esempio, il prezzo, ma anche la notorietà della marca. Ne consegue che il prodotto che ha un più alto prezzo, anche se di più elevata qualità, è destinato a restare invenduto oppure, per trovare acquirenti, il produttore dovrà accettare un prezzo più basso, anche questo non è sufficiente a coprire i costi di produzione. Con riferimento al settore specifico dell’olio extravergine di oliva si nota, ad esempio, che sugli scaffali dei supermercati, accanto a bottiglie di olio extravergine di oliva il cui prezzo varia dai 3 ai 5 euro, si trovano anche bottiglie di olio extravergine di oliva i cui prezzi sono nettamente superi. Si tratta di oli che sotto la stessa categoria (olio extravergine di oliva), presentono caratteristiche qualitative specifiche che il consumatore può valutare solo sulla base del prezzo, essendo gli altri requisiti della qualità non direttamente (né facilmente) constatabili e valutabili. In sostanza, il prodotto che ha prezzi più elevati, anche se è stato realizzato da una filiera interamente orientata alla qualità, ossia determinata da processi produttivi che richiedono particolari attenzioni alle condizioni pedoclimatiche del terreno, alla scelta delle varietà adottate, al tipo di coltivazione, alle modalità di raccolta, alla tipologia di impianti di spremitura, al tipo di lavorazione adottata, alle tecniche di conservazione e al confezionamento, ecc., rischia di restare invendute a causa della mancanza di segnali che consentano al consumatore di percepire la differenza qualitativa rispetto al prodotto meno caro; percezione che, tra l’altro, come abbiamo sottolineato, è necessaria per ottenere da parte del consumatore la disponibilità a pagare un prezzo più elevato (premium price), rispetto a quello dei prodotti concorrenti. Ovviamente, poiché i comportamenti necessari per realizzare un prodotto di più elevata qualità comportano anche più alti costi di produzione rispetto ai concorrenti che offrono prodotti di qualità standard, l’acquisizione di un premium price è una condizione necessaria per disporre di un’offerta che abbia requisiti di qualità più elevati. 15
  • 17. 3. La regolamentazione dell’Unione Europea per le denominazioni di origine (Dop) e le indicazioni geografiche (Igp) La produzione dei prodotti tipici presenta alcune caratteristiche specifiche che derivano dalla struttura organizzativa della produzione e dai requisiti richiesti al processo produttivo. Alla tipicità, infatti, si associano effetti e condizionamenti di natura tecnica, organizzativa ed economica, previsti dalla normativa in materia e dal disciplinare di produzione al quale i prodotti sono chiamati a conformarsi. Per i prodotti a marchio di Denominazione di origine protetta (Dop) o di Indicazione geografica protetta (Igp), ai sensi del Regolamento (CEE) n. 2081/92, è richiesta la conformità ai requisiti fissati nel disciplinare depositato in sede comunitaria e l’accertamento di tale conformità da parte di un organismo a ciò legalmente riconosciuto. Il Regolamento (CEE) n. 2081/92 che concerne la protezione delle denominazioni d’origine (Dop) e delle indicazioni geografiche (Igp) (successivamente abrogato dal Regolamento (CE) n. 510/06), stabilisce, ai sensi dell’art. 2, che si intende per denominazione di origine protetta (Dop) “il nome di una regione, di un luogo determinato o in casi eccezionali di un Paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: - originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale Paese e - la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente all’ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali e umani e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell’area geografica delimitata”. La normativa prevede che vi sia uno stretto legame tra il prodotto e l’area di origine. Per indicazione geografica di origine (Igp) si intende “il nome di una regione, di un luogo determinato o in casi eccezionali di un Paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: - originario di tale regione, di tale luogo determinato odi tale Paese e - di cui una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica possa essere attribuita alla regione geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengono nell’area geografica determinata”. 16
  • 18. La differenza tra Igp e Dop consiste nel fatto che mentre per l’Igp è sufficiente che una sola fase della produzione sia strettamente legata all’ambiente geografico (per quanto debba comunque essere un prodotto originato nella regione di cui porta il nome e deve avere una reputazione che possa essere attribuito alla sua origine geografica), la Dop si applica a produzioni il cui intero ciclo produttivo, dalla produzione della materia prima al prodotto finito, è localizzato all’interno di un’area geografica ben delimitata e non è riproducibile al di fuori della stessa. Un’altra caratteristica prevista dal Regolamento riguarda il disciplinare. L’articolo 4 del Regolamento (CEE) 2091/92 prevede che “per beneficiare di una Dop o di una Igp, i prodotti devono essere conformi ad un disciplinare”; cioè la denominazione o indicazione deve sottostare ad una serie di requisiti previsti dal regolamento stesso. In particolare, è richiesto che il disciplinare deve comprendere almeno i seguenti elementi: a) il nome del prodotto agricolo o alimentare con la denominazione d’origine o l’indicazione geografica; b) la descrizione del prodotto mediante indicazione delle materie prime e delle principali caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche e/o organolettiche; c) la delimitazione della zona geografica; d) gli elementi che comprovano che il prodotto agricolo o alimentare è originario della zona geografica (Dop o Igp); e) la descrizione del metodo di trasformazione, lavorazione, conservazione o stagionatura; f) gli elementi che comprovano i legami con l’ambiente geografico o con l’origine geografica; g) i riferimenti relativi alle strutture di controllo da parte di un organismo legalmente autorizzato; h) gli elementi specifici all’etichettatura connessi con la dicitura Dop o Igp o le diciture tradizionali nazionali equivalenti; i) le eventuali condizioni da rispettare in forza di disposizioni comunitarie e/o nazionali. Inoltre, l’articolo 10, introduce un sistema di controllo e di verifica di conformità dei prodotti Dop e Igp, realizzato da appositi organismi legalmente riconosciuti. In sostanza, in base al Regolamento (CEE) n. 2081/92, il produttore ha il diritto di contrassegnare con il marchio Dop (o Igp) il proprio prodotto, se questo presenta i 17
  • 19. requisiti previsti dal disciplinare e se il possesso di tali requisiti è stato accertato dall’organismo di controllo abilitato. Insieme al marchio Dop (o Igp), il produttore può usare comunque anche il marchio aziendale, per differenziare il proprio prodotto rispetto ad altri concorrenti con lo stesso marchio Dop (o Igp) e, in aggiunta, il logo comunitario introdotto dal Regolamento (CEE) n. 1726/98. I diversi produttori che offrono prodotti con lo stesso marchio Dop (o Igp) possono riunirsi in un Consorzio e registrare, a nome dello stesso, un marchio collettivo di proprietà del Consorzio medesimo. Come si vede, a disposizione dei produttori esiste una vasta gamma di strumenti che possono essere utilizzati per veicolare al consumatore finale i segnali del valore della tipicità, ma anche per differenziare il proprio prodotto da altri aventi la stessa denominazione d’origine. Infatti, come viene fatto osservare (Capelli, 2001), sul mercato possono trovarsi a convivere prodotti riuniti sotto la stessa Dop (o Igp); alcuni di questi dispongono della sola Dop (o Igp), perché unicamente certificati dall’organismo abilitato, mentre gli altri possono aggiungere alla Dop (o Igp) anche il marchio del Consorzio di tutela. Quest’ultimo viene applicato sul prodotto che, oltre ad avere i requisiti per fregiarsi della Dop (o Igp), rispetta anche le prescrizioni imposte dal Consorzio. Ciò sta ad indicare che anche tra i prodotti aventi la stessa denominazione d’origine può determinarsi una differenziazione sulla base dei segni del valore trasmessi dai diversi marchi che si possono affiancare al marchio Dop (o Igp) e, quindi, una concorrenza fra i diversi produttori. Una differenziazione che, tuttavia, può determinare anche uno svantaggio per il consumatore finale chiamato a sostenere costi aggiuntivi per sviluppare una più approfondita conoscenza degli elementi di specificità del prodotto (De Rosa, Turri, 2000). 4. Le produzioni DOP e IGP in Italia Secondo i dati Ismea (2006), ad aprile 2006 le denominazioni registrate nei paesi dell’Unione Europea erano 709, di cui 413 rappresentate da Dop e 296 da Igp. A livello di singoli paesi, l’Italia, con un totale di 155 denominazioni, rappresenta il paese leader, per numero di denominazioni registrate, a livello europeo, seguito dalla Francia (147), 18
  • 20. dalla Spagna (96) e dal Portogallo (93). Agli ultimi posti della graduatoria si collocano il Belgio, la Danimarca, l’Irlanda e la Svezia, con poche unità di prodotti registrati. L’analsi per comparto merceologico evidenzia che il numero maggiore di denominazioni riguarda il settore degli ortofrutticoli e cereali (23,1% del totale) e quello dei formaggi (21,9%). Alti comparti importanti sono quello delle carni fresche (14,1%), degli oli e grassi (13,3%) e dei prodotti a base di carne (10,9%). Per quanto riguarda specificatamente l’Italia, i 155 riconoscimenti sono rappresentati da 105 Dop e 50 Igp. In questo quadro, i prodotti ortofrutticoli sono i più rappresentati (47 riconoscimenti) e sono seguiti dagli oli di oliva (37), dai formaggi (31) e dai prodotti a base di carne (28). A questi si aggiungono 3 prodotti della panetteria, pasticceria, confetteria e biscotteria, 2 aceti balsamici, 2 zafferani, 2 carni fresche, un miele, la ricotta romana e l’essenza di bergamotto. Per quanto riguarda la localizzazione territoriale degli areali di produzione, l’Emilia Romagna, con 25 denominazioni registrate, rappresenta la regione con il maggiore numero di prodotti Dop e Igp. Seguono, nella classifica, il Veneto (21), la Lombardia e la Toscana, rispettivamente a quota 20 e 19. Agli ultimi posti della graduatoria si collocano regioni quali il Molise (4), il Friuli V.G. (4), la Basilicata (3) e la Liguria (2). Nella regione Marche il comparto è rappresentato da 8 prodotti, di cui 4 con marchio Dop e 4 registrati con marchio Igp. In particolare, le denominazioni registrate in ambito regionale alla data odierna sono: - Vitellone bianco dell’Appennino Centrale (Igp) Reg. CE n. 134 del 20.01.98 (GUCE L. 15 del 21.01.98) - Casciotta d’Urbino (Dop) Reg. CE n. 1107 del 12.06.96 (GUCE L. 148 del 21.06.96) - Cartoceto (Dop) Reg. CE n. 1897 del 29.10.04 (GUCE L. 328 del 30.10.04) - Lenticchia di Castelluccio di Norcia (Igp) Reg. CE n. 1065 del 12.06.97 (GUCE L. 156 del 13.03.97) - Oliva Ascolana del Piceno (Igp) Reg. CE n. 1855 del 14.11.05 (GUCE L. 297 del 15.11 05) - Mortadella Bologna (Igp) Reg. CE n. 1549 del 17.07.98 (GUCE L. 202 del 17.07.98) 19
  • 21. - Prosciutto di Carpegna (Dop) Reg. CE n. 1263 del 01.07.96 (GUCE L. 163 del 02.07.96) - Salamini italiani alla cacciatora (Dop) Reg. CE n. 1778 del 07.09.01 (GUCE L. 240 del 08.09.01) L’analisi dell’Ismea fornisce un quadro molto dettagliato anche per quanto riguarda la dimensione economica del comparto. A tale proposito si evidenzia che, nel corso del 2004, le produzioni Dop e Igp hanno totalizzato un valore alla produzione superiore a 4,4 miliardi di euro e un fatturato al consumo di circa 7,7 miliardi (Ismea, 2006, p. 44). Va, comunque, osservato che sul piano della dimensione economica il settore si presenta un’alta concentrazione sia a livello territoriale che a livello comparti produttivi. Infatti, si può osservare che il 61,8% del fatturato è realizzato da produzioni localizzate nelle regioni del Nord, il 30,0% nelle regioni del Centro e solo l’8,2% da produzioni delle Isole e del Sud. Inoltre, l’analsi condotta dall’Ismea evidenza che ben l’88,1% del fatturato alla produzione è riconducibile alle produzioni ottenute in 6 Regioni (Emilia Romagna, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Trentino Alto Adige e Sardegna). È anche il caso di osservare che il 65% circa del valore alla produzione è realizzato da quattro prodotti: i formaggi Parmigiano Reggiano e Grana Padano e i prosciutti di Parma e di San Daniele. Questi dati evidenziano che il settore è composto da alcune realtà di grande rilievo produttivo ed economico e da una miriade di realtà che hanno bassissimi volumi di offerta. Inoltre, risulta che spesso, ai riconoscimenti non si associano modifiche di rilievo nelle forme organizzative e commerciali delle imprese e lo sviluppo, anche sul piano organizzativo per la valorizzazione del prodotto e di marketing, dei Consorzi di tutela. Ovviamente, anche da questo angolo visuale, la realtà si presenta molto variegata. Tuttavia, fatte alcune importanti eccezioni, si assiste ancora da parte delle imprese e dei Consorzi di tutela a una scarsa attenzione alle problematiche connesse al valore della tipicità come strumento di differenziazione del prodotto e, quindi, alla necessità di formulare adeguate e efficaci politiche di marketing. Infine, va osservato, che prodotti a marchio Dop e Igp costituiscono solo una componente, seppure la più importante, del paniere delle tipiche. Ai prodotti contraddistinti con questi due marchi, si aggiungono le Specialità tradizionali garantite. I prodotti registrati con questo marchio sono, a livello comunitario, 15. Si tratta, in 20
  • 22. particolare di birre e prodotti della panetteria, pasticceria, confetteria e biscotteria. Per quanto riguarda i paesi, il Belgio è quello che ha il maggior numero di registrazioni (5), seguito dalla Finlandia e dalla Spagna, rispettivamente con 3 prodotti registrati. Un ampio potenziale di riserva per i prodotti Dop e Igp è costituito dai prodotti cosiddetti tradizionali che, in Italia, sono riportati negli elenchi predisposti a livello provinciale e regionale secondo quanto stabilito dal Dl. n. 173 del 30 aprile 1998. Nel quadro di questa normativa sono stati complessivamente riconosciuti 2.188 prodotti a livello nazionale. Il contributo delle singole regioni al paniere nazionali costituito dai prodotti tradizionali evidenzia il ruolo di primaria importanza della Toscana (con 302 prodotti, pari al 13,8% del totale nazionale), del Veneto (205 prodotti, pari al 9,4% del totale nazionale) e della Lombardia (201 prodotti, pari al 9,2% del totale nazionale). Tuttavia, assumono un ruolo di rilevo anche le Marche. Quest’ultima regione, con 93 prodotti (4,3% dell’intero paniere nazionale), si colloca al 10° posto nella graduatoria nazionale. L’elenco dei prodotti tradizionali delle Marche è riportato in Appendice. Le principali tipologie merceologiche rappresentate a livello nazionale sono, nell’ordine, quelle dei prodotti vegetali (577 prodotti, pari al 26,4% del totale), dei prodotti da forno (573 prodotti, pari al 26,2% del totale), delle carni fresche e preparate (444 prodotti, pari al 20,3% del totale) e dei formaggi (377 prodotti, pari al 17,2%). 5. L’organizzazione produttiva ed economica Il quadro economico e giuridico ora delineato trova riferimento operativo in un modello organizzativo ed economico le cui peculiarità costituiscono una base importante e significativa per mettere a punto una strategia di sviluppo e di valorizzazione delle produzioni tipiche. Gli obiettivi di questa strategia trovano presupposto nelle maggiori opportunità che si offrono a questi prodotti in termini di spazi e margini economici derivanti dalla crescente dimensione del mercato e dal potenziale di bisogni latenti e/o reali sul piano della qualità e della differenziazione del prodotto. In quest’ottica, si avverte la necessità di una maggiore attenzione agli aspetti organizzativi del settore che hanno più dirette implicazioni sulle possibilità di attuare strategie di marketing volte a cogliere le potenzialità/opportunità derivanti, appunto, dall’evoluzione della domanda. 21
  • 23. Un primo elemento che merita attenzione, in una logica di promozione e di valorizzazione dei prodotti tipici, riguarda la particolarità del modello economico e organizzativo della filiera. Questo si configura come un sistema di relazioni tra i diversi soggetti protagonisti: le imprese agricole, le imprese di trasformazione, il Consorzio di tutela, le imprese di distribuzione e il consumatore. Il modello ha un punto di riferimento importante nel Consorzio di tutela che assolve, innanzitutto, al ruolo di garante della conformità del prodotto finale ad alcune caratteristiche della tipicità che vengono veicolate al cliente/consumatore attraverso l’immagine del marchio collettivo. Tuttavia, oltre alla funzione di vigilanza e di tutela del marchio collettivo, il Consorzio svolge normalmente anche funzioni di assistenza tecnica, di promozione e di valorizzazione del prodotto. Un siffatto modello organizzativo presenta indubbie potenzialità sul piano della possibilità di mettere a punto e realizzare una strategia di sviluppo che abbia come riferimento la domanda e, quindi, le aspettative reali e latenti dei consumatori. In sostanza, si tratta di impostare appropriate politiche di marketing indirizzate, innanzitutto, a elevare il livello di conoscenza e di informazione del consumatore, ma anche a creare una percezione favorevole della qualità che permetta la formazione di un premium price. In altre parole, a differenza di un sistema aziendale di marketing, dove tutte le leve di marketing-mix sono gestite unitariamente dalle singole imprese, nell’organizzazione produttiva dei prodotti tipici queste si ripartiscono tra il Consorzio e le singole aziende associate, secondo soluzioni che variano da caso a caso. Un assetto tipo di questa ripartizione prevede che il Consorzio svolga le funzioni di tutela, vigilanza e promozione, mentre le singole imprese manovrino le leve del prezzo e decidano sulla collocazione del prodotto. Ovviamente, il modo in cui si ripartiscono le funzioni concernenti la gestione delle leve operative di marketing tra questi due attori non individua un modello unico e stabile nel tempo. Le soluzioni che da questo punto di vista possono configurarsi sono diverse e le loro modalità variano a seconda che il fulcro della gestione commerciale e di marketing tenda a concentrarsi nel Consorzio di tutela o presso le singole imprese. Nel primo caso, le imprese delegano quasi interamente il compito della gestione della funzione commerciale e di marketing al Consorzio, concentrando le proprie risorse e competenze 22
  • 24. sulla produzione e sul prodotto. Una situazione, questa, in cui il marchio collettivo svolge un ruolo fondamentale nel rapporto con il cliente/consumatore, mentre le singole imprese rinunciano ad avere una propria identità specifica e riconosciuta dal consumatore. Nel secondo, le imprese sviluppano un proprio marchio aziendale, che affianca quello collettivo, con l’obiettivo di differenziare la propria offerta da quella delle altre imprese appartenenti allo stesso Consorzio. In questo caso, il marchio collettivo e il marchio aziendale coesistono e si rapportano al consumatore con funzioni diverse: il primo, principalmente, come garanzia di origine del prodotto; il secondo, come rispondenza del prodotto agli standard qualitativi. Un comportamento che tende a caratterizzare non solo le imprese di maggiori dimensioni, ma anche le imprese più piccole che nelle loro strategie mirano a obiettivi di crescita. Tuttavia, una condizione necessaria affinché l’impresa possa percorrere con successo questa strada è che essa possieda capacità distributive, eventualmente associate a iniziative di trade marketing. Infatti, lo sviluppo di un proprio marchio aziendale trova ragione principalmente nell’esigenza dell’impresa di stabilire e/o di consolidare rapporti commerciali con la grande distribuzione organizzata. 6. La specificità della domanda di prodotti tipici Dal lato della domanda, il comparto delle produzioni tipiche si caratterizza, principalmente, per una forte concentrazione territoriale dei consumi. Questa concentrazione, che è legata a tradizioni radicate nei modelli di consumo locali, ha implicazioni anche per quanto riguarda la percezione del valore intrinseco del prodotto da parte del consumatore. Infatti, come si può osservare, è stato fatto osservare (Gandolfi, 1992), l’apprezzamento del valore di questi prodotti si riduce con l’aumentare della distanza culturale tra la zona di origine e il mercato di sbocco finale. In sostanza, la specificità, da elemento di forza sul mercato di origine, può diventare un elemento di debolezza quando ci si allontana da questo con l’obiettivo di conquistare segmenti di consumatori su nuovi mercati. Peraltro, l’innovazione di prodotto non può costituire una leva della strategia competitiva, a meno di incorrere nel rischio di de-ticipizzare l’offerta. In questa 23
  • 25. situazione, un fattore critico di successo è costituito da interventi che privilegiano l’adozione di tecnologie innovative che consentano lo sviluppo di innovazioni incrementali volte a migliorare le prestazioni del prodotto in termini di “qualità bionutrizionale e organolettica” e lo sviluppo di strategie di marketing volte ad accrescere il valore percepito dal consumatore attraverso politiche di comunicazione e di distribuzione commerciale adeguatamente mirate. La specificità dei prodotti tipici, se da un lato può essere vista come un punto di forza anche per le piccole imprese, in quanto il forte legame del prodotto con il territorio rappresenta un vantaggio competitivo anche nei confronti delle grandi imprese che realizzano economie di scala, dall’altro questa condizione non sembra sufficiente per consentire all’impresa di competere efficacemente sul mercato nazionale e internazionale. La realizzazione di politiche di sviluppo del mercato, nell’accezione proposta da Ansoff (1965), appare, quindi, una condizione necessaria per la valorizzazione dei prodotti tipici, soprattutto quando ci si trova di fronte a produzioni ad alto volume di offerta. Un obiettivo, tuttavia, non facile da perseguire, anche a causa delle particolari caratteristiche di questi prodotti. In primo luogo vi è il fatto che i prodotti tipici, a motivo dei loro elevati standard qualitativi, devono essere offerti a prezzi relativamente più alti rispetto a prodotti che presentano caratteristiche d’uso comparabili. Inoltre, la loro differenza qualitativa deriva, tra l’altro, dalle particolarità dell’ambiente di produzione che li caratterizza non solo sul piano delle proprietà organolettiche, ma anche su quello dei valori simbolici. Ora, in assenza di efficaci politiche di comunicazione, questi fattori risultano difficilmente percepibili da un consumatore estraneo alla realtà del territorio di origine. Le difficoltà che incontrano i produttori nel comunicare l’immagine del prodotto quando tentano di collocarlo su mercati diversi dalla ristretta area del mercato regionale sono ampiamente note. Su questi mercati, la stessa immagine di qualità, che trova riscontro nelle proprietà della tipicità, genuinità e sicurezza che caratterizzano questi prodotti, non costituisce una condizione sufficiente per assicurare un vantaggio competitivo stabile e duraturo, né un segnale di maggiore qualità e prestazioni del prodotto che possa essere facilmente percepito dal consumatore. In altre parole, dal momento che la percezione dell’immagine di questi prodotti varia fortemente a seconda della dimensione geografica 24
  • 26. del mercato, il marketing è destinato ad assolvere a un ruolo di massima importanza per la loro valorizzazione, in particolare quando si tenta di allargare l’area di consumo. D’altra parte, questa strada appare obbligata per i prodotti ad alto volume di offerta se non si vuole incorrere nel rischio che questi “cadano nell’instabilità e nella sottovalutazione dei prezzi” (Cantarelli, 1999). Situazione, peraltro, già largamente sperimentata da molti prodotti tipici del nostro paese a causa della scarsa organizzazione e delle modesta capacità di condurre iniziative di marketing (Antonelli, 2000). 7. Dimensione dell’offerta e strategie di marketing Il problema delle strategie di marketing è strettamente legato al volume di produzione. In generale, quando il volume di produzione è basso, come nel caso della totalità dei prodotti tipici delle Marche, ma anche della maggioranza dei prodotti tipici italiani, il riferimento delle imprese è costituito in massima parte dal mercato locale. Questa situazione può derivare dalla presenza di vincoli nelle possibilità innovative dei processi produttivi e nella disponibilità di materie prime a livello locale che non consentono di espandere il volume di produzione, anche in presenza di un potenziale aumento della domanda. Inoltre, essa può derivare dal fatto che le imprese, in prevalenza di piccola e piccolissima dimensione, non disponendo delle risorse e delle competenze necessarie per affrontare nuovi mercati, mirano al mantenimento delle posizioni occupate, senza obiettivi di crescita. In questi casi, l’offerta viene rivolta prevalentemente al soddisfacimento di esigenze di consumo radicate nella cultura locale alle quali si aggiungono quelle di nuovi segmenti di consumatori occasionali che si rapportano al prodotto prevalentemente attraverso i valori e l’immagine del territorio (turisti e visitatori, acquisti per corrispondenza o tramite Internet, ecc.). A questa prima situazione si affianca quella in cui il volume di produzione complessivo eccede la domanda espressa dal mercato locale e, pertanto, diventa necessario cercare 25
  • 27. nuovi mercati di sbocco al fine di evitare prezzi instabili e decrescenti e, come conseguenza inevitabile, una riduzione del livello dello standard qualitativo3. Ora, come abbiamo già richiamato, in una logica di mercato più vasto viene inevitabilmente a modificarsi anche la prospettiva della percezione del valore intrinseco del prodotto: si riduce la componente legata alla specificità del territorio, mentre trova maggiore spazio il concetto di qualità intesa come denominazione di origine, genuinità, tradizione, proprietà nutrizionali e organolettiche. Ovviamente, ciò dipende anche dalle caratteristiche del mercato al quale ci si rivolge. In ogni caso, la possibilità/necessità di politiche di sviluppo del mercato richiede la capacità di sviluppare efficaci azioni promozionali per comunicare i valori e l’immagine del prodotto a segmenti di consumatori con esigenze che non possono essere adeguatamente soddisfatte dai prodotti di massa. Questa distinzione dei prodotti in base al volume di offerta lascia intendere che, quando questo è basso, la produzione non incontra particolari difficoltà di sbocco sui mercati. In questo caso i mercati sono, in genere, meno instabili e i prezzi più favorevoli (Cantarelli, 1999). Ciò non significa che per le imprese non esistano i problemi della costante verifica del rapporto con il mercato, del posizionamento del prodotto, dell’evoluzione della struttura dei consumi, dei comportamenti dei consumatori, dell’appropriatezza dei canali distributivi utilizzati, della percezione della qualità e dell’efficacia delle politiche di comunicazione. Anzi, tutto ciò appare una condizione necessaria per realizzare un vantaggio competitivo stabile e duraturo. Tuttavia, l’identificazione dei prodotti tipici con il territorio, da un punto di vista storico e geografico, ne determina la qualità e fa sì che quest’ultima possa essere meglio percepita sia dal consumatore locale che dal visitatore turistico. In sostanza, si tratta di una situazione in cui i prodotti tipici hanno la possibilità di conseguire un premium price in quanto il consumatore è in grado di riconoscerli come prodotti che possiedono livelli qualitativi più elevati. Si può anche osservare che il legame tra prodotto tipico e territorio permette di realizzare economie di scala nell’ambito delle politiche di marketing. Infatti, iniziative di promozione del territorio, attraverso interventi di marketing territoriale, e di valorizzazione dei prodotti tipici locali possono essere sviluppate, in modo parallelo, con importanti effetti sinergici. Inoltre, molto spesso, le stesse azioni di marketing finalizzate 3 Va osservato che, ancora oggi, in molti casi questa tendenza viene contrastata attraverso la messa a punto di interventi pubblici che prevedono il ritiro dell’offerta per mantenere alto il livello dei prezzi. 26
  • 28. alla promozione dei prodotti tipici, vengono attuate con il concorso finanziario degli enti locali attraverso la realizzazione di fiere, feste gastronomiche e altri tipi di manifestazioni locali che incentivano anche lo sviluppo di flussi turistici. A queste iniziative si affiancano le attività di promozione, condotte direttamente dalle imprese o dal Consorzio, attraverso forme che non richiedono elevati investimenti finanziari quali la cartellonistica stradale, la pubblicità presso i punti vendita, i messaggi sulla stampa locale, la diffusione di cataloghi, ecc. Si può anche osservare che l’imprenditore ha una buona conoscenza del mercato locale rispetto al quale è in grado di valutare con un relativo grado di precisione i rischi e le potenzialità. In questo quadro, le relazioni con i clienti/consumatori assumono in genere la forma di rapporti stabili e, più spesso, a carattere interpersonale. Al contrario, quando il volume di offerta è elevato, lo sviluppo di strategie di espansione del mercato, oltre i confini dell’ambito locale, espone i prodotti tipici a una crescente pressione competitiva da parte dei prodotti di massa offerti dalle grandi imprese. In un mercato più ampio, e, ancor più, sul mercato internazionale, i segnali della tipicità, legati alla cultura, alla storia e alle caratteristiche dell’ambiente di un determinato territorio arrivano molto sfumati. Inoltre, la posizione dei prodotti tipici, su questi mercati, è indubbiamente più debole sul piano della concorrenza basata sui prezzi, ove le strategie competitive delle grandi imprese, che realizzano economie di scala e che dispongono delle risorse e delle competenze necessarie per attuare efficaci politiche di marketing, riscuotono, senza dubbio, maggiori successi. Ciò non significa che non esistano, sul mercato nazionale e internazionale, potenzialità da sviluppare. Tuttavia, la realizzazione di questo potenziale, senza ricorrere a strategie competitive basate sui prezzi, peraltro non congeniali alla piccola impresa, né, a maggior ragione, alle produzioni tipiche, a motivo dei loro elevati standard qualitativi, richiede necessariamente ingenti investimenti per la gestione delle componenti di un marketing mix che faccia leva, in particolare, sulle diverse componenti della politica di comunicazione (pubblicità, promozione delle vendite, pubbliche relazioni, sponsorizzazioni, comunicazione personale, ecc.). L’importanza che viene assegnata a queste attività nelle strategie di esportazione dei prodotti agro-alimentari trova, tra l’altro, riscontro in alcune esperienze internazionali. Un esempio che viene spesso richiamato in tal senso è quello della Sopexa, la società di marketing e comunicazione che cura, a livello internazionale, la promozione dei prodotti e delle marche alimentari francesi. 27
  • 29. Anche se il settore dei prodotti tipici appare molto differenziato al suo interno, il fatto che esso sia composto, in prevalenza, da realtà aziendali di piccola e piccolissima dimensione fa sì che nel complesso risulti svantaggiato di fronte alla prospettiva di affrontare il mercato estero e, molto spesso, anche il mercato nazionale. In realtà, c’è da osservare che l’azione promozionale necessaria per operare su questi mercati non è sempre compatibile con i vincoli organizzativi e finanziari di queste realtà produttive. Tra l’altro, in molti casi, le imprese appaiono inadeguate non solo per far fronte ai problemi della programmazione e della gestione delle attività comunicazionali (specie pubblicitarie), ma anche per corrispondere efficacemente a una serie di condizioni che sono spesso indispensabili per operare su questi mercati. Ci riferiamo, in particolare, alla conoscenza del mercato e delle preferenze dei consumatori, alla capacità di adattare la propria offerta alle esigenze del cliente/consumatore (standardizzazione della qualità, packaging, regolarità delle consegne, ecc.), alla possibilità di effettuare investimenti relazionali per creare rapporti stabili e di lungo periodo con i clienti/consumatori esteri, alla possibilità di assicurare una presenza continuativa sul mercato senza limitarsi, come spesso accade, ad apparizioni saltuarie e occasionali determinate dalle condizioni dell’offerta. Un fattore che in questa prospettiva condiziona di frequente l’azione delle piccole imprese risiede nella difficoltà che spesso esse incontrano a far corrispondere la loro offerta con le esigenze della grande distribuzione organizzata che, come è noto, si esprimono in termini di qualità (pezzatura, confezionamento), quantità (lotti minimi) e logistica (modalità di conferimento del prodotto, tempi, servizi, ecc.). Per le piccole imprese, una possibile alternativa a un approccio al mercato basato su politiche di penetrazione e di sviluppo, è quella costituita dalla subfornitura, sia nei confronti di imprese di maggiori dimensioni, che possiedono un marchio già affermato e che attuano efficaci politiche di marketing, che nei confronti della grande distribuzione, per la fornitura di prodotti con marchio commerciale. La subfornitura presenta, indubbiamente, una serie di vantaggi quali quello di ridurre i costi di commercializzazione e i rischi di mercato a breve termine, di confrontarsi con una domanda sicura e tendenzialmente stabile, di concentrare le proprie risorse e competenze sulla produzione e sul prodotto. Una opzione che, tuttavia, non è del tutto priva di rischi per l’impresa. Tra questi, c’è quello che l’impresa perda un proprio rapporto interattivo 28
  • 30. con il mercato e quello, costantemente presente, che essa possa essere sostituita da parte del cliente industriale e/o distributore (Grandinetti, 1989). Ora, anche se il marchio di denominazione di origine permette sicuramente alle imprese di realizzare un vantaggio monopolistico, le argomentazioni esposte lasciano intendere che, in assenza di efficaci politiche di marketing che consentano di trasmettere i segnali di valore, i margini per la valorizzazione delle produzioni tipiche rimangono limitati. In altri termini, il ruolo dei Consorzi appare indispensabile per accrescere e comunicare i segnali di valore della tipicità. Infatti, se si escludono le poche imprese di maggiori dimensioni, che dispongono delle risorse necessarie per sviluppare un’efficace politica di marchio, la maggioranza di esse non presenta molte alternative rispetto alla possibilità di entrare in rapporti di subfornitura. D’altra parte, anche ammesso che alcune imprese del Consorzio siano in grado di sviluppare propri marchi aziendali, esiste il rischio che questi, se non sono efficacemente gestiti e se la loro immagine non è costantemente valorizzata attraverso la messa in atto di appropriate politiche di comunicazione, non siano riconosciuti dal consumatore, in quanto i segnali di valore dei prodotti tipici tendono a essere trasmessi soprattutto dal marchio collettivo. Quindi, una strada difficilmente eludibile per un percorso di sviluppo e di valorizzazione dei prodotti tipici appare condizionata dalla capacità dei Consorzi di proporsi, essi stessi, come protagonisti nella gestione dell’immagine del marchio collettivo. In quest’ottica, per il Consorzio non riveste importanza solo l’efficacia della proposta di marketing-mix, ma anche la sua capacità di gestire un sistema di relazioni cooperative per dare forza ed efficacia alla propria azione di marketing. Una prospettiva che oggi trova, tra l’altro, possibilità e opportunità concrete nella crescente diffusione ed evoluzione delle nuove tecnologie dell’informazione e presupposto nello sviluppo, anche teorico, di approcci che si richiamano al marketing relazionale e che enfatizzano le problematiche connesse con la gestione del sistema di relazioni esistenti tra i diversi attori protagonisti della filiera. 8. Modelli competitivi e strategie di sviluppo dei prodotti tipici 8.1. Tipologie di prodotto e struttura dell’offerta 29
  • 31. La struttura dell’offerta dei prodotti tipici si caratterizza, come sopra sottolineato, per la presenza di poche grandi imprese che operano a fianco di numerosissime piccole e piccolissime imprese, spesso a conduzione familiare. Infatti, il paniere dei prodotti tipici attualmente disponibili sul mercato presenta una forte concentrazione di natura bipolare: da una parte un numero limitato di prodotti che rappresentano un’alta quota della Plv agricola, alto volume di offerta, ampia dimensione geografica dei mercati di sbocco e possibilità di esportazione, dall’altra una percentuale molto alta di prodotti che, al contrario, attivano una quota assai limitata della Plv agricola, bassi volumi di offerta e mercati di vendita prevalentemente locali. Figura 2. La mappa strategica dei prodotti tipici A      B Accesso a Materie prime (bacino approvvigionamento ampio)  Mortadella Bologna Grana Padano Gorgonzola Pecorino Romano Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale     C Prodotti alimentari locali Area trasformazione ampia Bresaola della Valtellina Speck dell’Alto Adige Prosciutto di Parma Parmigiano Reggiano Prosciutto di Carpegna D Area trasformazione ristretta Giacimento delle nicchie:     Casciotta d’Urbino Lenticchie di Castelluccio di Norcia Olio Cartoceto Olive Ascolane del Piceno Limitazione Materie prime (bacino approvvigionamento ristretto) Fonte: Adattato da Nomisma (2001). 30
  • 32. A definire la tipologia di prodotto e i modelli di filiera concorrono anche i diversi livelli della tipicità, così come precedentemente definiti. In questo ambito, assumendo come base il modello proposto da Nomisma (2001), che identifica i gruppi strategici di prodotto in base all’ampiezza dell’area di approvvigionamento delle materie prime e all’area geografica per la trasformazione, è possibile definire una mappa strategica che include anche i prodotti tipici delle Marche (figura 2). Come si vede in figura 2, un primo gruppo (A) identifica i prodotti che associano a un’ampia area di approvvigionamento delle materie prime un’ampia area geografica per la localizzazione delle imprese di trasformazione. Ad esempio, appartengono a questo primo gruppo prodotti tipici quali il Grana Padano, il Pecorino Romano, il Gorgonzola, la Mortadella Bologna e il Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale. Queste realtà sono caratterizzate da elevati volumi di offerta e da elevate dimensioni di scala. Un secondo gruppo (B) identifica i prodotti che associano a un ampio bacino di approvvigionamento delle materie prime una forte delimitazione dell’area di trasformazione. La presenza di bacini ampi di approvvigionamento consente di far conseguire dimensioni di scala elevate. Un terzo gruppo (C) è quello dei prodotti agro-alimentari locali, caratterizzato da delimitazioni geografiche intermedie, provinciali o parti di queste, sia per quanto riguarda l’area di approvvigionamento delle materie prime che la trasformazione. La dimensione del mercato geografico di sbocco è prevalentemente costituita dal mercato locale e regionale e le possibilità di economie di scala si riducono notevolmente a causa dei vincoli posti dal bacino di approvvigionamento. In questa categoria rientrano gran parte dei prodotti tipici caseari e della salumeria. Un quarto gruppo (D), denominato “giacimento delle nicchie”, identifica quei prodotti le cui caratteristiche, legate all’ambiente, appaiono nettamente distintive in quanto espressione di una chiara delimitazione dell’area di provenienza delle materie prime e della localizzazione della trasformazione. Si tratta di prodotti normalmente a basso volume di offerta, i quali possono presentare situazioni in cui la domanda ecceda la capacità produttiva derivante dalla disponibilità di materia prima. Ciò determina dimensioni di scala molto ridotte che, tradotte in termini di valore della produzione, possono andare da poche decine di milioni di lire a qualche miliardo di lire. In quest’ultima tipologia trovano collocazione, salvo rare eccezioni, tutti i prodotti con denominazione d’origine Dop e Igp delle Marche. 31
  • 33. I diversi gruppi determinano problematiche ed esigenze molto diverse per quanto riguarda le filiere e le imprese. Se consideriamo i primi due gruppi, le rispettive imprese presentano chiaramente una più vasta gamma di possibilità di percorsi da attuare nelle loro strategie, anche in termini di crescita, facendo affidamento sulle opportunità offerte dall’ampliamento della dimensione economica e geografica del mercato. Queste stesse possibilità appaiono notevolmente ridotte per le imprese e le filiere che si collocano nell’ambito degli altri due gruppi strategici, a causa delle limitate capacità produttive del bacino di approvvigionamento delle materie prime. In realtà, queste possibili opzioni trovano forti limitazioni anche nei vincoli imposti dalla dimensione delle imprese. Per le imprese di piccole dimensioni, le strategie possibili vengono definite dalla presenza di molteplici vincoli. Questi comprendono gli assetti specifici organizzativi, ma anche la disponibilità delle risorse finanziarie e umane. Questi vincoli comportano un percorso evolutivo che spesso segue linee definite dalla tradizione, dalle competenze specifiche dell’imprenditore e dai processi di apprendimento. Tuttavia, non si può negare la presenza di una visione strategica, propria dell’imprenditore, che porta a definire, anche per queste realtà, prospettive di sviluppo dell’impresa. In quest’ottica, sembra utile prospettare, anche per le imprese che operano nella filiera dei prodotti tipici, strategie che tengano conto della loro tipologia, in particolare sotto l’aspetto dimensionale e delle specifiche tipologie di prodotto e di filiera. In sostanza, si può riscontrare un rapporto tra peculiarità economica dei modelli di tipicità e strategie di crescita e consolidamento. 8.2. Modelli e strategie di sviluppo I comportamenti delle imprese delle diverse tipologie di prodotto rappresentate in figura 2, possono essere studiati facendo riferimento ad alcuni degli schemi proposti dalla letteratura economico-aziendale. In questo quadro, un primo ambito di riferimento per imprese di prodotti tipici chiamate a sviluppare una strategia competitiva che nel lungo periodo sia sostenibile è costituito dallo schema di analisi di Porter (1985). Com’è noto, l’autore individua le fonti del vantaggio competitivo in due fattori: il valore creato; i costi di produzione. Tuttavia, 32
  • 34. questi fattori, per costituire capacità distintive delle imprese devono essere riconosciuti (percepiti) dal mercato e dalla clientela. La strategia competitiva comporta, altresì, che l’impresa definisca la natura e l’ampiezza del mercato (ambito competitivo). Le strategie competitive di base illustrano le diverse opzioni combinando l’ambito di mercato (ampio/circoscritto) con le fonti del vantaggio competitivo (tabella 1). In termini ultraschematici, una strategia di differenziazione implica che l’impresa sia in grado di offrire un valore che i consumatori percepiscono superiore a quello dei concorrenti, sostenendo un extra costo inferiore a quello che avrebbero dovuto sostenere questi ultimi; la leadership di costo è una strategia che mira a realizzare un’offerta con costi inferiori ai concorrenti a parità di valore. Si può osservare, che mentre una strategia di leadership di costo si configura come un prerogativa esclusiva delle grandi imprese agroalimentari in grado di realizzare economia di scala, la strategia di differenziazione appare realizzabile anche dalle piccole imprese, nella misura in cui riescono a differenziare la propria offerta sulla base della qualità. Queste ultime, tuttavia, sembrano in grado di esprimere meglio le proprie capacità distintive operando soprattutto su un mercato più circoscritto, inteso anche in termini di dimensione geografica (focalizzazione e differenziazione). I diversi gruppi di prodotti tipici individuati nella figura 2 possono trovare collocazione nelle diverse opzioni strategiche qui richiamate a seconda delle dimensioni di scala e delle dimensioni geografiche dei mercati di sbocco. In particolare, le imprese del gruppo (D), in maggioranza di piccole e medie dimensioni e senza prospettiva di crescita dimensionale, appaiono in condizioni di ottenere un vantaggio competitivo solo se riescono a individuare una nicchia di mercato circoscritta e su questa valorizzare la propria produzione. Ciò richiede che la strategia deve, comunque, essere associata all’offerta di un beneficio superiore per il consumatore e percepito come tale dallo stesso. Una prospettiva che appare possibile sulla base della valorizzazione della qualità chimico-fisica e organolettica del prodotto e sulla qualità simbolica legata alle specificità socio-culturali e ambientali del territorio di origine. 33
  • 35. Tab.1. Le strategie competitive di base di Porter Vantaggi competitivi Più bassi costi Target ampio Differenziazione Leadership di costo Differenziazione Focalizzazione e costi Focalizzazione e Ambito competitivo Target circoscritto differenziazione Fonte: Porter (1985) Un secondo ambito di analisi, utile per individuare i percorsi di sviluppo delle imprese e delle filiere dei prodotti tipici, è quello illustrato da Ansoff (1965) utilizzando una matrice prodotto-mercato. In questo caso, la matrice delle strategie di sviluppo individua quattro possibili percorsi risultanti dalla combinazione di scelte che riguardano il mercato, classificato in base alle dimensioni attuali, ovvero a quella allargata a nuovi mercati, i prodotti, distinguendo quelli già presenti sul mercato, con i quali l’impresa qualifica la propria offerta, da quelli che possono caratterizzare l’offerta in termini innovativi. La tabella 2 sintetizza le quattro possibili opzioni. L’impresa, mantenendo inalterato il proprio portafoglio prodotti, può optare per un allargamento della sua presenza sul mercato attuale (penetrazione del mercato) oppure per la conquista di nuovi mercati (sviluppo del mercato). In alternativa, sviluppando nuovi prodotti, può o rafforzare la propria presenza sul mercato nel quale già opera (sviluppo del prodotto), oppure agire su nuovi mercati (diversificazione). 34
  • 36. Tab.2. Le strategie generiche di sviluppo Prodotti Attuali Nuovi Attuali Penetrazione del mercato Sviluppo del prodotto Nuovi Sviluppo del mercato Diversificazione Mercati Fonte: Ansoff (1965) Per quanto riguarda, in particolare, i prodotti con denominazione d’origine Dop e Igp, in quanto legati a un disciplinare di produzione sostanzialmente stabile nel tempo, le possibili opzioni sono quelle indicate nella colonna di sinistra rappresentate rispettivamente dalle strategie denominate penetrazione del mercato e sviluppo del mercato. In presenza di un ambiente competitivo dinamico, l’opzione più realistica, almeno nel lungo periodo, appare, tuttavia, quella dello sviluppo del mercato. Questa strategia, che comporta un cambiamento anche della base competitiva, con l’investimento delle risorse per sviluppare le necessarie iniziative di marketing, si presenta, tuttavia, valida in particolare per le realtà caratterizzate da un alto volume di offerta. Un terzo e ultimo ambito d’analisi, utile ai fini del dibattito sulle opzioni strategiche delle filiere e delle imprese agro-alimentari che producono prodotti tipici, è quello rappresentato dagli approcci che si richiamano alle strategie di sviluppo qualitativo3. Questo approccio si presenta particolarmente interessante per uno sviluppo dell’analisi delle produzioni tipiche in tutte quelle situazioni in cui la “non crescita” rappresenta una scelta volontaria dell’imprenditore. Infatti, in particolare per i gruppi strategici di cui sopra ai punti (C) e (D), i vincoli alla crescita derivano, non solo da scelte dell’imprenditore o da mancanza di risorse interne, ma anche da vincoli derivanti dalla delimitazione geografica del bacino di offerta di materie prime che non consente 3 Per un’analisi, vedi Marchini (1998) 35
  • 37. l’attivazione di strategie di sviluppo delle imprese oltre i limiti della capacità produttiva disponibile all’interno dello stesso. La figura 3 consente di focalizzare l’attenzione sulle strategie di sviluppo qualitativo. Come viene evidenziato nella figura, queste strategie enfatizzano, da una parte, l’importanza dell’innovazione sia tecnologica che organizzativa, richiamando, a tale scopo, il ruolo esercitato dallo sviluppo di relazioni cooperative con altre imprese, dall’altra, il ruolo delle azioni volte a sviluppare caratteristiche di unicità e di più alta qualità del prodotto. Nel quadro dei prodotti tipici, tale approccio suggerisce come possibile soluzione, anche quella di garantire la sopravvivenza dell’impresa. Ciò richiede, comunque, un nuovo atteggiamento culturale come condizione necessaria per accettare un potenziale cambiamento in un qualsiasi aspetto del governo dell’impresa, in luogo dell’esigenza espressa da altri approcci che enfatizzano l’importanza strategica degli investimenti di capitale. 36
  • 38. Figure 3. Le strategie di sviluppo qualitativo Strategie Rafforzamento Innovazione Tecnologica Relazioni cooperative con altre imprese Alleanze strategiche o accordi di collaborazione Specializzazione Sviluppo di caratteristiche di unicità e di più alta qualità Fonte: Elaborazione su Marchini (1998). Altrettanto importante è il fattore costo. Come è stato fatto osservare (Nomisma, 2001), i costi di produzione aumentano con il numero dei vincoli che concorrono a determinare il livello di tipicità. In particolare, si può evidenziare una relazione positiva tra la qualità e il numero dei vincoli esterni stabiliti dal disciplinare di produzione (utilizzo di tecniche di lotta integrata, vincoli nella densità di impianto delle colture, divieto di impiego di determinati mangimi o mezzi tecnici, obbligo di effettuare le operazioni di raccolta e di selezione delle materie prime manualmente, età minima richiesta per la macellazione dei suini, impiego di sistemi tradizionali di lavorazione, vincoli concernenti l’ubicazione degli impianti, prescrizione di metodi specifici di produzione, conservazione o stagionatura, ecc.) e il costo di produzione. 37
  • 39. Le possibili soluzioni sono, ovviamente, particolarmente complesse e non si prestano a facili schematizzazioni. Infatti, le strategie necessarie investono sia problematiche connesse con le imprese e le filiere che quelle relative al territorio inteso come sistema di relazioni economiche, sociali e istituzionali. Da questo punto di vista, una soluzione da ricercare nel quadro delle implicazioni dell’analisi relative alle strategie di sviluppo qualitativo è sicuramente quella che fa leva sulla ricerca di accordi cooperativi (network di imprese, alleanze strategiche, sistemi di relazioni orizzontali e verticali, ecc.). Una soluzione, questa, che, anche se necessaria, non appare comunque sufficiente, soprattutto se si tiene conto del fatto che i prodotti tipici esprimono un sistema locale di produzione che travalica gli aspetti più prettamente agricoli e alimentari, per abbracciare anche ambiti socio-economici, istituzionali, culturali e ambientali. In altri termini, lo sviluppo del settore dei prodotti tipici implica la messa in atto di un sistema di relazioni coordinate e sinergiche che hanno come riferimento, oltre alle imprese produttrici, le diverse componenti del sistema territoriale. In tale contesto, assumono un rilievo particolare i diversi interventi mirati all’attuazione di appropriate politiche di marketing orientate al consumatore che abbiano come soggetti protagonisti le imprese, i Consorzi di tutela e le istituzioni. Iniziative tese a creare e/o accrescere un valore differenziale del prodotto che il consumatore sia in grado di percepire e di riconoscere all’interno del quadro più generale dell’offerta. In altri termini, indipendentemente dalla strategia di sviluppo attuata, anche per le imprese del settore dei prodotti tipici, appare ineludibile la necessità di ricercare un continuo rapporto di interfaccia con il mercato e, quindi, di confrontarsi con le attese dei consumatori. In questa prospettiva, la competitività delle imprese e dei sistemi territoriali appare sempre più definita dalla capacità di valorizzare il potenziale di domanda latente, trasformandola, attraverso appropriate strategie di marketing, in domanda reale e in comportamenti d’acquisto coerenti. Inoltre, questa strategia richiede anche la gestione di relazioni interne al Consorzio e al sistema territoriale che siano in grado di accrescere il valore per il consumatore. Un siffatto network, nel caso specifico dei prodotti tipici presenta ancora numerosi elementi di debolezza a causa della scarsa attenzione alle problematiche connesse con le strategie di filiera e di sistema e, soprattutto, della bassa propensione dei diversi attori dei sistemi agroalimentari e territoriali a sviluppare strategie unitarie e cooperative. 38
  • 40. 9. Prodotti tipici e sviluppo locale Un ultimo cenno, quando si prendono in esame le problematiche economiche dei prodotti tipici, merita essere fatto riguardo alla problematica del ruolo che queste produzioni possono assolvere per lo sviluppo del territorio. Questa tematica è stata introdotta dal documento dell’Unione Europea su “Il futuro del mondo rurale”, del 29 luglio 1988. Il documento in questione assegnava all’agricoltura ruoli diversi a seconda della diversa realtà territoriale. In particolare, esso evidenziava come nelle realtà agricole deboli, l’iniziativa comunitaria doveva puntare allo sviluppo non solo del settore agricolo, ma a quello dell'intero mondo rurale. Questa posizione ha trovato conferma nel documento conclusivo della Conferenza tenuta nel novembre del 1996 a Cork (in Irlanda), dove gli Stati membri dell’Unione Europea hanno deciso di fare dello sviluppo rurale il “secondo pilastro” della Politica Agricola Comunitaria (PAC). Secondo questa impostazione, le problematiche connesse con lo sviluppo del settore agroalimentare vengono ricondotte all’interno di un unico processo di sviluppo del territorio basato sulla dimensione qualitativa. In questo processo, l’agricoltura è chiamata a garantire non solo la semplice produzione alimentare, ma anche una serie di servizi dai quali derivano esternalità positive in favore dell’intera collettività. In sostanza, l’agricoltura, in tali contesti, assume un significato ben diverso da quello tradizionale, divenendo un’attività multifunzionale. Questa impostazione ha trovato ulteriore sviluppo nel quadro delle proposte avanzate da Agenda 2000 e un quadro applicativo nel Regolamento (CEE) n. 1257/99, recante disposizioni per il Fondo europeo di orientamento e garanzia a sostegno dello sviluppo rurale. In altre parole, la visione delle specifiche realtà territoriali, per le quali è possibile definire un modello che assegni all’agricoltura un preciso ruolo a garanzia dello sviluppo locale e del benessere di una determinata collettività, appare legata alle prospettive di affermazione di un’agricoltura di qualità. Come è noto, si tratta di un’impostazione, che riflette le esigenze di sviluppo di molte realtà dell’agricoltura italiana. Il modello di sviluppo locale proposto ha, in questo caso, un elemento qualificante in un progetto strategico di valorizzazione complessiva del territorio che fa leva sull’agricoltura di qualità, sulle produzioni tipiche e biologiche, ma anche su quelle attività extra-agricole più direttamente connesse con il territorio e le sue tradizioni, secondo una logica di 39
  • 41. sviluppo endogeno. In questo quadro, si collocano anche le attività di altri settori, legate comunque al ruolo economico dei prodotti tipici, quali il turismo e l’agriturismo. Tutto ciò rappresenta una scelta strategica estremamente importante, in base alla quale è possibile definire un preciso ruolo dell’agricoltura e, più in generale, dell’agroalimentare, basato sulla mobilitazione di un patrimonio di relazioni e di risorse (umane, tecnologiche, culturali, istituzionali, ambientali e paesaggistiche) di grande entità, nel quadro di un processo di sviluppo complessivo che sappia conciliare gli obiettivi economici delle imprese private con la salvaguardia e la gestione dell’ambiente e delle risorse rurali per il benessere collettivo. 40
  • 42. Riferimenti bibliografici Albisinni F., Carretta E. (2003), La qualificazione commerciale dei prodotti attraverso l’utilizzo di marchi collettivi, INDIS. Ansoff H. i. (1965), Corporate Strategy, McGraw-Hill, New York. Antonelli G. (1996), “Il mercato dei prodotti dell’agricoltura biologica: un’indagine in un’ottica di marketing”, Economia Agro-alimentare, n.1. Antonelli G. (2000), “Volumi di offerta e marketing. Il caso di prodotti agro-alimentari tipici”, Economia Agro-alimentare, n. 2. Akelorf G.A. (1970), “The Market for lemons: Quality Uncertainty and the Market Mechanism”, Quarterly Journal of Economics, vol. 84 (3). Arfini F., Mora C. ( a cura di) (1998), Typical and traditional products: rural effect and agro-industrial problems, Parma. Berni P., Begalli D. (1998), “Strategie di marketing per la valorizzazione degli oli di oliva extravergine tipici”, Economia Agro-alimentare, n. 3. Cantarelli F. (1999), “Cultura, mercato, marketing e denominazione d’origine”, Economia Agro-alimentare, n. 3. Cantarelli F. (1999), “La competitività dei prodotti tipici nell’Europa dell’euro”, Economia Agro-alimentare, n. 2. CAPELLI F. (2001), “La valorizzazione e la tutela giuridica dei prodotti agro-alimentari di qualità (tipici e locali) come strumento per promuovere lo sviluppo economico delle aree protette”, in Cantarelli F. (a cura di), Rapporto sullo stato dell’agro-alimentare in Italia nel 1999, Fondazione Monte di Parma, Parma. 41
  • 43. Casati D. (1999), “L’industria alimentare”, Cantarelli F. (a cura di), Rapporto sullo stato dell’agro-alimentare in Italia nel 1998, Franco Angeli, Milano. Casati D., Banterle A. (1999), “Le tipicità alimentari italiane nel terzo millennio: salumi e formaggi”, Economia Agro-alimentare, n.2. Gandolfi, V. (1992), La posizione delle piccole e medie imprese di fronte all’unificazione del mercato europeo: Il caso della food valley italiana, Piccola Impresa/Small Business, n. 1. Giacomini C., Mancini M. C., Menozzi D. Cernicchiaro S. (2007), Lo sviluppo dei marchi geografici collettivi e dei segni distintivi per tutelare e valorizzare i prodotti freschissimi, FrancoAngeli, Milano. Idda L., Benedetto G., Furesi R. (2004), “Il marketing territoriale per il settore agroalimentare”, in G. Antonelli (a cura di), Marketing agroalimentare. Specificità e temi di analisi, FrancoAngeli, Ismea (2006), I prodotti DOP, IGP e STG. L’evoluzione della normativa, i dati economici e le tendenze di mercato in alcuni paesi Ue, Ismea, Roma. Marchini I. (1998), Il governo della piccola impresa - La gestione strategica, ASPI, Genova. Nomisma (2001), Prodotti tipici e sviluppo locale: il ruolo delle produzioni di qualità nel futuro dell’agricoltura italiana: 8° rapporto Nomisma sull’agricoltura italiana, Il Sole 24 Ore, Milano. Pilati L., Ricci G. (1991), “Concezioni di qualità del prodotto ed asimmetria informativa lungo il sistema agro-alimentare”, Rivista di Economia Agraria, n. 3. Porter M. E. (1985), Competitive Advantage, Macmillan, New York. 42
  • 44. Regione Marche (2000), Bur n. 100 del 05/10/2000. Steenkamp J.B.E.M. (1989), Product Quality, Assen/Maastricht (Netherlands), Van Gorcum. 43
  • 45. APPENDICE I prodotti tradizionali delle Marche (BUR Marche n. 100 del 5.10.2000) Bevande analcoliche, distillati e liquori Sapa Vino cotto - vì cotto - vì cuot Visner - vino di visciole Carni (e frattaglie) fresche e loro preparazione Barbaglia Budellino di agnello o capretto crudo Cappone rustico o nostrale Ciarimbolo - buzzico - ciambudeo Ciauscolo – ciabuscolo - ciavuscolo Cicoli - ciccioli - sgrisciuli Coppa di testa - tortella Gallo ruspante Lonza - capocollo - scalmarita Lonzino - capolombo Mazzafegato - salsiccia matta Miaccio - miaggio - migliaccio Pancetta arrotolata Porchetta Prosciutto aromatizzato del Montefeltro Prosciutto delle Marche Salame di soprassato o sopressato Salame lardellato Salsiccia di fegato Salsiccia Spalletta Tacchino bronzato rustico o nostrano galnacc – dindo Formaggi Cacio in forma di limone Caciotta Caprino Casecc Formaggio di fossa Pecorino Pecorino in botte Raviggiolo Ricotta Slattato 44
  • 46. Prodotti vegetali allo stato naturale o trasformati Bacche di biancospino in sciroppo Carciofo monteluponese o scarciofrno Carciofo violetto precoce di Jesi Cavolfiore “precoce di Jesi” Cavolfiore “tardivo di Jesi” Cicerchia Cipolla di suasa Composta di castagne Cotognata Farro “triticum dicoccum” Germogli di pungitopo sollt’olio Germogli di tamaro sott'olio Germogli di vitalba sott'olio Marmellata di more Marrone del Montefeltro Oliva tenera ascolana del piceno Olive nere marinate Orzo mondo tostato macinato Tartufo bianco Tartufo nero estivo o scorzone Tartufo nero pregiato Visciolata Visciole e amarene di Cantiano Visciole essiccate Condimenti Salsa di olive Paste fresche e prodotti della panetteria, della biscotteria, della pasticceria e della confetteria Anicetti Biscotti di mosto Bostrengo Calcione di Treia Cavallucci Chichiripieno o chichì Ciambella frastaliata - ciammella strozzosa Ciambelle all'anice o anicini Ciambellone Crescia – crescia brusca – spianata - cacciannanzi Cresciolina Crostata al torrone Crostoli del Montefeltro Fiocchetti – frappe Fristingo - fristingu - frestinghe Frittelle di polenta Frustenga 45
  • 47. Funghetto di offida Lonza di fico - lonzino di fico - lonzetta di fico - salame di fico Maccheroncini di campofilone - cappellini di campofilone Maiorchino – marocchino Miaccio – miaggio - migliaccio Lonzino di fico Pan nociato Pane a lievitazione naturale Pane di chiaserna Pane di pasqua di Borgopace Pizza con le noci Pizza di pasqua o crescia di pasqua Pizza o crescia di pasqua al formaggio Screscia sotto la cenere - torta coi ovi serpe Torrone di fichi - panetto di fichi Torta di granoturco in graticola Ungaracci 46